Seduto accanto al cadavere, Peter chiuse la bocca e gli occhi di Elias accarezzandoli con la mano del braccio rattrappito. Si sentiva in lontananza la campana dell’Angelus, e quando l’eco degli ultimi rintocchi si spense, Peter non poté piú trattenersi e scoppiò in un pianto dirotto. Poi cominciò ad accarezzare il corpo senza vita come aveva sempre desiderato nei suoi sogni a occhi aperti. Le labbra di Elias assunsero in breve un colorito bluastro e il petto si raggelò. Peter si alzò in piedi e decise di seppellire il cadavere vicino allo stagno dei cervi. Si ricordava infatti delle parole di Elias, quando aveva raccontato a Elsbeth che tutti a Eschberg dopo la morte dovevano scendere fin lí, perché proprio lí, su quello specchio d’acqua, c’era la porta dell’altro mondo. Prese allora il cadavere, lo mise al riparo tra i cespugli del sottobosco, filò a casa e ne ritornò verso mezzogiorno con pala e piccone. Dovette darsi da fare per scacciare le volpi e le martore, che avevano già incominciato a fiutare il cadavere. Se lo mise sulle spalle, lo trascinò fino allo stagno, lo adagiò sul muschio della radura e incominciò a scavare. Scavò una fossa di oltre otto braccia, perché sapeva che le volpi avrebbero raspato il terreno per cercarlo. Poi fece una cosa che non aveva mai fatto in vita sua: andò a raccogliere dei fiori sui pascoli nel pieno rigoglio della tarda estate. Al ritorno dovette ancora scacciare le volpi con il bastone. Poi intrecciò una ghirlanda sulla testa pallida e rapata del morto, mormorò piangendo una preghiera, sollevò il cadavere dal muschio e lo fece rotolare nella fossa. Secondo un’antica usanza prese una manciata di terra e la sparse sul capo del morto, rannicchiato come un bambino.
– Sono uscito nudo dal grembo di mia madre, – sussurrò Peter, – nudo ci tornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto –. E alle parole «il Signore sia lodato» riprese a piangere. Ma erano lacrime di collera e non di compianto.
Rimase a lungo seduto accanto alla tomba aperta. Poi chiuse la fossa in modo tale che nemmeno lui avrebbe potuto riconoscere, piú tardi, il punto esatto della sepoltura. Ma a quattordici passi verso ovest c’era un abete rosso, e sulla corteccia dell’abete Peter incise una bella «E» ornamentale, che continuò a incidere con gran cura finché visse.
Una volta seppellito l’unico amico, il suo innamorato segreto, ritornò a casa e dormí per una notte e un giorno interi, senza svegliarsi una sola volta. Quando riportò le mucche nella stalla si accorse che le loro mammelle strapiene avevano cominciato a colare. Vide i loro occhi impazziti dal dolore e provò improvvisamente compassione per quelle creature indifese. Peter non era piú lui.
La sua vita infinitamente solitaria – aveva scacciato da casa i genitori – prese un nuovo corso inatteso. Il suo animo irrequieto e subdolo era cambiato al punto che non solo gli esseri umani, ma – quel che piú conta – anche gli animali cominciarono a fidarsi di lui. Come folgorato sulla via di Damasco, Peter smise di tormentarli, e comare Lamparter giurava di aver visto che nella stalla di Peter le bestie non erano piú costrette a giacere nello sterco, ma su uno strato di paglia fresca. Con il passare degli anni la stima nei suoi confronti crebbe e pochi mesi prima del Secondo Incendio fu addirittura nominato borgomastro. C’era solo una cosa che la gente non capiva: perché si ostinasse a non prendere moglie.
Interrogarsi sulle ragioni di una metamorfosi cosí profonda sarebbe ozioso. E sarebbe troppo facile pensare che le sofferenze dell’amico lo abbiano indotto a «convertirsi», a riconoscere che il dolore provocato intenzionalmente non giova a comprendere questa vita incomprensibile. Diremo piuttosto che la vita disgraziata dell’amico ebbe su di lui un effetto purificatorio. Lo crediamo in tutta serietà, cosí come crediamo, con serietà fanciullesca, che il male è destinato a lottare con il bene e a venire sconfitto.
All’età di trentotto anni – sedici anni dopo la morte di Elias Alder – Peter morí di una malattia misteriosa, un fuoco di Sant’Antonio, che colpí allora in forma letale numerosi abitanti di Eschberg. Si era preso l’infezione dalla segale cornuta, con il risultato che i suoi arti assunsero improvvisamente un colorito nerastro e finirono per andare in cancrena.
Fece però in tempo a vedere di persona le devastazioni del Secondo Incendio, scoppiato per cause inspiegabili un mattino ventoso di marzo. Il Secondo Incendio distrusse quasi tutto il villaggio, anche la chiesa bruciò fino ai muri maestri. Ma si lamentò questa volta una sola vittima, e anche il bestiame fu risparmiato perché era stato tempestivamente portato in salvo a Götzberg.
Non ci sarebbe stata anzi nessuna vittima se non si fosse verificato un equivoco terribile. La Seffin pensava che lo avessero già portato via, e in effetti Fritz aveva messo in salvo il mongoloide ma non il padre. Fu cosí che Seff Alder, paralizzato sulla sua sedia, arse vivo, e un Lamparter sostenne di aver udito fuggendo un grido atroce, che gli era sembrato una spaventosa risata. Aveva pensato che fosse un vicino, disperato alla vista della casa distrutta per la seconda volta.
Anche lui aveva riso di disperazione.
Risparmieremo al lettore – che consideriamo ormai un buono e fedele compagno di viaggio – i dettagli della rovina di Eschberg. Dopo il Secondo Incendio gli abitanti sembrarono aver capito che il paese era maledetto da Dio. Se ne andarono, ma non tutti. Rimasero, con incredibile ostinazione, due famiglie di Lamparter e una di Alder, tredici persone in tutto. Quando, il 5 settembre dell’anno 1892, divampò il Terzo Incendio, dodici persone bruciarono nel loro letto, e quarantotto capi di bestiame nelle stalle. Uno solo si salvò. Il suo nome era Cosmas Alder: un uomo di piccola statura, ormai vecchio, dal rubizzo naso a patata.