Tornò poco convinto. Gli sembrava d’essersi accostato a un mondo morto, morto come l’anima del suo paese. Pietrabruna manteneva il suo involucro: l’erba parietaria sulle muraglie, gerani e garofani alle balaustre. Ma la vita dov’era, fuori delle sciabolate del cielo, fuori del vento? Il grigioperla della chiesa stava annerendo, il cornicione cadeva. Nei vicoli passava qualche persona, fugace come un’ombra. Se il paese aveva ancora un’anima, era un’anima stanca.
Gli aveva lasciato un senso di malinconia quel viaggio alla ricerca di un lavoro. E adesso «Ehi, della vita!» avrebbe avuto voglia di chiamare, attraversando Pietrabruna. Al bar gli venne in mente la sua infanzia, l’adolescenza. Tornava il mare, il tempo in cui andava a pescare per pagarsi gli studi; andava sulle luci, alla lampara, conduceva sulle secche i banchi di pesce azzurro: nel raggio luminoso, un groviglio che guizzava. O impazziva.
Piovigginava e poi veniva il sole. Nei dirupi i lentischi erano piú smaglianti, cristalline le ginestre: tremavano i calici giallo-oro sui rami giunchiformi. Sembrava che la terra, a differenza del paese, mandasse vistosi messaggi a ogni ritorno del sereno.
Gli vennero in mente i suoi ulivi e si propose di andarli a vedere prima di ripartire. Avrebbe voluto avere con loro un dialogo, divenire davanti a loro un uomo di preghiera. Quante volte li aveva portati sul mare come un oppio, un sogno. Quanti dormienti svegli c’erano sul mare, perduti in silenziosi monologhi, separati dagli altri uomini. Riflessivi e saggi, con improvvise e piene gioie marine. Maniaci dialoganti con la propria ombra.
Nel pomeriggio, al bar, ritrovò Giovanni. Portava sulla giacca una grande sciarpa.
– Le ginestre ci danno i primi fiori.
– Hai già fatto visita agli alveari? Vorrei che mi raccontassi di Tolone. Oggi il tempo non mi manca.
– Davvero vuoi che ti racconti? Non so se riesco ancora a mettere insieme i fatti di quei giorni. Cercherò di ricordare. Sono passati tanti anni.
– Fa’ uno sforzo. Andavi cosí liscio... Se non ti avessi interrotto, pochi giorni fa...
– Oggi un po’ piove, un po’ è sereno.
– Lavorano male le api?
– Lavorano bene. Trovano sul fiore stesso la goccia per impastare il nettare. Ma andiamo a casa mia, staremo piú tranquilli.
Restarono dov’erano, sul terrazzo del bar. La voce di Giovanni era strana, dentro le frasi una specie di singhiozzo, un suono di violino: l’accento del paese di montagna, dov’era nato. Si sarebbe detto che dentro quella voce il mondo si lamentasse.
Che cercava laggiú nel tempo, dentro Tolone morta? Gli doveva apparire a squarci il sogno che lo aveva sorretto in quegli anni, e a cui poi s’era accostato per tutta la vita in un tu per tu silenzioso.
Era entrato a Tolone con una compagnia di Alpini, e vi erano rimasti cinque giorni, poi s’erano ritirati sulle alture di Hyères. Cinque giorni per vedere lo scempio: sessanta navi autoaffondate, solo qualche sommergibile era riuscito a fuggire. «Come avrei voluto che quella flotta fosse riuscita a salpare! Ma i tedeschi avevano già piazzato i cannoni all’imbocco delle rade...» Si era tra novembre e dicembre, in una prolungata estate di San Martino. Quel mare cimiteriale e raccolto veniva a terra tra le prue in lunghi tramonti. Aveva pietà del mare, lui uomo di montagna. Sulle rive del porto, sull’imbarcadero, una donna guardava.
«Che fate?»
«Ho un fratello sui sommergibili fuggiti».
«Spero che sia già lontano, che la fortuna l’assista».
Giovanni parlava a ondate. I suoi occhi andavano dal verde al nero nel volto ormai vecchio, colore di un lago in ombra, coperto da picchi e da fronde. La mano spesso si alzava in gesti di prudenza.
Edoardo gli domandò com’era quella donna.
– Aveva del coraggio e del sentimento... L’Otto Settembre mi portò i vestiti borghesi. Mi accompagnò sul treno sino a Mentone, e poi per sentieri per passare il confine. Lassú a casa mia non so che le prese, cominciò a piangere, a dimagrire. Voleva tornare a Tolone. L’accompagnai di nuovo per sentieri alla stazione d’oltre confine. «Vieni con me, diceva, non tornare indietro». Mi fece giurare, guardando le stelle, che l’avrei cercata appena finita la guerra. Ma io rinviavo, rinviavo...
– Che stanchezza ti aveva preso?
In quel momento Giovanni aveva chiuso gli occhi. Un po’ smarrito al punto cruciale della sua storia. La padrona del bar accordava la chitarra, il cielo si sgombrava, le montagne tornavano a stagliarsi.
Entrarono due tipi, né giovani, né vecchi.
– Finisse questa angoscia di tempo, – uno disse. – Piovesse una buona volta. Ci sono in giro i temporali.
Giovanni non parve nemmeno udire.
– Una donna per la vita, – disse. – Ancora non ti ho detto com’era... la sua dolcezza, la sua decisione. Oggi non ne esistono piú... Sapessi raccontare, maneggiare le parole, fossi piú giovane...
Esitava. Sembrava che qualcosa gli facesse paura.
– Non ci pensare. Racconterai un’altra volta.
Giovanni fece un cenno di assenso. Come umiliato, domandò che ora era.
Suonava la campana del ritorno: chi era dal mattino a buon’ora sulle terrazze dava l’ultimo colpo.
Le nuvole sopra la collina erano incrostate di sole, lievi, a forma di falce. Il sentiero andava nei gerbidi, tra i cespugli. Ogni tanto il giallo delle ginestre invadeva il color cenere del pietrisco. Qualcosa di sereno, di luminoso era in quell’erta, qualcosa che sembrava provenire da una giornata già vissuta. L’aria tra dossi e nuvole aveva un che di eterno.
Lei amava quei posti: i cespugli piú degli alberi.
– Che hai combinato in questi giorni?
– Niente, Clara, quasi niente. Non so piú dove aggrapparmi e che cosa mi attende.
– Dovevi preparare il gran viaggio. Com’è andata a Tolone?
– Mi è parsa gente degna. Ma bisogna aspettare.
– Aspettiamo. Ma se riuscissi a liberarmi di te sarebbe molto piú semplice, piú semplice per tutti e due.
Echeggiavano voci e un canto d’usignolo. Arrivò un vagabondo, la giacca sulla spalla, le guance chiazzate dalla barba di una settimana.
– Buon giorno, buona passeggiata.
– Buon giorno a lei, signore.
– Sono un prete, ma non importa.
Adesso lo riconosceva, pur nel controluce.
– Don Alberto!
– Io ti ho riconosciuto subito. Non volevo disturbare.
– Sempre solo.
– Vengo da trovare un vecchio, alla Madonna di Prealba.
– C’è ancora qualcuno su nelle campagne?
– Fa una vita da certosino, non vuole scendere.
– Studio e lavoro?
– Solo lavoro. Un’Avemaria di quando in quando. Ma questo basta.
Edoardo spaziò gli occhi verso l’alto, alle terrazze tutte gerbide, sino alla roccia colore del sole. Sussultò dentro, per un ricordo.
– Si sente ancora la musica d’organo alle Due Canne?
– C’è poca acqua, gorgoglia piano. Forse di notte si sente meglio.
Sedettero per terra. Clara si reggeva sui gomiti, testa rovesciata, capelli sparsi, la mano sui sassi. Alberto aveva gli occhi come imbrigliati, un leggero tremito al mento.
– Anche la nostra vita gorgoglia poco; siamo cambiati, siamo vicini al secco.
Giungeva il canto dell’usignolo attraverso le foglie di una vitalba, dal fondo del ritano. Era al «rallentando», una nota in tre sospiri, quasi canto del silenzio. Poi riprese la strofa del gorgheggio.
– Tu hai finito, o sei in vacanza?
– Riparto, se ci riesco.
– Ripartire. Per te non dev’essere un problema. Io, il mio dovere l’ho fatto, sto per finire.
– Basta finir bene.
– Bisognerà vedere. Chissà su cosa chiuderemo gli occhi?
– Sarà presunzione, ma a me pare di saperlo.
– E lei, signora, che ne dice?
– Su un’alba di mare. Cosí mi auguro.
Alberto li portò a una cappella. Doveva passarci e si fece accompagnare. La cappella era ruvida nell’aria dura del costone, di pietra del posto, di puddinga. Dentro era spoglia; solo un’ardesia per altare. Su una parete un olio su legno. L’arcangelo Michele vi pesava le anime, sull’altro piatto della bilancia il Libro della vita (cosí diceva Alberto). L’arcangelo aleggiava su una folla in danza, e qualcuno cadeva senza fiato. Dietro un cespuglio, uno scheletro arciere.
– È tutto a posto, – disse Alberto, – il tetto regge e il quadro non l’hanno rubato.
Richiuse la porta e intascò la chiave.
– Facciamo un pezzo di strada insieme, sino all’incrocio? – disse ancora.
Sarà stata l’ombra, sarà stata la sera, Alberto ogni tanto si fermava per parlare della sua infanzia a Pietrabruna... Adesso che invecchiava, avrebbero voluto assegnargliela, ma lui rifiutava.
Edoardo gli disse che il paese che l’aveva offeso, se l’aveva offeso, ormai non esisteva, era scomparso.
– Tante cose sono scomparse; ma a volte i tempi tornano.
– Ha ragione, – disse Clara, – anche noi desideriamo partire.
– Quando finisco qui me ne vado in un ospizio. Son già d’accordo.
Erano giunti al pino grande, all’incrocio delle mulattiere. Le montagne tornavano a stagliarsi; sul mare tornava un po’ di cobalto, dopo le evanescenze del tramonto. Ricomparivano i paesi sulle spalliere, prima del buio.
– Sono quasi arrivato, – disse Alberto.
– Noi abbiamo la macchina qui sotto.
Clara aveva un indugio, non si staccava.
– Posso chiedere una cosa? – disse. – Cos’è questo libro della vita? Il mio non fa volume.
– Non si sa mica bene: è il libro in base al quale verremo giudicati. Tanto piú la vita è ricca, tanto piú l’anima deve avere un peso.
Edoardo guardava per terra le pietre vagabonde nell’ombra che saliva.
– Non avrei mai pensato di incontrarvi da queste parti. Se sapeste quanto sono contento.
Si salutarono quasi di fretta.
A casa, lei spalancò tutte le finestre. Poi cenarono, una cena parca. C’era una riga di stelle tra due rocce. Un fruscio arido saliva per le terrazze.
Al mattino, Clara aveva gli occhi trasognati e come carichi di un’ironia segreta.
Il fruscio era sparito e si sentivano dei passi. Una vecchia andava per le terrazze, gettava semi ai colombi che si staccavano dai mandorli.
– Invece di aiutarmi, va’ su queste tue navi da vagabondo.
Non sapeva cosa dirle. Gli venne in mente la fontana di Prealba, la sua musica d’organo; le propose di andarvi.
– Oggi non posso, non so quando ci vedremo, – disse Clara.
Riempiva col suo corpo la vuota luce del mattino.
La chiamata da Tolone non veniva. E se ne stava a Pietrabruna. Certi pomeriggi, riandava alla vita di Clara: c’erano in quel passato punti dolcissimi e momenti di grande disperazione. E ne tornava pieno di fatica e di malinconia.
Nuvole livide circondavano le montagne. Colpi di sole rendevano la terra colore del bronzo, e cirri dorati si alzavano dal mare.
La signora inglese del bar lo aveva preso in simpatia.
– Verrà l’estate e avrà dei compagni, il bar non sarà piú vuoto.
– Spero d’essere già partito.
– E dove andrà?
– Vorrei rimettermi a navigare.
– Guardi un po’ che tempo. Tra poco tornerà a piovere. Non ha nessuno qui in paese?
– Una persona che non sopporta piú le mie assenze.
Gli venne in mente che lei gli aveva detto: «Ormai siamo alla fine». Non conosceva i tempi lunghi del mare.
Entrò un uomo con la forbice sotto il braccio e la roncola alla cintura, immagine della vita che fu. «Proprio come mio padre: occhi stanchi e duri». Portava con sé l’aria dei dossi e delle nuvole.
– Come va nella campagna? – gli chiese.
– È dura, sempre piú dura.
– Che cosa le posso offrire?
– Un marsala... Grazie.
«Proprio come mio padre! Disprezzano quello che producono, disprezzano il vino. Il marsala gli sembra piú nobile».
– In campagna oggi faceva vento e passavano le nuvole, – l’uomo disse. – Lei non è di questo paese?
– Sí, lo sono.
– E ci si trova bene?
– Dipende.
L’uomo parlava della campagna e se ne mostrava deluso. Era il loro modo di fare.
– Dove vorrebbe essere? – provò a chiedergli.
– A Marsiglia.
– Non le piace proprio niente di questa valle?
– Un tempo mi piacevano i sabbioni dove crescevano i castagni. Li chiamavano, negli atti, terre castaneative. Sono girati a nord.
– Non sono ancora andato a vederle.
– Perché non andiamo a bere nella mia cantina?
Si alzarono per andare. Attraversare il paese gli procurò qualche emozione. La casa era strettissima, ma su tre piani. Quasi tutto il paese era fatto di stanzini bui, a cui si accedeva per scale contorte. Bastava un tetto a chi tornava stanco dalla campagna, specie se pioveva. D’estate poi, si era preso tanto sole che le finestre non servivano. Bastava averne una.
In cantina spirava un’aria di conforto. Damigiane e bancale dei fichi, due sedie e un ceppo. Uno spiraglio di luce e un fiore radicato nel polverume del balconetto di là dalla grata.
– Scusi il disordine.
– Siamo nel lusso.
Guardava il fiore cresciuto nella polvere: foglie carenate, borsetta nera e, sopra, un bruno porporino con screziature.
– Sembra una farfalla.
– Le attira. Vengono, credono di accoppiarsi, scuotono il suo polline. Le inganna. Non le piace questo vino?
– Ottimo.
– Posi pure il bicchiere sopra il ceppo. Ne vuole ancora?
– Ancora uno, grazie.
– Ci si regge male su una gamba sola.
– Non devo bere troppo.
– Ormai siamo in crociera.
– Anche lei è stato in marina?
– Ho fatto di tutto in immaginazione su quei costoni in faccia al mare... Immaginavo anche d’essere nato a Marsiglia... Ma a che pensa?
– A niente. A certi signori della guerra.
(Avevano vigne al sole e armi scadute sotto la bianca montagna).
– È meglio che beviamo ancora una volta.
– Ma poi torniamo al bar, voglio offrire qualcosa io.
L’ombra dei vicoli s’era fatta piú fredda. Solo un melograno scorticato e pendulo tingeva l’aria.
– Stia attento a dove mette i piedi. Dobbiamo camminare con dignità.
Al bar si fermarono sul terrazzo. Era ancora giorno, era venuto fuori un azzurro tenue, insolito sul Mediterraneo. Aveva dorsi che lentamente si doravano.
– A che punto siamo?
– Siamo lontani da Marsiglia?
– Cambiamo rotta, amico. Non è un paradiso. Ci mettono le manette e ci ficcano nel Fort Saint-Nicolas.
L’altro sembrava offeso e se ne andava. Ma si voltò e disse:
– Sono le montagne che non si incontrano. Ci si vede domani?
Si volse di nuovo a valle: il mare saliva all’orizzonte arato dal cielo e dal sole. Gli si avvicinò la padrona del bar. Indicandoglielo, le chiese:
– Può capire, signora, il suo messaggio?
– Le consiglio di prendere un tè, vorrei offrirglielo.
– Eppure lei è inglese, e sorella di un ufficiale di una grande marina. Non sa dirmi cosa manda a dire?
– Posso dire che cosa provo a guardarlo. È diverso dall’Atlantico e dal Mare del Nord.
A nord, quando il mare era alto, un baratro inglobava i rilievi. Un’ala grigia batteva i crinali.
Finito il tè, si avviò verso casa. La sera sfiorava i tetti, entrava nei vicoli, girava nel cielo e rovesciava sugli ulivi una luce arcaica.