5. L’Aquila
Grimpa. Traduce liquido l’asfalto
in acqua che suda tossine
dai muscoli e sale
danzando a rumba la fatica
tornante dopo tornante.
Che cosa tiene avvinti all’aria?
Cosa nei suoi polmoni spira?
I pedali sono il cammino,
la vetta è nelle gambe,
le gambe conoscono il destino.
Gian Luca Favetto, «En danseuse» da Mappamondi e corsari
Gli scalatori non sono persone banali. Sono uomini aeronautici, aerodinamici e anche un po’ aerostatici. Sono sherpa a due ruote e free climber a pedivelle. Sono arrampicatori. Sono montanari anche se vengono da città di mare o da villaggi sulla spiaggia. Sono diventati mitici sui passi dolomitici. Sono cicloalpinisti anche sui Pirenei o sugli Appennini. Hanno il dono della leggerezza, il dovere dell’agilità, il potere della volatilità. Hanno il senso, se non proprio del verticalismo, almeno dell’obliquità. Hanno il gusto dei tornanti, dei muri, delle pareti. Hanno traguardi sui passi, sui valichi, sulle forcelle. Hanno lo sguardo rivolto a nord, alle nuvole, al cielo.
Gli scalatori sono una setta, una specie, una tribù. Una razza. Pesi mosca e piuma. Pulci e aquile, camosci e stambecchi. Gambesecche e cuorilenti. Corridori pelle e ossa, nervi e denti. Fuscelli, arbusti, al massimo canne di bambù.
Gli scalatori sono sacerdoti. Le loro non sono salite, ma ascensioni. Più in alto vanno, più si trasformano in spiriti. Spiriti santi, quando il ciclismo è respirato come una religione. E sono anime solitarie, mistiche, sofferenti fino al dolore, disposte all’agonia, votate all’apnea. Davide Mazzocco, in Grimpeur, sostiene che «è probabile che il cronoman si stimi e il grimpeur si ami». Io penso il contrario: è probabile che il cronoman si ami, per la sua bellezza fisica, per la sua perfezione stilistica, per il suo grado tecnologico, e che il grimpeur si stimi, per la sua ricerca verso l’assoluto, l’infinito, il mistero.
Gli scalatori sono quelli che in salita si avvitano su loro stessi, s’intrecciano con le bici, si sposano al paesaggio, si sublimano con il dolore. Scalare su due ruote è un regalo della natura, un’eredità della fame, una sfida alla legge di gravità. Un bisogno inspiegabile. E una condizione folle e solitaria.
Gli scalatori sono uomini soli.
Gli antenati di Pantani sono Federico Bahamontes e Charly Gaul. Bahamontes è un soprannome: significa «scavalcamontagne». Il suo vero nome è Alejandro, il suo vero cognome Martín. Nato a Santo Domingo-Caudilla, a una quarantina di chilometri da Toledo, da un cubano emigrato in Spagna, si dedica alla bici per sfamarsi: ha dieci anni, va al mercato, ruba frutta e verdura, la vende per comprare una bici. Quella bici non gli serve per gareggiare, ma per vendere più velocemente, per guadagnare più in fretta. Diventato corridore grazie alla frutta e alla verdura, ne carica fino a centocinquanta chili, è come pedalare trasportando due persone, una davanti e l’altra dietro, così, quando ha venduto tutta la frutta e si è liberato del peso dei due passeggeri immaginari, poi vola.
Quando si accorge che può guadagnare correndo in bicicletta, invece che rubando la frutta, Federico si converte al ciclismo. Questa legalizzazione gli cambia la vita. E lo iscrive nella storia. Prima corsa, prima vittoria. Il 18 luglio 1946, in Andalusia. Ha diciassette anni. Indossa una maglietta da pallacanestro. In tasca, la tasca dei pantaloni, porta la dote di un limone e di una banana. Ha così tanta fame che il limone se lo mangia tutto, buccia compresa. E pensare che quel giorno – non ha ancora abbandonato il compito di vendere la frutta al mercato nero – ha già fatto 60 chilometri a pedali. Al pronti-via attacca. Quello che avrebbe sempre fatto: attaccare, attaccare, attaccare. Attaccare è la sua unica tattica. Attaccare dall’inizio alla fine, dalla partenza all’arrivo, dai piedi alla cima, dall’inferno al paradiso.
È nato Bahamontes. Secco, asciutto, nervoso. Agile, spigoloso, elettrico. Capelli ricci e lunghi. Gambe che frullano, ginocchia in fuori, schiena dritta, mani eternamente indecise su dove stringere il manubrio. Non ha squadra, ma un compagno di avventura: Manuel López. Viaggiano sui treni merci, dormono nei vagoni, non pagano il biglietto. Siccome il fratello di Manuel lavora come capostazione e può usare il telegrafo delle ferrovie, Bahamontes e López sanno sempre dove sono le corse. Salgono su un treno merci e si presentano alla partenza, poi si spartiscono le vittorie. Senza mai litigare. López, velocista, vince in volata. Bahamontes, scalatore, vince in salita. E fanno, a loro modo, una piccola fortuna.
Nel 1953, dilettante, Bahamontes vince la prima tappa e conquista la classifica di migliore scalatore in una corsa nelle Asturie, cui partecipano molti professionisti. E tra i professionisti esordisce nel 1954. Va al Tour de France, da perfetto sconosciuto. Il suo primo posto nei gran premi della montagna e il venticinquesimo nella generale fanno sensazione. Ma ancora più sensazione desta la sua scalata sul Galibier. Primo. Alla grande. Poi, invece di lanciarsi in discesa, smette di pedalare, scende dalla bici, prende un gelato da uno spettatore, si siede su un muretto e aspetta che arrivi il gruppo. Impazzito? No, impaurito. Si è improvvisamente ricordato, Bahamontes, di una situazione simile già vissuta in una corsa in Spagna, quando la sua discesa si concluse fuori strada, contro un cactus. Qui di cactus non ce ne sono, ma di rocce sì.
La cosa si ripete al Tour de France del 1954, sulle Alpi, la prima volta che si affronta il Col de Romeyère. Uno dei raggi della ruota di Bahamontes si spacca a metà salita: invece di fermarsi, sistemare la ruota e riprendere la corsa, lo spagnolo si fida dell’istinto e attacca per dare ai meccanici più tempo per riparare il raggio una volta in cima. E così fa: attacca. Ma l’ammiraglia è rimasta dietro al gruppo e Bahamontes è costretto ad aspettarla. Stavolta entra in un bar e il gelato se lo compra.
E ancora: quella volta che, al Tour de France del 1956, sempre sulle Alpi, sul Col du Luitel, primo Charly Gaul, Bahamontes ritiene di averne abbastanza e getta la bici in un burrone, finché intervengono gli ufficiali di gara, che recuperano la bici e convincono lo spagnolo a riprendere la corsa: e alla fine Bahamontes è quarto nella generale. Quella volta che, al Tour del 1957, Bahamontes si ferma ad aspettare non l’ammiraglia, ma il camion-scopa, che raccoglie chi abbandona la corsa: tra i compagni che lo minacciano mostrando i pugni e il direttore sportivo che lo prega a mani giunte, lo spagnolo non lancia la bici, ma le scarpe in un dirupo per non dover, e non poter, più cambiare idea, e si ritira. Quella volta che, al Tour del 1959, il duello con Gaul sui Pirenei si trasforma in alleanza e produce un distacco tra loro due e il gruppo di quasi un quarto d’ora. Quella volta che, sempre nello stesso Tour, prima della cronoscalata del Puy-de-Dôme, Bahamontes si fa due caffè, ma siccome non è abituato, gli fanno un effetto esagerato: a metà corsa non si è ancora accorto che sta andando così forte, ma in cima sì, li ha fatti fuori tutti. E quella volta che, ancora in quel Tour, finalmente vince la classifica generale, per tutti diventa «l’Aquila di Toledo» e viene ricevuto dal generale Franco, ma è un incontro freddo. A dividerli non è il ciclismo, e neanche la politica, ma il calcio: il Caudillo tiene al Real Madrid, Bahamontes al Barcellona, e nessuno dei due è disposto a una diplomatica concessione. Quella volta che, alla Vuelta del 1960, insultato da uno spettatore in corsa, Bahamontes torna indietro, scende dalla bici, impugna la pompa e insegue lo spettatore per un’ora. Quella volta che, sempre nella stessa Vuelta, quando gli organizzatori riammettono i sei corridori esausti che lui ha mandato fuori tempo massimo stravincendo la tredicesima tappa, Bahamontes abbandona la corsa. Quella volta che, al Tour del 1963, quando è in testa alla classifica da una settimana, un corridore francese gli telefona di notte per chiedergli di vendergli la corsa, ma lui si rifiuta. E quella volta che, al Tour del 1965, stacca tutti sul Col du Tourmalet e sul Col d’Aubisque, ma dalla parte sbagliata, quella di dietro, e giunge al traguardo appena dentro il tempo massimo. Il giorno dopo va all’attacco, ma sul Col de Portet-d’Aspet va in crisi e decide di abbandonare, non la corsa, ma il ciclismo: si ferma sotto una quercia e la sera, da solo, torna in treno a Toledo.
A Pantani, Bahamontes sarebbe piaciuto da matti.