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Appènna ch’on sa star in bizicletta,
al pàr dvintà al padron dal mind intir,
al corr in longh e in largh cm’è una sajètta
el’arbalta la zènt sènza pensir.
Carlo Musi
Pantani scalda, emoziona, ispira. Chi ne scrive, sul momento, lo fa a ruota libera, senza il freno a mano tirato. Poi sarà il tempo a ristabilire la verità, poi ci penserà la storia a stilare gli ordini di arrivo, a ufficializzare le classifiche generali, a valutare gli atleti e gli uomini.
Candido Cannavò scrive, qui, da quotidianista, subito dopo l’impresa sul Galibier, Tour 1998. Il direttore della «Gazzetta dello Sport» seguirà l’intera parabola di Pantani, dall’altare alla polvere. Sarà perfino accusato di tradimento, come se lui avesse conosciuto i retroscena, come se lui, volendo, avesse potuto salvare il corridore e invece non l’abbia fatto. Cannavò, comunque, non lo avrebbe mai fatto.
Claudio Gregori scrive, qui, da scrittore, rituffandosi come in una macchina, anzi, in una bici del tempo e restituendo i brividi della scalata al Santuario di Oropa, Giro 1999. Gregori, inviato della «Gazzetta dello Sport», è stato uno dei più puntuali e precisi giornalisti alla ricerca della verità, soprattutto nei legami tra il gruppo di Francesco Conconi e il gruppo degli atleti, non solo corridori.
Gianni Mura scrive, qui, da giornalista e da scrittore. È il «coccodrillo», il pezzo in morte di Pantani, con cui l’inviato e editorialista della «Repubblica» seppellisce l’uomo, ne resuscita l’anima, e consegna la sua memoria a chi, in quegli anni, lo amava, a chi non sapeva, a chi era distratto.
Quanto a Cesare Fiumi e Michele Serra, bisogna tenere conto dei periodi storici: il pezzo di Fiumi è stato scritto dopo la doppietta Giro-Tour 1998, quello di Serra dopo Madonna di Campiglio 1999.
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Attacca da lontano e sgretola tutti. È in giallo: ora ha il Tour in mano. Scrive così una pagina epica di sport
Candido Cannavò, «La Gazzetta dello Sport», 28 luglio 1998
Dalle Alpi francesi solcate da una tempesta, si leva solenne, al di là delle nuvole della fantasia, un dio dello sport: si chiama Marco, il nome forte di un evangelista. È andato lassù, in una bugiarda giornata di luglio, a predicare sulle montagne il mistero eterno dell’uomo ai confini della più spietata fatica. Eccolo, con i rivoli di forza vitale che gli restano addosso, nel suo ultimo gemito soave. È finita. Lo straordinario miscuglio di gioia e sofferenza che agita la sua anima produce una sorta di trasfigurazione nel volto di Pantani. C’è un senso profondamente drammatico nel suo trionfo. Ne ho viste tante in quasi mezzo secolo di sport, ma l’abbraccio di Marco, con quel traguardo che gli sta davanti e che gli cambia la maglia e la vita, è un’immagine baciata dall’eternità. Non so quanti chilometri più in giù, verso la vallata alpina coperta di nebbia, ciondola l’orecchino di Ullrich, il bel tedescone celebrato come l’inventore e il messaggero del ciclismo del Duemila. Il ciondolare di quel cerchietto d’oro sul lobo sinistro dell’uomo in maglia gialla scandisce i ritmi mesti della resa. Qui il dramma è allo stato puro. I minuti scorrono in fretta, i chilometri sono eterni. Ullrich ha lottato con la grinta di un leone ferito e merita il più ampio rispetto. Ma lui, ricchissimo idolo di un’èra supermuscolare, non si è arreso ieri soltanto al grandioso Pantani e a quanti, impudicamente, gli sono passati davanti. Ullrich si è inchinato, con tutto il dolore del suo corpo martirizzato dalla salita, al vero ciclismo, a quello che rinnega gli atleti da laboratorio, le alte medie, le alchimie, le programmazioni rigide per una corsa a stagione, la forza che tutto risolve. Il tedesco si è inchinato, reverente, al ciclismo universale del nostro Marco, che è un campione ruspante, al di sopra delle epoche. Giro e Tour, come una volta. Ma allora è possibile? Abbiamo paura a dirlo…
Per uno degli strani incroci del nostro mestiere, mi sono trovato a seguire la tappa alla televisione francese. Ad un tratto, quando la sagoma del Pirata è emersa dal buio del Galibier, il telecronista ha gridato: «Pantani, miracolo del ciclismo». Il termine è abusato, lo so, ma il senso del prodigio era sulla strada, era sulla vetta della montagna famosa, più volte dominata dagli italiani, era nelle vertiginose acrobazie in discesa, sotto una pioggia impietosa: era nella lezione che, con una perfetta sintonia tra cuore, muscoli e cervello, Marco stava dando al mondo. In un imperversare, anch’esso vertiginoso, di battiti cardiaci, mi sembrava di leggere le parole nelle pedalate di quell’omino con la bandana in testa e gli occhiali sulla fronte. Qui posso vincere il Tour, lassù devo arrivare da solo, oggi devo cogliere l’occasione della mia vita, qui sto cancellando tutte le mie sventure. E la strada riprendeva a salire. Il paradiso aveva in quei tornanti di Les Deux Alpes una dolorosa e dolcissima anticamera. Il nostro eroe si sentiva la maglia gialla addosso, ma non poteva bastargli. Dov’è Ullrich, dov’è l’americanino Julich, dove sono Leblanc e Jalabert? Pedala Marco, è il giorno della tua gloria. Al senso sfuggente del miracolo si può dare un aspetto reale. Pantani ha unificato le emozioni, le epopee sportive e gli entusiasmi di un secolo. Ha collegato nonni e nipoti. Ha persino riportato, qui sì con un colpo di magia, l’antico gioco della fantasia nelle immagini reali. Con lui davanti, si sogna. E anche il Pirata, ne sono convinto, ha sognato socchiudendo gli occhi, in un’estasi di sfinimento, sull’ultimo metro dell’incantevole calvario. Ho rivissuto il pomeriggio di Bartali 1948. Eravamo ragazzi attaccati alla radio. Gino sta vincendo, Gino è maglia gialla: fu come se, per una seconda volta, fosse finita la guerra.
Cari amici, abbiate rispetto per la mia commozione. Ma immagino che sia anche la vostra. Un cratere di trentatré anni di storia, da Gimondi a Pantani, si sta colmando. Ma il Tour non è finito. Dormi Marco, fai riposare il tuo cuore, recupera il guizzo sui tuoi muscoli. Noi, intanto, incrociamo le dita: sino a Parigi.
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I segreti dell’uomo chiamato Pirata
Cesare Fiumi, «Sette», numero 32, 1998
«Sul mio sellino da cowboy, / salendo verso il cielo e poi…». Allora, quando cantava così e sognava Sanremo – il Festival, mica la classica del ciclismo, visto che i suoi sogni in bici s’erano presi un anno di aspettativa: in frantumi tibia e perone della gamba sinistra, e il futuro, sinistro pure lui – quel «poi» del ritornello, che restava a mezz’aria come una tappa sospesa, un dubbio, un’intenzione, be’ faceva uno strano effetto in bocca allo chansonnier Marco Pantani. Lui era intonato, è intonato: basta sentire quando attacca Io vagabondo che è il suo inno da barca, quando fa il pirata vitellone ed esce col gozzo dal porto di Cesenatico assieme agli amici a fare il nomade di mare. No, era stonato solo quel «poi», nel senso che teneva in apprensione chi voleva bene a Pantani e al ciclismo, che è un po’ la stessa cosa. Era proprio quel «poi» a dare il mal di mare. «Poi» cosa? Cosa avrebbe scritto sopra quei puntini di sospensione il pirata di montagna, una volta risalito in sella? Certe buche della vita ti disarcionano per sempre, anche se non sembra: ricominci la tappa sospesa ma non è più la stessa cosa e i dubbi sono più delle intenzioni. Correva l’anno 1996 e Pantani non correva più. Aspettava di riprovare.
Ascoltando oggi alla radio quella canzonetta – vecchia di due anni, ma paiono tanti di più – oggi che si celebra a Cesenatico il Panta-day, dove la «vie en rose» del Giro e i «giorni gialli» del Tour shakerano lingue, colori e voglia di festa, oggi che sappiamo cosa ha scritto Pantani dopo quel «poi» e poi cos’hanno scritto tutti di Pantani, viene il sospetto di non aver capito per tempo. Di non aver avuto abbastanza fede nelle parole e nei gesti del Pirata, nella sua storia così simile all’altimetria di un tappone alpino: un diagramma impazzito di «saisons à l’enfer» e soddisfazioni da scollinare. Con un finale in salita, il preferito. Vigilia di Panta-day, perciò, che in una sorta di traduzione greco-americana suonerebbe così: il Giorno di Tutto, dove tutto è possibile. Il Pirata se ne sta nel suo garage, tra le sue auto, le moto, le bici, e si dosa: «Un campione è sempre metà intelligenza e metà ignoranza. Devi avere il cervello per fare certe cose, ma altre volte dimenticare di averlo altrimenti non le faresti». E quando ripete che sul Galibier la sua è stata «una vittoria della mente sul corpo» non fa che riassumere quella sua posologia di istinto e prudenza, riflessione e follia.
Ricordo qualche anno fa, quando gli chiesero quale fosse il suo film preferito, e lui ripose: Il Fuggitivo di Andrew Davis. In fondo, c’era tutto in quel titolo e in quel film: la fuga, la solitudine, il mondo che si rovescia addosso a spalle che sembrano fragili ma che poi riescono a venirne a capo. Se c’era un uomo fatto per il ciclismo, sport della fatica solitaria, dell’uomo solo – e non solo al comando, anche stremato in fondo al gruppo, e in crisi – dove i conti si fanno con sé stessi prima che con la forza degli altri, questo era il Pirata. Uno che ancora ti ripete: «Con l’orecchino e la testa rasata io segno la differenza». Via dal gruppo, via dal mucchio. Guardandosi indietro, come sul Galibier, solo per sentirsi più forti, mai per timore di non farcela. Come sui colli del Montefeltro e della Romagna, da allievo attaccato ferocemente alle ruote dei professionisti in allenamento, difficile da staccare quella piuma in bici. Mai in salita, comunque. «Arrivare in cima da soli è una roba da brividi». Da mettere a tutti quelli che stanno lungo la strada o davanti alla tv.
Quando uno ha un credito coi sogni, e non c’è verso di riscuoterlo, a volte molla, anche per un niente. Non serve, se sei un ciclista che vuole essere campione, che una macchina ti mandi all’ospedale nel maggio del ’95, solo perché non rispetta uno stop, o che dietro una curva d’autunno, in discesa, quello stesso anno, una Nissan Patrol lasciata marciare chissà come in senso inverso alla corsa (è la Milano-Torino) funzioni da striscione d’arrivo per la carriera (fine, temuta, di ogni gloria), o che un gatto nero, due anni dopo, ti mandi all’ospedale durante il Giro d’Italia. Bastano molto meno di tre incidenti in bici per dire basta. Ma al Pirata non è bastato. Quando uno ti dice, «io voglio avere una mia identità, non sopporto i leccaculo e chi piega la testa, i compromessi. Non mi paragono con nessuno ed è sufficiente la stima che ho di me», non c’è verso che pensioni le velleità. Un ciclista, poi.
La sfortuna, in fondo, è fatta per prendere più gusto alla vita. Per non aspettarsi niente: solo che si spazientisca e se ne vada. La testardaggine e il talento, a poco a poco, ti asfaltano le buche che tu neanche te ne accorgi. E allora vai via liscio senza più forare. «Si meritano solo le cose per cui si è sofferto» ha scritto Marcel Proust, uno che avrebbe avuto i suoi problemi a superare l’antidoping. E adesso Pantani è convinto di essersi meritato i suoi sogni, «quelli di quando ci si andava a sedere con gli amici davanti al mare, in fondo al Porto Canale, e ognuno tirava fuori i suoi, di sogni». Che è una frase quasi felliniana, l’amarcord romagnolo di un pirata bambino, che doveva avere avuto da poco la sua prima bici. E sarebbe stato bene dentro versi così, datati ’98: «Appènna ch’on sa star in bizicletta, / al pàr dvintà al padron dal mind intir, / al corr in longh e in largh cm’è una sajètta / el’arbalta la zènt sènza pensir». Versi emiliani, che non hanno bisogno di traduzione a fianco, che sembrano quelli che al «Carlino» inviano ogni giorno i lettori, ispirandosi alle imprese del Panta. Peccato che questi siano del poeta bolognese Carlo Musi e datino un ’98 un po’ particolare: milleottocentonovantotto, quando lo Stato per una bici pretendeva 10 lire di tasse l’anno.
Cent’anni dopo un figliolo della via Emilia ha veramente ribaltato la gente e il ciclismo. Da eroe popolare, e non succede così spesso. Solo quando qualcuno si mette a tirare in salita, su strade poco praticate dalle abitudini quotidiane. E quando, in faccia al dolore e alla sfiga invece di cercarsi un alibi, che in questo Paese è sempre a portata di mano, si fa una risata amara e dice, «sono una fabbrica di rabbia», un’altra delle sue frasi preferite. E si mette una parrucca matta, lunghi capelli neri, per tornare in gara in segreto, dopo l’incidente, in mezzo ai cicloturisti di Romagna. E poi già sente d’essere diventato immortale, perché un amico pittore, Casali, gli ha fatto il ritratto, in vita. E poi si riprende i sogni e il tempo perduto. E si inventa un copyright per la vittoria: «Quelli che amano la fatica, che vanno in fuga da lontano, quelli come me, sono pochi. Se questo vuol dire essere un corridore antico, mi va bene». Però poi fa: «Macché antico, io sono il più moderno di tutti».
Ed è vero, nel senso che il Panta è attuale e figlio dei tempi suoi, dell’Harley Davidson, della discoteca, della sua collezione di cronografi, della sua Jaguar («Amo i motori, amo le auto, ma sembra proprio destino che debba sempre finirci contro» ironizzò dopo l’incidente più grave), di bandane, piercing, rasature spaziali e capelli a colori. Solo che fa il ciclista, cioè pratica lo sport che ha più memoria di sé. Quello che più conserva il ricordo dei suoi gesti, che li tramanda, che ha il senso delle radici. Quando Pantani fa quel che fa sul Galibier, sa bene chi lo ha fatto prima di lui e soprattutto cosa significa. Racconta oggi: «Ero pieno di emozioni quel giorno, provavo qualcosa di indefinibile. Ancora oggi, quando qualcuno mi rievoca quei momenti, avverto per un attimo quella sensazione, ma subito vola via. Certi attimi sono irripetibili. Come sul podio a Parigi: per qualche secondo ero pieno di me, sentivo che non ce n’era per nessuno. Qualche secondo poi si torna con i piedi in terra». È la memoria del gruppo che tiene appeso Pantani al passato, che lo vira in bianco e nero (a proposito, avete provato durante la tappa di Les Deux Alpes a togliere il colore alla vostra tv? Roba da brividi, sembrava l’altro ieri del ciclismo. Neppure un Gimondi ’65, quasi un Coppi ’52). Perché il gruppo, il ciclismo, conosce il suo passato, quasi lo venera, e in corsa si passa le consegne e ripete le sue storie.
Se, come ha scritto Massimo Cacciari, «il ciclismo ha bisogno di racconto, ha bisogno di essere narrato e ricordato più di qualsiasi altro sport», è anche vero che i corridori nelle sere d’albergo, di ritiro, fanno da sé: si raccontano il ciclismo, i più vecchi ai giovani, e si ascolta la stessa storia, ripetuta più volte, senza battere ciglio, come capita soltanto al bar. E il gruppo cambia meno velocemente di quanto si pensi: in fondo Coppi ha corso con Anquetil che ha corso con Gimondi, che ha corso con Moser, che ha corso con Podenzana, uno dei gregari di Pantani all’ultimo Tour. Chiedete a un calciatore chi erano Orsi o Guaita, ma anche Carapellese o qualche altro, e riceverete probabilmente la stessa smorfia d’inadeguatezza come se gli aveste chiesto di Kant o Eraclito. Al calcio si gioca con le stesse scarpe e lo stesso pallone di sempre e le porte larghe uguali, mentre nel ciclismo tutto è cambiato: ci son bici in fibre di carbonio e ruote lenticolari e strade tutte asfaltate e dalle curve corrette, e poi caschi aerodinamici e tutine sintetiche. Eppure il gesto è lo stesso: più vicino al passato di quello che molla calci a un pallone.
Per esempio, non c’è nessuno come il ciclista che ricordi i suoi morti. Quelli del ciclismo (nel calcio accade solo per i giocatori e i tifosi del Torino). Forse perché hanno fatto la stessa sua fatica, percorso le stesse strade, sudato sulle stesse salite. Il ciclismo è lo sport della riconoscenza. Quando Pantani dedica il suo Tour a Luciano Pezzi, al vecchio Pezzi che l’aveva voluto capitano, nonostante l’infortunio di Torino (e Marco si chiedeva, onesto: «Non ho mai capito se è il capitano forte che fa la squadra o se è la squadra forte a fare il capitano», ma forse oggi lo sa), è come se abbracciasse il ciclismo intero: Pezzi gregario di Coppi al Tour ’52, Pezzi direttore sportivo di Gimondi al Tour ’65, Pezzi presidente della sua nuova squadra, che gli aveva chiesto il Tour ’98, a Marco, prima di andarsene, il mese scorso…
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Noi, popolo di gregari
Michele Serra, «la Repubblica», 8 giugno 1999
Dove sto io, a due crinali dalla Romagna, i gregari di Pantani sono miliardi: gli uomini in bicicletta pullulano, dilagano, fibrillano sulle salite e saettano lungo le discese, infilano i rettilinei tirando i rapporti micidiali delle bici da corsa e risalgono i calanchi, su viottoli più simili a un greto in secca che a una strada, mulinando le gambe attorno ai rapportini miniaturizzati delle mountain-bikes.
Se ho potuto studiarne l’antropologia è perché, da due anni, sono dei loro. Regolarmente e ridicolmente abbigliato secondo i crismi, con le braghine da transessuale che fasciano le trippe inferiori e quelle superiori imbudinate in una maglia sintetica che pesa dieci grammi a secco, e sei chili quando me la levo di dosso dopo una mostruosa sudata meridiana.
E i mezzi guanti, e gli scarpini rigidi, e il crono-tachimetro, e quel caschetto che conferisce a ogni viso, sia pure quello di un Nobel o di un presidente di Commissione europea, un’inestirpabile alea da poveruomo, il tutto per una fantastica simulazione di prestanza velocistica.
Ecco: diciamo che, chilometro dopo chilometro, parecchi dei miei pregiudizi ciclistici si sono perduti per strada. Romanticherie sulla ricerca del ritmo giusto, sull’armonia del gesto, sullo sforzo prolungato che è più sano di quello breve e smodato, hanno dovuto lasciare il passo all’evidenza. Quello cicloamatoriale è un mondo ruvido, maschile (rarissime le donne), nient’affatto new age e semmai arcaicamente competitivo, più eccitante che rilassante, più sgomitante che accomodante.
Enormi omoni presidiano la strada in tripla fila, indifferenti alle proteste dei clacson (dietro c’è più fila che a un funerale), chiacchierando, per quanto il fiato consenta, degli affari loro. Come accade a certi strumenti ad aria, il vigoroso stantuffo delle gambe sembra caricare la voce di toni e volumi quasi inauditi: chi non ha mai udito due mountain-bikers scambiarsi le proprie impressioni di percorso a mezzo chilometro di distanza, non sa che cosa significhi urlare.
I semafori rossi sono aboliti, perché i piedi, inchiavardati ai pedali secondo necessità da record dell’ora anche se si sta attraversando un mercato rionale, non potrebbero affrontare l’imprevisto di una sosta. E per la stessa ragione, quando proprio è inevitabile fermarsi perché sta transitando un Pendolino, ci si appoggia con una mano al tetto di un’automobile, rare volte chiedendo permesso, più spesso guatando l’occupante della stessa dall’alto in basso, come suggerisce il diverso livello, ignobilmente basso per l’automobilista, svettante, celeste per il ciclista.
Le regole della strada mutano. Si passa, anzi si sfreccia, laddove quattro ruote esitano, sensi vietati e zone pedonali sono ignorati perché il ciclista si sente invisibile, aereo, leggero anche se è un energumeno di novanta chili. A differenza del velista, che ha comunque coscienza dell’ingombro fisico del proprio mezzo, il ciclista è convinto che comunque, ovunque, riuscirà a passare. Così pochi giorni fa, un povero e valoroso cicloamatore delle mie parti, dopo aver fatto letteralmente a spallate con un Tir, è finito giù da un ponte, su verso i tornanti del Passo della Raticosa.
Se ragiono così, brutalmente, anche attorno a me stesso (quel variopinto, gagliardo me stesso che ansimava qua attorno in bici, l’altra mattina proprio mentre il nostro-mio eroe veniva ingloriosamente appiedato), è perché qualcosa mi dice che la triste storia di Marco Pantani ha a che fare, almeno in parte, con l’orgogliosa ebbrezza che rapisce noi uomini-cavallo (uomini-ronzino, nel mio caso).
L’epica della strada, specie qui in Emilia Romagna, non è luogo comune. È una cultura vera, rovinosa in qualche suo esito (la regione è in testa alle classifiche degli incidenti mortali), contagiosissima nella sua vulgata popolare. Dalle parti di Imola ci sono curve che portano il nome del corrispettivo motociclista che si è infilato nel fosso. Le ossa rotte, quando si possono aggiustare, sono altrettanti trofei. Si ingaggiano volate ovunque, a due o quattro ruote, con motore o senza. Si corre, si curva, si fila con una speciale ribalderia fatta per metà di emulazione, per metà di puro amore per l’aria in faccia.
Gli equipaggiamenti sono sempre sovradimensionati, tecnologie aeronautiche per andare a comprare le sigarette, cambi a trentadue rapporti per la pedalata domenicale, milionate per assicurarsi l’ultimo modello. (Mi raccontò Walter Bonatti, una volta, di quanta pena e rabbia gli facesse vedere in Grigna i normali gitanti vestiti come per andare sul K2, piumini da trenta sotto zero per fare quattro passi una domenica di primavera).
Sì, c’è un bambinesco, irriducibile culto delle prestazioni, della performance, anche in noi plebe dello sport amatoriale. La strada è una tentazione da non perdere, ogni lasciata è persa. E tutti, proprio tutti, per l’occasione appoggiando il piede a terra, per prima cosa ci siamo detti, sabato l’altro: «Pantani? Non è possibile!». Poi, dopo la doccia, ragionando meglio, abbiamo capito che forse non è vero: però è possibile, altro che se è possibile. La misura, quella misura che spesso ritarderebbe la nostra rincorsa al traguardo, quella misura che per noi è un semaforo da ignorare, una prudente frenata alla quale rinunciare, un piccolo emozionante rischio in più da correre, dev’essere ancora più difficile da trovare quando si è Pantani, il numero uno, atteso al traguardo da una gloria maggiore, e maggiori contratti.
Le regole? Le regole sono fatte così: che so che devo mettermi sempre il casco, ma siccome con il casco (a parte la faccia da deficiente) si suda di più, ogni tanto non me lo metto. C’è un «ogni tanto» che aspetta ognuno di noi, in cima a questa o quella montagna, prima o dopo questa o quella curva. Al povero Pantani, il suo «ogni tanto» è costato il Giro d’Italia. Ho patito per lui come se fosse capitato a me. Poi sono ripartito, anche se mi duoleva il fondoschiena già dopo dieci chilometri (sono fuori allenamento). E se sono ripartito io, ripartirà anche lui.
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«Un’opera d’arte»
Claudio Gregori, Giro d’Italia – La grande storia, 1999-2003
Marco, con il suo bel nome da evangelista, il 30 maggio porta la maglia rosa a Oropa, dove si venera la Madonna Nera. Un santuario famoso. I migliori architetti sabaudi, da Juvarra a Guarini, l’hanno impreziosito di pietre, il popolo di preghiere e di voti. Lo sport è nato a Olimpia, un santuario. Con Zeus al posto della Madonna Nera, Fidia invece di Juvarra, Milone il lottatore, Diagora il pugile, Astylos il velocista, al posto di Pantani, Jalabert, Cipollini. La gara era un rito. Olimpia è vicina al mare, Oropa sulla montagna. Per raggiungerla servono le ali. Pantani ha sempre invidiato gli uccelli. Gabbiani o rondini. Falchi o aquile. È diventato scalatore per esser come loro e conquistare il cielo. Con Verlaine dice loro: «Pretez-moi votre vol», «Prestatemi il vostro volo».
Ai piedi di Oropa la maglia rosa è la sua ala. Ma fin dove può portarlo? La salita ferisce. Il cuore pompa al limite e oltre la soglia. L’acido lattico invade i muscoli. Nel frinire delle ruote Marco sente ansimare il gruppo. Ausculta la bici, tesa come l’arco di Ulisse. Quando passa dal 53 al 39, ode un «clic» sinistro. È saltata la catena. Mancano 8,5 chilometri al traguardo.
Disarcionato dal Fato, si ferma sul lato destro della strada. La catena è incastrata tra i pignoni. Marco si misura con lo spettro della sconfitta omerica, mentre armeggia con frenesia. Il gruppo allungato lo sfiora. I secondi cadono su di lui inesorabili come un supplizio medievale. Quando, con un «clic» musicale, la catena ritrova i denti del pignone, Marco balza in sella. Incomincia la rincorsa. A -8 chilometri ha 25 secondi di ritardo. Garzelli lo trascina rapido, dopo Favaro, su pendenze al 10 percento. Poi tocca a Borgheresi, Podenzana, Zaina, Velo. Un treno veloce, che rimonta. A -3,5 chilometri Marco riaffiora in testa. Non prende fiato. Si alza sui pedali e va. Lascia Simoni, Savoldelli e Clavero. Piomba su Miceli e Gotti. Li salta a velocità doppia. Scorge la maglia tricolore di Jalabert, solo in testa, e accelera. Lo raggiunge in un battibaleno. Jalabert sembra una statua immobile al centro della strada, quando lo salta. Al vedere quel missile, stacca le mani dal manubrio e, in modo plateale, allarga le braccia.
Marco è un angelo dell’apocalisse. Ha superato 49 corridori, uno dopo l’altro. Il tifo non vede bagliori luciferini nel suo sguardo. Va in estasi. Marco attraversa una foresta di mani, di facce protese, di occhi infuocati. Vince con 21 secondi su Jalabert, 35 su Simoni, 38 su Gotti. La gente lo accompagna nel trionfo con un urlo immenso, profondo come un canto gregoriano.
Il santuario è tempio del miracolo. Marco lo ha regalato. Un’ascensione al cielo. E la gente vibra di una gioia ingenua e bella. Ai suoi occhi Marco è un angelo. In greco «angelo» vuol dire «messaggero» e «Vangelo» è la «buona novella» («eu-angelion»). Marco è un evangelista nuovo, in bicicletta. Regala gioia. Dei quattro Vangeli quello di Marco è il più bello. Marco dipinge mentre scrive. Durante la «Moltiplicazione dei pani e dei pesci» le persone per terra disegnano «aiuole». Nella «Trasfigurazione» le vesti di Gesù sono «luccicanti, molto bianche, come nessun lavandaio della Terra può sbiancarle». Anche Pantani ha dipinto salendo a Oropa. In modo così affascinante che Cannavò scrive: «Il popolo del ciclismo racconta che anche la Madonna Nera ha sorriso, dinanzi all’opera d’arte che il ciclismo le ha consegnato a nome del Marco evangelista». Pantani ha l’aureola.
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Il Pantadattilo ha chiuso le ali
Gianni Mura, «la Repubblica», 16 febbraio 2004
Fare l’elastico, nel gergo del ciclismo, è perdere contatto dal gruppetto o dal gruppo, e poi riaccodarsi, e staccarsi di nuovo, e riaccodarsi. Pantani ha fatto l’elastico col ciclismo (e con la vita, ma allora non si poteva immaginare) dalla mattina del 5 giugno 1999.
Adesso siamo al voyeurismo della cronaca, che coincide con quello del cuore. Le pasticche di ansiolitici, lui in jeans e a torso nudo, lui con un rivolo di sangue alla bocca (forse), lui che scrive sui fogli di carta del residence (non si sa cos’abbia scritto, ma è sintomatico che abbia scritto), lui senza telefonino, ultima cena un’omelette con prosciutto e formaggio (un piatto da atleti in attività). E i fiori davanti al residence, gli applausi notturni al furgone che lo porta via verso l’obitorio, la sorella Manola che grida a tutti di andare via, non c’è niente da vedere. Ma c’è molto da pensare su quell’ultima notte di quiete.
Il mondo piccolo della Romagna, la riviera spoglia, fuori stagione. Una stanza al quinto piano di un residence. Non la villa di Cesenatico, forse troppo grande e fitta di ricordi. Non il rifugio di Saturnia, non quello di Predappio. Ancora Rimini, l’universo notturno su cui Pantani andava regolarmente a sbattere come una farfalla disposta a bruciarsi. Sesso e droga in maxidosi, rock’n’roll forse.
La fine di Pantani può evocare quella di stelle della musica. Jim Morrison, Janis Joplin, l’amato (da Pantani) Charlie Parker. Ma un ciclista (questo è stato, non dimentichiamolo, e a suo modo dispensatore di musica e poesia, anche questo non dimentichiamo) è più legato alla terra. Otto mesi fa Pantani era ancora in gruppo, dopo tanto elastico. Dopo Campiglio, era obbligato a fermarsi 15 giorni per ematocrito alto, nessuna squalifica, solo una pausa per tornare ai valori giusti. Si è fermato un anno, che ne vale dieci per un ciclista. Bastava che tornasse in sella, che dicesse ho sbagliato, come tanti, troppi. Ma non l’ha fatto ed era penoso, per chi l’aveva ammirato e amato, prendere atto di questo rifiuto, di questa sosta dilatata, come se la cicatrice, lo sfregio all’immagine pubblica dell’erede di Coppi, fosse troppo profonda per rimarginarsi a comando.
Era penoso e non c’era molto da fare. Non lo dico per alleggerirmi la coscienza. Ho provato parecchie volte a cercare Pantani, non s’è mai fatto trovare e alla fine ho pensato che non lo avrei cercato più, perché il rispetto di una persona è anche rispetto delle sue scelte: l’isolamento, per dirne una. Che era, poi, l’allontanarsi da tutto quello o quelli che gli ricordavano il periodo d’oro.
Secondo Arrigo Sacchi Pantani è stato vittima della stampa, secondo Eddy Merckx dei giudici. Non sono frasi leggere, anzi sono pietre, beati loro che sono così sicuri, che hanno la verità pronta. Io penso che Pantani è stato vittima di un cocktail in cui si può mescolare di tutto, ma l’ingrediente principale resta la sua mancanza di forza. Pantani s’è perduto e non s’è ritrovato perché non poteva ammettere una semplice ma pesante verità. Fatta non di congiure, di complotti, ma di un prelievo di sangue maggiorato. Certo non era la sola pecora nera in un gruppo di pecore bianche. Ma è stato una pecora nera che non riconosceva neppure per un attimo di essere nera, un dio tirato giù dal cielo.
Noi pensiamo che i campioni dello sport siano fortissimi sempre. Lo sono nello sport, dove ascese e cadute sono all’ordine del giorno, ma nella vita possono essere fragilissimi. Si può attraversare un oceano e annegare in una pozzanghera, si possono scalare le montagne più aspre e inciampare in un gradino. Lo sport è la ricerca, anche enfatica, del superuomo, che batte gli avversari e cancella i ricordi.
L’uomo è un impasto più delicato e di difficile lettura: per l’uomo ci sono la famiglia, gli amici, se ne ha, i medici, gli psicologi, le cliniche. Penso che Pantani è andato a Cuba da Maradona a far qualche giorno e notte di bella vita (che tanto bella non è, è come veder le stelle in fondo a un buco).
Penso che i più grandi talenti dei due sport più popolari nell’ultimo decennio del secolo scorso hanno conosciuto le stesse grandezze e le stesse miserie. Ma Maradona è più di scorza dura, è un tribuno, può abbracciare Castro e attaccare gli Usa, o Menem, o Blatter.
Maradona sa rompere il silenzio, il giorno della morte di Pantani era in bermuda a inaugurare una sciovia. Pantani ha scelto il silenzio come protesta, come difesa, come compagno. Ma che sport è mai questo, su quali regole poggia, dove può condurre? Ogni tanto dovremmo chiedercelo tutti.
Dovremmo chiedercelo mentre Pantani passa in un’altra dimensione, anzi due: quella della morte, in una ritrovata e definitiva innocenza, e quella della leggenda. Il ciclismo ha i suoi santuari senza croci, crescono ai bordi delle strade: e saranno, per Marco, sul Mortirolo, a Montecampione, a Oropa, a Piancavallo, sull’Alpe d’Huez, sul Galibier, sul Plateau de Beille, e saranno in quel tuffo del sangue che arriva quando un uomo solo va via in salita (ma non sarà la stessa cosa, non prendiamoci in giro, uno come Pantani non ci sarà più).
Ciao Pirata, anche nei momenti più belli segnato da un’ombra presaga. Le emozioni non si cancellano e non ritiro una parola di quelle che ho scritto al Tour del ’98. So che ti sei lasciato andare e poi lasciato morire, e che questa sofferta deriva, quest’elastico sulla corda tesa, queste curve sul buio, altro che la discesa dell’Aspin, meriterebbero un silenzio che il mio mestiere non consente.
Però Marco Pantani, per quello che ha fatto in vita, merita che si rifaccia come Orio Vergani con Coppi. Il grande Pantadattilo ha chiuso le ali.