Per tutto il pomeriggio la nebbia continuò a salire a banchi dalla Valle del Reno verso la montagna, intorno alla borgata dov’era il podere di Seff Alder. Nei boschi la nebbia ghiacciava, stillava aghi gelati dai rami e ricopriva la corteccia degli abeti verso sud. Luna e sole stavano una di fronte all’altro: la luna un’ostia spezzata, il sole la guancia della madre. Nella stanzetta il bambino era in piedi sullo sgabello accanto alla finestra, che la Seffin era solita sprangare infilando un pezzo di legno tra la maniglia e il telaio. Stava in piedi, guardando fisso il margine del bosco dietro il quale scorreva la Emmer. Era di malumore, avrebbe voluto uscire di casa.
La notte seguente Elias si svegliò al suono ovattato dei primi fiocchi di neve. Ebbro di gioia saltò verso la finestra, la aprí, e rimase a contemplare insaziabile lo spettacolo fino all’alba. A quell’epoca Elias dormiva da solo: i genitori avevano preso Fritz nella loro stanza per proteggerlo dal fratellino stregato. Quando al mattino la Seffin lo sorprese aveva la fronte bagnata di sudore, e rimase quindi a letto dieci giorni con la febbre alta ma in uno stato di inspiegabile letizia, cantando uno dopo l’altro tutti gli inni che sentiva alla Messa domenicale.
A quel tempo il bambino non comprendeva molte cose. Non capiva perché dovesse stare zitto quando un estraneo entrava in casa, mentre al fratello era concessa ogni libertà. Non capiva perché sua madre non volesse vegliare accanto a lui per aspettare il suono magnifico dei fiocchi di neve. Non capiva neppure perché non poteva afferrarle i lobi delle orecchie quando voleva addormentarsi. Quando poi gli proibí addirittura di cantare, Elias si mise a piangere in modo cosí straziante che la Seffin dovette cambiare idea e dargliene il permesso, almeno di notte.
A questo punto però, affinché il comportamento della Seffin non rimanga inspiegabile dovremo pur chiarire l’arcano. Elias aveva la voce vitrea: espressione questa coniata dallo zio Oskar Alder, l’organista e maestro di scuola del villaggio. Il fenomeno non sembra ammettere una spiegazione medica precisa, ma va collegato con il momento della nascita. Quando il bambino incominciò ad articolare i primi suoni, quello che gli uscí dalla bocca fu un unico fischio acutissimo, non modulato, come un’unica nota sempre uguale. Ecco perché al momento del battesimo Seff si era sentito quel brivido giú per la schiena, pensando che il difetto lo avrebbe marchiato per la vita. Ma Seff era uomo taciturno, e non ne parlò con nessuno.
Quel pomeriggio in cui sole e luna stavano l’uno di fronte all’altra, Elias sgusciò dalla stanzetta perché qualcosa lo chiamava. Doveva uscire di casa.
Nessuno si curava di lui. A Eschberg nessuno si curava dei propri figli. Quando un marmocchio di casa Alder affogò nella corrente limacciosa della Emmer, ingrossata da uno spaventoso temporale, la madre liquidò l’episodio dicendo che tutti avevano sempre trovato da sé la strada di casa e che evidentemente il buon Dio aveva fissato la sua ora anche per lui. Alcuni giorni dopo il nubifragio Seff cominciò a raccogliere la legna gettata a riva dalle acque. Era un vecchio diritto dei contadini: chi la raccoglieva, quella legna era sua. Anche se poi la raccolta dava sempre luogo a litigi e dispute sanguinose, perché poteva capitare che un florido abete cadesse non per caso dal bosco del vicino e che qualcuno si ostinasse a spacciarlo per legna di recupero.
In occasione di quella raccolta della legna trasportata dalla Emmer, Elias aveva ottenuto il permesso di accompagnare il padre. E fu allora che scoprí quella strana roccia levigata dall’acqua da cui si sentiva cosí misteriosamente attratto. Seff lo vide fermarsi di colpo tra la sabbia e il fango, scuotendo nervosamente la testa da una parte e dall’altra come per tendere l’udito. Poi il bambino si arrampicò, eccitato, tra le sterpaglie del sottobosco, come richiamato da una forza sconosciuta: si portava alla bocca e alle orecchie tutto quello che gli capitava a tiro, fango, ciottoli, scarafaggi, salamandre, erba e foglie marce. Quando Seff lo chiamò per ricordargli che non era solo in mezzo a quella natura selvaggia, Elias, spaventato, scoppiò in un pianto inconsolabile. Vedendolo sfiorare pericolosamente quello spuntone di roccia, Seff dovette tirarlo via a forza e prenderlo sotto braccio. Siamo dunque indotti a pensare che il prodigio non colpí Elias come un fulmine a cielo aperto, ma poco alla volta, e con una dolcezza strana.
La pietra chiamava, Elias doveva scendere a valle. Sgattaiolò giú per la scala e, attraversando l’aia, giunse alla stalla immersa nei vapori. Di lí imboccò un sentiero che non si vedeva dalle finestre della casa. Fece il primo tratto di corsa, a perdifiato, finché fu certo che la fattoria era fuori tiro. Poi mandò un fischio di gioia e scese ruzzolando giú per il prato fino al letto della Emmer. Seff, che stava rigirando del letame nella borgata vicina, lo vide. Vide un punticino allegro muoversi sullo sfondo bianco del prato coperto di neve, e sparire quindi a zigzag dietro il margine del bosco. Seff piantò il forcone nel terreno ghiacciato e portò le mani a imbuto: avrebbe voluto dargli una voce ma lasciò perdere, per non disturbarlo nella sua gioiosa solitudine. Guardò con occhi inespressivi il profilo degli alberi dietro i quali Elias era sparito. Poi riprese in mano il forcone e lo spinse con forza, quasi con rabbia, nel mucchio di letame fumante. «Dannazione! Qualcosa non funziona nel ragazzo!» E una méta di vacca volò piú in giú di tutte le altre.
Elias continuò a camminare, a passi pesanti, nella nebbia gelata. Camminò per una buona mezz’ora o forse piú, superando con destrezza una prima cascata, poi una seconda. Si fermava ogni tanto ad ascoltare il suono sibilante della neve rappresa che scivolava dappertutto giú dai rami. Con un gesto di infantile esuberanza affondò nella neve le grosse scarpe ingombranti. La crosta ghiacciata saltò in mille pezzi turbinando come una cascata di scintille, e in una festa di suoni e bisbiglii quale Elias non aveva mai udito prima. Persino il suono meraviglioso dei fiocchi durante la prima nevicata non era piú nulla in confronto a quel concerto superbo.
Continuò a camminare, instancabile. Si rimboccò i pantaloncini, tirò su con il naso e si calò il berretto del padre fin sulla fronte. Da quando l’aveva preso con sé non voleva piú separarsene: nelle notti difficili lo tirava fuori dal pagliericcio e lo annusava fino a provarne un senso di sollievo. Sentiva l’odore del sudore freddo, dei capelli, degli animali: era il berretto da lavoro di suo padre.
Quanto piú si avvicinava alla roccia liscia, tanto piú Elias si sentiva irrequieto. Gli sembrava che il rumore dei passi, il respiro, lo scricchiolio della neve gelata, i tonfi lontani nel bosco, il mormorio dell’acqua sotto il ghiaccio della Emmer, che tutto intorno a lui dovesse crescere e fondersi in un unico suono grandioso. Quando infine raggiunse la sua roccia sentí un rombo come di tuono erompergli dal petto. E in quel momento, come intuendo qualcosa del proprio futuro, si mise improvvisamente a cantare. Quindi accadde il prodigio: quel pomeriggio del suo quinto anno di vita Elias udí il suono dell’universo.
Sentendo freddo alla testa si portò le mani al berretto per calarselo ancora piú giú sulla fronte. Ma lo schianto che avvertí nelle orecchie fu tale da perdere l’equilibrio e da cadere supino nella neve. L’ultima cosa che vide fu un ciuffo di capelli biondi macchiati di sangue.
Mentre cadeva il suo udito si moltiplicò, e iniziò la metamorfosi. I bulbi degli occhi sporsero bruscamente dalle loro cavità, giungendo addirittura a proiettarsi oltre le palpebre e a espandersi fin sotto le sopracciglia. E la peluria delle ciglia si appiccicò alla retina coperta da un velo di lacrime. Le pupille si dilatarono e fluttuarono sul bianco dell’iride: il loro colore naturale – un verde malinconico e autunnale – svaní per fare posto a un giallo squillante e velenoso. Il collo si irrigidí, la nuca si piantò dolorosamente nella neve indurita. Poi la spina dorsale si inarcò, gli si gonfiò l’addome, l’ombelico divenne duro come un osso e dalla sua pelle raggrinzita incominciò a colare un filo di sangue. Il volto di Elias assunse un’espressione spaventosa, come se tutto lo strazio del mondo vi si fosse concentrato per lasciare la sua impronta. Le mascelle si protesero all’infuori, le labbra si ridussero a due sottili strisce esangui. Per la scomparsa delle gengive i denti gli caddero uno dopo l’altro, ed è un mistero che non ne sia rimasto soffocato. Poi, orribile a dirsi, il membro gli si indurí, e una striscia di sperma misto a urina e al sangue ombelicale formò un sottile rigagnolo che gli colava caldo giú dall’inguine. Durante la metamorfosi perse tutti gli escrementi – dal sudore alle feci – in quantità abnorme.
Quello che udí subito dopo fu il tuono cupo che gli saliva dal cuore. Un tuono oggi, un tuono domani: come dire che Elias aveva perso il senso del tempo. Non siamo perciò in grado di stabilire quanto a lungo rimase sdraiato nella neve. Secondo le misure umane forse qualche minuto, secondo quelle divine forse anni, come una curiosa circostanza servirà a chiarire.
All’orecchio di Elias si schiudeva un mondo di suoni, di voci e rumori che non aveva mai udito prima con tanta chiarezza. Non basta dire che li udiva: li vedeva. Vide l’aria condensarsi e poi di nuovo espandersi con ritmo incessante. Vide le valli dei suoni e le loro montagne gigantesche. Vide il ronzio del proprio sangue, il fruscio dei capelli tra le mani strette a pugno. E il respiro tagliava le narici con folate cosí violente che una tempesta di föhn sarebbe parsa al confronto un timido venticello. I succhi gastrici si mescolavano chioccolando e gorgogliando. Le viscere mandavano un suono lungo, gutturale, incredibilmente modulato. I gas endocorporei si dilatavano sibilando o esplodendo, il midollo osseo vibrava e perfino l’umor vitreo tremava ai battiti oscuri del cuore.
Poi il suo udito si ampliò ancora, rovesciandosi come un orecchio gigantesco sulla macchia di terra dov’era sdraiato. Scrutò con l’orecchio teso paesaggi sotterranei a mille miglia di distanza, e luoghi distanti mille miglia. Sullo scenario sonoro dei suoi rumori corporei si spalancarono a velocità crescente altri scenari di gran lunga piú vertiginosi, terrificanti e di una sontuosità inaudita. Tempeste di suoni, uragani di suoni, mari di suoni, deserti di suoni.
Di colpo, in quella sconcertante massa sonora Elias riconobbe il battito del cuore di suo padre. Batteva dentro il suo, e in modo cosí aritmico e disarmonico che se Elias fosse stato del tutto cosciente ne avrebbe provato un senso di cupa disperazione. Ma Dio, nella sua infinita crudeltà, continuò a mostrargli la scena.
Tempeste di suoni e rumori si abbattevano sulle orecchie di Elias con inaudita violenza. Un pandemonio di battiti cardiaci, uno scricchiolare di ossa, un ronzare modulato di infinite vene e arterie, un secco sfregare di labbra screpolate, uno stridere di denti digrignati, un frastuono incredibile di salive inghiottite, di gargarismi e colpi di tosse, di sputi, nasi soffiati e rutti, un gorgogliare di succhi gastrici gelatinosi, il nitido chioccolare dell’urina, il frusciare dei capelli e quello piú selvatico del pelo animale, lo stropiccio dei tessuti sulla pelle, il fischio sottile delle gocce di sudore evaporate, il tendersi delle fibre muscolari, l’urlo del sangue, umano o animale, eccitato nell’erezione. Per non parlare del forsennato caos di voci umane e versi animali sulla terra e nelle sue viscere.
Si aprí al suo orecchio uno scenario fantasmagorico di grida e chiacchiericci, strilli e mormorii, canti e gemiti, urla sgangherate e schiamazzi volgari, pianti e singhiozzi, sospiri e respiri affannosi, salive deglutite e schioccare di labbra: fino all’ultimo risuonare delle corde vocali sulle porte del silenzio e al ronzio metafisico dei pensieri. E piú il suo udito si allargava, piú pittoresco si faceva il paesaggio sonoro.
Venne poi il concerto indescrivibile della vita animale e di ogni vita, e la varietà interminabile dei solisti. Il muggire delle mandrie e il belare delle greggi, lo sbuffare e il nitrire dei cavalli, il tintinnare delle cavezze, il leccare sale della selvaggina e lo schioccare delle code, il grugnire e il voltolarsi dei maiali, e poi scorregge e flatulenze, squittii e pigolii, miagolii e latrati, le voci goffe o stridule degli animali da cortile, cinguettii e battiti d’ali, un rosicchiare di denti avidi e un becchettare, uno scavare e un raspare di zampe...
E poi scenari piú lontani e abissali: i mostri delle profondità marine, il canto dei delfini, i lamenti grandiosi delle balene in agonia, gli accordi misteriosi dei grandi branchi di pesci, il ticchettio del plancton, le fruscianti volute dei pesci che depongono le loro uova, il fragore delle inondazioni e degli immani crolli sotterranei, il rombo assordante delle colate di lava, il canto delle maree, lo spumeggiare delle onde, il sibilo dell’acqua succhiata dal sole, il sussurrio e lo schianto titanico dei cori di nuvole, il suono limpido della luce... Ma che cosa sono le parole!
C’è però un ultimo suono di cui dobbiamo riferire, un suono tanto sottile che avrebbe anche potuto restare impercettibile nello sconfinato frastuono dell’universo. Ma cosí non fu, veniva da Eschberg. Era il debole battito cardiaco di un bambino non ancora nato: un feto, di sesso femminile. Quello che Elias aveva udito e visto lo scordò, non poté invece dimenticare il suono di quel cuore non nato. Perché apparteneva alla persona che gli era destinata da sempre. Era il cuore della sua amata.
Che Elias sia sopravvissuto a un’aggressione acustica di tale violenza – che non abbia perso la ragione o non sia perlomeno diventato sordo all’istante – ha dell’incredibile. A giudicare dal seguito della vicenda si direbbe che il suo udito non ne abbia riportato alcun danno, come se Dio stesso avesse voluto preservarlo in vista di ulteriori tormenti.
Dopo quell’atroce esperienza visionaria le deformazioni fisiche di Elias rientrarono senza lasciar traccia. I globi oculari si ridussero alle loro dimensioni originarie, la spina dorsale si raddrizzò, gli arti contratti si distesero. E anche le mascelle, orribilmente prominenti, ritornarono come prima. Soltanto le pupille, ora di un giallo squillante, non ritrovarono piú il loro malinconico verde autunnale. Dalla nuca gli erano cadute grosse ciocche di capelli, mentre i denti da latte lasciarono il posto a una nuova chiostra di denti definitivi, cresciuti anche troppo in fretta.
Al giallo spettrale delle pupille si accompagnarono tuttavia altri fenomeni, non meno spettrali: la voce vitrea di Elias era cambiata, crescendo insieme di ampiezza e di volume, per dare luogo a una sonora voce di basso. Una voce cosí curiosa e indecente che i genitori, presi dalla vergogna, decisero di chiuderlo da allora nella sua stanza come un lebbroso. Le guance, il labbro superiore, il mento, le ascelle e il sesso si ricoprirono infine di una sottile peluria: erano i segni della pubertà.
Altra cosa inspiegabile è come Elias abbia potuto trovare la via di casa. La Haintzin, che in quel pomeriggio di dicembre era venuta a ciarlare in casa di Seff Alder, fu la prima a vederlo. Nella cucina piena di vapore la Seffin stava rimestando una pentola di semola per la cena. Sí, era sempre piú chiaro che sul ragazzo pesava la maledizione del cielo: e la Haintzin annuiva, pulendo la finestra appannata con la mano gottosa. È ben vero – proseguiva la Seffin – che durante la gravidanza aveva avuto dei presentimenti, ma non ci aveva fatto caso pensando che fossero pure fantasie.
A un tratto la Haintzin gridò con voce gutturale: – Mio Dio e mio Signore, il bambino! lí nudo nella neve!
La pentola cadde sul pavimento, la porta si spalancò e uno zoccolo rimase sulla soglia. La Seffin si trascinò sulla neve e raccolse il bambino con braccia disperate, stringendoselo contro fin quasi a togliergli il respiro. Lo riportò in cucina, lo distese sul tavolo di legno per rivestirlo. E qui le due donne arrossirono dalla vergogna, accorgendosi che il suo piccolo membro si era irrigidito. La Seffin frugò nel mastello della biancheria, ne estrasse una fascia, cercò di sottrarre il bambino allo sguardo fisso della Haintzin, ma nell’atto di avvolgerlo gli scostò il sesso dal corpo con un gesto cosí rude che Elias mandò un urlo disumano.
– Mio Dio e mio Signore! che razza di voce! come il grido di un cervo! – La Haintzin si fece il segno della croce e se ne andò allibita.
Non prima, beninteso, di aver giurato solennemente che non ne avrebbe fatto parola con nessuno: tant’è vero che la domenica seguente tutti guardavano gli Alder con una curiosità speciale. E qualche donna dal figlio idiota si sentí quasi fiera di aver partorito un semplice mongoloide, e non un diavolo dagli occhi gialli come piscio di vacca.
Un’altra, la Nulfin, che era al quinto mese di gravidanza, si mise il libro di preghiere sul grembo e fece un voto. Promise alla Santa Vergine che se fosse nato sano e robusto lei, Virginia Alder, le avrebbe portato ogni mese sull’altare un mazzo di fiori, per tutto il resto della sua vita.
La Seffin, piú tardi, si rimproverò amaramente, anche davanti al marito, di non aver notato subito quel particolare osceno sul corpo di Elias disteso nella neve. Nessuno ne avrebbe saputo nulla, e i capelli e i denti gli sarebbero subito ricresciuti. Ma era inutile. Elias era diventato l’enigma e lo zimbello di Eschberg.
Le prime notti Seff e la moglie non dormirono piú nella stanza grande ma nel solaio sopra il fienile, prendendosi in mezzo il piccolo Fritz. La Seffin restava sveglia fino alle prime ore del mattino, a rimuginare la storia di quel suo figliolo posseduto dal demonio. Quando poi suggerí al marito che una trave di legno fradicio poteva anche cadere, per caso, sulla testa del bambino, o che Elias poteva affogare nella Emmer per disgrazia, o finire incornato da una mucca in calore, Seff assestò un pugno talmente violento su quel diavolo di una bocca da slogarle la mandibola. Da quel momento del ragazzo non si parlò piú, e quando la Seffin fu nuovamente in grado di aprir bocca, aveva ormai perso la forza di vivere: non però al punto da rinunciare a ogni speranza, come racconteremo nel prossimo capitolo.