Improvvisamente, la natura decise di rivestire i prati e i pascoli dei colori piú splendidi. Le cicatrici lasciate dall’incendio si rimarginarono e il frassino, il suo albero prediletto, tornò a crescere rigoglioso. Improvvisamente dalle case di nuova costruzione svettarono orgogliosi comignoli nella Valle del Reno, e l’abbagliante riflesso delle facciate rivestite d’abete fu visto lampeggiare sino nell’Appenzell. Chi era caduto in miseria dopo la catastrofe si lamentava sempre piú di rado, e già al primo sciogliersi delle nevi la vedova inconsolabile di Eduard Lamparter frequentava assiduamente la casa di Kunrich Alder. Appena un anno piú tardi erano già marito e moglie, e appena un anno piú tardi la tomba di Eduard giaceva in uno stato di scandaloso abbandono. Dimenticati i pianti e i lamenti, la primavera infondeva coraggio, alla sagra si rideva dei malanni passati e nelle notti di maltempo si solevano raccontare ai propri familiari le scene atroci dell’incendio, di quel bambino o di quel manzo arso vivo (fino a imitare i lamenti del bambino o, con un capolavoro di virtuosismo, i muggiti strazianti della bestia in agonia). Se però i discorsi celebravano la festa dell’oblio, la catastrofe aveva scavato in realtà una traccia profonda che riaffiorava, ancora anni dopo, nell’oscura evidenza degli incubi notturni.

I contadini di Eschberg avevano capito che il Primo Incendio era un segno di Dio: di qui una cocciutaggine raddoppiata, e un’ostilità ormai aperta verso Dio e la Santa Chiesa. Specie da parte di Nulf Alder, che rifiutò di far benedire la fattoria rimessa a nuovo e al posto del vecchio altarino costruí un’alcova, prendendo l’abitudine di dormirci lui.

Johannes Elias Alder si era fatto uomo. A quindici anni era già adulto, a diciannove aveva l’aspetto di un quarantenne maturo. Era cresciuto di statura, aveva due mani ruvide e robuste e quando, nella stagione del fieno, il sole gli bruciava la faccia, le lentiggini spuntavano una dopo l’altra. Per lo sforzo di portare le balle di fieno la sua colonna vertebrale si incurvò, la pelle si era fatta ruvida e dura.

Elias infranse il giuramento contro il padre, e già al primo taglio del fieno era lí ad aiutarlo, a rastrellare i prati dalle stoppie, a mungere le bestie, a guidare i vitelli appena nati verso il mastello della mungitura, mentre in autunno era lui da solo a portar via le foglie secche dai pendii. Ma il padre un tempo cosí amato, l’assassino del Perlopiú, cercava adesso di evitarlo. E da quel giorno anche Seff cercò a sua volta di evitare Elias. In sostanza la rottura con la famiglia era completa: se il fratello Fritz gli era sempre rimasto estraneo, anche della madre, a dire il vero, non si curava particolarmente, tanto che se un giorno l’avessero trovata fredda nel suo letto non avrebbe versato nemmeno una lacrima. Nutriva invece una forte simpatia per il fratellino idiota: si intratteneva con lui tutte le volte che poteva, lo portava nella sua stanza, gli insegnava a camminare, gli insegnava una lingua di versi e di suoni che era la loro lingua segreta. E quando Elias scoprí nel disgraziato una spiccata inclinazione per la musica la sua simpatia crebbe fino a diventare un amore viscerale, indistruttibile.

Il volto di Elias Alder presentava i tratti nervosi della prima giovinezza. Malgrado le labbra belle e tornite non c’era serenità nell’espressione: la piega della bocca e il naso largo, tranquillo, davano al suo viso una strana aria insoddisfatta. Nonostante il cranio ben conformato – cosa davvero rara nel villaggio – le pupille squillanti guastavano la sua fisionomia. E a ogni modo, in confronto alle figure spettrali della gente di Eschberg, Elias poteva essere definito un bell’uomo (tanto che per comare Lamparter un tipo di cosí bella presenza sembrava proprio uscito dallo stesso stampino del curato Benzer buon’anima).

A partire dai sedici anni prese l’abitudine di lasciar cadere sulle spalle i capelli esili e scoloriti. Sviluppò una certa simpatia per gli abiti neri da passeggio, e si sarebbe vestito sempre di nero se non avesse rischiato di passare per bacchettone. Imparò a camminare con una studiata andatura a piccoli passi, che gli costò oltre un anno di esercizio. Quello strano modo di camminare era l’unico segno esterno di dissenso e di protesta contro un mondo rustico e inelegante a cui sentiva di non appartenere. E, ne fosse consapevole o meno, quell’ andatura era lo specchio fedele del suo pensiero musicale: le sue improvvisazioni notturne all’organo di Eschberg erano infatti costruzioni agili, lievi, dove le idee si susseguivano rapide e incalzanti, in forma variata o rovesciata. Se è proprio delle nature geniali realizzare cose di cui non hanno mai visto il modello, dobbiamo dire a questo punto che Elias non conosceva affatto la musica polifonica, né si vede come avrebbe potuto apprenderla dagli accordi elementari e grossolani su cui Oskar Alder costruiva le sue modeste improvvisazioni.

L’aspetto nervoso di Elias e la sua complessione in fondo sana potrebbero far pensare che prima o poi si ribellerà al suo mondo, o che almeno egli porti in sé i germi oscuri della ribellione. Ma se prescindiamo dall’andatura curiosa e dalla sua morte atroce non troviamo nella vita di Elias alcun gesto di vera rivolta. Accettò con rassegnazione il suo destino, adattandosi alle esigenze del lavoro nei campi, incurvandosi come tutti e procurandosi gli immancabili calli alle mani (né quel lavoro gli dava soddisfazione, una stanchezza contenta o la speranza in un futuro migliore). Sgobbava nel podere di suo padre perché nessuno si accorgesse di lui, quasi sopravvivendo allo shock mai superato della sua infanzia.

E d’altra parte, che cosa avremmo potuto consigliare a Elias? Quando a un uomo si è lasciato intendere fin dall’inizio che egli possiede sí un talento geniale ma che non potrà mai realizzarlo perché un destino dissipatore ha voluto cosí, è presumibile che non sarebbe cambiato nulla neanche altrove, neanche in un ambiente musicale piú colto e favorevole al suo genio.

Dio è piú forte perché ama ogni ingiustizia sotto il sole.

Negli anni dopo la catastrofe la sua vocazione musicale cambiò aspetto. A partire dalla notte in cui aveva salvato la ragazzina dalle fiamme, Elias amò Elsbeth con una forza e una passione che avevano del sovrumano. Capí che doveva decidersi, sacrificare all’amore la sua mente e le sue forze, e magari l’intera vita: con l’ultima briciola di volontà che gli restava si decise per Elsbeth e quindi contro il suo genio musicale. E poiché il genio gli veniva da Dio la sua decisione era contro Dio.

Il nostro benevolo lettore, al quale ci lega ormai un sentimento di lontana confidenza, non pensi tuttavia che Elias avesse smesso di far musica. Ora anzi Elias suonava per Elsbeth, e mai il suo talento fu messo alla prova con piú energia e decisione. Due volte alla settimana si faceva chiudere a chiave nella chiesa per imparare da autodidatta i segreti dell’arte. Con esercizi ostinati si procurò una diteggiatura vertiginosa, e, quando finalmente le dita gli obbedirono, le mani potevano spazzare la tastiera su e giú nell’ebbrezza del prestissimo, per accordi di decima (parrà incredibile) e con millimetrica precisione. Quanto al pedale, era solito suonarlo con le sole punte dei piedi, ma con tale sicurezza da ottenere un legato perfetto. Quando il continuo andirivieni tra la tastiera e il mantice incominciò a stancarlo nominò Peter suo assistente di fiducia. Peter accettò la proposta di buon grado perché a quell’epoca era già innamorato di Elias Alder. Assistendo per la prima volta alle improvvisazioni straordinarie dell’amico ne provò quasi spavento e si dimenticò di azionare il mantice. Come allora, da bambino, quando si fermava sotto la finestra di Elias preso da una sorta di fredda fascinazione per la diversità dell’amico, cosí anche adesso non poteva reprimere lo stupore. Il sangue gli pulsava tumultuoso nelle mani strette a pugno, quando Elias gli regalò un sorriso e lo pregò di esprimere un giudizio sulla sua musica. Peter non aprí bocca. Avrebbe voluto gridare dalla felicità e stringersi dal desiderio al corpo dell’amico, ma un solo pensiero occupava la sua testa febbrile: doveva fare di Elias il suo prediletto, stargli vicino in ogni momento, vivere per lui. Come avrebbe potuto fare altrimenti?

Dobbiamo riferire a questo punto che in una sola notte di lavoro indefesso il nostro eroe riuscí a smontare lo strumento fino all’ultimo pezzo. I continui cambiamenti di clima, l’umido e l’asciutto, la fuliggine e il sego della candele avevano ridotto l’organo in uno stato cosí penoso che diversi tasti se ne stavano ormai abbassati da soli, i somieri non tenevano, e le canne emettevano ululati cosí terrificanti che sembrava di udire le trombe di Gerico al completo. Quando la situazione si fece insostenibile Elias staccò le pareti di legno, le cornici e le traverse, rimosse i singoli tasti, le squadrette mobili e i tiranti, le valvole e le controvalvole, estrasse ogni canna dalla cassa dell’aria e si mise a lustrare ogni pezzo, liberandolo dalla polvere dei secoli. La cantoria diventò come un’officina, in cui un fabbro, un conciapelli e un falegname si fossero dati convegno per lavorare insieme. Segnò con ordine ogni fase del lavoro senza trascurare il minimo dettaglio, e quando ebbe pulito e restaurato ogni pezzo passò quindi con infinita destrezza e orecchio infallibile ad accordare i registri. Prese due coni da accordatura da lui stesso preparati, modellò le canne e ritoccò le linguette con abili colpi di martello, mentre Peter teneva i tasti abbassati finché la sbavatura della nota corrispondente si riduceva e poi spariva del tutto. Per la prima Messa del mattino la chiesa disponeva ormai di un organo nuovo di zecca. Gli amici restarono sulla cantoria fino all’Angelus perché Elias doveva ancora rendere ermetiche le commessure del mantice e degli sportelli. Immerse il pennello nella farina e ne cosparse le commessure, e ovunque apparisse il minimo spiraglio si fermava, prendeva un pezzetto di pelle di montone e lo fissava con un velo di colla bollente sul punto consumato.

Nel calmo incanto del mezzogiorno i due amici rientrarono alle loro dimore allungando un po’ la strada. Elias, sporco e coperto di polvere, si ricordò del giuramento che aveva fatto a Dio la prima notte passata all’organo: non si sarebbe dato pace finché lo strumento non avesse ritrovato la sua anima. Ma ora poteva darsi pace, e nella sua stanzetta il fratello Philipp, in misteriosa sintonia, mandava ululati di giubilo. Elias gli ordinò con un fischio di tacere e l’idiota tacque.

Il risveglio di Oskar Alder fu atroce. Fin dai primi accordi lo prese un’angoscia mortale, al Kyrie gli si appannarono gli occhiali, al Gloria le dita bagnate di sudore gli scivolarono sulla tastiera, e al secondo Gloria – il curato Beuerlein si era già dimenticato del primo, – si sentí soffocare e cadde svenuto dallo sgabello. Due giovanotti – di quelli che passavano il tempo a sghignazzare – lo aiutarono a rialzarsi, mentre un Alder particolarmente premuroso andò in cerca di un fazzoletto da naso, vi sputò sopra e umettò il bernoccolo dai riflessi bluastri sulla fronte dell’organista. Da allora Elias non ebbe piú il permesso di accedere al mantice, e da allora Oskar Alder non ebbe piú scampo, perché il nuovo organo metteva in impietosa evidenza anche il minimo errore. Nulf Alder, che dopo la catastrofe dell’incendio non andava piú in chiesa, pronunciò nella locanda «Al cacciatore» un giudizio distruttivo: Oskar Alder era un volgare imbroglione privo di senso musicale. Non ne aveva mai dubitato, lui, sic erat et principius in nunc et semper! Non c’era piú nessuno che fosse disposto a consolare l’infelice, e l’umiliazione fu tale che finí per rifugiarsi nell’alcool.

Quando Elias suonava, lo faceva per Elsbeth. Pensava a una musica che sapesse catturare il respiro dei suoi capelli biondoscuri, il fremito della sua bocca, il timbro argentino della sua risata infantile o il frusciare del suo grembiule damascato. Le rubava a poco a poco ogni segreto, fosse il leggero zoppicare della gamba destra, l’arricciarsi del naso, un innocente brivido o un improvviso rossore che le imporporava la fronte. Ne spiava le parole e la cadenza e grazie alla sua formidabile vis imitativa arrivò presto a parlare come lei, con il suo inconfondibile timbro scuro. Non dobbiamo dimenticare che il nostro Elias si era innamorato di una bambina di sette anni. Certo – almeno in un primo tempo – senza complicazioni erotiche, sebbene i desideri della carne cominciassero proprio allora a maltrattarlo, tanto che Elias cercava di distrarsi nel lavoro, convinto che la stanchezza avrebbe assopito il desiderio. Quando però giunse il tempo, per la fanciulla, della prima mestruazione e il suo corsetto biancoazzurro incominciò delicatamente a sollevarsi, Elias ebbe un giorno l’ardire di avvicinarla e di accarezzarle i capelli. E non si lavò quella mano temeraria finché l’odore rustico delle ciocche di lei non fu scomparso del tutto.

Elsbeth era una fanciulla quieta, equilibrata e di buon carattere: cosa strana se si pensa alla stoffa ruvida del padre, un tipo volgare e malevolo verso i famigliari e il mondo intero. Il fatto è che Elsbeth assomigliava alla Nulfin, una donna capace di sopportare con infinita pazienza gli umori collerici del marito, di accettare senza un lamento le botte e gli insulti, di prendere comunque – e nonostante le peggiori umiliazioni – le difese del marito, perdonandogli tacitamente colpe di cui lui non avrebbe mai chiesto perdono. Era debole, la Nulfin, quando i bambini cercavano rifugio presso di lei li respingeva per paura delle sfuriate paterne. E in Elsbeth c’era molto di lei: come la Nulfin fantasticava in segreto di un vita piú vivibile, cosí anche Elsbeth accarezzava il suo sogno di un bel giovane straniero, che sarebbe venuto a baciarle le mani e a portarla via, lontano, fra le nebbie della Valle, dopo averle gettato un velo sul capo e riscaldandola con i suoi baci ardenti. In poche parole, la ragazzina sognava il suo sogno d’amore. E sebbene il principe azzurro fosse lí – giunto da tutt’altra lontananza – ella si ostinava a non vederlo.

Queste cose accadevano nella primavera dell’anno 1820. A quell’epoca Elsbeth era una graziosa signorina tredicenne, dal colorito singolarmente scuro che la faceva apparire abbronzata già nel mese di marzo. La sua corporatura minuta e il viso attraente – a cui il piccolo naso a patata conferiva uno charme particolare – potevano indurre a grossolani malintesi: si vedeva in lei la servetta piacente con cui amoreggiare senza impegno, ma alla quale nessuno avrebbe attribuito particolari doti di spirito. In realtà, fin da ragazzina Elsbeth dimostrò una certa assennatezza, sapeva riconoscere d’istinto le compagnie utili e quelle dannose, ed evitava con saggezza sia il padre che il fratello. Le rimase però un tratto ordinario nel linguaggio. Non era abituata ad ascoltare finezze, fino al giorno in cui Elias Alder entrò nella sua vita.

Era entrato nella sua vita salvandole la vita, ed è questa l’unica ragione per cui Nulf sopportava nella propria casa la presenza di quel fantasma dagli occhi gialli. Nella primavera del 1820 Elias ci andava quasi ogni giorno chiedendo dell’amico Peter, ma in realtà pensava a Elsbeth, né si può dire che quel signore alto e vestito di nero fosse antipatico alla fanciulla. Lo rispettava perché piú anziano, ne ammirava il fare educato e la distinzione del linguaggio, perché anche il suo linguaggio era, invero, musicale.

In quella stessa primavera accadde a Eschberg un fatto curioso. Come già in altre occasioni bastò uno spunto minimo per provocare fra gli abitanti un’ondata di isteria contagiosa, che avrebbe potuto trasformarli in santi o in assassini nel volgere di una notte. Lo spunto fu questa volta l’omelia di un predicatore vagante: uno di quei personaggi dalla vocazione (e dalla moralità) assai dubbia che percorrevano il paese in lungo e in largo presentandosi come gli araldi della nuova e vera Chiesa di Cristo. Con il risultato che l’altra Chiesa – quella ufficiale e costituita – li avversava duramente, proibendo loro di mettere piede nel tempio di Dio e a maggior ragione di predicarvi.

Il predicatore di piazza Corvinius Feldau di Feldberg – sicuramente un nome d’arte – era un uomo sulla trentina, brutto a vedersi, il volto assonnato e una capigliatura rossiccia, disordinata e stopposa. Vestito di una semplice pelle di capra – sotto cui le malelingue femminili dicevano di aver visto il suo sesso ciondolante –, giunse al villaggio la domenica delle Palme, e tenne sul sagrato della chiesa una predica dalle conseguenze fatali per i contadini di Eschberg, come risulterà da quanto segue.

– Rallegrati della compagna della tua giovinezza – attaccò il Rosso sbadigliando – essa è amabile come una cerva e dolce come un capriolo. Fa’ che il suo amore ti sazi sempre e godi ovunque del suo amore –. Prese quindi a commentare e illustrare le parole di Salomone con un realismo e una crudezza da togliere il fiato. Egli era – disse ora con voce piú sveglia – un apostolo dell’amore. Nulla contava piú dell’amore in questo mondo infame. Tutti, vecchi e giovani, dovevano abbandonarsi all’ebbrezza del piacere. La fine era vicina, un enorme esercito di Mori premeva già alle porte dell’Arlberg. Chi aveva una donna non doveva piú lasciarla andare. Anche i bambini dovevano accoppiarsi, e cosí pure gli anziani. Lo giurava lui, l’apostolo dell’amore: il matrimonio era abolito per sempre e il mondo era liberato dalle sue catene. Se una donna desiderava due uomini poteva prendersene anche tre, e se un uomo desiderava la donna di un altro, oppure il bue o la vacca, poteva prenderseli ugualmente.

Cosí dicendo il Rosso dava alla sua voce un’intonazione orgiastica e si contorceva nei gesti piú osceni, cercando di illustrare con lascivo sproloquio l’atto della copula nell’animale e nell’uomo. La cerchia che si era raccolta intorno a lui restò in silenzio. Solo un respiro pesante e affannoso giungeva da quelle narici dilatate. I seni delle donne accennavano a sollevarsi e a qualcuno si inarcò perfino la brachetta. Non si era mai udita una predica cosí eccitante.

Giunto al culmine della pantomima uscí quindi in affermazioni tanto licenziose che le donne scoppiarono piú volte in brevi risatine stridule. Solo chi si consacrava in eterno all’amore – proseguí con voce roca – sarebbe andato in paradiso. La sua fronte era rigata da grosse vene scure, sembrava che il predicatore dovesse crollare dallo sfinimento. – Non dovete riposare un solo istante!! – gridava con la gola infiammata. – Chi passa senza amore anche solo un’ora della sua vita la sconterà nel Purgatorio. Neppure il sonno è permesso, perché se dormite non amate. Guardatemi!! È da dieci giorni e dieci notti che non dormo!! – e con le parole «chi dorme, non ama!!» il predicatore di piazza Corvinius Feldau di Feldberg crollò finalmente svenuto.

La spettacolare predica del ciarlatano sortí su alcuni animi effetti decisamente riprovevoli. Il registro battesimale dell’anno 1820 riporta nel solo mese di dicembre ben dodici battesimi, mentre quello dei decessi riferisce di «tre donne, decedute senza sacramenti dopo aver commesso infanticidio».

È strano che proprio la comparsa di questo individuo volgare, predicatore di scostumatezze, fosse in grado di sconvolgere l’animo e la mente del nostro musicista. Se è vero che Elias non afferrò il senso immediato della predica – quello compreso da tutti – intuí benissimo la portata anarchica del discorso che il Rosso aveva concluso con il plateale svenimento. E a ogni modo Elias Alder non dormí né quella notte né la notte successiva, concentrando su Elsbeth tutti i suoi pensieri e le sue forze. Andò a zonzo per la montagna, e sotto la luna piena (era già quella di Pasqua) ringraziò Iddio per la sua vita, di cui ormai conosceva con certezza il senso definitivo. Si sdraiò piú volte sull’erba scura dei prati ancora invernali, allargando braccia e gambe e mormorando fra le lacrime: «Chi ama, non dorme. Chi ama, non dorme». E affondava le dita nell’erba come per aggrapparsi alla solida bellezza di questo mondo. No, non voleva proprio lasciarlo andare quel mondo solido e bello in cui viveva Elsbeth.

Avrebbe passato volentieri un’altra notte sulla montagna se non avesse saputo che Philipp lo aspettava a casa inconsolabile, ululando senza posa come un cane.

Il giovedí santo fecero per la prima volta, intorno a mezzogiorno, una passeggiata in compagnia. E in compagnia vuol dire: Elsbeth ed Elias piú il fratellino scemo e l’ombra di Peter, che li seguiva di nascosto fin dal primo giorno. Inizialmente li seguí con lo sguardo, vide che prendevano il sentiero della Emmer e quando li perse di vista non si trattenne e si mise per strada anche lui. Forse Elias se ne accorse dallo strano fruscio dei cespugli, o vide l’ombra di Peter in una radura, o ne udí il respiro a pochi passi. Sapeva in ogni caso che Peter li seguiva a distanza, e non disse nulla.

Si era lavato di tutto punto, aveva preso di nascosto una camicia inamidata di suo padre, si era dato sulle tempie due gocce di olio di rose – quello di sua madre, da tempo ormai intorbidato –, poi si era pulito le scarpe e sul bastone da passeggio aveva inciso una doppia «E» in caratteri barocchi. Andò a prenderla cosí, e avrebbe voluto darle il braccio per aiutarla piú avanti nei tratti ripidi e accidentati.

Seff, che stava recingendo un prato nella frazione lí accanto, scorse lo strano terzetto. Osservando il vestito nero di suo figlio gli occhi gli si velarono di tristezza, poi lasciò cadere il mazzapicchio e mosse le labbra, portandole brevemente a imbuto, come se volesse gridargli qualcosa. «Ragazzo mio, potrai mai dimenticare?», avrebbe voluto gridargli. Affondò allora le dita nella sottile barba bruna che gli copriva il mento e udí ancora una volta le grida disperate di Roman Lamparter bruciato vivo e ancora una volta lo assalí un lancinante mal di testa. Dal giorno dell’omicidio Seff portava, come per nascondersi, una lunga barba incolta.

Gli occhi di Elsbeth brillavano dalla curiosità. – Manca molto a questa pietra? – chiese in tono allegro e allentando il suo grembiule damascato.

– A volte mi sembra lontana e a volte vicinissima, – rispose Elias allungando il collo e sforzandosi di dare al suo passo manierato un’andatura danzante. Philipp, che gli trottava dietro, se ne accorse e cercò di imitare il fratello con gran divertimento di Elsbeth.

– Piccolo Philipp! – disse Elsbeth in tono scherzoso – diventerai un bravo ballerino. Quando alla festa del patrono verranno i violinisti e i tamburini balleremo insieme –.

E cosí dicendo prese il bambino, lo sollevò per stringerselo al petto e incominciò a cantare: – Ben venga maggio.

In quel momento Elias avrebbe voluto essere lui al posto di Philipp, e farsi portare e cullare a quel modo dall’amata.

– Altolà! – gridò all’improvviso, – mi viene in mente una melodia! – Elsbeth tacque e lo guardò. – Un momento di attenzione! Tu continua a cantare come prima, io canterò le voci superiori e inferiori. Ma non perdere il filo della canzone! – Elsbeth non capí quel che Elias aveva in mente e non voleva saperne di riprendere, imbarazzata che lui la ascoltasse cosí serio. Poi acconsentí alle sue preghiere e attaccò di nuovo: – Ben venga maggio.

Accadde allora qualcosa di inquietante, a cui le orecchie della ragazzina non volevano credere. Mentre cantava, Elias prese a cantare a sua volta con la voce di lei, e la ragazza ne provò un tale spavento che per poco Philipp non le cadde dalle braccia. Elias li afferrò entrambi con un gesto sicuro e cercò, arrossendo e sorridendo, di guardare Elsbeth negli occhi.

– Sono in molti a spaventarsi nell’udire il suono della propria voce, – disse con il suo timbro scuro. – Devi sapere che conosco quasi tutte le voci del paese. E ho scoperto – mormorò – che dal puro suono della voce si può leggere il carattere di una persona –. Elsbeth lo guardò terrorizzata, e non sapeva se provare piú spavento per l’uomo o per quelle strane pupille di un giallo acceso che non aveva mai visto cosí da vicino.

– Perché hai paura? Conosco la tua voce da tanto tempo: è bella e c’è dentro un cuore buono –. E per distrarre la ragazza le diede all’istante alcune prove virtuosistiche del suo talento imitativo. La voce stridula del carbonaio Michel gli riuscí in modo cosí fantastico che Elsbeth si mise a ridere. E quando Elias passò al piagnucolio nasale del curato Beuerlein non potè reprimere un grido di stupore.

– Ma come hai fatto a imparare? – gli chiese in tono piú rilassato.

– È tutta una questione di orecchio, – rispose con orgoglio. – Anche tu potresti parlare con la voce di altre donne, se solo lo volessi –. E dovette prometterle che l’avrebbe iniziata quanto prima ai misteri dell’imitazione.

Il bosco incominciò a diradarsi. Qua e là, sulle rive assolate, crescevano giovani canne. La Emmer rifletteva il verde cupo del bosco misto e l’acqua odorava di neve: la neve del Kugelberg, dov’erano le sue sorgenti. Durante l’ultimo anno il torrente aveva formato nuove anse, ed Elias ne osservava il letto con visibile tristezza: nel tratto di sponda su cui si era seduto l’estate scorsa non si sarebbe seduto mai piú, perché il torrente passava ormai da un’altra parte. Quei continui mutamenti nel letto del fiume gli davano un senso di caducità, che era poi il senso della sua stessa vita.

– Vedi quella grossa pietra piatta laggiú? – chiese a Elsbeth, che stava cercando un punto adatto per guadare il torrente.

Per rispondere a Elias si distrasse, mise male un piede e si trovò con una scarpa nell’acqua. Con una breve, rustica imprecazione si aggrappò ai giunchi della riva e si mise in salvo, mentre Elias, con passo sicuro, guadava la Emmer portandosi Philipp sulle spalle.

– Quello è il mio posto! – esclamò con voce trionfante. E a quelle parole, come sentisse la gioia segreta del fratello, Philipp mandò un lieve grido gutturale.

La pietra levigata dall’acqua se ne stava lí, immobile e maestosa come sempre. Assomigliava a un’orma gigantesca e pietrificata, come se Dio stesso in tempi remoti avesse posato un piede in questo mondo. Elias disse alla ragazza di prendere fiato, fece scendere il bambino dalle spalle, si sbottonò la lunga giacca e la allargò sulla pietra. Si sedettero a decorosa distanza, mentre Philipp gattonava allegro su e giú fra i due. Elias rimase assorto a contemplare il verde cupo del piccolo stagno ai suoi piedi, e per un momento sembrò a Eslbeth che i suoi occhi avessero preso un colore grigio-verde, ma era solo il riflesso dell’acqua.

– Che cos’ha questa pietra di tanto strano? – domandò lei, sempre con il fiato corto.

Egli la guardò, gli occhi scivolarono sulle sue labbra asciutte e poi giú sul corsetto legato a croce, sotto il quale si disegnava la linea delicata del seno. Elias si vergognò di quello sguardo impertinente, e avrebbe voluto abbassare gli occhi che però non gli obbedivano. Guardò le sue mani bianche, posate impazienti sul grembo, e poi le ginocchia nude, scoperte dal bordo rialzato della sottana, e accarezzando con lo sguardo la peluria delicata delle gambe si sentí quasi svenire. «Non indurci in tentazione, ma liberaci dal male!» gli echeggiava nella testa. E «non è lecito desiderare una donna con lo sguardo!» sentí predicare da lontano la voce del curato. Oh, ma lui Elsbeth l’avrebbe sposata, e sarebbe diventato il piú onesto dei mariti! E se Dio e i Santi gliene avessero date le forze non l’avrebbe desiderata mai, per tutta la vita. Le avrebbe mostrato che il vero amore non cerca la carne, ma si appaga dell’anima.

– Che cos’ha di speciale questa pietra? – tornò a domandargli Elsbeth, dandogli per la seconda volta un colpetto sulle spalle. Elias allora si riscosse e incominciò a raccontare. – Da questo luogo emana una forza speciale. È sempre stato cosí. Già da bambino questa pietra mi chiamava: io le ho obbedito, sono sceso dal letto e sono venuto qui. So con assoluta certezza che la pietra vive. E quando ero triste mi ha sempre consolato. Mi prenderai per pazzo, cara Elsbeth, – disse con voce esitante, – ma credo che si passi di qui per andare in Cielo. Che gli abitanti del nostro villaggio, quando muoiono, debbano scendere qui ad aspettare che il buon Dio gli apra le nuvole per accoglierli in paradiso.

Mentre parlava si fece intorno a loro uno strano silenzio. Philipp si era calmato e guardava fisso il fratello con i suoi occhi lattiginosi. Anche Elsbeth guardava assorta il volto gracile di Elias. Vedendola guardare cosí, provò di nuovo la stessa certezza che aveva provato quella volta sulla montagna, quando si era aggrappato dalla felicità all’erba umida dei prati. «Solo una persona innamorata può guardare cosí», fantasticava. Elsbeth lo guardava con occhi ammirati e stupiti: la stava affascinando, perché nessun uomo le aveva mai parlato in quel modo e con una voce tanto musicale. Elsbeth lo guardava con meraviglia, ed Elias pensò che in quel momento Elsbeth si fosse innamorata di lui. Solo chi ama davvero può sbagliarsi in modo cosí crudele.

Una folata di vento fresco percorse la valle della Emmer ed Elsbeth rabbrividí. Elias decise che era ora di tornare indietro, le cedette la sua giacca e lei vi scivolò dentro con un sorriso di gratitudine. Philipp si accorse che la giacca era troppo lunga per lei, ne sollevò lo strascico con mani goffe e andò dietro tutto fiero alla sua principessa.

– Che ne pensi, Elias, ci saranno davvero i demoni e i coboldi in questa zona? – E si affrettò a ricordare una storia, raccontata dal maestro di scuola, secondo cui a mezzanotte la streghe si davano convegno per il sabba sulla Roccia di San Pietro. Il maestro aveva detto che una volta abitava a Eschberg una donna malvagia, e che per poco non l’avevano bruciata viva.

– Sono andato spesso alla Roccia di San Pietro, anche di notte – disse Elias in tono tranquillo – ma una strega non l’ho mai incontrata. Saranno i richiami e i versi degli animali selvatici a spaventare la gente. O forse – aggiunse pensoso – è la coscienza delle cattive azioni commesse durante il giorno che assilla e tormenta i viandanti notturni –. Nel pronunciare queste parole aveva davanti agli occhi la faccia di Seff, ma Elsbeth non poteva capire e disse con voce rinfrancata che Dio non permette un male maggiore di quello che meritiamo, o che siamo in grado di sopportare. Certo che i demoni esistevano, ne era sicura, ma la Santa Vergine Maria aveva il potere di scacciarli. Glielo aveva detto sua madre e non poteva dubitarne.

Continuarono a parlare soppesando il pro e il contro delle dicerie sui demoni e i coboldi, e non si accorsero che un demone in carne e ossa li seguiva: Peter con i suoi passi vellutati. Non riusciva a capire quello che dicevano, ma il suo volto miserevole mostrava segni di afflizione. Possibile che sua sorella si fosse innamorata del Piscio-di-Vacca? Tornò a squadrare la figura agile di Elias, ad accarezzare con lo sguardo i capelli che gli cadevano sulle spalle, ne spiò cupido i lombi e decise che il giorno di Pasqua si sarebbe portato a casa il Lukas Lamparter. La cosa non era difficile, si trattava solo di combinarla per il meglio.

I due, ormai amici, discussero ancora per un pezzo prima di rientrare nelle loro case sul far della sera. E se Elias era stupito della saggezza di Elsbeth, questa lo ricambiava con un sentimento di genuina meraviglia. Nell’ultimo tratto di strada intonò una canzone per la Settimana Santa. Questa volta Elsbeth si uní senza timore, estasiata dalle infinite variazioni e fioriture che Elias intrecciava alla voce del canto. Quando giunsero alla staccionata del giardino egli le rivelò che voleva diventare l’organista di Eschberg: in futuro, se il lavoro nei campi glielo avesse permesso, e se il maestro Oskar Alder fosse stato disposto a insegnargli a suonare lo strumento. Non sapeva che appena due giorni dopo un caso fortunato gli avrebbe offerto la grande occasione di mostrare ai compaesani la sua arte.

Nel cuore della notte Elias si svegliò. Aveva sognato che Elsbeth gli era apparsa, premendosi con le mani i piccoli seni nudi. La mano, che per abitudine teneva dormendo sul sesso, era bagnata. Elias prese un fiammifero e accese la candela: vide con stupore che il lenzuolo era macchiato. La cosa era inspiegabile. Spense la candela e si addormentò con il cuore tranquillo e una grande sensazione di pace.

Dobbiamo ora raccontare che cosa accadde nella notte del Sabato Santo e la mattina di Pasqua. Ci accingiamo insomma ad aprire quello che è forse il capitolo piú felice nella vita del nostro eroe.

Come tutto il mondo cristiano, anche il villaggio di Eschberg era solito celebrare a mezzanotte il miracolo della Resurrezione. Secondo un’antica usanza il curato e i chierichetti entravano nella navata ancora buia, accendevano il grande cero pasquale e passavano poi con studiata lentezza ai ceri piú piccoli, fino a illuminare la navata intera. Chi ricorda il vecchio curato Elias Benzer non avrà difficoltà a immaginare che l’accensione dei ceri rappresentasse per lui la fase culminante dell’intera festa. La sua passione per questa cerimonia era anzi addirittura pericolosa, e le candele finivano regolarmente per bruciacchiare i capelli a qualche ragazzetta assopita o a qualche beghina. Il curato Beuerlein affrontava invece il rito con piglio sbrigativo, e già al secondo lumen Christi sarebbe passato senz’altro alla predica se non glielo avesse impedito il carbonaio Michel, nominato nel frattempo sacrestano del paese. Sappiamo che il curato non era piú in grado di iniziare la Messa e di portarla fino in fondo senza danni. Come non bastasse, il carbonaio-sacrestano si divertiva ora a confondergli le idee infilando nel messale ogni sorta di biglietti con versi e poesiole: di ispirazione sacra, certo, ma del tutto estranei alla liturgia del giorno. Bloccata comunque la predica sul nascere, il carbonaio intonò con voce metallica il Gloria in excelsis Deo. E a questo punto avrebbe dovuto attaccare l’organo con il grande corale della Resurrezione: ma l’organo taceva. Elias, seduto dalla parte delle Epistole, ebbe un fremito. Quando infatti Oskar Alder preludiava sull’organo con le sue dita pesanti, Elias si divertiva a comporre mentalmente un suo preludio alternativo e a immaginare l’effetto che avrebbe avuto sulla platea stupefatta. Era il solo modo per sopportare lo strazio, ma ora l’organo taceva e la tensione dell’attesa si toccava con mano.

Elias intanto preludiava alla sua maniera liberamente fantastica. Immaginò un corale grandioso, che raffigurasse con accordi addensati nel registro grave il lutto delle Tre Marie al sepolcro vuoto. Poi attaccava il basso con una linea dal ritmo di ciaccona, che saliva per intervalli di seconda descrivendo il brusco rotolare della pietra. La terza parte avrebbe annunciato con scrosci di note giubilanti e accordi di fanfara la certezza luminosa della resurrezione. Nel tripudio della vittoria si inseriva infine la melodia del corale, destinato a svolgersi in un torrente di armonie audacissime. Proprio l’audacia armonica, ai limiti dell’incredibile, doveva convincere il credente ancora dubbioso che il prodigio era accaduto: Cristo era risorto dai morti. Che musica geniale!

Ma i contadini non percepirono nulla di tutto questo. Qualcuno incominciò a tossicchiare dall’impazienza, a gettare occhiate storte verso la cantoria. Alla fine Michel prese cuore e intonò il corale di Pasqua: la Messa fu celebrata a cappella e a nulla valsero gli incitamenti di Peter, che continuava a stuzzicare Elias sussurrandogli di salire lui sulla cantoria. Al solo pensiero Elias si sentiva ottenebrare la vista. Possibile che fosse venuta la sua ora? No, non era possibile.

Prima ancora dell’Alleluia pasquale una comare Lamparter era già sgusciata dalla chiesa per infilarsi di soppiatto nel cortile di Oskar Alder. Sbirciò nella stanzetta illuminata da una luce fioca e lo vide: grande e grosso com’era, giaceva bocconi sul pavimento con un filo di sangue che gli usciva dal naso a formare una pozza nerastra. Intorno a lui sei bottiglie di acquavite. Oskar Alder si era ubriacato fino a perdere i sensi.

Abbiamo descritto il maestro come una persona invidiosa e al tempo stesso vanitosa, ingenuamente convinta della propria bravura. Su un punto, però, dobbiamo tributare rispetto a quest’uomo: la sua anima era profondamente musicale. Che l’organo rimesso a nuovo potesse non solo tradire la sua arte mediocre, ma anche ferire le orecchie dei parrocchiani, compresi i piú sordi, fu per lui un’esperienza atroce. Nelle sue dita maldestre pulsava un cuore sensibile. Oskar Alder ne morí, e ci sembra lecito e doveroso anticipare la sua sorte: quindici giorni dopo la Pasqua sua moglie lo trovò morto nel fienile. Si era impiccato alla catena di un vitello. Ai suoi piedi un biglietto in cui dichiarava, con poche disperate parole, la sua fede di organista al servizio di Dio. Ma lui e la sua arte avevano incontrato solo disprezzo, e perciò se ne andava al diavolo. Ad maiorem gloriam Dei.

La mattina di Pasqua l’intero villaggio sapeva per quale motivo l’organo quella notte era rimasto muto. Elias sentiva avvicinarsi la sua grande ora. Andò a sedersi con Peter nell’ultimo banco – quello per lui cosí familiare dei masticatori di tabacco – in modo da raggiungere poi con un balzo la scala della cantoria. Attese con trepidazione che il maestro apparisse, magari all’ultimo momento. Ma il maestro non comparve e il Kyrie partí malinconicamente a cappella come la sera prima. Era giunto per lui e Peter il momento di agire.

Grande fu la meraviglia dei fedeli quando al Gloria, improvvisamente, l’organo entrò in scena, illustrando con prodigiosi arabeschi la gioia cristiana della resurrezione. Elias eseguí una Toccata di grande respiro, che andava a concludersi con un fugato a cinque voci sul motivo del canto liturgico. Ma quando attaccò il corale vero e proprio la platea era troppo spaventata per collaborare. Fu allora lo stesso Elias a dare l’esempio intonando il Gloria con una gagliarda voce di basso. Trascorso l’attimo di panico, i piú ardimentosi lo seguirono, per poi interrompersi subito dopo, sconcertati dalla difficoltà di una musica che chiedeva alle loro orecchie un’attenzione estrema. E dai fedeli di Eschberg sarebbe stato pretendere troppo.

Elias era come in estasi. Compose un adagio cosí struggente che i contadini si sentirono le mani intiepidire dalla tenerezza. Traspose il corale Cristo era nei lacci della morte su un motivo di marcia, per concludere infine con una titanica improvvisazione, costruita sul ritmo del cuore di Elsbeth. La gente lasciò la chiesa con l’animo edificato: la metamorfosi operata dalla musica in quegli spiriti tetragoni fu tale che nessuno, cosa strana, se ne andò prima della fine, né ci fu la solita penosa ressa all’acquasantiera per guadagnare l’uscita. Qualcuno, con un tratto inverosimile di cavalleresca eleganza, arrivò a cedere il passo al vicino, e fra i saluti si udirono perfino parole dall’accento francese.

Elsbeth aspettava davanti al portale, e sentendo arrivare l’organista dalla navata gli corse incontro lietamente. Si accorse, vedendolo, che il suo volto era madido di sudore.

– Sei proprio una canaglia! Non ho mai sentito una musica cosí bella! – gli gridò, scuotendo allegramente la treccia biondoscura. Elias si inginocchiò, immerse due dita nell’acquasantiera e si fece il segno della croce rivolto al Tabernacolo.

– L’ultimo pezzo l’ho suonato solo per te. Sapevi che i nostri cuori battono allo stesso ritmo? Sapevi che siamo fatti della stessa stoffa? – Elsbeth lo guardò ancora con smisurata meraviglia e non capí.

– Posso accompagnare la signorina alla casa del suo signor padre? – chiese Elias con voce precipitosa, e quasi spaventato dalle sue stesse parole. Le offrí il braccio, lei gli fece la riverenza tra un fruscio di vesti, e s’incamminarono impettiti verso la casa di Nulf Alder.

Peter osservava la scena di nascosto, dal buio della navata, pensando con sollievo alla prossima visita di Lukas Alder. Il quale Lukas venne davvero a trovarli, nel pomeriggio, ma Elsbeth non aveva occhi per lui: non faceva altro che parlare di Elias e della sua bravura diabolica, e di Lukas non si era ancora accorta. Non ancora.

Il concerto grandioso del nostro musicista sortí un effetto taumaturgico sul curato Beuerlein, che uscito dalla sacrestia ebbe un momento di improvvisa lucidità, guardò verso Oriente e si soffermò a meditare sul prodigio. La sua omelia pasquale doveva essere stata davvero straordinaria per produrre un tale silenzio fra i suoi irrequieti fedeli. E si domandava come fosse riuscito a mettere insieme un discorso cosí miracoloso.

Ma anche la Seffin, povera donna invecchiata prima del tempo, ne fu come trasformata. Si trovava accanto al muricciolo del camposanto quando avvistò la coppia a braccetto. Gli occhi le si inumidirono: «Ma è proprio il mio ragazzo? il mio ragazzo?» mormorò incredula. Poi si mise a piangere, e perse il senso del tempo. Solo quando Philipp andò a tamburellarle con le mani sul grembo la donna si riscosse. Prese il piccolo idiota per la mano e si affrettò verso casa. Quella sera Seff la sentí cantare nella stalla le canzoni della sua giovinezza.

C’era però qualcuno che non poteva rallegrarsi, e anzi piombò nella piú cupa malinconia, e la decisione di morire gli maturò dentro come una mela rossa pronta a cadere dal ramo. Era il maestro del villaggio Oskar Alder, di cui abbiamo già anticipato l’amara sorte. Sedeva irrequieto accanto alla stufa, fumava tabacco a dismisura e continuava a ripetersi, per puro tormento, le parole della comare Lamparter, che dopo la prodigiosa apparizione del nuovo organista era arrivata anche da lui. Quel racconto celebrava il miracolo pasquale in toni di puro giubilo. Finalmente Eschberg aveva dato i natali a un grande organista. Un giorno sarebbero venuti da lontano, avrebbero staccato una scheggia di legno dalla finestra di casa Alder e avrebbero detto: «Guardate! Ho un pezzetto di legno della casa paterna del grande Elias Alder!» Cosí andava raccontando la comare, e non avrebbe finito di esaltare il nuovo eroe se la moglie dell’Oskar non le avesse mostrato furibonda la porta.

Ci sarebbero molte altre cose da raccontare di quel periodo, che fu per Elias Alder il tempo della felicità piena. La stima crescente di cui godeva nel paese, e che finí per procurargli, oltre all’ufficio di organista, anche quello di maestro elementare. I suoi spettacolari concerti domenicali. L’amicizia con Elsbeth, che prese ad amare con passione crescente, giorno dopo giorno, e senza mai dichiararsi.

Ma l’invidia è dura a morire, e non passò molto tempo che si udirono le prime voci discordi, le prime riserve sull’arte sopraffina dell’organista. Suonava troppo a lungo e, quel che piú conta, troppo forte, e poi la sua musica era inutilmente complicata, si malignava nella locanda «Al cacciatore». E il mugugno raggiunse il culmine quando, la domenica dei Morti, Elias smise bruscamente di suonare per comunicare cosí l’idea della morte improvvisa. I contadini si sentirono correre un brivido per la schiena perché il senso della trovata era chiaro. Ma a Eschberg non si usava spaventare a quel modo la gente devota, brontolò qualcuno. Sic erat et principius in nunc et semper!

Elias era come in estasi. Era sopraffatto dalla felicità e al mattino, svegliandosi nel letto, lacrime di felicità gli scorrevano dagli occhi appiccicati dal sonno. Amava le primavere, difendeva i mesi invernali, e l’autunno non aveva piú per lui alcuna traccia di morte. Era certo di aver trovato la persona che gli era destinata da sempre, tanto che un giorno disse a Peter: – Chissà cosa vanno cercando gli uomini! passano da un’amante all’altra e non sanno che Dio gli ha assegnato dall’eternità una persona, una sola: quella il cui cuore batte all’unisono con il loro. Non hanno la fede e la pazienza di aspettare che Dio stesso gli mostri il tempo e l’ora!