Il fatto che gli occhi di Elias ritrovassero il loro colore naturale fu solo il segno piú visibile della metamorfosi avvenuta in quella notte mistica. Perché il bambino ferito lasciò anche un altro segno, piú grave: Elias non doveva piú amare. Il suo cuore fu liberato di colpo da questa passione temibile. Elsbeth gli era diventata indifferente.

Se una porta si apriva all’improvviso, non trasaliva piú dall’emozione. Se vedeva una figura femminile avvicinarsi da lontano il suo cuore non si metteva piú a correre all’impazzata. Se di notte sentiva delle voci femminili ridere alla fontana non cercava piú di distinguere il riso di Elsbeth fra le altre. Era salvo.

Ma, come insegnano le biografie dei grandi, essere salvi significa riconoscere l’assurdità della vita. Gesú, una volta risorto, non provò piú alcun desiderio di rimanere in questo mondo, e se ne andò senza ritorno. I santi e gli eroi negativi, i grandi tiranni, una volta compiuta la propria missione cercano o trovano la morte prima del tempo. Non metteremo il nostro eroe tra questi grandi, ma il suo destino fu identico: voleva morire.

Voleva morire, paradossalmente, proprio quando la sua vita sembrava risorgere e un caso fortunato parve mutare all’improvviso il suo destino. Nell’estate del 1825 – l’anno della sua morte – il cantor Bruno Goller, organista del duomo di Feldberg, scopriva il talento geniale del nostro musicista. Come ciò accadde, e quale fu il corso preciso degli eventi, lo dirà il seguito della nostra storia.

Cerchiamo intanto di immaginare lo stato d’animo di Elias seduto all’organo per la messa nuziale di Elsbeth. Aveva infatti esaudito il suo profondo desiderio di accompagnare all’organo il rito. Secondo tradizione ci si sposava allora in nero, come avviene ancor oggi nel Vorarlberg, in omaggio all’idea che nemmeno il giorno delle nozze possa essere un giorno di gioia e di piacere, visto che proprio con il piacere il peccato è entrato nel mondo. E cosí il nero pareva allora la tonalità piú confacente ai matrimoni. Va da sé che quelli d’amore erano rarissimi, e nondimeno potremmo definire Elsbeth una sposa felice: graziosa e con il suo nasino a patata, la ragazza è inginocchiata, tutta compunta, nel banco della sposa, e getta di tanto in tanto un’occhiata furtiva dalla parte di Lukas, il cui volto sereno – un volto semplice e probo – rafforza in lei la convinzione che sia stato il buon Dio a dargli quel caro uomo per marito. «Ed è proprio vero, – pensa, – Lukas è buono con le bestie. Non l’ho mai visto picchiarne una o anche solo insultarla».

Elias preparò per l’occasione una musica non molto spettacolare, assai elaborata ma assolutamente fredda: la musica di un organista routinier, ormai avvezzo alle cerimonie nuziali e incapace di grandi slanci emotivi. Si ricordava però di quando aveva innalzato sontuose cattedrali sonore ispirandosi al battito del cuore di Elsbeth, e per la simpatia che ancora nutriva verso la ragazza decise di riesumarle un’ultima volta, a mo’ di improvvisazione finale. Si concentrò, frugò nella memoria, senza però darsi particolarmente pena di trovare il ritmo giusto, vi rinunciò elaborando poi in modo impertinente la melodia di una ninnananna, in cui adagiò il pacato augurio che il bimbo di Elsbeth nascesse sano di corpo e di mente. Quando poi, sul sagrato della chiesa, tutti vollero stringere le mani agli sposi, anche Elias si avvicinò alla piccola folla in attesa. Porse a Elsbeth una mano calda, sana e forte. Giunse perfino a scherzare e a mormorare piano, perché nessuno lo sentisse: – E al battesimo dovrete prendermi come padrino.

– Promesso, – disse Lukas, ma Elsbeth obiettò subito che le due cose – organista e padrino – non potevano andare insieme.

– E perché no? – rise Elias. – Suonerò l’organo, poi scenderò in tutta fretta per aiutarvi a battezzare, tornerò di nuovo su all’organo e poi di nuovo giú a battezzare e via di seguito.

A immaginarsi la scena tutti risero di cuore, ed Elias piú degli altri. Elsbeth lo guardò fugacemente negli occhi, alla cui luce non si era mai abituata.

In quel momento un’ombra di malinconia le passò sul volto. O ce lo stiamo inventando? Non riusciamo a capire – questo è certo – com’è che questi due esseri non abbiano potuto incontrarsi. Ma il lettore voglia credere, con noi, che un’ombra di malinconia passò davvero per un attimo sul volto di Elsbeth.

«Ma è proprio Elias? – pensava Peter irrequieto. – Come fa a essere cosí contento, a darle la mano in tono scherzoso?» Peter non capiva piú il vecchio amico. Quando poi, durante il banchetto nuziale, Elias imitò le voci dei compaesani tra il divertimento generale, Peter quasi si arrabbiò e se ne restò seduto al tavolo con la faccia rossa e inespressiva, conficcando le unghie nella tovaglia di lino.

– Sei un bugiardo! – lo aggredí, mentre sul fare dell’alba rientravano alle loro case. Elias lo guardava stupito. – Tutt’a un tratto per te non significa piú nulla! La verità è che non l’hai mai amata davvero! – disse in tono acceso e offensivo.

– Va bene cosí, – rispose Elias sbadigliando.

– Non va bene per niente, per niente! – gridò Peter in un accesso di collera.

– Perché ti scaldi tanto, amico mio? – disse Elias per calmarlo. – Ho capito che Elsbeth appartiene a un altro. Cosí va il mondo. Noi uomini siamo ciechi, e non dobbiamo far altro che rintracciare i sentieri di Dio. Non ci è dato di meglio su questa terra.

– Il fatto è che non ci hai mai provato veramente, – disse ancora Peter scoraggiato – non sei mai stato abbastanza uomo da rivelarle in pieno il tuo desiderio.

– Perché tu invece lo hai fatto? – chiese Elias con voce stanca. – Mi hai mai rivelato in pieno il tuo desiderio?

Peter non rispose e si allontanò dall’amico senza salutarlo.

Nelle settimane seguenti Elias dovette constatare che nulla piú gli dava piacere o lo appassionava. La scuola, che prima era per lui un impegno gradevole, incominciava ad annoiarlo, e gli strilli dei bambini gli erano di peso. Al mattino, svegliandosi, era già stanco, e la stanchezza si trascinava per tutta la giornata: non come prima, quando gli bastava uno sguardo attraverso la finestra per avvertirne il timbro gioioso. Le splendide, dorate mattine estive dagli aromi incantevoli sparsi nell’aria non risvegliavano piú in lui alcun interesse, la mattina non era piú per lui foriera di speranza. Tutto gli appariva vuoto, arcinoto e come spento. Il suo cuore era invecchiato, senza linfa, come una mela grinzosa e rinsecchita nella dispensa di sua madre.

Con l’ultimo slancio che ancora gli restava decise di evocare i vecchi tempi. Ritornò sui luoghi dell’antica passione, cercò di ritrovare lo smalto delle vecchie scorribande ma non trovò altro che noia e grigiore. «Non l’hai mai amata veramente». L’accusa di Peter continuava a risuonargli nelle orecchie. «Non l’ho amata veramente», ripeteva tra sé masticando uno stelo di acetosella. «E se cominciassi di nuovo ad amare? Se mi opponessi davvero al piano di Dio? Anche la piú disperata delle passioni è piú sopportabile della mancanza di passione».

Mentre dialogava in questo modo con se stesso una farfalla bianca gli si posò sull’avambraccio. E poco dopo un’altra farfalla giunse svolazzando per l’aria tersa. Elias si ricordò della prima notte passata all’organo di nascosto. Si ricordò della prima composizione della sua vita, quando aveva variato la melodia di un canto natalizio e ne aveva inventata una nuova, ispirandosi proprio al volo di due farfalle, seguite da bambino con occhi sognanti. Gli venne da piangere, ma non ci riusciva. Si alzò dall’erba, raggiunse il sentiero e giurò solennemente di fare ancora un tentativo in amore. Voleva ritrovare le immagini, gli odori, le speranze di una volta in tutta la loro forza originaria. Cosí – lo intuiva o addirittura lo sapeva – la sua fine era segnata. La spaventosa legge per cui ogni amore porta sempre alla morte doveva compiersi in lui in una forma orribilmente pervertita.

Ma lasciamolo ora per un poco al suo destino, senza insistere oltre sull’immane vaneggiamento nel quale si era rifugiato in quei giorni. Potremo negare la nostra comprensione al suo sconforto? Non era stata, la sua vita, una caricatura bizzarra di un errore divino?

Come ricordavamo, l’estate del 1825 fu assai ricca di eventi, e di vario tipo. Ai primi di luglio gli abitanti di Eschberg decisero di allargare la strada del paese con prestazioni di lavoro volontarie, in modo che «potessero passarci comodamente almeno due carri alla volta», come si leggeva nell’ordinanza. Il lungo sonno del Medioevo sembrava avere anche a Eschberg i giorni contati, e nelle cittadine del Vorarlberg una temeraria speculazione aveva cominciato a costruire curiosi edifici, per riempirli poi di una mostruosa ferraglia assordante. Prendeva piede l’industria del ricamo, che avrebbe trasformato una povera regione contadina in una landa prospera e insaziabile.

Il progetto per l’allargamento della strada del paese usciva dalla penna di Nulf Alder. Dopo la ridicola esautorazione da parte del figlio Peter, gli avevano tolto anche l’incarico di borgomastro, ma la parola del vecchio Nulf continuava – almeno in certi ambienti – ad avere il suo peso. Dopo il matrimonio di Elsbeth vivevano entrambi, lui e la moglie, nella casa di Lukas Alder. Peter lo aveva preteso come un diritto a lui dovuto dallo sposo, e per indorare la pillola offrí a Lukas come regalo di nozze ben tre vacche da latte invece delle due promesse.

Nel villaggio regnava in quei giorni un’atmosfera molto speciale. Una strana irrequietezza sembrava essersi impadronita del paese e dei suoi abitanti, e l’irrequietezza si traduceva in una sorta di febbrile attivismo. Molti contadini avevano già fatto il secondo taglio del fieno, come si trattasse di correre incontro alle stagioni, e poiché l’erba era stata falciata troppo presto i fienili rimasero vuoti per due terzi. Alcuni giovanotti presero l’abitudine di scendere a Götzberg tutti i giorni e senza un motivo evidente, se non che il villaggio gli stava diventando troppo stretto. Lí vennero a contatto con personaggi poco chiari, e quanto piú andavano a Götzberg, tanto piú ne tornavano con la testa confusa. Il loro vocabolario si era fatto piú ricco, piú colorito e sfrontato, e il Matthias Lamparter favoleggiava di strani automi, mucche e mungitrici meccaniche, raccontando di averle viste con i suoi occhi da un contadino di Götzberg. I tempi erano diventati moderni, ecco la verità. Nel mese di agosto – e tra vivaci proteste, soprattutto dei piú anziani – venne introdotto il cosiddetto «petrolio»: quell’olio prodigioso che già anni prima aveva illuminato la casa del defunto Roman Lamparter, e che gli avevano poi versato addosso per bruciarlo vivo.

I giovanotti si portavano dietro, da Götzberg, certe pubblicazioni scandalose, comprate a caro prezzo da rigattieri scaltri. E i piú ricercati erano gli album osé, che costoro divoravano famelici come fanno le scrofe con le bucce di mela, contemplando le figurine oscene con occhi golosi e la bocca aperta.

Ora, tra quelli che scendevano a Götzberg tutti i giorni per rientrare a sera tarda con la testa formicolante di novità c’era anche Michel, il carbonaio, il cui destino doveva conoscere proprio in quei giorni la sua ora fatale. Era affamato di cultura, il Michel, e un certo Markus Huffer, un venditore ambulante specializzato nel commercio di scritti blasfemi e buon conoscitore delle carceri locali, gli aveva decantato le Idee per una filosofia della storia dell’umanità di Herder. Il nostro Michel prenotò l’opera completa, e quella lettura segnò il suo destino. Nel libro infatti trovò la descrizione di un lontano paese il cui modo di vivere lo riempí di curiosità e di desiderio: al punto da mettersi in cammino alla sua ricerca nella speranza di passarvi il resto dei propri giorni.

«L’abitante della California – si leggeva nel libro – ai confini del mondo, nella sua terra infeconda, conduce una vita povera e fruisce di un clima incostante. Tuttavia non si lamenta del caldo e del freddo, sfugge alla fame, sia pure nel modo piú arduo, e vive felice nella propria terra. Molti cambiano dimora forse cento volte in un anno, cosicché difficilmente passano tre notti nello stesso luogo. Si fermano dove li sorprende la notte, senza curarsi degli insetti velenosi o della scarsa pulizia del terreno. La loro pelle nero-bruna fa le veci della veste e del mantello. I loro arnesi sono l’arco e la freccia, una pietra in luogo del coltello, un’ascia o un pezzo di legno appuntito per scavare radici, un guscio di testuggine a mo’ di culla, una vescica per raccogliere l’acqua. E tuttavia questi miserabili sono sani: sono forti e longevi, tanto che per loro è quasi un’eccezione incanutire. Sempre di buon umore, vivono con un eterno sorriso sulle labbra: ben conformati, agili e svelti».

Questa lontana e favolosa California, dove le donne giravano svestite nella loro pelle nero-bruna, dove la gente era sempre di buon umore e regnava il riso eterno, questa terra felice il nostro Michel voleva trovarla a ogni costo. E fu cosí che si mise in viaggio, salutò la famiglia e il curato Beuerlein – che invece di salutarlo continuava a dargli il suo festoso benvenuto – ed emigrò nell’Arlberg vagando da un villaggio all’altro. Nello zaino non aveva che tre pagnotte, ma le sue mani stringevano devote il vero cibo: le Idee per una filosofia della storia dell’umanità.

Poiché nessuno sapeva indicargli la via della California, Michel vagò tra marce avventurose per le Alpi retiche e bergamasche, finché fu raccolto a Lecco da un conciapelli che lo trovò lungo la strada mezzo morto dalla fame. Dopo otto settimane fuggí, ricercato dalla polizia lombarda per aver ucciso il suo ex benefattore, che aveva preteso di rifilargli a tavola degli avanzi di macelleria andati a male. Riparò in Piemonte e quindi sulla costiera ligure, dove si arruolò come marinaio su un bastimento levantino carico di caffé. Mai era stato in grado di amministrare il danaro, cosí nel giro di un’ora aveva già scialacquato l’ingaggio con donne prezzolate. Fatto naufragio davanti alla costa di Tolone, il buon Dio volle salvarlo dalla furia delle acque per depositarlo ai piedi di un macellaio tolonese, che lo impiegò come garzone nel suo mattatoio. Lavorò per dieci mesi, senza mai rinunciare all’agognata California. Sempre a Tolone si macchiò di reati contro la morale – aveva scambiato la carnagione scura delle tolonesi per il leggendario colorito bruno delle donne di California – e fu nuovamente costretto alla fuga. Giunto ormai al suo quarantatreesimo anno d’età, decise infine di lasciar perdere l’introvabile California e di tornare al paese natale, per passarvi – con il suo bagaglio di esperienze – quel che gli restava da vivere come semplice contadino. Il viaggio di ritorno fu, se possibile, ancora piú avventuroso e disgraziato: riuscí infatti ad ammalarsi nelle Alpi vallesi di febbre tifoidea, e chi lo vide allora, con quel suo volto di per sé non bello ora scavato dalla malattia e in uno stato miserabile, lo ricorda con una stretta al cuore.

Troppo lungo sarebbe elencare tutte le tappe della sua vita vagabonda. Ci limiteremo a precisare che Michel fece effettivamente ritorno, non però a Eschberg ma in un paesino nei pressi di Hohenberg, dove andò a servizio come stalliere. Con il passare degli anni il suo cuore avventuroso si calmò, e riuscí perfino a trovare una compagna per i giorni della sua vecchiaia. Ai quindici figli nati dal matrimonio soleva raccontare senza mai stancarsi di quella misteriosa tribú californiana dalla pelle scura che aveva comandato per quattro anni come un vero capo indigeno.

Qui lo perdiamo di vista e non lo incontreremo mai piú. Morí, il Michel, all’età veneranda di centootto anni, e l’anno della sua morte vide l’alba del nuovo secolo. Ma la sua eredità non scomparve con lui. Figli e nipoti onorarono degnamente la sua memoria, ed è per merito loro se ancora oggi, nella regione dello Hohenberg, vive e prospera la nobile tradizione della poesia religiosa. Il destino del carbonaio Michel ci consente di soppesare la forza immensa a quel tempo ancora posseduta dalla parola scritta.

Ora, l’inquietudine dei tempi nuovi, la smania della modernità, la voglia di paesi lontani: tutto questo passò accanto a Elias Alder senza sfiorarlo, o per meglio dire non se ne accorse nemmeno. Non era di quelli che andavano a Götzberg in cerca di aria nuova. Non leggeva i consunti album illustrati che giravano di nascosto per il paese. Il suo vocabolario rimase quello di sempre e anzi, se mai, il suo linguaggio si impoverí.

Quando, alla sera, spuntava dalla sua camera per la cena, si sedeva silenzioso al suo posto intorno al pesante tavolo di quercia, mandava giú con scarso appetito l’eterna minestra e non diceva una parola. Se mai un pittore avesse ritratto la scena immutabile di quel pasto serale, il quadro ci apparirebbe piú o meno cosí: attraverso le piccole finestre rivolte a sud filtra una scialba luce vespertina, mentre la Seffin, con il suo grembiule azzurro e le mani gottose imbocca il marito invalido, Philipp, l’idiota, strabuzza gli occhi e Fritz si fa il segno della Croce. È forse concepibile che in questo quadro di miseria trovi posto il piú geniale musicista mai apparso nel Vorarlberg? Un genio la cui strepitosa intelligenza musicale avrebbe potuto spingere l’arte del suo tempo ben oltre i confini del secolo? Dobbiamo rispondere che non è concepibile, se non come il parto di una fantasia malata.

Le ultime settimane della vita di Elias sono percorse da cupe fantasie di colpa e scoramento. È senz’altro probabile che, quando prese la decisione di morire, la sua ragione fosse già oscurata, perché non ci sapremmo spiegare altrimenti il modo atroce della sua morte. Credendo di poter invertire il corso del tempo si abbandonò a una morbosa nostalgia degli anni perduti. Raccontava di avere appena diciassette anni, e che il suo aspetto piú maturo era la conseguenza di una pubertà precoce. Ma se il calendario gli attribuiva ventidue anni la sua età reale superava i quaranta. Con disperata ostinazione coltivava in sé la menzogna che Elsbeth fosse ancora nubile e illibata, e che tale sarebbe rimasta fino al giorno in cui avrebbe ottenuto la sua mano. E quanto piú si sforzava di far rinascere lo smalto del passato, tanto piú i suoi tormenti erano vani. Sapeva di non essere piú innamorato di lei, sapeva che Dio gli aveva tolto perfino la capacità di amare. E il pensiero gli era cosí insopportabile che cercò infine di scacciarselo dalla testa a prezzo di masochistiche sofferenze. In realtà, ed è questo che Elias Alder non voleva capire, Dio lo aveva liberato dal suo amore per Elsbeth Alder. Dio volle lasciarlo vivere, perché la vista delle sue sofferenze amorose era anche per Lui fonte di dolore.

Ma non è mai capitato al nostro lettore di vedere il destino addensarsi cupo su di lui come un ammasso minaccioso di nubi temporalesche, e di scorgere proprio allora, in extremis, un piccolo squarcio attraversato da un raggio di sole, ossia di speranza? È quanto accadde a Elias.

La seconda domenica di agosto un forestiero entrava nel villaggio di Eschberg. Era un signore vestito alla maniera cittadina, dall’aria poco appariscente, i baffi arricciati e un alto cappello di colore blu scuro. Oltre a un grosso zaino portava con sé un pacco di carte legate con uno spago. Quel signore si chiamava Bruno Goller, era un musicista, e piú esattamente il primo organista del duomo di Feldberg. Non era un caso che il signor Goller passasse di lí: era infatti uno di quei primi pionieri che incominciavano a battere il paese in lungo e in largo per amore della scienza. L’Istituto di Belle Arti di Feldberg – a cui era annesso l’Istituto Musicale – lo aveva incaricato di esaminare tutti gli organi del paese e di descriverli accuratamente su un apposito registro.

In quella seconda domenica di agosto, Goller scoprí a Eschberg un semplice organo a cinque voci e il piú straordinario organista che le sue orecchie da pedante avessero mai avuto la grazia di ascoltare.

– In nome di Santa Cecilia, chi siete? – sillabò Goller quando vide Elias scivolare giú lungo la scala della cantoria. Goller deglutí, continuando a rigirarsi l’alto berretto fra le mani. – Il m.m.mio nome è Goller. Friederich Fürchtegott B.bruno G.g.oller – disse balbettando, e gli tese il cappello invece della mano tremante. Elias lo guardò senza salutarlo, con il volto inespressivo e gli occhi vuoti.

– O.o.organista del duomo di Feldberg e anche c.c.antor, – aggiunse Goller con apprensione. Dopo essersi un po’ ripreso chiese nuovamente a Elias chi fosse, ma senza ottenere risposta.

Intervenne allora Peter, che aveva assistito alla scena, e salutò il forestiero. – Signore – si affrettò in tono adulatorio – questo è il nostro Elias Alder, organista e maestro alla scuola del paese, e io sono il suo cugino e amico e modesto tiramantici.

Poiché Elias non rispondeva, Goller si rivolse a Peter dicendogli di non avere mai sentito un concerto organistico cosí geniale. Selvaggio e primitivo, eppure di una cosí sublime grandiosità. Mai aveva ascoltato un contrappunto cosí complesso, una cosa semplicemente impossibile: Elias era riuscito a suonare i quattro corali della Messa come un Quodlibet a quattro voci e senza cambiare una sola nota. La cosa era semplicemente impossibile. Dovevano mostrargli la partitura di quella grandiosa composizione, cosí avrebbe provato a suonarla anche lui. E poi la fuga della Comunione – suonata quasi unam fugam – aveva una forza cosí vulcanica che non se ne trovava una uguale in tutta la letteratura organistica. Nell’improvvisazione sul corale Cristo nostro Signore giunse al Giordano, si sentivano letteralmente scrosciare le acque del Giordano, e il disegno cromatico sulle parole «affogano anche l’amara morte» lo aveva scosso fino alle viscere, tanto che doveva ancora tenersi al suo berretto per non provare le vertigini. Chissà se i signori erano cosí cortesi da mostrargli le partiture dei vari brani eseguiti...

– Signore, – proferí Elias, – io non so leggere la musica. – Seguí un breve silenzio, Peter sorrise un po’ mortificato mentre Goller continuava a rigirarsi il berretto fra le mani.

– Non sapete...? – e le parole gli restarono nella gola.

– Proprio cosí, – interloquí Peter, – Elias ha studiato l’organo da solo. Il nostro defunto signor maestro, invece, lui sí che sapeva leggere la musica e anche scriverla.

Goller si sedette sul banco delle nubili. – Non sa leggere? – chiese ancora incredulo e con un filo di voce.

– Guardate voi stesso! – sbottò Peter – oltre ai libri di Oskar non troverete nulla!

Allora, poco alla volta, Goller capí. – Non sa leggere – annuiva con il suo muso da carpa – non sa leggere. – Elias voleva andarsene ma Goller lo trattenne. – Vi prego! Improvvisate all’organo ancora una volta, vi prego! – e continuò a supplicarlo finché non salirono tutti e tre sulla cantoria.

Quando Goller ebbe ascoltato ancora una volta l’«impossibile», sussurrò a Peter che, in nome di Santa Cecilia, l’organista doveva venire immediatamente all’Istituto Musicale di Feldberg. L’occasione non poteva essere piú propizia: di lí a due settimane avrebbe avuto inizio l’annuale cimento della musica per organo e gli allievi della scuola si sarebbero esibiti in libere improvvisazioni allo strumento. Pur senza capire ogni dettaglio, Peter promise di presentarsi con l’amico alla data stabilita: intuí che quello sarebbe stato il giorno del grande trionfo di Elias.

Bruno Goller lasciò Eschberg quello stesso mattino, senza nemmeno descrivere sul suo quaderno il piccolo organo della chiesa locale (e infatti il suo Tesoro organario del Vorarlberg non ne fa menzione). L’incontro con la musica di Elias Alder lo aveva sconvolto, al punto che per vari giorni non fu in grado di connettere. Ma non appena si fu ripreso, l’idea dell’invito incominciò a rimordergli la coscienza: e se, rimuginava nel suo gretto animo di musicista, questo Elias Alder fosse diventato un giorno suo rivale? Che cosa sarebbe accaduto, in nome di Santa Cecilia, se gli avessero affidato il posto allora vacante di secondo organista del Duomo? Goller uscí immediatamente dal suo studiolo per scendere in giardino a prendere una boccata d’aria fresca. Bisognava impedire a ogni costo che quel satanasso...!

L’ultima domenica di agosto i due amici si misero in cammino per Feldberg. Era una torrida mattina d’estate e prima ancora del mezzogiorno si vedeva l’aria tremolare all’orizzonte. Per convincere l’amico a mettersi per strada Peter aveva dovuto darsi non poco da fare. L’apatia di Elias era ormai arrivata a tal punto che non sopportava nemmeno di lavarsi: quella domenica, com’era sua abitudine già da qualche tempo, avrebbe preferito di gran lunga restarsene a letto a meditare con le imposte chiuse sul mistero del suo amore impossibile. Peter era riuscito a buttare giú dal letto l’amico ormai stanco di vivere raccontandogli – con un colpo d’astuzia irresponsabile – che Lukas Alder era malato, o almeno cosí correva voce in paese, di febbre cerebrale. E chissà, forse prima o poi Elsbeth sarebbe stata nuovamente libera. Elias sapeva che era una menzogna, ma la sola idea che Elsbeth potesse tornare libera gli diede la forza, e accettò di partire.

Quando Elias si congedò – uno sguardo senza parole a Seff, invalido sulla sua sedia, la madre che dormiva ancora, Fritz che mungeva il primo latte – Philipp si mise a protestare rumorosamente con le mani e coi piedi. Elias cercò di calmare il bambino rivolgendosi a lui nella lingua speciale che gli aveva insegnato, ma Philipp non faceva che strillare piú forte: come un vitellino che venga trascinato per la cavezza fuori dal tepore della stalla per portarlo al macello. Forse intuiva, l’idiota, che Elias non avrebbe piú fatto ritorno?

Nel tardo pomeriggio, quando la vampa del sole era già meno forte, i due amici entrarono a piedi nudi nella cittadina di Feldberg. Peter conosceva bene la strada perché ci era venuto con Nulf a concludere la faccenda dell’eredità, e non si lasciò sfuggire l’occasione per mostrare all’amico i monumenti e le cose notevoli del luogo.

Prima di entrare nella cittadina dal lato nord, la strada passava di fianco a un edificio di pietra, dall’età indefinibile e comunque antichissima. Accanto all’edificio c’era una chiesetta di pietra da tempo diroccata. Si trattava – spiegò Peter – dell’ospizio di Feldberg, e con un po’ di fortuna avrebbero potuto imbattersi in qualche paziente cronico, rinchiuso lí per una malattia incurabile. Entrarono nel cortile lastricato di pietra ed Elias riuscí in effetti a scorgere alcune figure, i volti deturpati da ragadi e vesciche purulente, gli occhi spaventosi, le membra in parte bendate e in parte nude, divorate da necrosi. Peter non si stancava di guardare quello spettacolo, si avvicinava alle pesanti inferriate delle finestre e scrutava avidamente le miserevoli creature.

Delle antiche mura della città, a quell’epoca già spianate, rimanevano soltanto alcuni grandiosi ammassi di pietre. Ma il vero simbolo di Feldberg era già allora la Torre di Guardia, alta otto piani e costruita su una pianta ovale. La leggenda vuole che all’epoca dei Montfort la città abbia conosciuto una mostruosa invasione di gatti: una piaga dalle proporzioni inaudite, paragonabile solo agli sciami di cavallette dell’Antico Testamento. La popolazione era allo stremo, i gatti assalivano gli abitanti per la strada e non si poteva muovere un passo senza scatenare un disperato miagolio e soffi minacciosi. L’astuto governatore Jörg Bertschler fece allora la proposta di erigere una torre come quella di Babele, di mettere i gatti dentro delle ceste e di buttarli giú dall’alto della torre. Il consiglio fu messo in pratica e la piaga in breve tempo debellata, tanto che la torre si chiama ancor oggi Torre dei Gatti.

All’epoca di Elias gli abitanti di Feldberg tenevano rinchiusi nella Torre dei Gatti dodici soldati francesi. E non vi sarebbe nulla di strano in questo, se le autorità cittadine non avessero dimenticato lí dentro quei dodici poveri diavoli dopo la ritirata delle truppe napoleoniche: ancor oggi Feldberg versa ogni anno un risarcimento simbolico alla città di Arras, da cui provenivano otto di quei disgraziati morti di inedia.

Non mancherebbero altre curiosità da raccontare, ma vediamo che i due amici stanno entrando proprio ora nel giardinetto di Goller. È dunque il caso di avvicinarsi, discretamente, per assistere al seguito della vicenda.

Le preghiere notturne di Goller non erano state esaudite. Quell’inquietante musicista era dunque arrivato, a tempo e luogo convenuti, e ora eccolo lí sulla soglia, pallido, muto, magro come un fantasma. Goller pensò di darsi alla fuga ma era troppo tardi. Avrebbe dovuto semplicemente non farsi trovare in casa all’ora stabilita. Per Santa Cecilia, com’è che ci pensava solo adesso? Goller boccheggiava dal caldo, si portò la mano al colletto inamidato e invitò i due amici a prendere posto nel salotto riservato alla musica. Scorgendo la tastiera di uno strumento curioso, che Goller chiamava pianoforte, gli occhi di Elias tornarono a brillare come non gli capitava da gran tempo. Passò le dita sui tasti, con un misto di spavento e di stupore. Quando poi abbozzò un vertiginoso giro di terzine Goller si precipitò verso di lui balbettando ad alta voce che il signor Alder non doveva affaticarsi perché mancava solo un’ora all’inizio del cimento eccetera eccetera. No, pensava il muso di carpa, non era decisamente il caso che stesse ad ascoltarsi quel satanasso in casa propria. Con che coraggio avrebbe mai potuto mettersi di nuovo al pianoforte?

Del vino rosso messo in tavola, Peter tracannò molti bicchieri mentre Elias teneva lo sguardo fisso sulle innumerevoli partiture sparse ovunque, aperte o chiuse, sulle ottomane, sulle mensole delle finestre e sul pavimento di legno come una ricca, sontuosa imbandigione. Pensare ai tesori racchiusi in quei libri lo rattristava, gli passò ogni traccia di appetito, non volle bere neppure un sorso di vino. Poi uscirono e si avviarono per le strette viuzze in direzione del duomo. Di tanto in tanto Goller si sforzava di buttare lí una battuta scherzosa, meravigliandosi che Elias fosse venuto a piedi nudi. Ma nessuno – si diceva in cuor suo – poteva suonare a piedi nudi il pedale dell’organo, nessuno. E in nome di Santa Cecilia l’organo di Feldberg era molto piú pesante e molto meno maneggevole del ridicolo organino di Eschberg.

E sul muso di carpa del signor Goller guizzò un sorriso subitaneo di sollievo.