Dopo che Elias ebbe ricevuto in modo cosí meraviglioso e atroce il dono divino dell’udito, dentro di lui tornò il silenzio. Non tacquero invece le chiacchiere della gente. E appunto per non darlo in pasto agli sguardi curiosi dei vicini i due pavidi Alder lo costrinsero a suon di schiaffi, ceffoni e bastonate a restarsene chiuso nella sua stanzetta.

La casa di Seff Alder, in genere tranquilla, si animò. Tutti i parenti possibili e immaginabili – che è come dire suppergiú tutta la gente di Eschberg – scoprirono di colpo che era tempo di fargli visita. Si presentavano con i pretesti piú strani, fingevano di interessarsi al bestiame, lodavano con affettata insistenza la pulizia della stalla, annusavano il fieno cosí bell’asciutto, bevevano quantità considerevoli di mosto, elogiavano la linda cucina della Seffin, per poi informarsi sulla salute del ragazzo, cosí caro e ahimé cosí sfortunato (e con la nascosta speranza di vedere in faccia l’idiota). Non meno invariabile la risposta: «Il ragazzo non sta bene, ha la febbre petecchiale».

Dopo qualche tempo i visitatori si accorsero che il mosto in tavola non c’era piú e che la quarantena del ragazzo sembrava non voler finire. Quando persino Nulf Alder, il nemico giurato, osò varcare la porta di casa, il povero Seff perdette la pazienza: afferrò il fratello per le spalle e lo cacciò nella neve. Elias non riuscí a vederlo nessuno.

Fu cosí che una manciata di ragazzini, eccitati dalle oscure allusioni dei genitori, decisero di spingersi dopo la lezione di catechismo fino al cortile stregato. Conoscendo la posizione della stanza di Elias si trascinarono fin sotto la finestra e si misero a canzonarlo per quei suoi occhi gialli come piscio di vacca. Gli dissero di farsi vedere, e di dargli una dimostrazione della sua voce prodigiosa. Elias, che li aveva sentiti uscire caracollando e gridando fin dalla casa parrocchiale, si tirò il saccone di foglie sul volto, deciso ad aspettare in silenzio finché l’incubo fosse passato. Ma premersi le mani sulle orecchie non serví a nulla. Il baccano continuava, e quando uno, gridando piú forte degli altri, gli diede del «diavolaccio giallo», Elias non riuscí piú a trattenersi: saltò verso la finestra, la spalancò, e rovesciò sulle loro teste un urlo cosí spaventoso che i ragazzini se la squagliarono gridando terrorizzati. E continuarono a piagnucolare tutto il giorno, dicendo che il Piscio-di-Vacca gli era apparso davvero.

Immobile, sotto la finestra, era rimasto soltanto il cugino Peter Elias, il figlio di Nulf Alder che abbiamo già incontrato il giorno del battesimo. In piedi, attratto verso quell’essere strano da una sorta di fascinazione fredda, lo sentiva piangere di sopra a calde lacrime: un pianto cosí straziante nella sera primaverile, che l’erba dei prati si piegava dalla tristezza e lo stormire del bosco vicino arrivava come un singhiozzo. Non era commozione quella di Peter: se ne stava lí con la bocca aperta e fissava in alto con uno sguardo freddo. E a partire da quel giorno Peter cercò di conquistarsi l’amicizia di Elias. All’inizio veniva tutte le sere, poi piú di rado, ma con tenace ostinazione. Non aveva neppure bisogno di fischiare o di farsi riconoscere con il verso della civetta: Elias lo aspettava.

Ci sentiamo in diritto di affermare che Peter fu l’unica persona nella vita di Elias Alder a riconoscere il suo genio. Sentiva oscuramente che Elias era destinato a qualcosa di grande, e non potendo liberarsi di questa sensazione cercava di tenerlo sotto il suo controllo. Elias da parte sua gli obbediva con docilità, ingenuamente grato per non averlo lasciato solo nelle ore piú amare della sua esistenza. Elias amava Peter.

Nel frattempo la Seffin aveva rinunciato a qualsiasi velleità educativa sul precoce figliolo. Non gli rivolgeva nemmeno la parola, e si limitava a lasciargli la minestra davanti alla porta della stanza come fosse la ciotola di un gatto. All’inizio evitava ogni contatto per paura di essere contagiata dalla febbre gialla propagata dai suoi occhi. Di tenerezza o qualcosa che le assomigliasse neanche a parlarne: era un sentimento pressoché sconosciuto a lei e alle donne di Eschberg in genere. E d’altra parte si preoccupava sempre meno della sua pulizia, tanto che Elias incominciò a deperire e a coprirsi di pidocchi. Se prima era solita lavare i bambini tutti i sabati – il suo sogno di ragazza era stato di sfoggiare un giorno alla Messa domenicale i nasini lindi e i colletti impeccabili dei suoi futuri pargoli –, ora negava energicamente di averlo mai pensato o sognato. La Seffin si lasciava andare. Inselvatichiva, e la straordinaria pulizia della sua cucina non era piú che una leggenda.

Un giorno la Seffin sembrò riacquistare speranza, si riscosse dalla sua apatia e si mise a cantare le canzoni di quando era ragazza. Ma durò solo qualche giorno. Il merito della metamorfosi era della Haintzin, la moglie del sacrestano cieco, che le aveva consigliato di provare con il figlio certe frizioni, certi impacchi e infusi. L’idea le era venuta – tranfiava la Haintzin – mentre guardava cosí senza pensarci il verde luccicante della nuova stagione. Con tutto quel verde in giro, aveva pensato, doveva pur esserci il sistema per ridare agli occhi di Elias il loro colore naturale. E lei lo conosceva, il sistema.

Un primo tentativo venne fatto con le foglie del dente di leone inumidite con la saliva e quindi applicate sulle palpebre chiuse del bambino. Elias dovette restare immobile l’intero pomeriggio. Alla sera gli tolsero le foglie nella speranza di ritrovare un bel verde intenso. Macché. Perfino la candela sembrava invidiosa di quel giallo.

Il giorno seguente si rimisero presto al lavoro, passando mezza mattinata sui pascoli a raccogliere ciuffi d’erba e tutto quel che appariva di un bel verde acceso. Nel loro zelo finirono per tagliuzzare anche i germogli degli abeti rossi, che in genere venivano fatti bollire per ricavarne una specie di miele. E fu con quelli che la Haintzin suggerí di cominciare: mettendoli a cuocere nell’acqua bollente e facendo poi colare l’acqua dell’infuso sulle palpebre del disgraziato. Gli occhi di Elias non si erano ancora ripresi dalle ustioni che già la Haintzin escogitava una nuova terapia.

L’idea le era venuta cosí senza pensarci, mentre faceva il fieno per le bestie. Poiché il contagio veniva dall’interno, bisognava trattarlo – mio Dio e mio Signore, perché le era venuto in mente solo adesso! – appunto dall’interno. Prese allora un piatto da minestra e vi grattugiò dentro della corteccia di betulla e di carpine, mescolò alla corteccia delle foglie di valeriana e poi erba di San Giovanni, fior di stecco e martagone, versando infine sul tutto del latte di mucca appena munto. Il risultato fu questa volta un doloroso mal di stomaco che si protrasse per l’intera notte, e quando le donne si accinsero a tentare un nuovo metodo di cura il ragazzo le cacciò dalla stanza con un poderoso bramito di avvertimento. La Haintzin non potè restituire agli occhi di Elias il loro malinconico verde autunnale, e da allora anzi le sue visite all’amica si fecero piú rare: c’era tanto lavoro da qualche tempo, – si scusava, – e le vacche della cascina figliavano una dopo l’altra.

Elias passò due inverni rinchiuso nella sua stanza. Ogni tanto veniva Peter, se ne stava in silenzio sotto la finestra, guardava in sue poi se ne andava. Nulf, il padre, fratello di Seff e suo nemico giurato, non riuscí a impedirgli quelle visite, neanche bastonandolo a sangue. Peter veniva, taceva e se ne andava. Raramente i due ragazzi arrivavano a scambiarsi due parole, ma la fedeltà ostinata di Peter finí per conquistarsi la fiducia di Elias.

Venne la Domenica in Albis. Elias avrebbe dovuto fare la prima comunione già da un anno, ma la madre aveva chiesto al curato un nuovo rinvio. Gli disse, mentendo, che il ragazzo si era improvvisamente ammalato di reumatismi, oltre a una strana forma di deperimento associata a terribili emicranie. Insomma, la comunione andava rimandata di almeno un altro anno. Il curato Friedolin Beuerlein mangiò la foglia e si presentò alla cascina di Seff Alder con piglio deciso. Era un uomo di buona indole, asciutto e dal naso lungo. Vista l’inutilità dei suoi discorsi e l’ostinato diniego dei genitori non gli restava che passare alle prediche e alle minacce. Niente da fare. Quando il curato incominciò a evocare le pene dell’inferno – il peccato, a suo dire, gridava vendetta al cospetto di Dio – Seff diede i primi segni di cedimento. Ma non la Seffin: non le importava un bel nulla di finire all’inferno impalata su una lancia, il ragazzo la comunione non la faceva.

Senza diffonderci qui sui particolari della cerimonia (le bocche aperte e le sbirciate curiose dei parrocchiani, il loro repentino ammutolire quando il ragazzo, nel coro, intonò la sua parte di basso), possiamo dire con certezza che nessun comunicando accolse mai il Santissimo con la devozione e il candore di Elias. Al banchetto che si tenne subito dopo nella locanda «Al cacciatore» il ragazzo, a dire il vero, era già sparito, e anche in seguito la Seffin si attenne a una regola ferrea: che Elias non sarebbe mai entrato in chiesa prima del secondo Kyrie, e che ne sarebbe uscito sempre prima della benedizione del curato. Il suo posto in chiesa sarebbe stato l’ultimo banco in fondo dalla parte delle Epistole, dove i vecchi del villaggio si rintanavano a masticare tabacco e a schiacciare il loro pisolino domenicale.

Volgiamo nuovamente lo sguardo alla madre del nostro eroe: come si è detto la disgrazia di quel bambino abnorme le aveva fatto perdere la forza di vivere. Ora, la nostra affermazione è suffragata da un episodio che si svolse lo stesso anno il giorno della Santissima Trinità.

Era il giorno del santo patrono, e la festa finiva solitamente in una baruffa generale, tra scambi di insulti e scaramucce anche sanguinose. In nessun altro giorno dell’anno, infatti, l’intero contadiname di Eschberg aveva occasione di raccogliersi sul sagrato della chiesetta, e in nessun giorno dell’anno correva tanto alcool come alla festa del patrono, quando l’acquavite di ciliegie veniva servita gratis.

Si incominciava con una funzione all’aperto. Tutto intorno all’altare correva un bel tappeto di fiori, formato da margherite e boccioli di dente di leone, e sul tappeto si leggeva un delicato ricamo con le parole AVE MARIA. Malauguratamente, la notte prima della festa una vacca era andata a spasso da quelle parti, e la «R» della scritta appariva ora ricoperta da una méta grassa e ancora fresca. Il parroco, che era molto fedele al culto mariano e da ragazzo aveva addirittura militato nella congregazione giovanile del Cuore di Maria, ne rimase turbato e cercò di restaurare quella «R». I chierichetti fiutarono la cosa, e nel bel mezzo della Messa distolsero poco umilmente il loro naso dalle mani del curato. Fu comunque una cerimonia toccante, e al momento della benedizione solenne con l’ostensorio i contadini attaccarono il Te Deum con lo stesso sfrenato entusiasmo con cui avrebbero intonato un canto conviviale o di montagna.

Dopo la funzione ebbe inizio la festa vera e propria. Il maestro del villaggio aveva preparato con i bambini una interminabile ode alla esimia Casa Imperiale, composta da un signore che avremo occasione di incontrare spesso: il suo nome era Michel, detto il Carbonaio perché era lui a sorvegliare la carbonaia nella borgata Altig. Ogni bambino doveva recitare due strofe del grandioso poema, offrendone insieme una breve presentazione mimica. Quando fu la volta di Elias, le facce già un po’ brille dei presenti lo accolsero con strane smorfie che contribuirono a riscaldare l’atmosfera. Con una coroncina di margherite fra i capelli il ragazzo incominciò a recitare la sua parte, ma non appena si udí la sua calda e teatrale voce di basso il contadiname esplose in una risata cosí spaventosa che riecheggiò per la valle giú fino a Götzberg. Elias ammutolí, e rimase a guardare con occhi increduli la folla scalmanata, che a sua volta fissava il giallo sgargiante delle sue pupille. La Seffin si sentí mancare il respiro e svenne sotto gli occhi di tutti. Elias rimase lí piantato sul palco, finché il maestro non si decise a trascinarlo via. Il baccano era infernale – c’erano anche quelli che dandosi arie da signori gridavano «Dacapo! Dacapo!» – e si placò solo quando salí sul palcoscenico il mangiatore di fuoco: ma nell’ammirare le acrobazie del Signor Foco tutti si ricordarono, scherzandoci su, la famosa domenica dello zolfo dell’anno 1800. La gente si mostrava a dito, ridendo, la doppia porta rinforzata della chiesa, e Haintz Lamparter, il sacrestano, che proprio allora era rimasto cieco, rimpiangeva ad alta voce il buon tempo andato. Da quando il curato Benzer era morto – diceva – a Eschberg non era piú accaduto nulla. Sospirò e cercò a tastoni, con pazienza, il suo boccale.

Per Agathe Alder, la Seffin, da quel giorno le cose andarono sempre peggio. Non si lavava piú, non faceva altro che cuocere pentoloni di semola e riempirsi di quella poltiglia: ingrassò e divenne pallida da far spavento. Di giacere con il suo Seff non voleva piú saperne, e grassa com’era (secondo le parole di un’amica, «come una scrofa pregna»), anche Seff si accorse di non amarla piú. Aveva allora solo ventisei anni. Come se non bastasse, si abbandonò a strane pratiche: vagava di notte per le strade di Eschberg pregando e cantando, tormentava i rospi con delle candele accese, si voltolava nuda nelle foglie secche, si faceva passeggiare gli scarafaggi sul ventre, si copriva le vergogne con il fango e finí per tagliarsi un pezzo di carne dalla guancia sinistra. Quindi lo portò solennemente alla chiesetta, adagiato su un cuscino, e lo offrí come reliquia all’altare di Sant’Eusebio, di cui si raccontava che avesse portato anche lui un pezzo della sua carne dal Bresnerberg al Viktorsberg (ma nel caso del santo si era trattato di un’impresa speciale, visto che il pezzo di carne era la sua testa, mozzatagli da una banda di briganti). La Seffin passava intere ore in ginocchio davanti all’altare ripetendo all’infinito la stessa domanda: perché mai Dio le aveva dato un figlio simile. Se le avesse dato un figlio scemo – pensava a un mongoloide –, i compaesani avrebbero finito per dimenticarlo. Volle ahimè la sorte che qualche anno piú tardi, quando la Seffin si era ormai ripresa e incominciava lentamente a ritrovare il gusto della vita, quel fatale desiderio venisse poi esaudito con la nascita del suo terzo figlio. Ad ogni modo, e per quanto possa apparire assurdo e crudele, la follia passeggera della madre significò per Elias l’inizio di una nuova vita. Lo lasciarono libero, o per meglio dire si trovò improvvisamente libero; poiché in casa Alder ormai l’indifferenza regnava sovrana.

E Seff, il padre, di cui gli altri famigliari avrebbero tanto apprezzato un gesto, una parola? Elias arrivò al punto di gettarsi piangendo fra le sue braccia, senza aprir bocca, nella sola speranza di farsi consolare in silenzio. Ma Seff taceva.

E il fratello Fritz? Non esitiamo a confessare che non ci interessa affatto. Fritz fu per tutta la vita un personaggio cosí insignificante che faremmo volentieri a meno di parlarne: apparteneva al genere del contadino muto, e in effetti non potremmo riferire una sola frase che sia mai uscita dalla sua bocca. E se anche fossimo in grado di farlo dobbiamo ammettere che non ci interesserebbe.

Quella del nostro eroe appare dunque come un’infanzia oscura, ma non priva di momenti luminosi che sarebbe disonesto nascondere al lettore. Come l’episodio, che ora riferiremo, della primavera del 1808.

Era una mattina di aprile grondante di pioggia. Intorno a mezzogiorno Elias, in piedi alla finestra della sua stanzetta, vide una donna sconosciuta che saliva ansimando la strada del villaggio. Dalle fasce che portava in spalla e dal borsone di pelle rossa capí subito che era una levatrice. Aprí la finestra per vedere dove stava andando, e siccome era già sparita dalla sua visuale si sporse pericolosamente e la vide entrare nella casa di Nulf Alder. Circa mezz’ora piú tardi – Elias era disteso sul suo pagliericcio – sentí un dolore acutissimo che gli trafiggeva il cervello, una fitta al cuore e il respiro che improvvisamente gli veniva meno.

«Mio Dio, mio Dio, che cos’è?», è la domanda che gli turbinava nella testa mentre il cuore si lanciava a precipizio. – Che cos’è, che cos’è? – gridava a squarciagola, ridendo e piangendo insieme. Sobbalzò e si buttò contro la porta sprangata, tempestando di pugni il legno ingiallito. Poi Elias si gettò a capofitto contro la finestra, gridando giú verso il bosco in direzione della Emmer: – Continua! continua!

Virgina Alder, la Nulfin, aveva dato alla luce una bambina, sana di corpo e di mente. L’avrebbero battezzata con il nome di Elsbeth e da quel giorno, sull’altare laterale dedicato alla Madonna, si vide uno splendido mazzo di fiori che nessuno ricorda di aver mai visto appassiti.

Elias era in estasi, un’estasi del corpo e dell’anima. Singhiozzava di gioia udendo uno strano meraviglioso battito che gli dava la sensazione di guardare in paradiso. – Continua! continua! – mormorava verso il margine del bosco, dove per la prima volta aveva udito quel suono. Era il battito del cuore di Elsbeth: era il suono dell’amore.