Peter si era appena messo a letto quando udí sulla scala il pesante zoccolare di Lukas Alder. Durante la sua assenza Lukas aveva badato alle bestie, le aveva munte e portate al pascolo. Peter si alzò dal pagliericcio, andò incontro al cognato e gli riferí quel che era accaduto a Feldberg, insistendo sul fatto che i signori professori volevano trattenere Elias per qualche tempo, allo scopo di esaminare il suo curioso talento. Al racconto di Peter, Lukas tacque con un’espressione stolida, e si limitò a chiedergli se doveva mungere le sue mucche, visto che Peter aveva l’aria ancora addormentata. Peter tirò fuori cinque soldi dalla tasca, gli tese il braccio rattrappito e gli disse di andare. In mattinata salí dalla Seffin e le raccontò la stessa storia; poi incrociò per caso comare Lamparter e allora fu sicuro che tutto il paese avrebbe saputo in un baleno il motivo dell’assenza di Elias. In effetti la Lamparter fece marcia indietro, puntò decisa in direzione della scuola e si prese la briga di mandare in vacanza la scolaresca in attesa del maestro.

Pur essendosi rimesso a letto verso mezzogiorno Peter non riuscí a dormire. Colpa anche dell’afa. Si mise allora a preparare le corde di canapa e le provviste. Nel pomeriggio si coricò di nuovo, questa volta tra i muri della sua cantina, e qui dormí un sonno inquieto, pieno di incubi, rigirandosi da una parte e dall’altra.

Quando il sole fu tramontato dietro le montagne della Valle del Reno si mise il sacco in spalla e camminò per un sentiero secondario fino al letto della Emmer, non immaginando che avrebbe assistito di lí a poco al piú lungo e tormentoso dei suicidi.

Elias era seduto nel punto in cui tutto era cominciato e in cui tutto ora doveva finire. Si era tagliato i lunghi capelli con una sottile lamina di ardesia. Ne teneva una ciocca fra le labbra, come uno strano segno di cui Peter non comprendeva il significato, e guardava fisso nell’acqua impetuosa della Emmer. Era rimasto sveglio, senza riposare un solo istante. Peter gli si avvicinò, gli baciò la fronte e gli prese fra le mani la testa che scottava. Vide che Elias era uscito di senno.

– Elias, – mormorò Peter, – perché ti fai tanto male? Sei diventato un uomo famoso. – E aggiunse, con una mossa di astuzia, di aver visto nel duomo di Feldberg diverse giovani donne che lo guardavano con occhi innamorati. Lo disse per infondergli un po’ di speranza, ma la sola idea che Elias potesse prender moglie e quindi lasciarlo gli fece troppo male e non insistette.

Elias si tolse la ciocca dalla bocca: – Hai dormito a dovere? – chiese con occhi vuoti.

– Non sono riuscito a dormire – disse Peter – ho avuto una visione spaventosa, – e lasciò andare la testa dell’amico.

– Andiamo, prima che venga buio, a raccogliere delle foglie di stramonio, qualche fungo del diavolo e delle bacche di belladonna! – disse Elias. – Mi serviranno quando arriverà la stanchezza.

Peter conosceva le proprietà inebrianti di quelle sostanze, ma continuava a non capire le vere intenzioni dell’amico. – Vuoi restartene seduto qui ad aspettare il Giorno del Giudizio? – gli chiese con un sorriso forzato, ed Elias gli rispose seriamente di sí. – Hai bisogno di dormire – disse Peter in tono irritato – hai la testa che scotta. Dammi ascolto e torniamo a casa!

A queste parole Elias si alzò dalla pietra, tese le braccia e le gambe e si tuffò improvvisamente nelle fredde acque montane della Emmer. Scomparve nei fondali, poi riaffiorò, scrollandosi con bruschi movimenti della testa e del corpo. – Che bella cosa l’acqua fredda! – gridò in direzione di Peter – ci si butta dentro sfiniti e la stanchezza svanisce come per incanto!

Quando Elias venne fuori dall’acqua, Peter si accorse che la coordinazione dei movimenti gli costava già una notevole fatica. La cosa non lo sorprese. Erano un giorno, una notte e ancora un giorno che l’amico non dormiva. E il peggio doveva ancora venire.

Quando Elias si fu rifocillato con un po’ di pane, semola secca e uova crude, i due si misero alla ricerca delle foglie di stramonio, della belladonna e dei funghi. E qui rischiarono di essere visti perché un Lamparter si era appartato nel bosco insieme alla sorella con l’intenzione di molestarla. Ma le grida di aiuto della donna li misero in guardia per tempo. Al calar della notte tornarono alla pietra liscia. Avevano trovato quel che occorreva a Elias, e durante la camminata Elias aveva anche illustrato a Peter il suo piano: un piano che era lo specchio grottesco della sua follia.

Si ricordava – gli chiese Elias – di quel Rosso, quel predicatore di strada? Certo che sí, disse Peter. E si ricordava le parole che aveva gridato a squarciagola un attimo prima di cadere svenuto? Peter non rispose. Elias allora incominciò ad agitarsi. Mentre suonava l’organo a Feldberg aveva capito, di colpo, che il suo amore per Elsbeth era solo un amore a metà. Ed è per questo che Dio gliel’aveva negata, perché il suo affetto era fiacco e indeciso. Un ammasso di menzogne e di vile tiepidezza: ecco che cos’era stato il suo «amore».

Come potrebbe, come potrebbe un uomo affermare onestamente di amare la propria donna per la vita intera, se si limita ad amarla di giorno, e forse anche allora per la breve durata di un pensiero? Era falso perché nel sonno – Peter doveva pur ammetterlo – non si ama. Durante il sonno si è come morti, e infatti non è un caso se il sonno e la morte sono detti fratelli. Il tempo che si passa a dormire è sprecato, ed è anzi una colpa che sconteremo in Purgatorio: ecco perché aveva deciso di vivere una nuova vita: una vita di veglia. E questa nuova vita di veglia gli avrebbe portato l’amore di Elsbeth e la certezza dell’eterna beatitudine in cielo.

Peter intuí che non c’era altro da aggiungere. Elias allargò il vestito sul bordo della pietra e vi si sedette. Poi inumidí con lo sputo una foglia di stramonio e ne fece un rotolino appuntito. E disse ridendo che gli sembrava di essere come il ronzino di suo padre, che si era svegliato solo quando gli avevano infilato quelle foglie nel didietro. Peter si sforzò, invano, di distogliere l’amico dal suo bizzarro proposito: Elias rideva indifferente, senza ascoltarlo. Gli disse poi bruscamente di andarsene e di farsi un bel sonno, perché dopo un paio di giorni avrebbe dovuto essere in grado di vegliarlo. Poi sbucciò una bacca, le diede un morso e ne inghiottí una metà.

I primi sintomi non tardarono a manifestarsi. Circa una mezz’ora dopo la partenza di Peter, Elias cadde in uno stato di violenta euforia. Si mise a cantare, si alzò in piedi e ballò al ritmo delle sue melodie. Fu quindi assalito da un tremito convulso, e infine scoppiò in un pianto dirotto e interminabile. Quando, dopo la mezzanotte, si calmò, si sentí mortalmente stanco. La testa gli ciondolava pesante sul petto, e accorgendosi di essersi assopito per alcuni istanti si coprí di insulti, si buttò nell’acqua e vi si dimenò con i gesti pesanti e impacciati di un grosso cervo uscito dal branco. Si sentiva infatti come se il suo peso fosse cresciuto a dismisura.

Allo spuntare del giorno, quando i primi, abbaglianti raggi di sole presero a giocare con le foglie del bosco misto, il suo cervello indebolito cadde in preda alle allucinazioni. Gli sembrò di scorgere, sulle foglie che si muovevano alla brezza, dei piccoli esseri pelosi dalle fauci non grandi ma dai denti aguzzi. Tutto il cielo si riempí di questi mostriciattoli che svolazzavano di qua e di là e si lanciavano sulla sua testa senza tuttavia aggredirlo. Quel mattino, dopo la seconda notte di veglia consecutiva, il suo udito si fece ancora piú sensibile, mentre la vista gli era diminuita.

Piú tardi Peter fece ritorno alla pietra liscia, ma Elias non era piú lí. Sulla pietra erano rimaste le corde di canapa e il vestito nero. Peter lo chiamò, aspettò piú di un’ora, inutilmente. Poi salí di nuovo al paese pensando che Elias fosse venuto a piú miti propositi. Verso sera entrò di nascosto nel cortile degli Alder e provò a gettare un sassolino contro la finestra della stanza: dentro non si udí alcun rumore. Rattristato, tornò immediatamente alla Emmer, ma di Elias nessuna traccia.

Per tre giorni e tre notti Elias rimase introvabile. La mattina del quarto giorno Peter pensò di rompere il giuramento e di mettere insieme una pattuglia con cui intraprendere le ricerche dello scomparso. Ma non fece in tempo a dare l’allarme perché, passando ancora una volta dalla pietra liscia, lo trovò lí. Guardandolo da una certa distanza vide che Elias non era piú in grado di stare seduto. E vide che non aveva ancora chiuso occhio.

– Dove sei stato? – gli domandò forte. Elias sembrava non sentire. Peter gli ripeté la domanda ancora piú forte e vide che il suo volto si contraeva in una smorfia dolorosa. Dopo estenuanti tentativi di risolvere l’enigma, scoprí infine che l’amico aveva tentato di salire sulla montagna piú alta della zona, il Kugelberg, ma si era perso e solo ora aveva fatto ritorno.

Elias sarebbe stato ancora in grado di parlare con chiarezza se l’effetto allucinogeno dei funghi del diavolo, abbinato a quello eccitante delle foglie di stramonio, non gli avesse reso l’operazione estremamente tormentosa. Aveva le labbra gonfie e irrigidite. Per dire una cosa qualsiasi era costretto a uno sforzo ripetuto. Mormorò in qualche modo che Peter doveva tirarlo su e legarlo con le corde al tronco del giovane frassino. Come avrebbe potuto farsi vedere da Elsbeth e dirle che la amava per la vita, se non restava sveglio? Peter afferrò il corpo smagrito e lo legò con braccia energiche al tronco d’albero. Per quanto cercasse di bere, Elias continuava ad avere sete. Peter lo aiutò a bere, un sorso dopo l’altro, con delicatezza, ma pochi minuti dopo aveva già vomitato.

Nel pomeriggio, quando anche nella frescura del bosco incominciò a farsi sentire l’afa del giorno estivo, l’effetto delle erbe allucinogene svaní e sembrò che Elias riprendesse le forze. E in ogni caso, riuscí a esprimersi di nuovo con chiarezza. Rise addirittura e disse che il sonno privava gli uomini del loro tempo migliore. Aveva la sensazione che il tempo scorresse piú lentamente di quel che in genere si crede: quello che prima gli sembrava un istante, ora durava un’intera mattina. E chiese a Peter, seriamente, quanto ritenesse lungo un attimo di eternità. Peter non rispose, ma gli coprí la testa e il petto con il vestito bagnato per rinfrescarlo. Un attimo di eternità, disse Elias da dietro la giacca, poteva durare da sette a nove mattine del nostro tempo terreno. Forse anche di piú. O forse di meno. In ogni caso ce n’erano tre tipi. Da quel momento Peter non volle piú lasciarlo. Tornò a casa verso sera per mungere le mucche ma fece poi subito ritorno alla pietra.

Doveva stuzzicarlo, sulle guance, sulle gambe, e se necessario schiaffeggiarlo, disse Elias con un filo di voce. Gli servivano delle bacche di belladonna, dell’acqua, delle foglie nel sedere. Doveva slegarlo perché non riusciva piú a stare dritto. Peter fece con pazienza quel che Elias gli chiedeva, mosse alcuni passi con lui, gli infilò tra i denti una mezza bacca e legò di nuovo il corpo ormai quasi inerte. Elias gli chiese di avvolgergli una corda intorno alla fronte, di farla passare sopra un ramo e, dopo averla ben tesa, di assicurarsela all’alluce. Cosí avrebbero potuto affrontare la notte. Se infatti la testa gli fosse caduta dal sonno, Peter se ne sarebbe accorto subito, si sarebbe svegliato e lo avrebbe costretto, se necessario picchiandolo, a restare sveglio, perché chi dorme non ama.

Scese cosí la sesta notte nel bosco, ed Elias rimase sveglio e non dormí. Gli costava però uno sforzo indicibile, visto che Peter doveva continuamente slegarlo dal tronco, fare qualche passo con lui e immergerlo nell’acqua fredda. E non appena Peter si era addormentato il pazzo si metteva a gridare che non ce la faceva piú a reggersi in piedi, che aveva paura di addormentarsi anche lui.

Il mattino del settimo giorno di veglia Peter lo lasciò per tre quarti d’ora per andare a vedere se a casa era tutto in ordine. Quando ritornò vide che Elias si era addormentato. E vide pure che non era piú in grado di trattenere gli escrementi: dalle caviglie gocciolava dell’urina e sulla pelle del martire scoprí delle macchie gialle, grosse come noci. Ne provò una tale pena che lo svegliò schiaffeggiandolo e gli gridò in faccia che non poteva piú sopportare un simile spettacolo. Se Elias non la faceva subito finita con quella tortura sarebbe andato a prendere la sorella e l’avrebbe portata lí a contemplare l’orribile spettacolo, le avrebbe spiegato i motivi di quelle pene che egli stesso si infliggeva. Dal fondo della sua coscienza annebbiata Elias barbottò qualcosa, e aggiunse con voce quasi impercettibile che Peter doveva rispettare il giuramento. Come lo aveva rispettato lui a suo tempo.

Furono questi i suoi ultimi tentativi di parlare, perché da allora in poi non fu piú in grado di muovere né le braccia né le gambe, e tantomeno la mascella o la lingua. Con la rabbia dell’impotenza Peter continuava a tenerlo sveglio sferzandolo, sorreggeva il corpo moribondo, lo bagnava nell’acqua e gli infilava nella bocca pezzetti di belladonna. Poiché non riusciva piú a tenere le palpebre aperte e gli occhi erano ormai infiammati e purulenti, Peter prese dei grani di cera, li stirò e infilò le striscioline fra le ciglia in modo che le palpebre non potessero piú cadere.

Verso le cinque del pomeriggio accadde qualcosa che a Peter parve inesplicabile. Il luogo in cui si trovavano cominciò di colpo ad animarsi. Il sottobosco si mise a frusciare e a crepitare da ogni parte, e mai Peter aveva pensato che le bestie selvatiche potessero avvicinarsi in quel modo agli esseri umani. Il giovane stambecco, il piú ombroso fra tutti gli animali di montagna, beveva senza paura l’acqua della Emmer, e non fece le viste di saltar via nemmeno quando Peter si alzò dalla pietra. Piú in basso, all’imboccatura della grotta, tre cerbiatti brucavano le foglie dai rami. Un pipistrello volò fuori dal buio della grotta e subito dopo si videro alcune salamandre arrampicarsi sulla pietra liscia. Contemporaneamente, Peter se ne accorse solo ora, tutti i cani di Eschberg levarono alti latrati: non poteva sospettare, e meno che mai udire, che il moribondo in realtà stava ancora parlando. La sua voce era sintonizzata sulle frequenze acustiche degli animali. Cantava negli ultrasuoni dei pipistrelli, fischiava impercettibile nelle vibrazioni delle volpi e dei cani. L’ultimo messaggio della sua misera vita fu per gli animali della foresta.

La settima notte accadde che il suo udito per alcuni momenti si moltiplicò. Elias non solo percepiva tutti i rumori del proprio corpo, ma in certo modo li udiva o li vedeva dall’interno: le sfumature infinitesime dei rumori fisiologici, sovratoni e infratoni, fino alle minime vibrazioni del suo cuore ormai disordinato. Non gli fu dato udire di piú, perché Dio l’aveva abbandonato.

Il mattino seguente il suo polso era cosí affannoso che se anche avesse voluto dormire non sarebbe piú stato in grado di farlo. Peter, sfinito da tante notti di veglia, si accorse che le pulsazioni di Elias acceleravano e rallentavano. Quando ritornò dalla mungitura del mattino il corpo di Elias pendeva inerte dalle corde che lo tenevano legato. Lo slegò, e il corpo cadde a terra. Ascoltò il suo battito. C’era ancora, ma sottile e quasi impercettibile.

Johannes Elias Alder, figlio illegittimo del curato Elias Benzer e di Agathe Alder, detta Seffin, spirò verso l’ora del primo Angelus il 9 settembre 1825. La morte sopraggiunse per paralisi respiratoria, causata da una dose eccessiva di belladonna.

Solleviamo ora gli occhi dalle nostre carte e dal basso scrittoio – piccolo come una casa di bambola – per spaziare con lo sguardo sui pendii innevati, di un colore grigio scialbo. Sentiamo le grida festose dei bambini e la risata argentina di una giovane madre. Li vediamo salire a grappoli con le loro slitte e ne avvertiamo la gioia, l’ebbrezza di solcare senza fatica la neve fresca. Poi torniamo al nostro tavolo, dove ristagna ancora l’aria afosa della tarda estate.

No, non piangeremo la morte di quest’uomo. Pensiamo invece con tristezza al suo genio e al suo amore impossibile. E ci ritorna assillante il pensiero: quanti uomini eccelsi il mondo avrà perduto solo perché non fu loro concessa una vita piú serena, un piú giusto equilibrio di pena e felicità.

Chiudiamo qui il nostro breve libro sulla vita di Johannes Elias Alder. Quanto segue è senza importanza, come l’epilogo di una storia che ha ormai perso significato.