17. Montecampione

Per esempio

c’è chi non sa dove andare

e sta correndo per andarci subito.

Tonino Guerra, La valle del Kamasutra

Plan di Montecampione è una salita a senso unico, un biglietto di sola andata, una botta e via. È una montagna che, fin dal nome, non considera i gregari. E, a ben vedere, è una montagna che non esiste. Perché è soltanto una strada che va su, per una ventina di chilometri. Dalla Val Camonica dentro la Val Camonica. Dopo il Lago d’Iseo, per una statale ormai quasi abbandonata perché prevaricata da una superstrada, a Pian Camuno si volta a destra, e dai 204 metri del bivio si sale, come su un trenino a cremagliera, alla prima stazione di Solato (chilometro 3, quota 426), alla seconda di piano Vissone (chilometro 8,5, quota 858, dopo aver superato la massima pendenza, che è il 12 percento), alla terza di Montecampione (chilometro 11, quota 1103), fino al capolinea di Plan di Montecampione (chilometro 19,350, quota 1665). Salendo, il monte Campione s’impone a destra, il monte Rosello a sinistra. Oltre il monte Campione, la Riserva naturale Piramidi di Zone. Oltre il monte Rosello, la Val Trompia.

Quella di Plan di Montecampione ha l’aria di una salita non naturale, anche se sta nel cuore della natura, dunque un po’ artificiale. Ha l’aria di una salita disegnata geometricamente, dunque un po’ freddamente. Non c’è la spettacolare grandiosità del Gavia, né l’imprevedibile severità del Mortirolo, e neppure quel piccolo mondo antico del Passo del Vivione, tutti e tre parenti vicini e anche parenti serpenti, perché tutti e tre sono strisce di asfalto che s’insinuano a spire a volte velenose. Invece la striscia di asfalto di Montecampione è fatta a diagonali. Così, a occhio, ha l’aria di una salita dove si va per una selezione decretata non da dubbi e crisi, ma dal progressivo sfinimento fisico e mentale. Prima le gambe, poi la testa quando le gambe, da sole, non sono più sufficienti.

La salita si può dividere in due parti, con pendenze tra l’8 e il 9 percento, intervallate da un paio di chilometri in cui si può tirare il fiato. Due round. Fuori i secondi, boxe. Due manche. Pronti-via, sci.

Il Giro d’Italia del 1998 affronta il Plan di Montecampione il 4 giugno, un giovedì, alla diciannovesima tappa, cioè la quart’ultima, dopo altri due giorni di montagne. Il primo giorno, Asiago-Selva di Val Gardena, 215 chilometri, Pantani ribalta la corsa. Fugge con il bergamasco Beppe Guerini, detto «Turbo», che vince la tappa, mentre Pantani sottrae il primato allo svizzero Alex Zülle. Il secondo giorno, Selva di Val Gardena-Alpe di Pampeago, 115 chilometri, il russo Pavel Tonkov precede Pantani di un secondo, e in classifica generale si porta a 27 secondi dalla maglia rosa, una distanza che annullerebbe nella cronometro Mendrisio-Lugano, decisiva, del penultimo giorno. Ma c’è, appunto, Plan di Montecampione. Il tema è ovvio: Pantani all’attacco, Tonkov in difesa. Con la suggestione che stavolta l’attaccante indossa la maglia rosa.

Partenza da Cavalese, 243 chilometri, un tappone che prevede anche una salita gemella, quella del Crocedomini, affrontato dal versante della Val Trompia e del Lago d’Idro. Ai piedi della salita finale il gruppo è allungatissimo. Davanti: un gregario di Tonkov, Paolo Lanfranchi. Dietro: i compagni di Pantani, da Siboni a Fontanelli, da Conti a Podenzana, come i vagoni di un trenino, appunto, a cremagliera. Istintivamente tutti i corridori cercano di rimanere insieme, in fila indiana, in scia, finché è possibile, anche se sanno che questa andatura sta prosciugando le energie e consumando i muscoli. Quando Podenzana s’ingolfa, Pantani lo passa a sinistra prima di una curva a destra. L’unico capace di rispondere al suo scatto è Pavel Tonkov. Un russo bergamasco, di cui l’ambiente orobico valorizza le virtù orientali. All’arrivo manca ancora un’eternità. Ma è subito duello. Uno contro uno. Come su un ring. Come su un tatami. Come in uno slalom parallelo, ma in senso inverso: dal basso verso l’alto. Ed è come se tutti gli altri corridori volessero lasciarli da soli, come se tutti fossero invasi dalla paura di condizionarne la sfida, come se fossero rispettosi di un livello superiore.

Tonkov e Pantani: non potrebbero esserci due corridori, e due uomini, più diversi. «Uno viene dalla steppa» scrive Claudio Gregori «l’altro dal mare. Tonkov è una fortezza, Pantani un’eruzione. Tonkov è un personaggio di Buzzati. Aspetta. Pantani è scappato dalle pagine di Alexandre Dumas. È D’Artagnan. Ha il gusto della sorpresa e dell’invenzione. Tonkov ha la calma della Russia immensa. La fatica lo percorre come un fiume sotterraneo senza lasciare tracce. Pantani cerca la prodezza. Tonkov ha una missione da compiere, galoppa assorto come un corriere dello zar. La bici di Pantani è uno Stradivari. Ha per spartito Il trillo del diavolo di Tartini. Vuole rapire. Tonkov viene dalla città dei kalashnikov, vuole conquistare. La sua bici è un tamburo di guerra. Il suo spartito è il Degüello».

Pantani, maglia rosa e calzoncini gialli della Mercatone, Tonkov, maglia azzurra e calzoncini azzurri con i mattoncini colorati dello sponsor, la Mapei. Mercatone e Mapei, in questi anni, sono divise come il Milan e l’Inter nel calcio da sempre, come la Molteni e la Salvarani nel ciclismo degli anni Sessanta. Pantani, dorsale numero 101, Tonkov, dorsale numero 91. Pantani, pelato, Tonkov, capelli corti. Pantani, più in piedi che seduto, Tonkov, più seduto che in piedi. Pantani davanti, Tonkov dietro. Pantani che fa la scia, Tonkov che la sfrutta. È una salita in cui, a 25 chilometri orari, la scia ha un potere enorme.

Pantani divora la strada prima con gli occhi, poi con i pedali, Tonkov ha uno sguardo più miope, guarda la ruota posteriore di Pantani, o addirittura il mozzo della propria ruota anteriore. Pantani si gira verso Tonkov soltanto in due occasioni: la prima per controllare e forse per incoraggiarlo a tirare la sua parte, la seconda per costringerlo a tirare. Dopo la seconda, Tonkov va in testa a tirare. Per poco, pochissimo. Pantani riprende il comando. Quando si alza, aumenta frequenza e velocità. Non sono autentici e dichiarati attacchi, ma sferzate, scudisciate. Ne piazza cinque o sei. Apparentemente innocue, inutili. Invece sono terribili.

Quando mancano 2500 metri circa al traguardo, dopo una galleria, Pantani scudiscia Tonkov. E stavolta Tonkov non reagisce, rimane seduto sulla sella, la volontà domata, le gambe dure. Pantani se ne accorge, come se, dopo l’ennesimo corpo a corpo, fiaccata la resistenza dell’avversario con un diretto al fegato, lo chiudesse alle corde e lo tempestasse di colpi e gli annebbiasse la vista e gli impedisse il respiro. Una quarantina di secondi guadagnati in un chilometro, 57 all’arrivo, più 4 di abbuono (12 al primo, 8 al secondo), totale un minuto e 27 secondi di distanza in classifica generale. Non è un ko, ma quasi.

I distacchi sono severi. Guerini, più turbato che Turbo, è terzo a 3 minuti e 16 secondi, Francesco Secchiari, coinvolto con Pantani quattro anni prima nell’incidente contro una macchina nella Milano-Torino, quarto a 4 minuti e 4 secondi, Paolo Savoldelli tredicesimo a quasi 8 minuti, Bugno trentunesimo a più di 18 minuti, Chiappucci cinquantasettesimo a oltre mezz’ora.

Nuovo regno. Nuova gerarchia.

La cronometro del penultimo giorno non cambia la storia del Giro d’Italia. Anzi. Pantani, addirittura terzo, precede Tonkov, quarto, di 5 secondi, e fortifica il suo primato, ingigantisce la sua vittoria. Finale.

MASSIMO PODENZANA: PANTANI ERA IL COMANDANTE

Giro d’Italia. Tappa di Montecampione. Attacchiamo l’ultima salita. Tiro, spingo, sono a tutta, aspetto solo di essere rilevato, in testa al gruppo, da Roberto Conti, l’ultimo uomo prima di Pantani. Invece sento la voce di Marco: «“Pode”, lungo, lungo, lungo». Si vede che Conti non c’è, che non è in giornata. Stringo i denti, li consumo. Pedalo a tutta finché posso. Quando mi si annebbia la vista, finalmente mi faccio da parte. Pantani prende il comando, e vince. In albergo, quando arriva dopo premiazioni e interviste, la prima cosa che fa è ringraziarmi. Per ringraziare, ringraziava sempre. Giro d’Italia. Tappone dolomitico. Dopo metà salita, mi fa: «Vammi a prendere le chiavi della sella». È un ordine che mi manda nel panico: rallentare e risalire non è facile in pianura, figuriamoci in salita, poi fermarmi e aspettarlo mentre abbassa o alza la sella di quel niente che gli dà fastidio farà esplodere la corsa e sbriciolare il gruppo. Comunque rallento, prendo le chiavi dall’ammiraglia, risalgo la fila indiana, consegno le chiavi e… e lui, su un falsopiano, abbassa la sella senza neanche scendere dalla bici. Per stupire, stupiva sempre. Tour de France. Vigilia dell’ultima tappa. Per scommessa, capelli gialli e orecchino. Tutti. Un parrucchiere si dedica ai capelli, un tizio agli orecchini. In corsa si fa una gran scena, a casa no. La domenica sera, da Parigi a Bologna, in aereo, poi in macchina. Il lunedì mattina mia moglie mi ordina di togliere tutto, capelli gialli e orecchino. Perché Pantani comandava in corsa, ma a casa comandano le mogli. Cinque anni come compagno, due come direttore sportivo. Gli ho voluto bene.

OSCAR PELLICIOLI: PANTANI ERA LUI

Lui che si fermava a tavola a chiacchierare, più che a chiacchierare che si fermava ad ascoltare, attento a quello che si diceva. Lui che era taciturno, discreto, riservato, pensieroso, un po’ titubante, quasi diffidente. Lui che ci pensava su. Quella volta che in ritiro a Dozza gli domandai il permesso di far venire da Mortara Alessandro Mariano, un biomeccanico di fiducia. «Digli di venire». Mariano si occupò di tutti e solo all’ultimo, mentre stava già smontando le apparecchiature, si fece avanti lui, precisissimo, esigentissimo, che modificava la posizione dalla mattina alla sera. «Eppure» ricorda spesso Mariano «non era messo mica male». Lui che venne a presenziare alla partenza della Gran fondo Felice Gimondi. Quando lo scoprii sul giornale, chiamai Martinelli: «Sì,» mi confermò «poi si va a vedere la salita di Montecampione». «Se volete, vengo anch’io». Andai. Bergamo, Casazza, Lovere, Montecampione. Con Martinelli, anche Christina. Poi tutti da me, a casa mia, una pastasciutta, alla buona. Lui che a casa mia, mangiando la pastasciutta, scopre una foto in cui sono ritratto con Indurain, al Tour de France del 1995. «Che ci fa questa foto?» esclamò. Sembrava quasi arrabbiato. Certo era geloso. «Ma è di tre anni fa» mi difesi «ed ero in un’altra squadra». Lui che mi aveva contattato proprio quell’anno, il 1995, il lunedì sull’aereo dopo la Subida a Urkiola, in Spagna. «“Pelliccia”, che fai il prossimo anno?». «Avrei ancora un anno nella Polti». Poi Stanga trovò un accordo con Boifava e Martinelli, e con lui rimasi tre anni. Lui che sembrava forte, e invece era fragile. Lui che dopo la tappa di Montecampione stava in un albergo di Boario Terme, quell’anno non corsi né Giro né Tour, ma andai a trovarli e mangiai con loro, ed ero contento lo stesso. Lui che al Tour de France del 1998 faceva quello che faceva, e io piangevo, da solo, davanti alla tv. Lui che in quel Tour attaccò e fece esplodere il gruppo, non so che cosa mi prese, ma impugnai il cellulare e chiamai Martinelli. «Digli di tirare dritto, ché Zülle si stacca». Chissà che cosa avrà pensato Martinelli. Lui che un anno prima, al Tour del 1997, perdeva 30 secondi qui e 30 là, e la sera Martinelli si lamentava. Ma non avevamo il coraggio di costringerlo a correre davanti, lui se ne stava in fondo al gruppo, e io e Artunghi diventavamo matti a forza di riportarlo su. Lui che, quando era in giornata, ci faceva proprio divertire. Lui che, ogni volta che passo dalle sue parti, vado a trovarlo.

LUIGI «OSCAR» VENEZIANO: PANTANI ERA UN PERFEZIONISTA

Quattro anni con il Panta, dal 1997 al 2000. Mi fa diventare matto. Non dà mai niente per scontato. Cerca il pelo, il millimetro, la fi­nezza. Un giorno insiste per una bici con ruote da 26 invece che da 28. Mi dice: «“Venezia”, tutto a posto?». Gli rispondo: «Tutto a posto, al millimetro». «Allora sistemala sull’ammiraglia». Mai chiesta, mai usata.

Il Panta è un perfezionista. Al limite dell’ossessione. Lo so e mi adeguo. Mi faccio fare spessori da manubrio di varie misure, dal millimetro al centimetro. Quando in corsa vuole cambiare, devo sfilare l’attacco, poi la boccola, mettere o togliere lo spessore, rimettere la boccola, poi l’attacco. Le misure: cinquantasei e tre da sotto il manubrio a centro ruota, tubolari da 18 millimetri, gialli, io non sono d’accordo perché la vernice, quando piove, è pericolosa. Quella volta che, Tour, Pirenei, tappa di Luchon, piove, gli monto tubolari verdi e un po’ scolpiti da 21 millimetri. Lui non dice niente, ma si arrabbia. E quella volta che, Giro, Alpi, tappa di Prato Nevoso, chiama l’ammiraglia per sostituire la bici, poi torna indietro, si lamenta, «questa bici non è uguale all’altra. Il manubrio è più alto. Sei disattento, Venezia», e io ci rimango male, ma la sera ci parliamo e ci chiariamo. La mattina dopo saliamo sul camion e misuriamo le due bici: sono identiche.

Poi però i rapporti si guastano. Non è più come prima. È come se corridore e meccanico amassero la stessa donna, cioè la bici, e se non c’è fiducia, rispetto, trasparenza, non si può. Così, alla fine, gestire il Panta diventa impossibile. Con lui è come andare in guerra con due bombe in tasca: prima o poi salti per aria.

Però si doveva fare qualcosa. Era un patrimonio nazionale. Come la Ferrari, come Pavarotti, come Valentino. Ce lo invidiano ancora. Qui, nella mia bottega a Sant’Agata sul Santerno, la bandiera del Pirata: è per lui.