Era già la terza volta quella domenica che Seff Alder apriva la porta della stanza di Elias, dove il ragazzo era a letto febbricitante, con i capelli bagnati di sudore e gli occhi spalancati, fissi nel vuoto. Seff trattenne il respiro. L’aria della stanza era una nebbia giallognola, tra l’incenso e il fumo delle candele di sego che Elias accedendeva per lenire le sue pene d’amore. Seff si avvicinò al tavolino da notte, spostò da una parte le Madonne di gesso e le altre immaginette e vi posò quattro patate già pelate e anche un po’ di formaggio a cui lui stesso aveva tolto la crosta. Gli sembrava la sola cosa che potesse fare per consolare quel figliolo che pur sempre amava. Seff era uomo di poche parole.

Ma sacramento! oggi doveva pur riuscire a parlargli, pensò con uno scatto d’ira nel vederlo disteso sul letto in quello stato. Gli avrebbe chiesto perdono una buona volta del suo vecchio crimine contro lo scultore Roman Lamparter. Ora si sentiva il coraggio di farlo. Si sarebbe anche inginocchiato ai suoi piedi se il ragazzo glielo avesse chiesto. Doveva dirgli che non era un vero assassino. Era stato Nulf, suo fratello, ad aizzarlo, a dirgli di appiccare il fuoco al Lamparter. Ma doveva capire che quella notte, di fronte alla casa in fiamme, la sua famiglia si era trovata come sospesa sul nulla. Doveva cercare di capirlo. Non era un vero assassino... Seff si batté la fronte con la mano, e si premette tre dita sulle tempie. Se solo avesse potuto far tacere quella risata nella testa. Quella risata atroce.

– La nera ha figliato, – disse a fatica. Il suo gozzo si sollevò, le labbra gonfie si mossero appena. – Un vitellino. Ieri dopo il rosario.

Elias restò immobile, guardando il soffitto che s’inarcava verso il basso.

– Mi hanno parlato di te. Per via dell’organo. Sei davvero malato? – disse Seff dopo una lunga pausa. E il suo sguardo scivolò lungo il corpo asciutto, cadaverico. – Mangia, sono calde! – gli disse per incoraggiarlo.

Elias piegò la testa da una parte, non voleva mangiare. Seff notò che gli occhi immobili del ragazzo si erano improvvisamente inumiditi, e quando vide una lacrima scorrergli giú sulla guancia faticò a trattenere il pianto. Ma com’era possibile, soffrire cosí a causa di una donna? Non era giusto che un uomo si lasciasse andare a quel modo. Erano già quattro giorni che se ne stava chiuso nella stanza, in quella nicchia mefitica, senza mangiare, senza pensare alla scuola, e tutto per via di Elsbeth. – Sacramento, un uomo deve dimostrarsi forte! – bestemmiò improvvisamente ad alta voce, e non potendo sopportare di vederlo in quello stato mentí per consolarlo: – La Elsbeth ti augura di guarire presto, – gli disse, quasi con tenerezza. E vide che al nome di Elsbeth Elias chiudeva le palpebre, come se un medico gli avesse somministrato finalmente la giusta medicina.

– È vero? – chiese Elias con voce malcerta e roca, dopo quattro giorni di silenzio totale. – Mi ha augurato di guarire presto, – ripeté con il volto piú disteso. La medicina incominciava a fare effetto.

Seff sorrise e continuò nella pietosa menzogna. Elsbeth era triste per la sua assenza. Durante la funzione non aveva fatto altro che allungare la testa verso la cantoria, sedeva inquieta nel banco, sfogliando distratta il libro di preghiere. Sembrava delusa, e non solo lei del resto, perché senza la sua musica magnifica la chiesa era davvero fredda e desolata.

Mentre Seff parlava, Elias si alzò nel letto, riassettò il cuscino e se lo mise dietro la testa facendo frusciare il pagliericcio. Quando Seff ebbe finito di parlare vi fu di nuovo un lungo silenzio, ma Seff si accorse che negli occhi di Elias quella luce strana non c’era piú. Tra lunghi e penosi giri di parole Seff finí per raccontare quello che da anni gli pesava dolorosamente sulla coscienza: era come se si stesse confessando. Per la prima volta dopo anni padre e figlio tornavano a parlare fra loro, e quando Seff ebbe finito vi fu un nuovo silenzio di un buon quarto d’ora. E a Elias venne in mente allora un ricordo d’infanzia, di quando nelle notti inquiete era solito prendere con sé il berretto di suo padre per annusarne l’odore di stalla, di capelli, di sudore freddo, fino a sentirsi sollevato.

Si guardarono apertamente negli occhi, e Seff capí che Elias lo aveva perdonato. Il suo cuore esultò, e comprese che da quel momento le torturanti emicranie sarebbero finite. Da quella domenica la speranza, con la sua luce mite, era tornata a risplendere negli occhi di Seff. Il tempo dell’indifferenza era finito. Era venuto il tempo della pace.

Poiché il mal di testa smise davvero di perseguitarlo, Seff poté riprendere il lavoro di buona lena. E anche la risata – la risata atroce del Lamparter – gli sembrò impallidire nella memoria, come se il morto avesse finalmente trovato la pace anche lui. Fu allora che Seff cominciò a far progetti per rinnovare il podere, abbellirlo e ampliarlo: sarebbe andato in primavera al mercato di Hohenberg per comprarsi due buoi e una mucca, poi bisognava sistemare il fienile e ingrandire il porcile, cosí da poter aggiungere anche un paio di scrofe pregne. Sul prato di casa bisognava piantare dei meli e dei peri, che avrebbero dato in futuro una buona rendita. Il mosto si poteva venderlo a Martini, quello di Dornberg, e la gente di città, si sapeva, era disposta a pagare di piú...

Poche settimane piú tardi, era ormai la primavera del 1825, Seff Alder sparí. La Seffin non seppe dire altro se non che il marito era andato nel bosco a dilavare i giovani abeti. I contadini allargarono il raggio delle ricerche, percorsero il bosco in lungo e in largo, giú fino a Götzberg, ma Seff non fu ritrovato. Dopo quattro giorni di vane ricerche formarono otto gruppi di due uomini ciascuno con cui setacciare l’intero territorio dal Kugelberg all’imboccatura della valle. Quello stesso pomeriggio Philipp giocava con il suo gattino sul prato a est di casa Alder. Il gatto stava inseguendo con passi ovattati un orbettino, la cui pelle viscida luccicava in direzione della legnaia. Si infilò nel capanno attraverso un asse di legno marcito. Lí il mongoloide trovò il padre. Stramazzato al suolo, se ne stava appoggiato al ceppo per spaccare la legna. Dall’angolo destro della bocca gli usciva un filo di saliva, la spalla destra era insaccata e la mano destra cianotica e inerte. Ma negli occhi continuava a brillargli la luce mite della speranza. Philipp si mise a saltellare intorno al padre, strillando di gioia e ridendo come se volesse giocare con lui. Fritz, il primogenito, che stava per iniziare la battuta insieme a Lukas Alder, raccolse il corpo inanimato. A quarantotto anni di età lo aveva colpito un attacco di apoplessia, e Seff restò semiparalizzato per il resto dei suoi giorni. Fritz, di cui non ci è stata tramandata un’unica parola, anche in questo caso tacque.

Ogni speranza è senza senso. Nessuno si illuda di predisporre la realizzazione dei propri sogni. Solo chi si è reso conto che la speranza è assurda ha il diritto di continuare a sperare. E a quel punto, se è ancora capace di sognare, la vita ha conservato un barlume di senso.

Anche negli occhi di Elsbeth – aveva compiuto diciassette anni – brillava in quei giorni la luce di una calma speranza, di una radiosa felicità, sino allora sconosciuta. Aveva preso a lavorare all’uncinetto, scoprendosi in breve tempo un talento manuale non comune. Avrebbe lavorato anche gratis, regalando a destra e a manca le sue tovaglie e i suoi fazzoletti ricamati, se Peter non l’avesse convinta a portarli a Götzberg per guadagnare qualcosa. Ma il denaro non le interessava affatto, e i complimenti ammirati delle donne di Götzberg erano per lei la piú preziosa ricompensa.

In quel periodo la ragazza pensava molto all’amore, ne aveva il cuore pieno, ed Elias, abituato com’era a soppesare ogni parola di lei, ne trasse auspici incoraggianti. Malgrado l’amicizia intima che li univa si nascondevano però le emozioni piú forti: ed era questo un tratto tipico della famiglia Alder, o si potrebbe forse aggiungere un tratto tipico del Vorarlberg tout court. Mai un Alder avrebbe dichiarato a qualcuno il proprio amore. Tutto doveva accadere senza parole, o, caso estremo, per cenni e allusioni. Gente senza parole, muta fino alla morte.

Verrebbe voglia di prenderlo con mano adirata per una spalla, questo strano ragazzo dall’aria febbrile e vagabonda, questa nera figura dagli occhi gialli e dai lunghi capelli ormai radi, di prenderlo per la spalla e di gridargli in faccia: «Ma insomma parla! Dille quello che senti! È meglio conoscere la verità che nutrirsi di illusioni!» Ma non servirebbe a nulla. E se lo supplicassimo in nome del suo talento geniale si metterebbe a sorridere offeso, non sapendo affatto di essere un grande musicista. E se anche lo sapesse non servirebbe ugualmente, perché ci guarderebbe con occhi malevoli e ci chiederebbe in tono di rimprovero se l’amore non è forse piú importante del talento piú geniale. Saremmo costretti a tacere, disarmati. E poiché lo sappiamo non lo prenderemo con mano adirata per una spalla.

Ora accadde che Elias doveva scendere a Götzberg con il carro dei buoi a fare provvista di sale, olio da lampada, spezie e mercerie. Prima era Michel il carbonaio ad assolvere quell’incarico, ma si era poi scoperto che faceva regolarmente la cresta sulla spesa. Per questo il Michel a Götzberg non ci sarebbe andato piú. E accadde che quello stesso giorno anche Elsbeth dovesse scendervi per vendere gli ultimi lavori di ricamo. Era un freddo mattino di maggio. Su un pendio esposto a nord si vedeva un Lamparter intento a falciare il primo misero fieno: troppo presto, ma le provviste invernali erano finite e gli animali avevano fame.

Elias, nel suo vestito nero da passeggio, stava attaccando i buoi al timone quando la ragazza gli si avvicinò. Era cosí indicibilmente bella quel mattino che si sentí il cuore battere fino in punta alle dita. Elsbeth aveva i capelli biondoscuri scoperti, sulle labbra le splendeva il sole del mattino, gli occhi piccoli e assonnati. Il volto era stranamente pallido, malgrado la carnagione scura. Elias le chiese impacciato se per caso stava male, e se davvero si sentiva di scendere fino a valle. Parlava piano, quasi sussurrando, com’era abituato fin da bambino per via del suo orecchio ipersensibile soprattutto nelle prime ore della giornata. E quante volte, di prima mattina, aveva patito il tramestio e il vociare della Seffin impegnata nei lavori di casa.

– Sia lodato Gesú Cristo, – disse Elsbeth senza rispondere, posò la cesta a terra e si avvolse la coperta di lana piú stretta intorno alle spalle. – Posso salire?

Elias ricambiò il saluto, montarono entrambi sul sedile e partirono. I raggi cigolavano, la pelle dei buoi fumava. Elias ed Elsbeth scambiarono sí e no due parole. Poteva sembrare un effetto dell’ora mattutina, quando i primi pensieri del giorno faticano a raccogliersi e a venir fuori. Ma la ragione era un’altra.

A quell’epoca Elias aveva smesso di sperare in Elsbeth. Nel paese correva voce che fosse imminente un matrimonio, e non era stata la solita comare Lamparter a metterla in circolazione, ma Nulf Alder in persona. Il quale diceva di volere come genero il Lukas Alder: ragazzo robusto ma non grossolano, veniva dalla fattoria piú ricca di Eschberg. Frequentava la casa di Peter ormai da anni, ma sarebbe sbagliato affermare che tra Lukas ed Elsbeth fosse divampato il grande amore. Semplicemente, con il passare del tempo la ragazza si era per cosí dire adattata ai desideri del fratello: si era abituata all’idea di sposarsi un giorno con Lukas Alder, e quando la cosa accadde, lo amò.

Elias, chiuso e scontroso, sedeva in silenzio alla testa del carro.

Un uomo davvero curioso a guardarlo cosí, pensava Elsbeth durante il tragitto. Lo conosceva ormai da molti anni, ma, in fondo, di lui non sapeva nulla. Che avesse una ragazza segreta? No, era troppo ammodo per far le cose di nascosto. Era come un autentico studioso, a cui le faccende di tutti i giorni interessano ben poco. Cosa che invece non si poteva dire di Lukas Alder: aveva i piedi ben piantati per terra, il Lukas, anche se forse Elsbeth avrebbe preferito che dedicasse piú tempo a lei e meno alle bestie. Ma era proprio vero, come diceva sua madre, che Lukas era buono con le bestie. Non l’aveva mai visto picchiarne una o anche solo insultarla.

Elias taceva, seduto a cassetta.

Già l’amore – Elsbeth ripeteva dentro di sé la parola melodiosa – l’amore è una cosa triste. Allegra in apparenza, ma dentro, come una foresta buia. E rovesciò la testa all’indietro, perdendosi con lo sguardo tra le foglie verdissime del bosco misto che quasi le sfioravano il volto, per poi stringere le palpebre quando la luce del sole la investí abbagliandola in mezzo al fogliame. Tenne gli occhi chiusi e cercò di immaginare come sarebbe stato se Elias avesse chiesto in quel momento la sua mano. Forse non la amava affatto? È vero che lei non era un buon partito, perché a casa non c’era nulla da ereditare. Le avrebbe detto di sicuro delle belle parole, stando li dritto davanti a lei e guardandola negli occhi, e si sarebbe accorto che lei arrossiva. Per delicatezza sarebbe rimasto in silenzio e solo in un momento imprevedibile le avrebbe chiesto: «Signorina Elsbeth, volete diventare mia moglie?» Certo le sue mani avrebbero accompagnato le parole con dei bei gesti. Ma che stupidaggini andava pensando! Ed Elsbeth riaprí gli occhi.

Elias taceva, seduto a cassetta.

Era davvero troppo timido. Anche sua madre lo diceva. E un vero uomo deve attraversare con piglio e coraggio questa valle di lacrime che è la vita (cosí diceva suo padre). È vero che sulla famiglia del fratello pesava una specie di maledizione: tutti deboli di fisico e fragili di carattere (e poteva essere senz’altro un male ereditario, pensava il padre). Eppure, era convinta che sarebbe stato per lei un marito fedele. Saperlo non poteva, ma ne era convinta. Se soltanto non avesse avuto quel difetto inquietante negli occhi. E fosse stato piú deciso e piú forte nella vita, allora gli avrebbe fatto capire già da tempo (di nascosto, come sanno fare le donne) che lei lo voleva. Grazie al Cielo Lukas era diverso. Quello che aveva fatto con lui uscendo dalla chiesa le aveva messo una tale sete. Perché dopo tutto era solo una povera donna con i poveri sentimenti di una donna. Ma di certe cose, questo qui non capiva nulla. No, Elias Alder non era un uomo. Lei se ne rendeva conto, purtroppo.

Elias taceva, seduto a cassetta.

Sembrava, a Elsbeth, che lui preferisse vivere senza una donna. Avrebbe potuto fare la carriera ecclesiastica, diventare un prelato e alla fine magari vescovo. Se le cose fossero andate cosí, e se anche avesse dovuto fare a piedi la strada fino a Feldberg, avrebbe assistito alla sua ordinazione. Si sarebbe allora inginocchiata davanti a lui, gli avrebbe baciato l’anello e avrebbe detto piano fra sé e sé: «Questo è Elias Alder. Era mio amico».

Mentre ingannava il tempo con simili fantasie si sentí stranamente mancare il respiro. Per tre volte cercò l’aria con la bocca aperta, poi sbiancò in volto e si accasciò priva di sensi. Elias, riscuotendosi di colpo, riuscí appena ad afferrarla per i capelli, ma Elsbeth batté violentemente la testa contro lo spigolo del sedile. Elias lasciò andare le briglie e sollevò la ragazza perché non cadesse davanti alle ruote, si avvolse le sue braccia intorno al collo e strinse a sé con tutte le sue forze il corpo esanime. «Sta davvero male», avrebbe voluto dire, ma non gli uscí una parola dalle labbra.

Per la seconda e ultima volta in vita sua il cuore di Elsbeth era lí contro il suo cuore, e batteva all’unisono come fossero un cuore solo, come quel giorno lontano nel letto della Emmer quando lui aveva soltanto cinque anni. E ancora una volta Johannes Elias Alder mandò un grido spaventoso, quasi dovesse morire guardando la morte in faccia. E ogni sua esitazione fu smentita e tornò a nutrirsi di illusioni, gridando verso il cielo azzurro che non poteva piú vivere senza Elsbeth, oh, come aveva potuto dubitare anche solo un istante che Elsbeth fosse sua, che Dio l’avesse destinata a lui!

Le prese la testa fra le mani con infinita dolcezza, e quando si svegliò distrasse le sue domande confuse con un tranquillizzante: «Va tutto bene, Elsbeth. Tutto bene». Poi la adagiò sul ruvido sacco di crusca che aveva portato per i buoi, invertí la marcia e tornò verso casa, facendo attenzione a ogni passo di non finire in una buca, di non sbattere contro una pietra o la radice di un albero. Mentre guidava il carro si domandò se non era il caso di rompere il giuramento e di spiegare alla ragazza, quando fosse guarita – ma certo bisognava lasciar passare un po’ di tempo, ci voleva prudenza – che la amava e voleva sposarla. Ci pensò sul serio, ora il coraggio non gli mancava.

Circa dieci settimane piú tardi, una sera afosa di luglio in cui per le strade di Eschberg si sentiva ovunque l’odore del fieno asciutto, Peter si infilò nel cortile di Seff Alder e gettò un sassolino contro la finestra della stanza di Elias. Gridò che doveva parlargli di una cosa urgente. Elias lo fece salire immediatamente, e Peter gli confidò che Elsbeth era incinta di Lukas Alder, e desiderava assolutamente che Elias suonasse l’organo in chiesa alle loro nozze. Era venuto per dirglielo di persona, prima che Elias venisse a saperlo da qualcun altro.

La verità è che Peter voleva vedere gli occhi lucidi di Elias quando avrebbe appreso la notizia. E per qualche momento gli sembrò che il suo sguardo si spegnesse.

Ora sapeva con definitiva certezza che la sua speranza era senza senso. Capí che Dio lo aveva ingannato per tutta la vita. E decise allora di passare un’ultima notte nella chiesa di Eschberg. Ci andò per gridare dentro di sé vendetta contro Dio.