12. Doping

Alla fine dell’estate 1996, non ero più lo stesso uomo. I corridori

della mia generazione appartenevano a un’epoca cerniera.

Avevamo iniziato con le sostanze storiche del doping, già usate

dai grandi del passato, e all’improvviso venivamo proiettati

in una nuova èra. Corticoidi e amfetamine non modificavano

fondamentalmente le gerarchie, mentre ora gli apprendisti

stregoni della provetta potevano «fabbricare» i campioni.

Era arrivata l’epoca del Robosport.

Erwann Menthéour, Il mio doping

Truccare il proprio motore. Salire di cilindrata, modificare il carburatore, aprire la marmitta, alleggerire la carrozzeria, aumentare gli ottani. Ma nel proprio sangue, per i propri muscoli, sulla propria pelle. Migliorarsi, trasformarsi: la linea di confine è, spesso, invisibile. Doping.

È sempre esistito, il doping. Resta solo da capire se sia nato prima lo sport o il doping, prima la gara o l’imbroglio, prima la competizione o l’inganno. Ma cambia poco. Nella Teogonia, la storia degli dèi scritta da Esiodo intorno al 700 a.C., c’è una divinità che concede la vittoria agli atleti: si chiama Ecate ed è specializzata non nella giustizia o nella trasparenza, non nella lealtà o nell’equità, ma nella magia. Allora si chiamava magia, ma forse era un magheggio. Adesso si direbbe: doping. E siccome quel doping di Ecate e colleghi è divino, gode di un suo marchio di fabbrica, di una sua denominazione di origine controllata, di una sua speciale autorizzazione.

Poi, probabilmente perché Ecate interviene così raramente e imprevedibilmente, ci pensano gli atleti stessi. Da soli. Che giurano e spergiurano, proprio sugli dèi dell’Olimpo, di osservare fedelmente le regole delle gare. Invece, appena possono, truccano le gare. E si drogano. I semi di sesamo sono considerati doping: in caso di assunzione si può arrivare perfino alla condanna a morte. E c’è chi mangia testicoli crudi di animali. Anche di tori. Red Bull, con un paio di migliaia di anni in anticipo.

Il doping è dovunque. Non solo nello sport. Anzi, forse lo sport è l’unico settore in cui il doping si combatte veramente. Il doping è nella politica, nello spettacolo, nell’arte. Il doping è nei giornali: certi titoli, gonfiati come da steroidi anabolizzanti, non corrispondono al contenuto dell’articolo, ma lo esasperano, lo estremizzano, lo travisano. Non lo traducono, ma lo tradiscono.

L’evasione fiscale è doping, la corruzione è doping, le clientele, fino a quelle mafiose, sono doping. Il doping, oggi, è dovunque. Do­ping nell’alpinismo e nella vela, nell’automobilismo e nel bridge, nel rugby e negli scacchi, nel pugilato e nel nuoto. Doping nel calcio, molto protetto. Doping nel ciclismo, dove sembra concentrarsi la lotta. Forse perché ha una storia antica. Alla fine dell’Ottocento i corridori vengono preparati come i cavalli. Sempre in pista: l’ippodromo per gli atleti a quattro zampe, il velodromo per quelli a due ruote. Le Sei giorni: sei giorni, ventiquattr’ore su ventiquattro, in bici. Negli Stati Uniti i seigiornisti bevono l’american coffee. Allungato con veleni. Sostanze eccitanti e assassine. Allungato forse anche con cocaina. Alchimie, intrugli, bombe. Che tengono svegli. Che danno la carica.

Nel 1896, sul giornale «American Wheelmen», gli uomini a ruote americani, di New York, si legge: «Hale, il vincitore, aveva l’aria di un fantasma e solo la sua straordinaria energia lo manteneva ancora in bicicletta. La sua faccia era bianca come quella di un cadavere. Alla fine della gara fu tolto a braccia dalla bicicletta e il corridore fu preso da un’allucinazione che gli faceva vedere delle persone che cercavano di farlo cadere… Il secondo arrivato, Rice, scese dalla bicicletta tremando, con sudorazione fredda, supplicando i suoi incaricati di impedire al pubblico di gettare dei fiammiferi davanti alla sua ruota. Poi fu il negro Taylor che, preso da un accesso di pazzia furiosa, ritrovò ancora tanta forza da saltare giù dalla bicicletta e precipitarsi sulle persone che erano nel mezzo della pista, gridando loro di volerle uccidere».

Il primo stregone del doping si chiama Choppy Warburton, è gallese, tra il 1874 e il 1879 stabilisce vari record di podismo, dalle 2 alle 10 miglia, poi diventa allenatore. Predica la «half and half», mezza birra chiara e mezza birra scura. Prepara il «Choppy’s secret»: caffeina, stricnina, brandy, cocaina, arsenico e nitroglicerina. Altro che bomba. E la prima vittima del doping è un cliente di Warburton: il gallese Arthur Linton, che a ventisei anni partecipa alla Bordeaux-Parigi, vince, ma la giuria accerta che ha preso una scorciatoia, così la vittoria viene condivisa con il secondo. Alcuni mesi dopo Linton muore in circostanze misteriose, forse per le conseguenze di quei beveroni con troppa stricnina.

Giovanni Rossignoli, pavese, nel 1903 (a ventun anni) vince la Gran Fondo, 600 chilometri da Milano a Roma, con quasi cinque ore di vantaggio sul secondo, e nel 1926 (a quarantaquattro anni) arriva ventunesimo al Tour de France, ma primo tra gli isolati. Poi racconta: «Vi erano vari tipi di stimolanti. I più spregiudicati arrivavano a mescolare anice puro con prodotti alla nitroglicerina. C’era anche chi si affidava già agli stupefacenti. Comunque era indispensabile mangiare, e molto, assumendo stimolanti, per evitare spiacevoli sorprese. Infatti, poteva capitare di trovarci sul ciglio della strada privi di energie, evidentemente perché “la bomba” aveva bruciato tutto senza che ce ne accorgessimo».

E sul Giro d’Italia del 1914, la corsa più dura della storia (solo per dirne tre, di record imbattibili: ottantuno alla partenza e otto all’arrivo, media della lunghezza delle otto tappe 396,250 chilometri, la più lunga da Bari a L’Aquila, 428 chilometri coperti in 19 ore, 34 minuti e 47 secondi), Emilio Colombo, direttore della «Gazzetta dello Sport», scrive che «alcuni hanno l’abitudine di drogarsi, ma non sanno drogarsi con misura, donde la loro azione difforme, i brevi periodi brillanti, le improvvise “défaillances”, gli inevitabili ritiri. Il nostro ciclismo deve sottoporsi a una cura scientifica e continuata. Allora atleti del tipo di un Azzini o di un Girardengo riusciranno meravigliosi fino al termine». Insomma, un invito ufficiale a drogarsi, e a drogarsi meglio.

Ci si dopa perché il doping non è vietato. Gino Bartali sostiene di non tollerare gli stimolanti: anzi, l’effetto è contrario. Si blocca, si deprime. E non si fida di nessuno, né dei massaggiatori né dei compagni: si prepara le borracce da solo. Però Aldo Bini, suo compagno, racconta di aver fatto vincere a Bartali il Giro d’Italia del 1946 proprio grazie a una borraccia, «una “bomba” particolare confezionata con Coca-Cola, caffè, uova, whisky, cherry, brandy. Ben tre etti di “roba”… Risuscita in un batter d’occhio, ritrova d’incanto la forza e resta nella mia scia. Io sembro un treno. Alle porte di Bassano del Grappa scorgiamo davanti a noi le auto che seguono Coppi. È fatta!».

Fausto Coppi, come scrive Mario Fossati, «era l’atleta che più sapeva in fatto di ergogenia medicamentosa (termine con cui i medici allora battezzavano il doping). Coppi chiedeva l’opinione, l’apporto di tutti. Dal massaggiatore dai rimedi eroici, al medico, allo scienziato. Coppi faceva dello sport professionistico anche una questione di tecnica moderna, di scienza». Il doping è la simpamina, un amfetaminico. In un’intervista televisiva diventata celebre, un giornalista gli chiede: «Fausto, tutti i corridori portano una borraccetta nella tasca posteriore dei calzoncini. Cosa contiene la bor­raccetta segreta?». Coppi risponde: «La bomba». Sorride: «La bom­ba dovrebbe essere un paio di gambe di ricambio. È composta da ingredienti segreti, i principali dei quali sono la simpamina e la fi­ducia che funzioni». Il giornalista incalza: «Tutti i corridori prendono le bombe?». Coppi: «Sì, tutti». «Tu prendi bombe, Fausto Coppi?». «Naturalmente, quando serve». «E quando è che serve?». «Quasi sempre».

In un’altra intervista, Coppi spiega: «Si generalizza troppo sull’uso degli stimolanti. È vero che certe sostanze danno risultati, però bisogna servirsi di esse con cautela e sotto controllo medico. L’uso di certe sostanze impone una preparazione scrupolosa. È inutile servirsi degli eccitanti quando la preparazione atletica non è perfetta. Con l’allenamento severo e quotidiano, si possono ottenere risultati che la chimica non può far raggiungere. Se si vogliono ottenere risultati, insomma, si deve procedere con il buonsenso». Il doping applicato all’allenamento. O forse: l’allenamento applicato al doping. Biagio Cavanna: «Basta sapersi curare, e sapersi curare significa saper trovare le dosi giuste degli stimolanti, e utilizzarle quando si è prima perfettamente allenati. Perché un eccitante da solo non può certo trasformare un asino in un cavallo…». È così allora, negli anni Cinquanta. Non lo sarà più negli anni Ottanta, e poi Novanta, e poi Duemila. Come ha sempre sostenuto Fiorenzo Magni, «la simpamina, confronto all’epo, era acqua minerale». La differenza la fa l’epo, che può trasformare gli asini in cavalli. Certo, dipende dalle quantità. Ma può farlo.

Il doping, sostiene Silvio Garattini, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, è «qualsiasi manovra medica attuata sull’atleta, con lo scopo di migliorarne la prestazione», è «la somministrazione o l’uso di qualsiasi sostanza fisiologica assunta in quantità anormale o introdotta nell’organismo per via anormale – come stabilito dal Comitato internazionale olimpico –, con la sola intenzione di aumentare, in maniera artificiale o sleale, la prestazione durante la gara», è «l’assunzione di sostanze chimiche, che si suppone siano in grado di aumentare le capacità fisiche dell’atleta e di conseguenza aumentarne le prestazioni agonistiche». Purtroppo, per molti altri, il doping è solo ciò che si trova. Invece, quello che non si trova è scienza. Ma è anche imbroglio. E business. Nel 1994 Michele Ferrari, allievo di Francesco Conconi, sentenzierà: «È doping solo quello che viene trovato ai controlli».

Ancora Garattini: «L’autoemotrasfusione consiste nel prelevare circa un litro di sangue all’atleta, conservarlo per un lungo periodo di tempo e quindi reiniettarlo in concomitanza di una gara. Lo scopo di questa manipolazione è quello di aumentare il numero di globuli rossi e quindi di elevare la capacità di trasporto dell’ossigeno del sangue». Cioè: aumenta la capacità aerobica massima. Ma è una tecnica complicata: prelevare il sangue, conservarlo, reiniettarlo. L’autoemotrasfusione viene soppiantata dall’epo. «L’eritropoietina» spiega Garattini «è un ormone che controlla la sintesi dei globuli rossi da parte del midollo osseo. Normalmente, quando si ha una riduzione di ossigeno a livello dei tessuti, il rene rilascia un prodotto inattivo, che viene poi trasformato nel plasma in eritropoietina. L’eritropoietina stimola il midollo osseo a produrre globuli rossi, che sostituiscono quelli ormai vecchi o danneggiati che non sono più in grado di trasportare l’ossigeno. La somministrazione di eritropoietina tende quindi a evocare artificiosamente ques­ta risposta e a migliorare il trasporto di ossigeno da parte del sangue». I benefici – resistenza e capacità di recupero – sono enormi. I rischi anche, ma si possono correre. «L’eccesso di globuli rossi» sostiene Garattini «provoca una chiara tendenza alla trombosi, che può aumentare in rapporto con la perdita di liquidi, caratteristica dello sforzo intenso e prolungato».

Ciclismo, maratona, sci di fondo. Si comincia a parlare di doping ematico, nel sangue, alle Olimpiadi di Mosca, nel 1980. E sempre nel 1980 Francesco Conconi, biochimico all’Università di Ferrara, propone al Coni di assistere la preparazione degli atleti italiani, soprattutto negli sport di resistenza, per migliorarne le prestazioni. Conconi e il suo staff cominciano a collaborare. Autoemotrasfusione. Risultati, medaglie, successi. Lo racconta Sandro Donati in Lo sport del doping. Chi lo subisce, chi lo combatte. Conconi gli spiega che nell’atletica «i miglioramenti potenziali sono enormi: da 3 a 5 secondi sui 1500 metri e da 30 a 40 secondi sui 10.000».

Quattro anni più tardi, alle Olimpiadi di Los Angeles, «il cambio del sangue» – come sfugge a Alberto Cova in una intervista a Oliviero Beha per «la Repubblica» del 10 settembre 1982, dopo la medaglia d’oro nei 10.000 metri agli Europei di Atene – è una prassi comune, almeno per lo sport italiano. Il doping ematico qualche volta funziona – come con lo stesso Cova, la mezzofondista Gabriella Dorio, il quartetto della 100 chilometri di ciclismo –, qualche volta no, come per esempio con i nuotatori. È comunque una prassi comune, ma non ancora vietata. Cioè, moralmente è vietata, ma siccome non se ne trova traccia nei controlli praticamente è ammessa.