Il reverendo curato Elias Benzer era un uomo dalle grandi qualità oratorie, un amico entusiasta della vita e – per ciò stesso, cosí come per naturale inclinazione – un ammiratore appassionato del mondo femminile. Questa sua passione gli fu però fatale, come dimostrerà il seguito della vicenda.
Originario di Hohenberg nella Valle del Reno, da tempi antichissimi un baluardo della superstizione e della stregoneria, il curato Benzer raccontava di aver visto con i suoi occhi l’ultima strega arsa viva nel Vorarlberg, e anzi quel cupo avvenimento era diventato la pietra angolare della sua concezione teologica. La storia di quel rogo ritornava infinite volte nelle sue prediche ai contadini di Eschberg, e con tale ardore che i parrocchiani si sentivano la gola riarsa e il sangue bollire nella testa e nelle orecchie. Alcuni si immaginavano addirittura sul rogo e in preda alle fiamme. Ogni volta che il Vangelo domenicale offriva al curato Benzer un ponte verso quell’episodio decisivo della sua infanzia, non esitava a ripercorrerlo. Se la liturgia proponeva l’episodio del roveto ardente, la sua accesa fantasia non mancava di trasformarlo nella scena atroce della donna bruciata di Hohenberg. E ci mancò poco che le omelie del curato non provocassero almeno indirettamente un omicidio. La prima domenica di quaresima dell’anno 1785, incoraggiati dalle prediche infuocate del curato e in perfetta buona fede, tre Lamparter decisero di gettare tra le fiamme la Zilli Lamparter, detta Zilli delle buone anime, mettendola al posto della solita strega di paglia.
La Zilli, un’anziana vedova che attendeva la sua ora tutta sola nella fattoria piú alta del paese, aveva la curiosa fama di poter conversare con le anime dei defunti di Eschberg. La vedova giustificava il suo dono visionario con il fatto di abitare piú vicina al buon Dio rispetto a tutti i suoi compaesani e di poter quindi percepire con maggiore chiarezza i lamenti dell’Aldilà: a condizione che la notte fosse limpida e stellata, perché una coltre di nuvole avrebbe disturbato l’ascolto. Lo avrebbe capito chiunque. Quando poi la Zilli sostenne che le erano apparsi dei mori dall’Oriente, uomini e donne dalla pelle nera come il carbone, la faccia le membra e i denti neri come il carbone, nessuno osò piú dubitare dei poteri misteriosi della vedova.
Le venne allora un’idea luminosa: una specie di registro, di libro contabile delle anime, che le avrebbe garantito fra l’altro una sicura pensione di vecchiaia. Sapendo che i morti, prima di andare in paradiso, devono passare qualche tempo tra le fiamme del purgatorio, decise di segnare in un apposito quaderno tutto quello che i vivi dovevano fare per salvare le anime dei loro congiunti. E a Eschberg tutti erano parenti di tutti: per ridurre la confusione ci si chiamava con il nome di battesimo, e i nomi delle donne sposate venivano assimilati a quelli dei loro mariti.
Un giorno dunque la Zilli scese a fatica nella casa di un Lamparter e gli rivelò che il padre le era apparso piangendo e lamentandosi. Non poteva trovar pace perché le doveva ancora quelle sette cataste di legna dolce da ardere. E ancora: nelle sue infinite conversazioni con i defunti di Eschberg la Zilli era venuta a sapere che tutti, Lamparter o Alder che fossero, le dovevano qualcosa. Era una litania con un sapore di vaga minaccia: «Otto uova e dieci Paternoster. Tre libbre di cera e cinquanta Ave Maria. Un quintale di foglie e sette Sante Messe. Dieci cubiti di stoffa e otto salmi».
Andare dal curato a riferire e protestare non serviva a nulla. Mai le offerte per la cera e gli stoppini erano state cosí grandi, né mai si erano fatte celebrare tante Messe. E mai nella chiesetta di Eschberg si era pregato con piú fervore. La Zilli era riuscita, insomma, a unire felicemente i vantaggi materiali a quelli dello spirito, e dopo tutto era la prima donna di Eschberg, anzi dell’intero Vorarlberg, a godere di una pensione di vecchiaia.
Andò a finire che incominciarono a odiarla. Disgraziatamente proprio in quei giorni imperversava sui campi di patate del paese un’epidemia rarissima, vista sino allora soltanto a Eschberg. Si raccontava che le patate fossero rinsecchite di colpo in una sola notte, diventando grosse come nocciole. E ad ogni modo...
Tra risa e schiamazzi, a cui facevano da sfondo i rosari delle donne, la Zilli fu trascinata su un carro per il letame in una frazione chiamata Altig, dove era stata eretta la pira. La Zilli urlava di paura e giurava di restituire a ognuno il maltolto, ma un Alder ricordò con voce tonante e occhi infuocati le prediche del curato, infondendo nuovo coraggio in coloro che stavano già per desistere. Quando la vecchia fu tirata giú dal carretto sembrava ancora gridare, ma la sua bocca rincagnata e coperta di screpolature non emetteva piú alcun suono. Sulle sue guance grinzose erano incollati grumi di sale, e dagli angoli della bocca usciva un filo di saliva rossastra, che lei leccava con la lingua riarsa dalla sete. Il fuoco tagliava la notte. Alcuni si calarono i berretti per nascondere il volto e non essere riconosciuti mentre colpivano con i pugni e le punte delle scarpe il corpo cencioso della vecchia. Perfino i bambini continuavano a pizzicarla e sputarle addosso. Quando uno sconosciuto le fece volar via con uno schiaffo il fazzoletto che le copriva la testa, un sordo mormorio percorse la folla eccitata: per la prima volta, tutti si accorsero che la Zilli era completamente calva, e anche il piú tiepido fra i suoi persecutori credette di avere davanti a sé una vera strega. Lo sconosciuto la prese a pugni, colpendole lo stomaco e il petto floscio, le strappò i vestiti, perché tutto accadesse come il reverendo curato aveva descritto nelle sue prediche. Ma improvvisamente lo sconosciuto cacciò un urlo cosí spaventoso che si temette avesse perso la ragione. – La peste! la peste! – urlava, e si mise a correre a perdifiato sulla neve, scomparendo nella notte. E come le scintille dei ceppi che crepitavano sul terreno, l’adunata si sciolse e si sparpagliò ai quattro venti. La «peste» le aveva salvato le ultime settimane di vita.
Quando comare Alder – la lingua piú lunga di Eschberg – riferí al curato l’episodio, egli fece voto di non lasciarsi andare mai piú a prediche infuocate. E dicendo che le parole di un parroco, per amor del Cielo, non andavano prese come oro colato, la mandò via, mettendo a dura prova la sua incrollabile fede nell’autorità ecclesiastica.
Ma la saggia decisione non durò a lungo, perché il curato dovette presto constatare come lo zelo religioso a Eschberg andasse ormai scemando a vista d’occhio. Ai rosari del sabato si vedevano solo le donne, il malcostume di masticare tabacco durante la Santa Messa era tornato di moda, alcuni ragazzacci dalla cantoria disturbavano i fedeli con smorfie irriverenti, e, come se non bastasse, nelle ultime due settimane la questua aveva raccolto la miseria di otto kreuzer. Il vero scandalo però – e qui il curato, squadrando il suo gregge, incrociava gli occhi spaventati di alcune ragazze Alder in prima fila – era che, da qualche tempo, nelle case del villaggio si intrecciavano danze e si mescevano bevande alcoliche. Poiché non si vedeva alcun miglioramento, e per tre domeniche consecutive la questua non fruttò altro che un paio di bottoni di tartaruga, il curato ruppe il suo voto. E incominciò a studiare una predica che facesse dimenticare per sempre alla gente di Eschberg la sua colpevole tiepidezza.
L’ispirazione per la fatale predica di Pentecoste dell’anno 1800 colse il curato nella stalla della pieve, là dove era solito raccogliersi in profonde meditazioni. Nell’aria tiepida della stalla, tra mucche, capre, scrofe e galline, i pensieri gli sgorgavano con insolita lucidità. Si mise dunque a sedere su una piccola botte di legno accanto al truogolo dei maiali, con le mani appoggiate alla fronte e senza un’idea precisa, se non che l’immagine del Vangelo domenicale – le lingue di fuoco della Pentecoste – avrebbe dovuto trasformarsi in un fuoco di ben altre dimensioni. Seduto sulla botte, cercava un ponte su cui lanciarsi, ma l’idea non veniva, il sedile era scomodo e, alzatosi di malumore, riuscí perfino a calpestare dello sterco di vacca ancora fumante. Il curato perse l’equilibrio e cadde all’indietro, battendo con forza la nuca – Santissima Trinità! – contro lo spigolo della botte di legno. La botticella! Ecco! La polvere nera! Un gruppo di soldati napoleonici allo sbando l’aveva persa nel bosco, e lui l’aveva sequestrata per evitare che succedessero guai. Si sfiorò con cautela il bernoccolo grosso un pollice e si chiese brontolando perché mai lo Spirito Santo volesse scendere su di lui proprio in quel modo. Ma intanto la predica di fuoco era nata. La notte seguente il curato scese nella borgata dove abitava Haintz Lamparter, il sacrestano. Si videro le candele bruciare fino al moccolo. La sosta fu lunga e laboriosa.
Il giorno di Pentecoste tutto prese il suo corso fatale. Alcuni parrocchiani si stupirono, è vero, per una strana corda srotolata, ma nessuno attribuí a quel dettaglio l’importanza che meritava. Uno di loro, che rimase con i capelli bruciacchiati, riferí poi di aver visto una curiosa botticella, e di aver dato di gomito al vicino dicendogli: – Toh! anche il curato beve, e nella casa del Signore! – Un altro raccontava che già al Kyrie il reverendo aveva una voce stranamente agitata, e un chierichetto affermò che mentre il curato saliva sul pulpito il sacrestano aveva appena lasciato la chiesa con una clessidra girata in quel momento.
Ora – balbettò il curato dal pulpito – il fuoco purificatore della Pentecoste poteva trasformarsi nel fuoco infernale che tutto distrugge. Tale era il potere di Belzebú nella sua tracotanza, che non si sarebbe certo fermato davanti alle porte della chiesa. E nessuno gli avrebbe impedito di sradicare quelle porte, una volta conquistate le anime dei fedeli. E poiché era proprio quello il caso di Eschberg, c’era da aspettarsi che prima o poi tutto sarebbe finito in polvere e in fumo –. Cosí sbraitava dal pulpito il reverendo Benzer, e una Alderin piú sveglia delle altre raccontò in seguito al vicario generale di Feldberg che le parole «bruciare», «crepitare», «fumo» e «polvere» erano state ripetute piú volte e ad alta voce durante la predica.
Tre contadini che sedevano negli ultimi banchi ebbero i timpani perforati dallo scoppio, e le smorfie impertinenti dei ragazzi sulla cantoria sparirono di colpo. Chi era appoggiato alla porta della chiesa se la vide particolarmente brutta: uno ebbe le gambe schiacciate dai battenti divelti, un altro i fianchi, e a un terzo il sangue schizzò dalle orecchie, lordando la bianca parete fino all’altezza della Via Crucis. Se la vide brutta anche il sacrestano, che per un eccesso di zelo, e violando le precise disposizioni del curato, aveva voluto seguire la miccia da vicino. Haintz Lamparter perdette la vista, e sarebbe certo bruciato vivo se, preso dallo shock, non fosse andato a rotolarsi nell’erba umida di rugiada. I parrocchiani spaventati a morte si precipitarono gridando fuori della chiesetta, e senza aspettare – come sarà opportuno aggiungere – la benedizione del curato.
Il fatto fu subito denunciato al tribunale civile e penale di Feldberg, ma il vicario generale dichiarò che il caso era di competenza ecclesiastica e che il colpevole sarebbe stato giudicato da un tribunale ecclesiastico, come in effetti accadde. La congrua annua di trecentocinquanta fiorini gli fu ridotta alla metà. Non solo, ma lui e tutti i futuri pastori di Eschberg furono declassati al rango di cooperator expositus: con il risultato che da allora in poi ogni questione relativa alla cura d’anime andava discussa assieme al parroco di Götzberg. Con il suo noto talento oratorio il curato abbozzò una linea difensiva, protestando che – Santissima Trinità! – non bisognava prendere per oro colato tutto quello che il prete diceva durante la predica, ma la difesa fu inutile. Il curato se ne andò da Eschberg tre settimane dopo quella domenica fatale, che la memoria popolare avrebbe ricordato in seguito come la domenica dello zolfo. Un breve avviso sulla porta della canonica annunciava che era andato a Hohenberg per un periodo di vacanza, e per otto mesi gli abitanti di Eschberg non ebbero un loro parroco. Poi, inaspettatamente, il curato ritornò, con il fermo proposito di guidare le sue pecorelle come il Buon Pastore della parabole. È il caso di dire che non andò oltre i buoni propositi.
Tutto ciò accadeva tre anni prima della nascita di Johannes Elias, e i lettori scrupolosi vorranno sapere per quale motivo ci diffondiamo cosí a lungo su quella testa calda del curato e non torniamo invece allo strano bambino. La domanda è legittima, e lo pregheremo soltanto di avere pazienza.
Due settimane dopo la nascita del bambino, la chiesetta di Eschberg – che ora si faceva ammirare per le sue massicce porte di bronzo rinforzato –, fu teatro di un duplice battesimo. Entrambi i battezzati appartenevano alla stirpe degli Alder, solcata da ataviche inimicizie. L’uno – il nostro – fu battezzato con il nome di Johannes Elias, l’altro, nato cinque giorni piú tardi grazie alle cure di una levatrice di Altberg (una certa Wägerin), con il nome di Peter Elias. Si noterà che il nome Elias ricorre con una certa insistenza, e ne daremo immediatamente la ragione.
Dopo quel memorabile giorno di Pentecoste il curato Elias Benzer si considerava ormai non solo il pastore, ma addirittura il padre dei suoi fedeli parrocchiani. In senso spirituale, certo, ma non solo strettamente spirituale, se è vero che a Eschberg si videro in seguito vari monelli dai riccioli scuri che sembravano usciti, si diceva, dallo stesso stampino del reverendo. Dobbiamo ricordare inoltre la sua tenace e quasi vanesia inclinazione all’immortalità. Sembrava sapere, il curato, che anche le parole piú infuocate sono destinate prima o poi a spegnersi, mentre un nome dura assai piú a lungo: di qui l’usanza, da lui introdotta, di battezzare tutti i neonati di sesso maschile con il secondo nome di Elias.
La cerimonia del battesimo si svolse alla presenza dei famigliari piú stretti, seduti rispettivamente dalla parte delle Epistole – gli Alder di Johannes Elias – e dalla parte del Vangelo quelli di Peter Elias. Il curato tenne un discorso in cui paragonava la forza dell’acqua alla forza del fuoco. Un discorso interminabile, come se si accingesse al rito battesimale con una strana riluttanza. Quando infine applicò l’olio santo sulla fronte rubizza dei due neonati, la mano prese a tremargli con tale violenza che dovette fermarsi per non far male alle creature. Proprio in quel momento lo sguardo del curato incrociò senza volerlo quello della Seffin, e i due arrossirono entrambi all’unisono, nel modo piú penoso. Per fortuna l’organo intonò il corale del battesimo, e per fortuna Johannes Elias improvvisamente strillò. Gridava di giubilo, perché udiva per la prima volta nella sua vita il suono dell’organo. Esultava per la scoperta della musica.
Quanto a Seff, il padre, sedeva afflosciato nel banco di legno, lo sguardo fisso sulle ginocchia. Non appena il neonato si era messo a strillare gli era preso un brivido, una sgradevole sensazione di gelo che gli scendeva dalla nuca alle spalle e poi giú dal ventre fino ai testicoli. «Maledizione, il bambino ha qualcosa che non va! la voce!», pensava Seff premendosi le orecchie cosí forte che le vene sembravano scoppiargli dalle mani.
Peter Elias invece, il figlio di Nulf Alder, non strillò. E già qui ci pare di riconoscere un tratto del suo carattere futuro, perché Peter Elias era uno che non strillava e non piangeva. Con una sola eccezione di cui parleremo piú tardi estesamente.
Tre giorni dopo il battesimo il curato Benzer morí di una morte orribile. Era salito su per i boschi di Eschberg fino al plateau detto la Roccia di San Pietro: per raccogliere i primi sambuchi, come sembrava dimostrare un cestino grigio lí nelle vicinanze. Quel che è certo è che fece un volo spaventoso, perché il cadavere fu ritrovato quasi irriconoscibile in una pietraia con le gambe conficcate nel tronco fino al ginocchio. Il femore sinistro era a mezzo metro, staccato dal corpo.
Circolava con insistenza la voce del suicidio. Sul registro battesimale il nome Johannes Elias era scritto con una grafia incerta, pressoché illeggibile, mentre il nome del cugino Peter mostra la solita mano sicura, esuberante. E con questo non facciamo allusioni di sorta.