Chi abbia messo piede una volta nei musei etnologici di Bolzano o di Brunico, o magari di Innsbruck, ricorderà con un vago spaesamento gli oggetti vicini-lontani del vecchio universo contadino – i corredi nuziali, le Stuben ricoperte di legno, le forme colorate e patetiche della pietà popolare, e poi i costumi, gli attrezzi, i lavori di ricamo e di intaglio. La storia di Le voci del mondo prende forma da quell’universo marginale, come se una lente spaziotemporale si posasse su un fazzoletto di terra sperduto nell’Austria interna per rianimarne a distanza di quasi due secoli la vita minima e le tensioni metafisiche.

È subito un caso letterario, 100 000 copie vendute in poco piú di un anno, l’esordiente Robert Schneider, ex studente di musica al Conservatorio di Vienna, che balza «alla ribalta della cronaca», intervistato e omaggiato nella sua casa di Meschach con vista idillica sulla Valle del Reno. E il caso letterario trascina con sé le polemiche, con i maggiori giornali tedeschi nella veste di avvocato e di pubblico ministero. Si va allora dal giudizio entusiastico dello «Spiegel» («questo romanzo farà l’effetto di una droga») a quello impettito della «Zeit», che avverte nella scelta anche stilistica di Schneider un pericoloso ripiegamento sulle posizioni dello Heimatroman: del romanzo, noi diremmo, strapaesano o bozzettistico, dell’idillio agreste semplicemente antimoderno.

Certo è che, a voler cadere ancora una volta nella trappola classificatoria, il libro di Schneider sembra muoversi tra due modelli precisi: quello umile, appunto, del romanzo paesano o della Dorfgeschichte, la «storia di villaggio», e quello alto del Bildungsroman, il romanzo di formazione. Dovremmo allora definire Le voci del mondo come una «storia di villaggio» perfetta, chiusa in se stessa, e come un romanzo di formazione alla rovescia, dove l’eroe – il genio incompreso e amante infelice Elias Alder – non conosce formazione alcuna, non ha sviluppo, ma anzi seppellisce i propri inestimabili talenti negli angusti confini del «natio borgo selvaggio». In realtà, anche il richiamo all’idillio agreste non deve trarre in inganno. Schneider si immette sulla lunghezza d’onda del filone strapaesano – austro-svizzero, con precise venature Biedermeier – mantenendo però a ogni istante la distanza dell’autore colto, letterato. La sua lente di precisione mostra sí il colorito scenario del villaggio arcaico, ma in una sorta di iperrealismo narrativo, dove il nitore dei contorni tradisce la presenza ironica di un occhio fuori campo. Ed è curioso che la stampa tedesca, in tanto fervore di commenti, abbia trascurato quello che è poi l’effetto piú vistoso e piú felice della distanza: l’umorismo. Il sottile divertimento – affettuoso oppure cinico o grottesco – che sprizza da interi episodi e dal vasto campionario umano della vicenda, affrancandola da ogni sospetto di mimikry manieristica, da ogni nostalgia sentimentale e regressiva. Mentre il patetismo di molti episodi sembra destinato ad attenuare per contrappasso proprio la freddezza ironica del «registro principale».

Si sarebbe tentati, a questo punto, di scoprire le carte, proponendo il classico gioco delle citazioni mascherate, o anche solo delle assonanze piú o meno inconsce che smentiscono a ogni passo la presunta ingenuità dell’idillio. Per esempio la scena del pasto serale in casa Alder, che Schneider ritaglia in formato pittorico richiamando forse lo squallore domestico e proletario del primo Beckmann (l’idiota, l’invalido dalla bocca deforme, il segno della Croce ecc.). Un’istantanea di puro espressionismo immersa nella luce lattiginosa di una serata alpina. Quanto alle venature Biedermeier, la figura stessa di Elias può apparire come la caricatura tragica del «maestrino» jeanpauliano, di quel Maria Wutz che realizza la sua vita-capolavoro negli angusti confini del suo paesello. E qui l’assonanza è anche piú precisa, perché di ordine stilistico: un certo periodare, la predilezione per i diminutivi, quel clima da miniatura o da casa di bambola che affiora qua e là suggerendo con forza l’immagine della lente o del cannocchiale rovesciato. L’irrompere della modernità nella parte finale del romanzo potrebbe arieggiare addirittura la chiusa del Secondo Faust, dove l’ingresso nella nuova epoca industriale spazza via i residui arcaici dell’idillio agreste (le figure di Filemone e Bauci). Ma se il gioco è legittimo, a volerlo spingere oltre si farebbe torto al romanzo, che fonde i suoi materiali e le sue citazioni vere o presunte in una sintesi felicemente unitaria. Non è il gusto postmoderno della citazione a dettare i tempi e i modi della lettura: alieno da compiacimenti cerebrali, il libro scorre come la piú godibile delle storie ottocentesche.

Felicità narrativa dunque (il «respiro» lodato dalla «Frankfurter Allgemeine Zeitung»), e anche, nello stesso tempo, un’oggettiva complessità di temi e di echi. C’è per esempio tutto il repertorio della fiaba nordica, e qui piú esattamente del folklore alpino, dove il meraviglioso sconfina nell’orrido e nel mostruoso (il fanciullo divino senza ombelico e dalla guancia piagata, l’ossessione guizzante del fuoco – in cui Lionello Venturi vedeva la sigla inconscia della pittura gotica tedesca –, o certe situazioni di violenza al limite del grand guignol). Tutto questo comporta, per il lettore italiano, una distanza ulteriore. Se per il lettore austriaco – ma immaginiamo anche svizzero o magari bavarese – la storia di Elias Alder avrà il sapore di un ritorno alle radici, il lettore italiano vi troverà piuttosto uno «strano» esotismo alpino: la dimensione del Märchen, della fiaba dai risvolti sinistri e dai sottofondi inesplicati, cosí lontana dal suo bagaglio culturale, dove il fiabesco si incarna se mai in forme piú classiche e distese.

C’è soprattutto un filo rosso che non si lascia ricondurre né alla cornice dell’idillio, né allo sguardo ironico tardomoderno o postmoderno. E torniamo con questo allo spunto narrativo del romanzo, adagiato sul binomio di amore e morte.

Il melodramma rustico di Elias, il genio solitario condannato a morire d’amore, vegliando a oltranza nel pensiero dell’amata Elsbeth, offre a ben guardare una variante profana di quella che la spiritualità orientale chiamava la «preghiera continua» o «preghiera del cuore»: quella che il monaco, nella sua «follia divina», deve imparare a recitare anche durante il sonno fino a impregnarne ogni fibra psicofisica. La variante proposta da Elias Alder è al tempo stesso profana e tragica. Sonno e «preghiera del cuore» non coesistono ma anzi si escludono: la veglia sentimentale implica la veglia tout court, fino all’estinzione fisica, secondo una cadenza iperromantica che sembra escludere modelli orientali e meditativi.

E nondimeno l’analogia merita attenzione. Tra la sfera dell’amor profano, a cui Elias si consacra, e quella mistica del cuore inteso come organo della contemplazione e dell’assoluto si dà infatti, nel libro di Schneider, un nesso preciso. Questo nesso è il battito, il ritmo del cuore, inteso come ritmo originario dell’universo. Non è facile dire se la scena madre del romanzo sia quella in cui Elias bambino «ode» per la prima volta il cuore dell’amata, o quella invece della grande estasi acustica in cui l’orecchio del bambino-prodigio arriva a cogliere il suono del mondo. E non è facile dirlo perché si tratta in realtà della stessa cosa, e di un’unica scena madre. Il battito impercettibile dell’amata ancora chiusa nel grembo materno si fonde col battito del cuore di Elias solo per aprirsi a sua volta su un altro battito, quello del macrocosmo.

Si pone a questo punto un problema che attraversa le pagine di Le voci del mondo come un filo ideale piú o meno nascosto: quello del cristianesimo o comunque del Dio cristiano, sempre invocato o chiamato in causa come un’entità inaggirabile e ambigua, oscura Provvidenza che non provvede, dalle sembianze mostruosamente demoniche. Il leitmotiv francamente blasfemo che percorre l’intero racconto prospettando l’immagine compiaciuta di un dio sadico, un dio-aguzzino – si pensi alla coincidenza atroce e beffarda del Primo Incendio e della Messa di Natale –, esce dallo schema tradizionale della Lotta con l’Angelo, della teomachia intesa come affermazione paradossale del Divino. Ed esce da quello schema perché lo spunto anticristiano sembra fare tutt’uno con lo scenario alternativo di una religiosità non piú cristiana ma anzitutto cosmica, legata ai ritmi e al respiro possente di una Natura in qualche modo divinizzata.

Non è un caso che del cristianesimo si conservi qui, in positivo, non certo la morale e tantomeno la teologia, quanto invece il calendario, la trama ripetitiva e insieme luminosa delle feste annuali in cui lo specifico cristiano si stempera sullo sfondo precristiano dei riti contadini. E non è un caso che al ritmo delle stagioni e allo scenario del bosco alpino siano legati gli spunti piú genuinamente lirici della scrittura di Schneider (il fluttuare della nebbia gelata, l’evocazione poderosa e quasi mimetica del fuoco devastatore, il fascino ipnotico della grande pietra levigata dall’acqua ecc.).

Il punto è, per tornare alla questione della sacralità naturale, che la quintessenza di questa natura si presenta appunto come una quintessenza sonora, ancorché impercettibile all’orecchio ordinario. E di questa quintessenza Elias è come il veggente solitario, il tramite geniale e incompreso. Elias possiede quello che Ernst Joachim Berendt definiva «il terzo orecchio» (per analogia col «terzo occhio» della mistica tibetana). Ossia la facoltà di risalire dalla musica come fatto culturale alla musica come fatto naturale, dalla musica humana alla musica mundana.

Nei modi tenui della fiaba, della «storia di villaggio» venata di postmoderna ironia, Schneider propone insomma una tesi fortissima, che potrà apparire visionaria solo a chi ignori la portata e la profondità dell’esperienza musicale nei paesi di cultura tedesca. Anche solo l’enumerazione virtuosistica dei suoni e dei rumori naturali «suona» davvero come una pagina di musica d’avanguardia – vengono in mente i Momente di Karlheinz Stockhausen –, dove il percorso è identico ma invertito di segno: non piú dalla musica per organo alla musica mundana, come nel caso di Elias, ma dal materiale eterogeneo e casuale dei suoni/rumori alla cornice della musica da concerto.