16. Alpe D’Huez

L’è una parola difficil ch’las riferés m’una roba ch’lan è facil da truvè,

che e pèr impusébil chìla esésta, tènt’è vera che spès l’as circa sa di modi

che inveci da fèt stè bè nit fa murì. La cuntantèza la è fata ad atim

chi pasa a la svelta, dal volt la dura È tèmp d’una nudèda, d’una scièda sla niva,

d’un slalom tal parole d’una poesia o de pensier d’arturnè ma chsa

tua dèp tre mis che tzi stè via.

Rosita Nicoletti, «Cuntantèza» da E nascundèin de tèmp: racconti in dialetto riccionese

Le Alpi sono aguzze, i Pirenei tondi. Le Alpi sono guglie, i Pirenei panettoni. Le Alpi s’impennano, i Pirenei si allungano. Le Alpi decollano, i Pirenei atterrano. Le Alpi volano, i Pirenei planano. Infatti le Alpi sono altimetriche, i Pirenei chilometrici. Le Alpi parlano tutte le lingue, i Pirenei francese e spagnolo, catalano e basco. Le Alpi hanno nomi militari o religiosi, sofferenti fino al martirio e dolorosi fino alla morte (Forclaz, Sentinelle, Croix-de-Fer), i Pirenei hanno nomi più dolci (Port de Pailhères) o romantici (Plateau de Beille) o letterari (Aspin, Portet-d’Aspet e Pourtalet sembrano come i tre moschettieri), e perfino Tourmalet – la strada cattiva – suona quasi caritatevole. Anche se i nomi più drammatici abitano altrove: Calvaire nei Vosgi e Croix de l’Homme Mort nel Massiccio Centrale.

Il Tour sta in cielo e in terra, sulle bici e nei furgoni, in gruppo e in carovana. Il Tour è fughe e volate, cadute e cotte. Il Tour è giallo e a pois. Il Tour è soprattutto Alpi e Pirenei, eppure la prima montagna che ha affrontato non è disegnata nelle Alpi e neanche nei Pirenei. E siccome questa montagna è emersa nei Vosgi, in Alsazia, al confine con la Germania, e ha la forma di un pallone, viene chiamata Ballon d’Alsace. Il suo debutto risale al terzo Tour, nel 1905, quando il Giro d’Italia è ancora soltanto un miraggio. L’organizzatore, Henri Desgrange, pensa che la corsa sarebbe perfetta soltanto se al traguardo non riuscisse ad arrivare neppure un corridore. È per questo che inserisce il Ballon d’Alsace, convinto che nessuno vi arrivi, o forse sperando addirittura che nessuno vi sopravviva. Invece, pedalando a 20 all’ora, in cima giunge René Pottier. E l’anno successivo Pottier si toglie l’enorme soddisfazione di superare, sulla stessa salita, la macchina in cui viaggia proprio Des­grange. Oggi, in cima al Ballon d’Alsace, un memoriale ricorda Pottier.

Pottier è il padre di tutti gli scalatori, dunque un antenato di Pantani. Nel 1906 domina il Tour in lungo e in largo, e soprattutto in alto. Tra Vosgi e Alpi conquista quattro tappe consecutive: la Nancy-Digione è lunga 416 chilometri, e per completarla lui ci mette 15 ore, 18 minuti e 41 secondi. La sua supremazia è assoluta. Nella frazione da Grenoble a Nizza, 345 chilometri, accumula un’ora di vantaggio sugli inseguitori. Così decide di prendersela comoda: si ferma, appoggia la bicicletta, entra in un bar, ordina una caraffa di vino, la sorseggia, chiacchiera con gli spettatori, aspetta il gruppo, rientra in corsa e alla fine non resiste alla tentazione, o alla strapotenza: torna in fuga e vince con quasi mezz’ora di vantaggio. A salvare l’onore degli avversari c’è la classifica, conteggiata a punti anziché a tempo.

Chissà di quanti Tour avrebbe potuto impadronirsi, Pottier. Invece il 25 gennaio 1907 viene trovato impiccato nella club house della Peugeot, a Levallois-Perret. Non ci sono lettere di addio. Ma il fratello di René sostiene che si sia ucciso per ragioni sentimentali. Un ossimoro, un paradosso: come se si potessero coniugare la razionalità delle ragioni e l’irrazionalità dei sentimenti. La verità è che la moglie di Pottier ha una relazione amorosa mentre il marito è al Tour. Quando lui scopre il tradimento non guarda in basso, ma in alto. Come se davanti a sé ci fosse una montagna da scalare. Stavolta non vede boschi e malghe, sterrati e tornanti. Vede una trave, un gancio, un cappio. E trova una soluzione, a lui già nota. Una fuga solitaria.

Ma il Tour è soprattutto Alpi e Pirenei. Un anno si affrontano prima i Pirenei e poi le Alpi, l’anno dopo prima le Alpi e poi i Pirenei. Perché guglie e panettoni, sempre e comunque, si rivelano decisivi. I capitoli di un romanzo, anzi, con quella maglia da leader i capitoli di un giallo. E, all’Alpe, uno spettacolo unico. Chiedete se non è vero a chi pianta la tenda su un suo meandro già tre settimane prima che passino i corridori.

L’Alpe è l’Alpe d’Huez. Ma la chiamano l’Alpe, l’Alpe e basta, neanche il bisogno di specificare, indicare, qualificare. Quando si dice l’Alpe, è questa: una ferita nella montagna, un serpente nella roccia, una festa della bicicletta, un festival del ciclismo. 14 chilometri e 454 metri di lunghezza, 1143 metri di dislivello, 7,5 percento di pendenza media, 14 percento di pendenza massima, 21 tornanti. Per i mille ciclisti che ogni giorno qui misurano le loro ambizioni, memorie, voti, sfide, imprese, questa è l’Alpe Regina. Per i «touristi» è come andare in pellegrinaggio, l’Alpe è San Pietro, è il Muro del pianto, è la Mecca. Per il vincitore l’Alpe non è solo un traguardo, ma un tripudio, un trionfo, un’apoteosi, un premio alla carriera, un senso dato alla vita, e non esclusivamente alla vita di corridore.

L’Alpe sorge sopra Le Bourg-d’Oisans, a sud-est di Grenoble. E si manifesta per la prima volta nel 1952. Prima è invisibile, irraggiungibile, impossibile. Una stazione sciistica selvaggia e primitiva: tre alberghi alla fine di una strada dissestata gestiti da un consorzio di uomini d’affari tra cui Georges Rajon, proprietario dell’hotel Christina. Gli organizzatori del Tour sono contrari a prendere in considerazione l’Alpe quando Rajon e i suoi soci propongono questo traguardo verticale per promuovere la località sciistica: l’arrivo in cima a una salita, senza altri sbocchi, un «cul de sac» per dirla con il loro accento, è sconveniente per una grande corsa e per un grande circo, tant’è che finora non è mai stato allestito. L’idea si fa più interessante quando Rajon e i suoi due soci accompagnano la candidatura facendo scivolare un assegno di duecentomila franchi francesi. Una cifra esagerata.

Jacques Goddet, erede di Desgrange, spedisce sull’Alpe un commissario, Élie Wermelinger, per esplorare il luogo. Wermelinger ci va nel periodo meno indicato: nei primi mesi del 1952, a marzo per la precisione, la montagna è sepolta nella neve. A Le Bourg-d’Oisans il commissario incontra una guida, la macchina su cui viaggiano, una Phanard Dyna, viene equipaggiata con catene e in qualche modo i due arrivano in cima. Wermelinger è allibito: a parte i tre alberghi, non c’è nulla. Nessuno chalet, nessuno skilift.

I casi sono due: Wermelinger è un visionario oppure Wermelinger ci vede benissimo, soprattutto gli zeri dell’assegno allungato da Rajon. Il suo rapporto è favorevole. E il Tour affronta la carrettiera il 4 luglio 1952: decima tappa, da Losanna all’Alpe, 266 chilometri. La maglia gialla ce l’ha Sandrino Carrea, gregario di Coppi, un uomo – come sostiene il suo fratello di strada Ettore Milano, alludendo alla sua forza selvatica e animalesca – imparentato con un orso. Se del Campionissimo Ettore è l’angelo custode in pianura, Sandrino lo è in salita. Ettore è un libretto di parole, Sandrino uno spartito di silenzi e brontolii. Ettore è perfetto, giù dalla bici, Sandrino ideale, in sella.

Il giorno prima, nella Mulhouse-Losanna, Sandrino entra in una fuga per fare da zavorra e si ritrova addosso il simbolo del primato. L’imbarazzo, per Carrea, appare subito insopportabile. Innanzitutto perché ha osato strappare la maglia gialla a un altro italiano, un campione, un capitano: Fiorenzo Magni. Poi perché lui è lì al Tour per aiutare Coppi. Così la prima cosa che Carrea fa è andare dal Campionissimo e chiedergli scusa. Perché un gregario, un vero gregario, tanto più lui, il gregario, al suo capitano non deve sottrarre neanche l’ombra. Ma Coppi gli regala un sorriso e gli rifila una pacca sulle spalle.

È, quello del 1952, il Coppi più grande. Immenso. Infinito. Secondo nella Parigi-Roubaix dietro soltanto all’imperatore, Rik Van Steenbergen. Primo al Giro d’Italia, vincendo tre tappe e liquidando Magni e Ferdi Kübler, secondo e terzo, a più di 9 minuti. Al Tour ha già vinto la cronometro individuale da Metz a Nancy, 60 chilometri a quasi 39 orari di media. Qui, sull’Alpe, Coppi lascia sfogare Jean Robic, minuscolo scalatore francese, un metro e sessantuno, detto «Testa di vetro» per le ferite riportate in cadute e il caschetto protettivo (in discesa s’infila nelle tasche sassi o borracce piombate per poter andare più forte), il primo a conquistare il Tour – succede nel 1947, quando sferra l’attacco decisivo nell’ultima tappa – senza mai indossare la maglia gialla. Poi Coppi attacca. La strada è sterrata, sconosciuta, spietata. La sua andatura è ineguagliabile. Per arrampicarsi sui 14 chilometri e rotti ci mette 45 minuti e 22 secondi, a una media di 18,6 chilometri orari. Il vantaggio su Robic è di un minuto e 20 secondi, 3 minuti e 22 secondi sul belga Stan Ockers, che poi sarà secondo a Parigi. Alla distanza siderale di oltre 28 minuti dal Campionissimo. Quel giorno, sull’Alpe, Carrea rispetta l’impegno assunto come gregario, anzi, come angelo custode. Arriva tra i primi, frenando. Per pochi secondi, la maglia gialla spetta a Coppi. E Carrea, finalmente, dorme tranquillo.

Dopo il volo dell’Airone, l’Alpe torna invisibile, quasi rinnegata, comunque dimenticata. A qualcuno non è piaciuta la superiorità di Coppi. Si teme la legge del più forte. Si teme anche che il gruppo trasformi la tappa in una lunga attesa dello sforzo finale. Finché un altro assegno convince Félix Lévitan, collega di Goddet, a reinserirla nel percorso del Tour. Succede nel 1976. E da allora, con qualche eccezione, l’Alpe rimane in cartellone. Un’opera, un rito, una liturgia. Una messa cantata. In una cattedrale che è un velodromo naturale ed estremo, con i tornanti numerati al contrario, dal ventunesimo al primo, un conto alla rovescia verso la fine dell’agonia, come le stazioni di un calvario. Dai 720 metri di Le Bourg-d’Oisans agli 806 del ventunesimo tornante, che sarebbe il primo. Agli 880 del ventesimo. Ai 900 del diciannovesimo. Ai 922 del diciottesimo. Ai 965 del diciassettesimo. Ai 980 del sedicesimo. Ai 1025 del quindicesimo. Ai 1055 del quattordicesimo. Ai 1120 del tredicesimo. Ai 1161 del dodicesimo. Ai 1195 dell’undicesimo. Al 1245 del decimo. Ai 1295 del nono. Ai 1345 dell’ottavo. Ai 1390 del settimo. Ai 1480 del sesto. Ai 1512 del quinto. Ai 1553 del quarto. Ai 1620 del terzo. Ai 1669 del secondo. Fino ai 1713 metri del primo. Da qui al traguardo, da qui alla gloria, una rampa all’8,2 percento, una curva a destra e una a sinistra non qualificate né gratificate come tornanti, un’ultima rampa al 5 percento.

Duecentomila, trecentomila, fino a cinquecentomila spettatori: muri di folla, straboccante e straboccata, invadente e invasata. I tornanti abitati, la strada invasa, l’asfalto occupato, l’aria alcolizzata. Si pedala su un nastro isolato di bitume.

Tra i conquistatori dell’Alpe c’è anche un colombiano. Nasce su una collina, s’impadronirà delle montagne. Abita tra palme e banani, traslocherà tra abeti e larici. Raccoglie i fiori, correrà in bicicletta. Lo chiamano «el jardinerito», il piccolo giardiniere, lo ribattezzeranno semplicemente «Lucho». Luis Herrera detto Lucho, nato in un paese che sembra uno scioglilingua, Fusagasugá, a 50 chilometri da Bogotá. Scalatore, arrampicatore, grimpeur: dalle Ande agli Appennini, dalle Alpi ai Pirenei. Nel 1984, a ventitré anni, partecipa al suo primo Tour e conquista subito l’Alpe: come uno che debutta ai Mondiali di calcio e segna un gol in finale al Maracanã, come uno che alla prima partita di rugby va in meta a Twickenham.

Lucho è leggero, aereo, etereo. Quando la strada s’impenna, lui non sembra fare fatica. Al Tour colli e passi sono lunghi al massimo 20 chilometri: in Colombia anche 50. Così, quello che Lucho guadagna salendo non basta mai per compensare quello che perde scendendo. Comunque tra il 1984 e il 1988 vince tre tappe (il primo sudamericano a vincere una tappa al Tour) e due titoli della montagna, ottenendo un quinto, un sesto e un settimo posto nella classifica finale. Smette di correre fin troppo presto, causa doping, il doping degli altri: «Quando ho cominciato a vedere corridori grandi e grossi scalare come aeroplani, ho capito. E ho preferito fermarmi».

In bici Lucho è una forza della natura, animalesca: capra, camoscio, stambecco. Nel 1985 l’eruzione del Nevado del Ruiz uccide ventitremila colombiani, e la Francia provvede agli aiuti umanitari. Un anno dopo Herrera, prima del Tour, porta in Francia due pietre di lava vulcanica, che vengono sistemate sulla strada dell’Alpe d’Huez, vicino a una cappella, con una targa commemorativa. In Colombia Herrera entra nella storia vera, e anche nella cronaca nera. Nel 2000 viene rapito dalle Forze armate rivoluzionarie della Colombia, costretto a marciare sette ore nella giungla, e rilasciato venti ore dopo. Mai conosciuta l’entità del riscatto.

Pantani sale di categoria, s’iscrive al club dei «velivoli», affronta l’Alpe da sfidante, con il titolo in palio, ne esce da trionfatore, con la cintura da campione. La sua velocità stupisce, la sua resistenza affascina. Stacca gli avversari dalla ruota, li sfila, li semina. Agli spettatori, sulla strada e alla tv, sembra di poter ritrovare, e rivivere, il ciclismo più antico e selvaggio. Più umano. Si scoprirà che è anche quello più chimico. Sanguigno.

Pantani conquista l’Alpe nel 1995 e nel 1997. Tra la prima e la seconda vittoria, subisce l’incidente alla Milano-Torino e deve ricominciare da zero. Per questa ripartenza, i due trionfi hanno sapori diversi. Nel 1995, il 12 luglio, stabilisce il record della scalata: 36 minuti e 50 secondi, alla media di 22,480 chilometri orari. Decima tappa. Si parte da Aime-La Plagne e si prosegue per 162 chilometri e mezzo. In salita Pantani, maglia bianca della Carrera, dorsale numero 21, spiana la strada, stronca la resistenza di Ivan Gotti, rimane solo, abbandona la maglia gialla Indurain e Zülle a un minuto e 24 secondi, sbaglia l’ultima curva, va dritto invece di piegare a sinistra, e taglia il traguardo prima mostrando il pugno e poi battendosi le mani. Nel 1997, il 19 luglio, tredicesima tappa, si parte da Saint-Étienne e si prosegue per 203 chilometri e mezzo. In salita Pantani, maglia blu della Mercatone, dorsale numero 181, orecchino al lobo sinistro, apre il gas al ventesimo tornante (cioè al secondo), rimane solo, si impone sulla maglia gialla Ullrich e sulla maglia a pois Virenque, molla il tedesco a 47 secondi, il francese a un minuto e 27 secondi e taglia il traguardo urlando. «L’urlo della liberazione» spiegherà il suo direttore sportivo Beppe Martinelli.

STEFANO DELLA SANTA: PANTANI SI ERA ARRABBIATO CON ME

Stessa moto: Harley Davidson. Stessa passione: il mare, anche se io a vela e lui a motore. Stessa vocazione: la salita, con le dovute differenze. Eppure. Marzo 1997, Critérium International, a Mazamet, dov’è nato Laurent Jalabert. Semitappa con arrivo in salita, sul Pic de Nore. Pantani vuole fare la corsa, sente la responsabilità della squadra su di lui, ed è abbastanza teso, anche se non vuole farlo vedere. Ci troviamo a tavola, per la colazione. Io, altri due, più lui, sceso per ultimo. Mi faccio un sandwich: pane, Philadelphia e marmellata. Di Philadelphia ne è rimasto poco, quel poco lo finisco, poi rimetto la scatola sul tavolo. Pantani prende la scatola, è vuota, e ha un gesto di stizza. Io gli rispondo. Lui si arrabbia. Ci guardiamo in faccia. Zitti. Un istante. Poi scoppiamo a ridere.

MARIO TRAVERSONI: PANTANI ERA UN PESCATORE

19 luglio 1997. Tour de France, tredicesima tappa, da Saint-Étienne all’Alpe d’Huez. Come se fossero due corse: la prima di 190 chilometri, dalla partenza fino all’inizio dell’Alpe, la seconda di 14 chilometri, l’Alpe d’Huez.

Il Panta c’è. Con i soliti dubbi, le solite titubanze. «Facciamo la tappa» gli diciamo. «Poi vediamo» ci risponde. In corsa controlla le scarpe, sistema la sella, ascolta le sensazioni. Va via una fuga, prende quasi un quarto d’ora, sembra una giornata qualsiasi, quando il Panta decide: «Faccio la corsa». Andiamo in testa al gruppo, a tirare. Pellicioli, Siboni, Artunghi e io. Più di cento chilometri a inseguire i fuggitivi, pancia a terra, controvento, fino a raggiungerli ai piedi della salita. Gli ultimi chilometri a tutta, le squadre disposte a treno, come prima di uno sprint, per portare i capitani nella migliore posizione possibile. Mi sfianco. E quando la salita comincia non ne ho più neanche una goccia. Per un attimo metto i piedi a terra. Poi vado su, con il mio passo, a passo d’uomo.

Il resto della tappa è quello prima raccontato dai compagni e poi visto in tv. Virenque in maglia a pois, Ullrich in maglia gialla, Casagrande, Riis e il Panta, già in testa al primo tornante. Il Panta che attacca, al secondo tornante. Prima Casagrande, poi Riis, quindi Virenque, infine Ullrich cedono agli attacchi. E il Panta che vince, con il record della salita. Come sempre, anche di quel record sembra che non gliene importi nulla, invece ci tiene moltissimo. In cima, la gente, la festa, il podio. Un delirio giallo.

Due giorni dopo, a Morzine, il Panta rivince.

Eppure, il Panta più felice non è quello che vince all’Alpe d’Huez o a Morzine, ma quello che va a pesca. Pesca in mare e in acqua dolce. Insieme, una volta in un laghetto privato, vicino a Cesenatico, divieto d’accesso, «non c’è problema», dice lui, e infatti la porta si apre. Un’altra volta con i barconi in mare, con un gruppo di ex professionisti, a sgombri, vicino alle piattaforme. Un’altra volta in un laghetto, vicino a Milano. Oppure il Panta più felice è quello che va a caccia. Un cecchino, dalla mira esagerata. Anche qui, sembra che faccia tutto per caso, invece è preciso e meticoloso. Oppure il Panta più felice è quello che canta. Una sera, insieme, vicino a casa mia, a Corno Giovine, nel Lodigiano, un karaoke. Lo riconoscono. «Quello lì è il Pantani» fa uno. «Ma no, ha la testa e le orecchie troppo piccole» dice un altro.

GIUSVAN PIOVACCARI: PANTANI ERA TRECENTO ALL’ORA

Pantani doveva fare un provino per una pubblicità. E voleva farsi accompagnare da qualcuno. Ma «Fonta» e gli altri non potevano. «Vieni te, giovane» mi fa. Salgo sulla sua Mitsubishi 3000 GT. Prende l’autostrada e schiaccia a tutta. Dopo cinque minuti oso dirgli che stavamo andando a trecento. «E allora?». E allora non ho più detto niente, anche perché non potevo, e mi sono fidato della sua guida. Da Dozza a Biella, anche in aereo ci avremmo messo di più. All’inizio Pantani mi faceva soggezione, poi, a conoscerlo, no. Mi chiamava «Pio». In fondo, Pantani era come noi: testa, braccia e gambe. Anche se gambe insuperabili. Avevo già firmato per la Saeco, ma quando seppi di questa squadra romagnola mi liberai e passai alla Mercatone. Due anni: il 1997 da tappabuchi, il 1998, tra mononucleosi e infortuni, poco o niente. Peccato soprattutto per il 1998: la vittoria al Giro me la gustai solo nella tappa di San Marino, quando andai a salutare la squadra, e quella al Tour solo davanti alla tv.