Nel paese il föhn imperversa con il suo balletto satanico. Schianta gli alberi da frutto, rompe i vetri delle finestre, fa volare le tegole dai tetti, porta lo scompiglio nei fienili polverosi, sbatte con violenza le imposte delle case. Il carro di un Lamparter, pieno di sale, si rovescia sulla strada, e il proprietario è costretto a sgozzare i due buoi perché hanno le zampe spezzate. A due giorni dalla Notte di Natale c’è ben poco di natalizio nell’aria: piuttosto un odore di pioggia, e un cielo che tra gli ammassi di nuvole spinte dal föhn mostra improvvisi squarci di sereno. I prati sono asciutti, la Emmer appena un rigagnolo. Gli animali del bosco hanno sete e, cosa strana, spuntano qua e là le prime margherite.
Il 24 dicembre 1815 la tempesta di föhn sembra placarsi. Il vento gira verso nord, le raffiche si acquietano anche se a tratti una folata improvvisa fa vibrare le travature delle stalle e delle masserie. L’aria è tiepida e asciutta, da uscire per la strada senza giubba e in maniche di camicia. Nessuno in questi giorni e in queste notti osa accendere un fuoco, nemmeno una candela per recitare le orazioni. Tutti sanno – i bambini lo hanno appreso dai racconti minacciosi dei vecchi e dai loro occhi spaventati – che cosa può provocare un lume acceso in tempo di föhn. La sera della Vigilia un Lamparter fa il giro delle case per impedire a chiunque, se il caso con la forza, di accendere le candeline degli alberi di Natale. Perlustra le dispense e le stalle, ma non scorge il piú pallido bagliore. Va’ ad annusare fin dentro i camini e non fiuta neppure un vago aroma di fumo freddo. Poi si allontana piú tranquillo, indossa il vestito della domenica e si prepara per la Messa di mezzanotte.
Sulla cresta chiamata la Roccia di San Pietro, nella luce polverosa della sera, appare la silhouette di Peter Alder. È seduto lí da chissà quanto tempo, accoccolato come un rospo: guarda fisso un fiammifero, trastullandosi annoiato con il membro scoperto. Lí accanto fa le fusa il gatto rosso, l’animale prediletto della sorella Elsbeth che Peter ama portare con sé nei momenti di sconforto. Torna a guardare il suo braccio tumefatto e reprime una smorfia di dolore. No, non riusciranno mai a fargli chinar la testa, neanche se dovesse morire dalla fame. E poi non ha già passato cinque notti all’addiaccio senza mettere in corpo un solo boccone? No, non andrà da suo padre a supplicare perdono, non cadrà in ginocchio pentendosi del furto, dovesse anche costargli la Messa di Mezzanotte. Il suo piano è deciso: oggi deve fargliela pagare, a suo padre. Questa notte deve crepare. Si guarda il braccio tumefatto mordendosi le labbra e cerca di immaginarsi come farà a uccidere il padre. Poi si sente venir meno dal dolore. Perché soffrire da solo? Prende in mano una pietra, afferra la zampa del gatto e gliela spezza di netto. Poi, eccitato dai suoi lamenti, gli spezza anche l’altra.
La Messa di Mezzanotte nella chiesa di Eschberg era da sempre un esempio toccante di devozione natalizia e di pietà contadina. Se ne parlava ormai da settimane, a monte e a valle, e in nessun altro villaggio la nascita del Redentore veniva celebrata con tanto entusiasmo. L’occasione attirava ogni anno una folla di curiosi dalla Valle del Reno, tanto che la chiesa era già gremita all’inverosimile due ore prima della funzione, la gente si accalcava nei banchi, guardava impaziente verso l’abside, la navata sembrava un nido di vespe. Nulf Alder giunse in ritardo, sgomitò in mezzo alla folla e ne nacque un piccolo tumulto, che si placò solo quando Nulf prese posto nel suo banco. Chi poteva venire era venuto. E c’era quasi tutto il paese: una parata di nasi lustri, colli ben strofinati e rossi, colletti inamidati di fresco, sottane fruscianti e acconciature pretenziose. Persino il banco delle nubili era stipato e, cosa incredibile, la Burga si era profumata con olio di rose.
La funzione si aprí con una recita pastorale: i versi uscivano dalla penna del carbonaio Michel, e noteremo di passaggio che dopo la sua conversione alla poesia religiosa Michel era dimagrito da fare spavento.
Il poema fu rappresentato in forma scenica dai bambini della scuola. La parte di Maria veniva affidata ogni volta a una giovane donna incinta di nove mesi, cosa che spiega, fra l’altro, il grande afflusso di curiosi dalla Valle del Reno. L’usanza, per noi stravagante, risaliva ai giorni del curato Benzer e si raccontava che una donna avesse partorito una volta nel bel mezzo della recita. Sia come si vuole, era un ruolo ambitissimo per le donne di Eschberg, che si aspettavano da quella recita una speciale effusione di grazia sul nascituro. C’era perfino chi calcolava il giorno del concepimento pensando proprio al 24 dicembre, e avremmo risparmiato al lettore un particolare di gusto cosí dubbio se lí sulla paglia non ci fosse stata quell’anno la Seffin in persona. Dobbiamo dire, a sua discolpa, che fino all’ultimo si era rifiutata di mettere in mostra la pancia proprio alla Messa di Natale, ma era stata ancora una volta la Haintzin – la migliore amica – a consigliarla di non buttar via quella grazia specialissima. In nome del profeta Elia! chi avrebbe provveduto altrimenti a farlo crescere sano di mente e di corpo?
Le cose non andarono cosí. E che stessero prendendo un’altra piega si poteva già intuirlo dall’aria greve, satura d’incenso della piccola chiesa. Ogni tanto un bambino piú gracile cadeva svenuto sotto il banco, il malessere provocato dal föhn non risparmiava nessuno e gli anziani lamentavano da vari giorni diabolici dolori di testa. Niente faceva pensare al Natale.
Anche il curato Friedolin Beuerlein, quello dal naso lungo, soffriva di insonnia. Ma quando il curato soffriva di insonnia perdeva il ben dell’intelletto e apparivano impietose le prime avvisaglie della vecchiaia. Prima della funzione aveva chiesto al sacrestano con ampi giri di parole se la liturgia del giorno era quella di Pasqua o di Natale, e dopo una discussione rimasta senza esito il curato era uscito all’improvviso dalla sacrestia intonando l’Alleluia pasquale. Fu un chierichetto ad afferrarlo prontamente per un lembo della tonaca e a sussurrargli concitato che in realtà era Natale. Ma ormai la funzione era uscita dai suoi binari: interrotta la recita, il curato intonò con voce solenne il Gloria in excelsis Deo, e nel tentativo di mascherare la vergogna di fronte ai forestieri Oskar Alder si precipitò all’organo. Quando il curato intonò il Gloria una seconda e poi una terza volta, in pieno stato confusionale, l’organista tirò tutti i registri e improvvisò sul motivo natalizio composto da Elias durante la sua seduta notturna. Nel trambusto generale Oskar Alder non riusciva a ritrovare la tonica, ma i fedeli, capita l’intenzione, si misero a cantare tutti insieme per celebrare il miracolo della Notte Santa.
Quale spettacolo! Mentre le voci salivano d’intensità gli occhi luccicavano di pura gioia natalizia. Il sangue scorreva piú gagliardo nelle vene imporporando i volti rozzi e oblunghi dei contadini. Ovunque si innalzavano canti e lodi da quelle bocche labbrute; le mani tozze si fecero umide e morbide come prezioso velluto.
GIORNO DI GIUBILO,
GIORNO DI GAUDIO.
NATO È IL SIGNORE,
IL FANCIULLO DIVINO,
NELLA STALLA DI BETLEMME.
A un tratto, il canto fu lacerato da un grido metallico. Sembrava una voce femminile ma era quella del tiramantici Elias Alder: – Al fuoco! – urlò con quanta voce aveva in corpo. La balconata sussultò e alla balaustra apparve il volto di Elias, pallido come un cencio, che gridava con la voce vitrea dei suoi anni infantili: – Elsbeth, Elsbeth sta bruciando! – (Elias sapeva che la ragazzina era a letto con la rosolia).
Tutti allora videro i bagliori del Primo Incendio. Le vetrate della chiesa verso oriente presero un colore acceso, fiammeggiante. E l’Angelo del Fuoco passò nel villaggio, ordinando al föhn, che pareva addormentato, di svegliarsi al piú presto e di soffiare nel suo corno con le guance rigonfie, di soffiare nelle fessure del granaio dove un ragazzino umiliato aveva dato fuoco alle balle di fieno. L’Angelo ordinò al föhn di imperversare finché non fosse stato distrutto l’intero lato nord del villaggio e nei prati non fosse rimasta che un po’ d’erba bruciacchiata. Voleva far capire alla gente di Eschberg che quel luogo era maledetto da Dio.
Le porte rinforzate della chiesa non volevano lasciarsi aprire: la gente si accalcava urlando, premeva contro i battenti con furia cieca. Quando una mano robusta trovò la maniglia, la porta finalmente si spalancò, ma la mano rimase stritolata contro il metallo e si vide il sangue schizzare da sotto le unghie. La massa informe cercava, urlando e calpestandosi, di uscire all’aperto. Indietro era rimasta soltanto una madre, di fianco a un bambino immobile con la mascella schiacciata dalla folla. La donna strabuzzava gli occhi in preda a un riso isterico, mentre il cervello del piccolo colava dal cranio spaccato. La donna raccolse i piccoli denti da terra e li baciò, come fossero piú preziosi delle piú preziose perle di questo mondo.
Indicibile fu lo strazio di quella notte. Ma dobbiamo seguire i passi del nostro eroe, e non possiamo perder tempo a seguire i casi di questo e di quello, cercando parole di vano conforto mentre stanno lí, in piedi, a contemplare lo spettacolo delle case e delle stalle, del bestiame e delle loro povere masserizie divorate dal fuoco.
Il podere di Nulf Alder era in preda al fragore delle fiamme. Le lingue di fuoco serpeggiavano tra le chiome degli alberi da frutto piegati dal föhn e perfino l’erba bruciava nei prati a larghe chiazze. Quanto alla casa, pareva impossibile anche solo avvicinarsi alle finestre, tale era la vampa che ne usciva e che minacciava di soffocare chiunque fin dal giardino. Elias cercava di cogliere i lamenti della ragazzina ma non sentiva il minimo accenno di pianto. Mentre Nulf, tra imprecazioni e bestemmie, strappava assi di legno dal lato est della stalla nel tentativo di salvare qualche animale, la Nulfin lo afferrò per i capelli supplicandolo per l’amor del cielo di soccorrere la figlia. Nulf se ne liberò gettandola a terra e andò a staccare un’altra asse dalla parete, per poi entrare nella stalla e vomitare al puzzo insopportabile della carne bruciata.
Dopo aver appoggiato la scala alla parete sud della casa, Elias intanto era salito a precipizio sul tetto ancora indenne e staccava le tegole con le mani nude, fino a far sanguinare le dita. Non provava però il minimo dolore. Si aprí allora con i piedi un passaggio fra le travi del tetto e cadde, senza farsi male, sulle pannocchie di granturco messe ad asciugare nel solaio. D’un tratto, gli sembrò di udire un leggero colpo di tosse. Chiuse gli occhi e tese l’udito. Lo scricchiolare e il crepitare del legno gli indicò il percorso seguito dal fuoco e nel volgere di un attimo capí quali parti della casa stavano bruciando. Trovò la ragazzina nella stanza piena di fumo: distesa con gli occhi aperti sotto la rete del letto, la bocca affondata nella bambola di pezza. La prese per una mano e la tirò fuori, le avvolse un braccio attorno ai fianchi e la sollevò dal pavimento, premendosela contro il petto.
Mentre il suo cuore batteva all’unisono contro il cuore di Elsbeth, Johannes Elias Alder mandò un grido cosí spaventoso, cosí disperato, come se avesse visto la morte in faccia. Sotto il peso di quel grido la ragazzina perse coscienza e si abbandonò svenuta sul corpo del giovane innamorato. E giunse cosí a compimento la rivelazione di quel giorno, quando Elias a cinque anni aveva udito nel letto della Emmer il battito del cuore di una bambina non nata. In quella notte di orrore universale Johannes Elias Alder si innamorò di sua cugina Elsbeth Alder: o meglio dovette innamorarsi, perché si compisse la volontà di Dio.
E sulla cresta, detta Roccia di San Pietro, in un incavo della parete, la silhouette di Peter, il bambino offeso. Sui suoi capelli unti danzano i bagliori dell’incendio e negli occhi colmi di stupore si riflettono le case del villaggio in fiamme. Sta lí con la bocca aperta, le labbra riarse, stringendo lo zolfanello nella morsa della mano. Peter conta le case: cinque, sei, quella di Daniel Lamparter, quella di Matthias Alder, anche la casa della prostituta sta bruciando. È l’ora della vendetta. No, non è caduto in ginocchio, non si è pentito del furto. E i suoi occhi, in cui si riflettono i bagliori dell’incendio, sono umidi dalla commozione. Si asciuga le lacrime con il braccio rattrappito e incomincia a pregare, a chiedere con voce calda e ferma che suo padre crepi. E canta con voce di adolescente e quanto piú a lungo tanto piú forte: «Signor padre, dovete crepare!»
Il Primo Incendio divampò per tutta la notte e la mattina successiva. Nel pomeriggio del giorno di Natale i prati erano ancora in fiamme. Un banco gigantesco di nuvole basse si trascinava sopra il villaggio in una luce strana, mai vista prima: la terra arrossava il cielo. Colonne di fumo salivano fino alle nuvole e i tronchi carbonizzati continuavano ad ardere. Quindici case erano ridotte in cenere. Due uomini anziani, costretti a letto, erano morti, e cosí quattro bambini, fra cui quello schiacciato dalla folla nella chiesa. Un centinaio tra capi di bestiame e animali da cortile erano stati divorati dalle fiamme, e molti di essi proprio nel tentativo di salvarsi dal fuoco. La metà nord del villaggio era distrutta. Incalcolabili i danni alla foresta e ai coltivi: tutto quel che poteva bruciare era bruciato.
Infelice tra gli infelici chi dovette assistere alla catastrofe di quei giorni. Al crepitio sinistro delle fiamme sul lungo fronte infuocato e ai lamenti degli esseri umani si aggiunse l’agonia atroce degli animali inermi. Cosí per i cervi, sospinti contro le palizzate, alla fine non ci fu piú scampo. Un intero branco si gettò ormai sbandato nel precipizio. La piccola selvaggina squittiva disperata nelle radure con la pelliccia in fiamme, mentre gli uccelli, con le ali già bruciate dal fuoco, finivano inghiottiti dagli incendi i cui vapori incandescenti salivano fino al cielo formando una colonna alta oltre un miglio.
Quando Elias andò a cercare nella neve di gennaio gli animali del bosco, nessuno rispose ai suoi richiami e il bianco scenario cosparso di alberi scheletriti restò deserto. Non la cerva Resi, non Wunibald il tasso, e neppure Lips la volpe rossa, né Sebald la puzzola o l’impettito borgognone.
Sul lato nord del villaggio si salvò un’unica casupola, e fu, dobbiamo aggiungere, una disgrazia, perché in quella minuscola casa abitava lo scultore Roman Lamparter, il Perlopiú.
L’incendio risparmiò invece completamente gli edifici del lato sud. Né la chiesetta né le case e neppure la piú piccola assicella subirono il minimo danno, e alla vista di quell’ingiustizia che gridava vendetta al cospetto di Dio non furono pochi a perdere i sensi tra imprecazioni e urla convulse.
Il giorno di Natale otto famiglie raccolsero le loro poche cose e lasciarono piangendo l’amata Eschberg. Seguendo il corso della Emmer scesero giú nella Valle del Reno, per passarvi il resto dei loro giorni nella miseria piú nera o lavorare i campi altrui come semplici braccianti. Tra questi lo Haintz e la Haintzin, e cosí pure la famiglia di comare Alder, che spariranno per sempre, con le loro vite e le loro storie, dalla nostra visuale.
La suddetta comare non lasciò tuttavia il villaggio prima di aver diffuso una calunnia pazzesca, le cui drammatiche conseguenze si videro il giorno di Santo Stefano. Raccontò di aver visto da sicura distanza Roman Lamparter, il Perlopiú, trafficare dietro le sue finestre fino all’alba, la notte prima dell’incendio: con i capelli scarmigliati e la bocca schiumante di bava aveva parlato alle sue ombre, poi si era buttato per terra come un epilettico e aveva quindi stilato un documento su cui compariva in tutta chiarezza la parola «incendiare». Nella sua cantina buia come l’inchiostro aveva compiuto rituali sacrileghi, recitando l’Avemaria a rovescio, alla maniera dei musulmani, e aveva infine orinato sul Crocifisso. Questo, a chi voglia prendere per buona la sua testimonianza, sosteneva d’aver visto comare Alder nell’oscurità della notte e da sicura distanza.
Ora, neppure i peggiori idioti di Eschberg credevano a una sola parola di quel racconto, e nondimeno si dava per dimostrato che proprio lo scultore Roman Lamparter avesse appiccato l’incendio. Da troppo tempo i contadini di Eschberg sapevano e vedevano come quell’uomo dalle gambe corte, le sopracciglia cespugliose e quella piega sarcastica intorno alla bocca offendeva ogni giorno e nel modo piú sfacciato la loro vita, il loro lavoro e la stessa fede cristiana. Nei giorni feriali era solito andare in giro con il vestito della domenica, e se nella calura di luglio vedeva qualcuno intento a rastrellare il pendio gli si avvicinava, si toglieva gli occhiali dal naso, ne soffiava via i granuli di polline, faceva roteare nell’aria il suo elegante bastone da passeggio, e poi, passandosi un dito nel colletto inamidato, si metteva a discettare sulla vita faticosa del montanaro: che il gioco non valeva la candela, che perlopiú il lavoro non bastava nemmeno a riempirti la pancia, e che era quindi piú saggio mettersi all’ombra con le mani in grembo, a contemplare l’azzurro del cielo come facevano gli uccelli sui rami degli alberi. E a raccontargliela cosí soave era uno che non metteva insieme neanche mezzo quintale di fieno! Avrebbero sputato per terra dalla rabbia, se gli fosse rimasta ancora un po’ di saliva nella bocca riarsa dalla fatica.
Ma la cosa che piú indignava i contadini di Eschberg era la forma della sua casa. Proprio lui che non andava mai alla funzione e che nessuno aveva mai visto nemmeno alla Messa di Natale si era preso il gusto di costruirsi una casa che riproduceva tale e quale la sagoma del Tabernacolo. Ci lavorò per piú di quattro anni, e quando la casetta fu finita assomigliava in tutto e per tutto al Santissimo, con le sue varie cuspidi e fino all’ultimo pinnacolo. Se proviamo a immedesimarci in un contadino di Eschberg non potremo non capire perché il Perlopiú era visto con diffidenza, o meglio con vero e proprio odio. Chi non avrebbe voluto infatti abitare nel Tabernacolo? Che allora proprio lui – pieno di debiti e miscredente com’era – osasse dividere la sua casa con Nostro Signore, era un’ingiustizia che gridava vendetta al cospetto del cielo. Uno come lui non era degno che il Signore entrasse sotto il suo tetto. Non era degno!
A quest’ultimo sacrilegio se ne aggiunse poi un altro, a colmare la misura. Alla sua unica mucca da latte – una bestia rachitica, dal muso ingrigito e gli occhi iniettati di sangue – aveva dato il nome di Santa Elisabetta, perché nonostante l’età avanzata si era ancora sgravata di un vitellino. Ma le malefatte del Perlopiú richiederebbero, come si è capito, un libro a parte, e dunque ci fermeremo qui.
Il mattino di Santo Stefano gli abbatterono la porta a colpi di stivali, si precipitarono nella stanza dove dormiva e lo svegliarono a suon di ceffoni: gli avrebbero piantato il forcone in piena faccia se qualcuno non fosse intervenuto a fermarli, sostenendo che il cane sacrilego doveva essere bruciato vivo. Due dei compari gli strapparono la camicia da notte di dosso, lo trascinarono giú dal letto e gli staccarono un orecchio, mentre un terzo, indiavolato, faceva a pezzi a colpi di martello tutto quel che gli capitava sottomano, i mobili, le suppellettili, i lavori d’intaglio. E fu costui a scorgere in un angolo una latta su cui era scritto «olio combustibile». Poi lo scaraventarono nudo giú dalla scala, ma cadde bene e riuscí a svignarsela. Lo inseguirono, correndo piú veloci di lui sulle ali della loro furia assassina. Con una svolta improvvisa fece perdere di nuovo le sue tracce, inciampando e strisciando riuscí a sparire nell’intrico del sottobosco fino alla Roccia di San Pietro, ma qui c’era il precipizio e non rimaneva che una via: buttarsi tra i banchi di fumo, fra i rami carbonizzati e ancora incandescenti degli alberi bruciati dall’incendio. Guidato dal puro istinto di sopravvivenza, che è folle e cieco, riuscí per qualche tempo a restarsene acquattato nel fumo, e pur avendo le piante dei piedi ustionate non sentiva né caldo né freddo, e cercava di rintanarsi nel folto. Poi, a un tratto, udí le loro voci vicinissime di fronte a sé, fece dietrofront, si guardò attorno e andò a sbattere contro un albero scheletrito. Mandò un grido e un pugno coperto di fuliggine spuntò dalla nebbia. Era in trappola.
Dove aveva lasciato il suo maledetto vestito della domenica? gli chiedevano le voci in tono canzonatorio. Non sapeva se premersi la mano contro la mascella sanguinante o coprirsi le vergogne. Ma le voci continuavano: aveva forse dimenticato gli occhiali? Provasse ancora a fargli la lezione sulla vita contadina, e via dicendo, con il dito nel colletto inamidato e quel fare presuntuoso da donnicciola istruita com’era, perlopiú, nelle sue abitudini. Lo umiliarono e lo torturarono per oltre due ore. Poi lo legarono a un ceppo con una corda di canapa, raccolsero della legna mezzo carbonizzata e gliela passarono sul corpo, gli versarono addosso l’olio per la lanterna e gridando di soddisfazione gli diedero fuoco. Sapevano, gli assassini, che non era stato lui ad appiccare l’incendio, ma urlarono tanto piú forte finché l’ultimo barlume di coscienza fu coperto dalle loro grida.
Il caso volle che proprio in quel momento Elias stesse cercando l’amico scomparso nei dintorni della Roccia di San Pietro. Nel nascondiglio a lui ben noto non trovò altro che il gatto rantolante di Elsbeth e un fiammifero. Stava per riprendere la via di casa quando un grido atroce gli trafisse le orecchie: poteva sembrare una risata spaventosa, ma Elias intuí che stavano ammazzando un uomo. Udí le voci degli assassini, e quello che li aizzava era Seff Alder. Seff Alder, suo padre. Il padre che amava e che lo amava.
Si fermò, l’adulto-bambino. Con le dita rattrappite e le labbra cianotiche. E dalle labbra gli usciva come una cantilena tenerissima: «Mio padre, mio padre, mio padre».