Per i bambini di Eschberg Elias fu un maestro benevolo. E anche loro presero a trattarlo quasi con delicatezza, pur non riuscendo a superare del tutto il timore dei suoi occhi gialli. Di rado un bambino osava guardarlo negli occhi. Tutti i giorni Elias cantava con loro, spiegava sull’organo le proprie figure musicali, commentava la Sacra Scrittura come fosse una fiaba e instillava loro la ferma convinzione che non solo l’uomo, ma anche i fiori e le pietre hanno un’anima. Se i bambini davano segni di stanchezza provvedeva subito a svegliarli imitando le voci dei compaesani e chiedendogli poi di indovinarle. Se qualcuno non era in grado di pagare la quota settimanale perché a casa facevano la fame, non solo non lo picchiava ma gli dava di nascosto delle uova, del pane o del formaggio; e se qualcuno d’inverno dimenticava la sua parte di legna per la stufa della scuola non lo rimproverava, accorgendosi magari che era costretto a venire a lezione senza calze. Era un maestro attento, sempre alla ricerca di un possibile talento musicale. Scoprí delle voci che sembravano promettere, ma un vero musicista non lo trovò. Ci sarebbe stato Philipp, che era sempre presente. Ma Philipp era un povero idiota, e il suo talento destinato a svigorirsi.

Il suo ostinato corteggiamento di Elsbeth, ormai in età da marito, lo consumava intanto come una malattia insidiosa. I sintomi furono, dapprima, i piú banali: se una porta si apriva all’improvviso, reagiva con un sussulto, se vedeva una donna avvicinarsi di lontano il suo cuore si metteva a correre all’impazzata, se udiva di notte una risata femminile alla fontana del paese credeva sempre di sentire la voce e la risata di Elsbeth. La musica, che gli era sempre stata facile, cominciò a diventare un peso, e dovette presto riconoscere che non gli dava piú consolazione alcuna. Nei primi tempi del suo incarico di organista si esercitava ogni giorno, e accudiva lo strumento con estrema cura in modo che i registri fossero accordati alla perfezione; ora invece lo trascurava, sacrificandolo alla scuola e al lavoro nei campi. Con l’avvicinarsi della Settimana Santa il suo zelo musicale sembrava rivivere. La Passione di Cristo era sempre stata per lui un motivo di ispirazione speciale, forse anzi potremmo dire che era stato proprio il dramma della Passione a spingerlo su quella strada. E lo stesso avveniva nelle giornate nebbiose intorno alla festa di Ognissanti, quando cercava di trasporre in musica l’atmosfera novembrina e il suo corteggio di incenso e di abiti neri. Era un figlio del suo tempo, e il tema della morte esercitava su di lui un fascino irresistibile.

Negli anni della sua attesa silenziosa le convinzioni teologiche di Elias subirono una graduale metamorfosi. Se fino ad allora era stato un credente sobrio ma di forti convinzioni, ora i dubbi cominciarono a tormentarlo. Perché Dio non voleva ascoltare le sue preghiere quotidiane? La Sua volontà era davvero di vederlo soffrire? Voleva davvero portarlo alla rovina? Non gli aveva indicato in modo mirabile la persona a cui era predestinato? Dio si era forse allontanato da lui?

In quel periodo Elias concepí un’intensa devozione per la Vergine. Prese a collezionare immagini mariane, rosari e statuine. Fece tutto ciò con una mania collezionistica che rasentava il fanatismo, esortando addirittura gli scolari a consegnargli gli oggetti di devozione trascurati a casa loro. Oggetti che poi custodiva nella sua stanza come il piú prezioso dei tesori. Le pareti si coprirono di immagini, alla testiera e ai piedi del letto erano appesi i rosari come pannocchie ad asciugare e dal tavolo debordavano figurine di legno e di cera. Madonne dipinte e non dipinte, con o senza testa, addolorate o trionfanti: Madonne dappertutto.

Quando entrava in chiesa non si genufletteva piú davanti al Santissimo ma si dirigeva senz’altro verso l’altare della Vergine, e qui, se non c’era nessuno, cadeva in ginocchio, si chinava sull’orlo ricamato dei paramenti di lino e lo baciava con intenso fervore. Andò avanti cosí per lungo tempo, e il mazzo di fiori sempre freschi che la Nulfin metteva ogni settimana sull’altare era un rinnovato motivo di speranza: non sapeva infatti il vero significato di quei fiori, ma sapeva intanto che era la Nulfin a metterlo. Cercava in tutto un nesso con Elsbeth.

Fu questo stato d’animo preoccupante a convincere Peter che era il momento di agire. Lui solo sapeva quanto Elias amasse la sorella.

All’epoca in cui si svolgono i fatti che raccontiamo i due amici erano ormai giunti al ventunesimo anno d’età. La vita di Peter era segnata come quella di Elias, e anche per lui sarebbe stato ben difficile sottrarsi alla noia eterna della vita contadina. L’anno prima, in occasione del ventesimo compleanno di Peter, Nulf era andato con il figlio da un avvocato di Feldberg per lasciargli in eredità l’intero podere, con il bosco e i pascoli annessi. A Eschberg ci si meravigliò non poco di quel gesto, dal momento che i figli ereditavano in genere solo alla morte del padre. E anche Nulf dovette accorgersi di lí a poco che la sua fiducia in Peter era mal riposta: appena due settimane dopo l’entrata in vigore del contratto, Peter relegò i genitori nella stanzetta dei bambini, proibendo loro di mettere piede nel soggiorno senza il suo esplicito permesso. Dopo quell’umiliazione Nulf tornò a farsi vedere in chiesa, tra lo scherno crescente dei compaesani.

Quali fossero le vere inclinazioni di Peter si poteva capire dal suo modo di trattare le bestie. Con il pretesto di fare economia lasciò diversi buoi senz’acqua, per vedere quanto resistevano. A un vitello tagliò la coda solo perché si era impuntato con troppa decisione, e a una scrofa che aveva figliato da poco arrivò a cavare gli occhi perché aveva morso due porcellini uccidendoli. Quando le crudeltà troppo esplicite cominciarono a stancarlo, si mise a escogitare nuovi metodi per torturare le sue bestie senza che perdessero la fiducia nel loro padrone. E se la cosa gli riusciva, restava poi con la bocca aperta e gli occhi lascivi a godersi le sofferenze della vittima di turno.

Come uomo, Peter era decisamente poco virile. Il mento glabro, piccolo di statura, la faccia butterata e la corporatura filiforme. Ricciuto, e con il segno inconfondibile del braccio rattrappito. Aveva occhi castani, molto lucenti, e che sarebbero stati belli senza quel bagliore sotterraneo da cui erano misteriosamente animati.

Ora, non è facile capire per quale ragione Elias frequentasse un individuo simile, che si divertiva a tormentare gli animali innocenti come se fossero colpevoli della sua tediosa esistenza. Certo è che conosceva la natura di Peter, e anzi piú volte lo aveva supplicato di smetterla e di lasciare in pace le bestie, soprattutto quando Elsbeth veniva da lui in lacrime a riferirgli le ultime atrocità del fratello. Ma la gratitudine e la fedeltà verso l’amico avevano la meglio: Elias non dimenticava che era stato Peter ad aspettarlo da bambino sotto la finestra e a prendere le sue parti. Questa fedeltà finí per farne il complice involontario delle sue male imprese. Lo sapeva bene. E non si oppose, perché gli sarebbe costato la piú importante amicizia della sua vita.

Accadde in una mite notte di novembre, al tempo della luna piena. Una di quelle notti in cui l’estate sembra ribellarsi all’autunno incipiente, e diffondere negli uomini una strana inquietudine, come se si cercassero fra loro. Il paese era sprofondato nel sonno, i boschi gettavano lunghe ombre sui prati inargentati dalla luna. La sera prima Peter aveva dato a Elias un misterioso appuntamento notturno vicino allo stagno ai piedi della Roccia di San Pietro. Lo avrebbe aspettato lí per mostrargli infine una cosa che aveva in mente da sempre. Gli avrebbe mostrato l’amore.

Stuzzicato e incuriosito da quelle parole Elias si recò senza esitare al punto convenuto. Lí si apriva una radura dal terreno acquitrinoso, uno di quei posti dove le bestie selvatiche vanno a voltolarsi nel fango. Quando Elias entrò nella radura sentí odore di tabacco e si meravigliò. Poi vide Peter che, appoggiato a un tronco d’albero, tirava accanitamente da una pipa. Peter lo salutò con una voce sovreccitata, in cui Elias riconobbe subito malvage intenzioni.

In quella stessa ora una donna sola si preparava per un’uscita notturna. Era la Burga Lamparter, di cui abbiamo già detto che amava gli uomini e la vita e che era diventata per questo la prostituta del villaggio. Nella catastrofe dell’incendio la sua casa era stata distrutta dalle fiamme, e da allora prestava servizio come serva dal cugino Walther nel podere Altig. Lí si innamorò perdutamente del fratello del cugino, uno spilungone dall’aria emaciata, sofferente fin dall’infanzia di mal caduco. La storia era nota in tutto il paese, e ognuno sapeva che lo spilungone aveva perso in un incidente nel bosco entrambi i testicoli. Ma la Burga lo amava lo stesso. Quando, la domenica, si faceva la sua pipata pomeridiana, la Burga annusava soddisfatta il fumo del tabacco, poi si sedeva in silenzio accanto alla finestra, contemplava il suo Gottfried ed era felice.

La Burga era una donna nel fiore dell’età, dal volto sodo e i capelli biondi raccolti in spesse trecce. Il carbonaio Michel le aveva recapitato una letterina sigillata – si prestava a qualunque lavoro, il Michel, purché gli rendesse due soldi – in cui si leggeva su bella carta che Gottfried voleva incontrarla a mezzanotte per farle una comunicazione importante. Burga non dubitò neppure un attimo della sua autenticità, le sembrava proprio la mano di Gottfried. Il piano di Peter era ben escogitato.

E mentre attraversava i campi immersi in una luce bluastra continuava a fermarsi, trepidante, per tirar fuori la letterina e coprirla di baci, fremendo di gioia all’odore inconfondibile del tabacco.

– Gottfried? – sussurrò impaziente nella radura illuminata dalla luna. – Gottfried sei qui? – Benché non avesse paura del buio – le sue uscite avvenivano quasi sempre di notte – ebbe un attimo di ansietà. Aspettava tendendo l’orecchio e non udiva alcun suono. – Gottfried! – riprese per farsi coraggio – sono io! la tua Burga! sono qui! vieni fuori!

Si sentí allora la voce di Gottfried uscire dal buio: – Vieni alla luce, Burga! voglio vederti!

Entrò nella radura con il cuore che le batteva forte. – È umido qui! – sorrise con un’ombra di inquietudine. – Non possiamo cercarci un posto migliore? – e intanto girava la testa da ogni parte, nel tentativo di individuare il punto esatto da cui proveniva la voce. – Vieni fuori, insomma! – esclamò ora con una punta di collera. – Lo so che sei nascosto dietro l’albero!

– Sei proprio una bella donna, – riprese la voce dal buio. – Lo sai che ti desidero fin dal giorno che sei entrata in casa nostra?

– Ma che dici? – replicò la Burga in tono deciso, mentre guadava il pantano che le arrivava alle caviglie.

– Rimani alla luce! – gridò Gottfried, in un falsetto cosí inconfondibile da farle svanire anche gli ultimi dubbi.

– E va bene, mi fermo qui, – disse con fare sbarazzino, e intrecciando le braccia sul grembo.

– Mi hai mai amato? – chiese la voce, malinconica. Burga taceva dalla sorpresa. E allora la voce ripetè in tono piú intenso: – Dimmi, mi hai mai amato?

A queste parole la donna innamorata, colpita nell’intimo, cominciò a svelare senza ritegno i suoi pensieri piú riposti.

– Quando vado a dormire e accarezzo il pagliericcio, vorrei che fosse la tua testa, Gottfried. Non deridermi, non sparlare di me con gli altri. Se lasci lí il tuo piatto, ci mangio dentro di nascosto. E qualche volta prendo perfino le tue pipe e ne inalo l’aroma. Poi mi dico: sarebbe meraviglioso se il buon Dio...

– Non credo a una parola di quel che dici! – gridò Gottfried incollerito. – Vai con gli altri uomini e giaci con loro, sei una peccatrice! come fai a dire che mi ami?

Burga taceva. Non sospettava ancora lo scherzo atroce, anche se avrebbe dovuto capirlo, dal momento che il vero Gottfried non le aveva mai parlato a quel modo. Quella loquacità improvvisa poteva essere una conseguenza – si diceva – dell’incantesimo lunare. A Eschberg c’era del resto un vecchio proverbio a cui ella credeva con fanciullesca ingenuità: «Con la luna piena – diceva il proverbio – due sono dall’angelo accoppiati, e due per la morte separati».

– Se vuoi davvero essere mia – proseguí la voce dal buio, – allora fatti vedere. Mostrami il tuo bel corpo nudo e io ti crederò.

Elias, che era nascosto con Peter dietro un cespuglio di rovi cominciò a questo punto a balbettare, tanto che Peter gli premette una mano sulla nuca perché non rovinasse il gioco.

– Farò quello che mi chiedi se mi prometti di sposarmi entro un anno, – rispose Burga con voce calma.

Ed Elias giurò con la voce di Gottfried, giurò sui Santi, sugli Apostoli e sulle anime di tutti i Lamparter defunti. Sembrava prigioniero di Peter, ne ripeteva le parole senza volerlo, come sotto ipnosi.

Burga incominciò a spogliarsi. «Il mio corpo – pensava – non è certo la cosa piú importante che ho da mostrargli», e l’idea di farsi vedere nuda non la preoccupava piú. Si tolse il fazzoletto che le copriva le spalle e lo posò con gesti delicati su un ramo secco piegato verso terra. Poi, per compiacere in tutto il suo Gottfried, si slacciò non meno delicatamente il corsetto. Una folata di aria tiepida accarezzò le cime degli alberi facendoli stormire con una calma cupa. Burga si tolse il corsetto e i due ragazzi videro i suoi seni grandi e ben proporzionati, morbidi come la seta. Poi si chinò a raccogliere le sottane, e in quel movimento i seni le si abbassarono, pendendo come due belle pere mature. Il chiarore lunare danzava sui suoi capelli raccolti in una treccia, facendoli brillare come fili d’argento. E la luce scivolò sulle sue spalle bianche e robuste, le accarezzò la pelle liscia della schiena, e là dove la spina dorsale finiva in una conca delicata comparve un’ombra fuggevole. La Burga prese per un lembo la prima gonna e se la sfilò con un gesto cosí calmo che sembrava sola. Elias vide i suoi seni gonfiarsi al contatto della gonna, e vide poi che i capezzoli si irrigidivano. Aveva la bocca asciutta e quasi non osava respirare. Poi la donna afferrò l’ultima sottana, se la sfilò sopra la testa e rimase nuda. Restò cosí immobile, con le gambe serrate, le braccia che le pendevano lungo il corpo. Si scorgevano, in forte risalto, le vene delle mani, e il suo grembo generoso si tendeva nel respiro, ora piú tenero, ora piú sodo.

Elias guardava fisso i larghi fianchi della donna e non riusciva a staccare gli occhi dal triangolo peloso del pube. Non sentiva quello che Peter gli sussurrava ardentemente nell’orecchio. Si riscosse solo quando l’amico lo afferrò per un braccio.

– Eppure continuo a non crederti! – gridò Gottfried dal suo nascondiglio di rovi. – Devi superare ancora due prove, e se le superi saremo marito e moglie entro un mese.

Burga taceva paziente.

– Una donna – disse Gottfried con lunghe pause, – deve essere sottomessa al marito in ogni cosa. Dimostrami che sai ubbidirmi!

– Farò quello che tu mi chiedi! – rispose Burga fiduciosa.

– Sciogli la tua treccia! – le chiese Gottfried, con una voce che dava in falsetto, e mentre Burga si divideva le chiome cadde ai suoi piedi qualcosa di luccicante. – Prendi il coltello e tagliati i capelli! – Burga non esitò neppure un attimo, cercò il coltello e si tagliò le chiome di netto. Tanto poteva il suo amore per Gottfried. – E ora – riprese la voce quasi tremando – sdraiati nel fango! devi voltolarti lí dentro, come fanno le cerve!

– Perché mi chiedi queste cose? – balbettò avvilita. – Non ho già fatto abbastanza?

– Fa’ quel che ti dico o non sarai mai mia! – gridò Gottfried.

La donna nuda si chinò allora sulle ginocchia, immerse le mani nel pantano, si cosparse il volto di fango, vi entrò carponi, vi si voltolò dentro e cominciò a singhiozzare forte da far pietà. Udí all’improvviso una risata furtiva, si fermò e si guardò attorno sgomenta in tutte le direzioni. La risata si fece cosí poderosa da riecheggiare sulle pareti di roccia. Burga si tirò fuori dal fango e gridò con voce disperata: – Canaglie! canaglie! – ma fece appena in tempo a intravedere due ombre che fuggivano verso valle. Le inseguí, ma dovette subito lasciar perdere perché si era ferita i piedi tra i rovi.

Rimase lí nuda e affranta, singhiozzando. Si era solo fidata del proverbio, che parlava della luna piena e di due amanti accoppiati dall’angelo.

– Eccola, la donna! – esclamò Peter trionfante, non appena fu sicuro di essere sfuggito all’inseguitrice. – La donna è stupida e ingenua. Debole e vile. E per amore – aggiunse teatralmente – è disposta a fare qualunque cosa! – Poi si accostò all’imitatore di voci, che tremava tutto, prossimo allo sfinimento. – Perché tremi? – gli chiese con malignità. – Quella donna meritava che la trattassimo cosí! È una puttana, l’hai vista tu stesso!

– Vergine Santa, che cosa ho fatto? – balbettò Elias, e incominciò a piangere senza ritegno. Peter gli prese la testa fra le mani, la tenne ferma e prese a baciare le sue labbra asciutte, mentre con le mani gli accarezzava teneramente le spalle e il petto e gli cercava il sesso a tastoni. – Sarebbe bello – mormorò Peter oscuramente – morire qui insieme su questo pezzo di terra –. Poi con un grido violento lo allontanò da sé e si diede alla fuga nel bosco buio.

Lo scherzo criminale ai danni di quella donna innocente scatenò in Elias amari sensi di colpa. Cercò rifugio e redenzione nella preghiera, sacrificando le sue poche ore di sonno alla recita del Rosario e di litanie infinite. Ma l’immagine di quella donna nuda al chiaro di luna, dei suoi seni torniti, del pube dai riflessi argentei non gli dava pace. Cercò di scacciarla in tutti i modi, ma la donna ricompariva ogni notte. Cercò allora di rifugiarsi all’organo, e qui dovette constatare con sgomento di essere diventato un altro. Scoprí che gli dava piacere violare le leggi dell’orecchio. Sapeva d’istinto che le dissonanze irrisolte hanno in sé qualcosa di peccaminoso e di proibito, e poiché la sua vita non era piú in armonia con se stessa la sua musica si arricchí di suoni dissonanti. Aveva scoperto il peccato e incominciava ad assaporarlo. La sua musica prima ingenua era entrata nella sfera del demonico.

E Burga? Sapeva che c’era una sola persona nel villaggio in grado di imitare le voci della gente di Eschberg. E sospettava inoltre che la seconda ombra fosse quella di Peter. Ma non ne parlò con nessuno e non li guardò mai negli occhi con aria di rimprovero. Al cugino disse mentendo che si era tagliata i capelli per rinforzarli, e riprese la sua vita di sempre, con la pazienza di sempre.

Quando, la domenica, lui tirava una boccata alla sua pipa, Burga annusava soddisfatta l’odore del tabacco, guardava il suo Gottfried ed era felice. Amava gli uomini e la vita. E quell’amore non poteva imbrattarglielo nessuno.