TEORIA DEGLI STADI E DELLE DIREZIONI DEL RIFIUTO RELIGIOSO DEL MONDO
1. Il significato di una costruzione razionale dei motivi di rifiuto del mondo.
Il campo della religiosità indiana, che adesso ci accingiamo ad esplorare, rappresenta, fortemente in contrasto con la Cina, la culla di quelle etiche religiose di negazione del mondo nella forma più assoluta, teorica e pratica, che il mondo abbia prodotto. Anche la «tecnica» che corrisponde a questa negazione ha raggiunto qui il suo massimo sviluppo. Il monacheSimo e le manipolazioni tipiche dell’ascesi e della contemplazione non solo hanno avuto qui la loro prima elaborazione, ma sono anche stati perfezionati con la massima coerenza e questa razionalizzazione ha forse avuto qui anche il punto di partenza storico per la sua diffusione attraverso il mondo. Prima di esaminare questo tipo di religiosità appare opportuno illustrare brevemente in una costruzione schematica e teorica i motivi dai quali hanno preso le mosse le etiche religiose di negazione del mondo e le direzioni che hanno seguito: e in conclusione quale poteva essere il loro possibile «significato».
Lo schema costruito ha naturalmente il solo scopo di essere uno strumento idealtipico di orientamento, non di insegnare una propria filosofìa. I tipi teoricamente costruiti di «ordini di vita» in conflitto indicano semplicemente che in questi luoghi tali conflitti interni sono possibili e «adeguati», ma non si esclude l’esistenza di punti di vista dai quali questi conflitti possano considerarsi superati). Si può facilmente vedere come le singole sfere di valori siano elaborate in una struttura organica e razionale quali raramente si attuano nella realtà, anche se possono attuarsi e di fatto si sono attuate storicamente in forme importanti. Questa costruzione, in presenza di un fenomeno storico che per certi aspetti e per il suo carattere globale si avvicina ad una di queste fattispecie, permette di individuarne la posizione tipologica tramite l’accertamento del grado di vicinanza o di distanza dal tipo teoricamente costruito. Fin qui tale costruzione è quindi un semplice espediente tecnico ai fini di facilitare la chiarezza del testo e della terminologia. Ma oltre a ciò, in certe circostanze, potrebbe anche significare qualcosa di più. Anche il razionale, nel senso della «coerenza» logica o teleologica di una presa di posizione intellettuale-teoretica o pratico-etica, ha (e ha sempre avuto) un potere sugli uomini, anche se questo potere è sempre stato dappertutto limitato ed instabile rispetto alle altre forze della vita storica. Proprio le interpretazioni religiose del mondo e le etiche religiose intenzionalmente razionali, create dagli intellettuali, sono state fortemente esposte all’imperativo della coerenza. Anche se nei singoli casi spesso non obbediscono all’esigenza della «non contraddizione» e anche se spesso inseriscono nei loro postulati etici delle prese di posizione che non sono deducibili razionalmente, tuttavia l’effetto della ragione, e in particolare della deduzione teleologica di postulati pratici, si può osservare in qualche modo in tutte le etiche religiose e spesso in misura molto forte. Partendo da queste basi concrete, possiamo sperare, tramite la costruzione appropriata di tipi razionali, ossia l’elaborazione delle forme di condotta pratica internamente più «coerenti» deducibili da fermi presupposti dati, di facilitare l’esposizione di una varietà di fatti che altrimenti non si lascia abbracciare nella sua globalità. E infine, soprattutto, un tentativo di sociologia religiosa di questo tipo deve e vuole contribuire, nello stesso tempo, alla tipologia e alla sociologia del razionalismo stesso. Prende quindi le mosse dalle forme più razionali che la realtà può assumere e cerca di spiegare in che misura certe conclusioni razionali che possono essere stabilite teoricamente hanno trovato attuazione nella realtà. Oltre a spiegare, eventualmente, perché ciò non è avvenuto.
2. Tipologia dell’ascetismo e del misticismo.
Nell’esposizione introduttiva e spesso anche in seguito si è accennato alla grande importanza della concezione di un Dio creatore trascendente per letica religiosa, in particolare per la direzione attiva e ascetica della ricerca di salvezza, in contrapposizione alla direzione mistica contemplativa intimamente legata alla spersonalizzazione e alla immanenza del potere divino. Ma questa connessionea non è assolutamente incondizionata, e il dio trascendente, come tale, non ha determinato la direzione dell’ascetismo dell’Occidente. Lo dimostra il fatto che la trinità cristiana con il suo salvatore umano-divino e con i santi rappresenta una concezione di dio fondamentalmente meno trascendente di quella del Dio del giudaismo, in particolare del tardo giudaismo, o di quella dell’Allah islamico.
Ciononostante il giudaismo ha sviluppato un misticismo ma non ha dato vita, praticamente, a nessun ascetismo di tipo occidentale, e nell’antico Islam l’ascetismo era esplicitamente rigettato, mentre il carattere particolare della religiosità dei dervisci derivava da tutt’altre fonti (mistico-estatiche), estranee al rapporto con il Dio trascendente, e anche per la sua essenza interiore era ben lontano dall’ascetismo occidentale. Perciò la concezione del Dio trascendente, per quanto fosse importante, non operava evidentemente da sola, malgrado la sua affinità con la profezia di missione e l’ascetismo attivo, ma solo in concomitanza con altre circostanze, e soprattutto la natura delle promesse religiose e le vie di salvezza tracciate da queste. Su questo si dovrà tornare ripetutamente, verificandolo nei singoli casi. Qui, in primo luogo, occorre definire con maggior precisione i termini «ascetismo» e «misticismo» dei quali ci siamo già serviti spesso come di concetti polari opposti.
Già nell’introduzione questi due concetti sono stati presentati come antitetici nella sfera del rifiuto del mondo: da un lato l’ascetismo, come attività voluta da Dio in qualità di strumento divino, dall’altra il possesso contemplativo della salvezza, proprio del misticismo, che implica un «avere» e non un agire e per il quale l’individuo non è uno strumento bensì un «recipiente» del divino, per cui l’attività mondana deve apparire come una minaccia allo stato di salvezza che è del tutto irrazionale e fuori dal mondo. Il contrasto è radicale quando da un lato opera l’ascetismo dell’agire intramondano che si propone di plasmare razionalmente il mondo creaturalmente corrotto e di dominarlo attraverso il lavoro in una «vocazione» mondana (ascetismo intramondano), mentre d’altro canto il misticismo porta alle estreme conseguenze la fuga radicale dal mondo (fuga contemplativa dal mondo). Ma il contrasto si attenua quando l’ascetismo attivo si limita a combattere e a superare la corruzione creaturale della propria natura e di conseguenza si concentra su quelle attività redentrici che sono stabilmente volute da Dio, fino ad evitare ogni azione negli ordinamenti mondani (fuga ascetica dal mondo), avvicinandosi così, nella condotta esteriore, alla fuga contemplativa dal mondo. D’altra parte il mistico contemplativo può non trarre le conseguenze della fuga dal mondo e restare negli ordinamenti mondani come l’asceta intramondano (misticismo intramondano). In ambedue i casi il contrasto di fatto può scomparire nella pratica con la sostituzione di una qualche combinazione delle due vie di ricerca di salvezza. Tuttavia, sotto una facciata superficialmente omogenea, la divergenza può restare profonda.
Per l’autentico mistico resta fermo il principio che la creatura deve tacere affinché Dio possa parlare. Il mistico «è» nel mondo e «si adatta» esteriormente ai suoi ordinamenti, ma lo fa in opposizione ad essi per assicurarsi del suo stato di grazia resistendo alla tentazione di dare importanza agli stimoli mondani. Come abbiamo visto per Lao-tzu, il suo atteggiamento tipico comporta un’umiltà particolarmente dimessa, una minimizzazione dell’agire, una specie di presenza religiosa in incognito nel mondo: egli prova se stesso contro il mondo, contro la sua azione nel mondo. Mentre l’asceta intramondano, al contrario, si salva attraverso l’azione. Per l’asceta intramondano il comportamento del mistico è inerte autogratificazione; per il mistico la condotta dell’asceta (che agisce nel mondo) significa invischiarsi nelle faccende del mondo, estranee a Dio, assieme ad un presuntuoso autocompiacimento. Con quella «felice ottusità» che si usa attribuire al tipico puritano, l’asceta intramondano esegue i comandi positivi di Dio — il cui senso ultimo gli rimane nascosto — così come esistono nell’ordine razionale del creato disposto da Dio; mentre per il mistico l’unica cosa importante ai fini della salvezza è di cogliere proprio quel significato ultimo, del tutto irrazionale, attraverso l’esperienza mistica. Le forme di fuga dal mondo proprie dei due comportamenti si distinguono per analoghi contrasti la cui discussione viene riservata ad una trattazione specifica.
Passiamo ora ad esaminare nel dettaglio le tensioni tra mondo e religione, ricollegandoci anche alle osservazioni dell’introduzione onde dar loro un’impostazione un po’ diversa. Si è già detto come quei tipi di comportamento i quali, metodicamente elaborati come modo di vita, costituiscono il nocciolo sia dell’ascetismo sia del misticismo, sono nati innanzitutto da presupposti magici. Venivano usati per svegliare qualità carismatiche o per scongiurare incantesimi maligni. Il primo caso, naturalmente, è il più importante, per la storia di questo sviluppo. Poiché già qui, all’origine della sua apparizione, l’ascetismo presenta le sue due facce: da un lato il ritiro dal mondo, dall’altro il dominio sul mondo in virtù delle forze magiche ottenute con il ritiro dal mondo. Nella storia di questo sviluppo il mago è stato il precursore del profeta: il profeta esemplare come il profeta di missione e il salvatore. Il profeta e il salvatore di regola erano legittimati dal possesso di un carisma magico. Solo che per questi ultimi il carisma era semplicemente un mezzo per ottenere il riconoscimento ed il rispetto del significato esemplare o della missione o della qualità di salvatore della loro persona. Infatti il contenuto della profezia o del comando del salvatore implicava una condotta di vita orientata al perseguimento di un bene di salvezza. E quindi, in questo senso, almeno una relativa sistematizzazione razionale del modo di vita, o limitata a singoli aspetti o totale. Quest’ultimo caso era la regola per tutte le autentiche religioni «di redenzione», cioè tutte quelle religioni aventi come scopo la liberazione dei propri fedeli dal male. E questo quanto più la natura del male veniva concepita in modo soprattutto sublimato, interiorizzato. Si trattava infatti, in questo caso, di mettere il fedele in uno stato permanente di immunità interiore dal male. Invece dello stato di grazia ottenuto attraverso l’orgia o l’ascesi o la contemplazione — che è uno stato acuto, eccezionale, e quindi transitorio — l’individuo redento doveva raggiungere un habitus permanente di santità che come tale assicurava la salvezza: questo, in termini astratti, era lo scopo razionale della religione di redenzione.
Ora, quando in seguito alla profezia o alla propaganda del salvatore sorgeva una comunità religiosa, il compito di regolare il modo di vita cadeva dapprima nelle mani di persone carismaticamente qualificate: seguaci, allievi, discepoli del profeta e del salvatore. In seguito, sotto determinate condizioni che si ripetevano in maniera molto regolare, ma di cui non ci occupiamo ancora per adesso, finiva nelle mani di una ierocrazia sacerdotale, ereditaria o burocratica, mentre il profeta o il salvatore stesso, di regola, era stato proprio in opposizione ai tradizionali poteri ierocratici dei maghi o dei sacerdoti, avendo contrapposto il suo carisma personale alla loro dignità consacrata dalla tradizione per spezzare il loro potere o costringerlo al suo servizio.
Com’è implicito in tutto ciò che si è detto or ora, le religioni profetiche e del salvatore vivevano, nella maggior parte dei casi e nei casi più importanti per la storia del loro sviluppo, in uno stato di tensione non solo acuta (com’è implicito nella terminologia adottata) ma anche permanente con il mondo ed i suoi ordinamenti. Questa tensione era tanto maggiore quanto più si trattava di un’autentica religione di redenzione. Ciò derivava dal significato della redenzione e dalla natura della dottrina di salvezza dei profeti e si verificava in misura crescente quanto più questa dottrina si sviluppava in un’etica razionale e quindi orientata verso beni di salvezza interiori come mezzi di redenzione. Ossia, in parole semplici, quanto più si allontanava dal ritualismo sublimandosi in «religiosità dell’intenzione». E la tensione dal canto suo diventava tanto più forte quanto più, dalla parte opposta, anche la razionalizzazione e la sublimazione del possesso esteriore e interiore di beni «mondani» (in senso lato) compiva analoghi progressi. Infatti la razionalizzazione e la sublimazione cosciente dei rapporti con le diverse sfere di possesso di beni interiori ed esteriori, religiosi e mondani, spingeva alla presa di coscienza della «interna autonomia» delle singole sfere nella loro coerenza e quindi all’esplosione di quelle tensioni reciproche che rimanevano nascoste alla primitiva semplicità dei rapporti con il mondo esterno. è questa una sequenza di ordine generale, della massima importanza per la storia della religione, dell’evoluzione del possesso di beni intrae ultramondani in qualcosa di razionale e consciamente perseguito, sublimato attraverso la scienza. Chiariamo ora per una serie di questi beni i fenomeni tipici che si ripetono in qualche modo presso le più diverse etiche religiose.
3. Le direzioni del rifiuto del mondo: le sfere economica, politica, estetica, erotica, intellettuale.
Quando la profezia di redenzione creava delle comunità su basi puramente religiose, il primo potere con cui entrava in conflitto e che da essa aveva da temere la svalutazione era la primitiva comunità delle schiatte. Chi non è capace di essere nemico dei suoi parenti, di suo padre e sua madre, non può essere un discepolo di Gesù: «Non sono venuto a portare la pace, ma la spada» (Matt. 10, 34) viene detto in questo contesto (e nota bene: solo in questo). Senza dubbio la maggior parte delle religioni hanno regolato anche i legami di pietas intramondani. Ma il salvatore, il profeta, il sacerdote, il padre confessore, il fratello di fede, in definitiva, dovevano essere sentiti dal credente come più vicini della sua parentela naturale o della comunità acquisita col matrimonio; e questo era tanto più ovvio, quanto più vasto e più intimo era lo scopo di redenzione concepito. Svalutando, almeno in certa misura, quel tipo di rapporti familiari, e distruggendo i legami magici e l’esclusivismo delle schiatte, la profezia creò una nuova comunità sociale, specie quando diede luogo ad una religiosità soteriologica di congregazioni. In seno a questa comunità si sviluppò un’etica religiosa di fratellanza. All’inizio questa riprendeva semplicemente i princìpi originari della condotta etica e sociale offerti dalla «associazione dei vicini»: la comunità dei membri del villaggio, della schiatta, della corporazione, di un equipaggio, di una partita di caccia, di una campagna militare. Queste comunità conoscevano però due princìpi fondamentali: 1. il dualismo tra etica interna ed etica esterna; 2. la semplice clausola di reciprocità vigente per l’etica interna; «come tu fai a me, così io farò a te». Conseguenza economica di tale principio era l’obbligo di aiuto fraterno a chi era in difficoltà, limitato ai rapporti interni: concessioni di uso gratuito, prestito senza interessi, dovere di ospitalità e di soccorso dei nobili e benestanti nei confronti di chi era privo di mezzi, lavoro senza compenso sul podere del vicino o anche su quello del signore in cambio del semplice vitto. Tutto ciò in base al principio: quello che oggi manca a te, domani può mancare a me, naturalmente non formulato razionalmente, ma sentito emotivamente. A ciò corrispondono le limitazioni imposte al mercanteggiare (negli scambi e nei prestiti) e alla schiavitù permanente (per esempio in conseguenza di debiti), ammessi solo dall’etica esterna valida nei confronti degli estranei.
La religiosità comunitaria trasferì questa vecchia etica economica dei vicini ai rapporti tra fratelli di fede. L’obbligo di assistenza dei nobili e dei ricchi nei confronti delle vedove e degli orfani, dei fratelli di fede ammalati e poveri, in particolare le elemosine del ricco da cui dipendevano economicamente i cantori sacri ed i maghi come pure gli asceti, divennero obblighi fondamentali di tutte le religioni eticamente razionalizzate del mondo. Nelle profezie della redenzione, in particolare, il principio costitutivo della relazione comunitaria era la sofferenza, interiore ed esteriore, realmente o comunque potenzialmente comune a tutti i credenti. Tanto più l’idea della redenzione era concepita razionalmente e sublimata in un’etica del pensiero, tanto più crescevano quei comandi esterni e interni originati dall’etica della reciprocità dell’associazione dei vicini. Esteriormente si arrivava fino al comuniSmo dell’amore fraterno, internamente si giungeva dallo spirito della carìtas all’amore per il sofferente come tale, l’amore del prossimo, l’amore dell’uomo e infine l’amore del nemico. I limiti dei legami di fede e l’esistenza stessa dell’odio, in una concezione del mondo come luogo di immeritata sofferenza, apparivano come conseguenze dell’imperfezione e della corruzione di tutto l’esistente empirico, che sono anche responsabili della sofferenza. Sul piano puramente psicologico operava generalmente nella stessa direzione quella particolare euforia propria a tutti i tipi di estasi religiosa sublimata. Dalla commozione devota fino al sentimento del possesso immediato della comunione con Dio, tutto tendeva a confluire in un acosmismo d’amore senza oggetto. Di conseguenza nelle religioni di redenzione la profonda tranquilla beatitudine dei virtuosi del bene acosmico si è sempre fusa con la compassionevole consapevolezza della naturale imperfezione tanto della propria natura quanto della natura umana nel suo insieme. Per il resto, sia la colorazione psicologica, sia l’interpretazione etica razionale di questo atteggiamento interiore potevano essere di tipo molto diverso. La sua esigenza etica però è sempre stata orientata verso una fratellanza universale al di là di tutte le barriere dei gruppi sociali, spesso della stessa associazione di fede. Quanto più questa fratellanza religiosa veniva portata alle sue estreme conseguenze, tanto più violentemente si scontrava con gli ordinamenti e i valori del mondo. E di solito — è questo che ci interessa — quanto più questi ultimi dal canto loro venivano razionalizzati e sublimati nella loro autonomia, tanto più il dissidio diveniva insolubile.
Questo fenomeno si manifesta nel modo più palese nella sfera economica. Tutti i mezzi primitivi per influenzare gli spiriti, che fossero di natura magica o mistagogica, miravano ad ottenere longevità, salute, onori, discendenza, ed eventualmente un destino migliore nell’aldilà, oltre naturalmente alla ricchezza che costituiva uno degli scopi più ovvi. Ciò vale per i misteri eleusini come per la religione fenicia e la religione vedica, la religione popolare cinese, il giudaismo antico, l’antico Islam e le promesse ai laici devoti della religione indù e buddhista. Al contrario la religione sublimata di redenzione e l’economia razionalizzata erano sempre più in contrasto su questo punto. Un’economia razionale è un’attività funzionale. è orientata ai prezzi monetari che originano dalla lotta di interessi degli uomini sul mercato. Senza stime in prezzi monetari e quindi senza questa lotta di interessi non è possibile calcolo di sorta. Il denaro è la cosa più astratta e «impersonale» che esista nella vita dell’uomo. Di conseguenza, quanto più il mondo della moderna razionale economia capitalistica seguiva le sue leggi immanenti, tanto più diventava inaccessibile a qualsiasi ipotetico rapporto con un’etica religiosa di fratellanza. E questo distacco cresceva con il crescere della razionalità e dell’impersonalità. Infatti, un regolamento etico integrale del rapporto personale tra padrone e schiavo era possibile proprio perché si trattava di un rapporto personale. Non era possibile invece 舦— almeno non nel lo stesso senso e con lo stesso risultato — regolare i rapporti tra i detentori sempre diversi di titoli ipotecari ed i debitori della banca delle ipoteche, a loro sconosciuti e anch’essi intercambiabili, tra i quali non sussisteva nessun tipo di legame personale. Ogni tentativo in questo senso portava alle conseguenze che abbiamo visto in Cina; cioè a ostacolare la razionalità formale. Poiché la razionalità formale e la razionalità materiale erano qui in reciproco conflitto. è per questo che proprio le religioni di redenzione — malgrado la tendenza in esse stesse riscontrata ad una particolare spersonalizzazione dell’amore nel senso dell’acosmismo — hanno visto con profonda diffidenza lo sviluppo di forze economiche, anch’esse impersonali, ma in un altro senso, e proprio per questo specificamente ostili alla fratellanza. Il precetto cattolico sull’usura — Deo piacere non potest — caratterizzava in modo permanente i rapporti della religione con la vita economica, e in tutta la metodica razionale di redenzione le ammonizioni contro l’attaccamento al denaro e ai beni materiali erano spinte fino all’esecrazione di queste cose.
I vincoli delle comunità religiose con i mezzi economici necessari alla loro propaganda ed al loro sostentamento ed il loro adattamento ai bisogni culturali ed agli interessi quotidiani delle masse le costrinsero a quei compromessi riguardo ai quali la storia del divieto del prestito ad interesse costituisce solo un esempio tra tanti. Ma la tensione tra queste esigenze ed un’autentica etica di redenzione era, in ultima analisi, difficilmente superabile.
L’etica religiosa dei virtuosi ha reagito a questa situazione di tensione nella maniera più radicale, con il rifiuto cioè del possesso economico dei beni. La fuga ascetica dal mondo si manifesta con il divieto del possesso individuale per il monaco, un’esistenza garantita integralmente dal proprio lavoro e soprattutto la limitazione dei bisogni allo stretto indispensabile, conformemente a tale modo di vita. Accanto a ciò il monacheSimo di tutti i tempi è sempre caduto nello stesso modo nella contraddizione propria a tutti gli ascetismi razionali, contribuendo egli stesso a creare quella ricchezza che rifiutava. Dappertutto templi e monasteri sono diventati loro stessi luoghi di economia razionale.
La fuga contemplativa dal mondo, nella sua formulazione essenziale, poteva enunciarsi in un solo principio: il monaco spoglio di proprietà, che già il lavoro distoglieva qualche po’ dalla sua concentrazione sul bene sacro della contemplazione, doveva in genere avere solo il godimento di ciò che la natura e gli uomini gli offrivano spontaneamente: bacche e radici e libere elemosine. Anche questo principio forgiò i propri compromessi con la creazione di distretti di mendicità (come in India).
Per sfuggire, in principio e interiormente, a questa tensione esistevano solo due vie coerenti. Una stava nel paradosso dell’etica professionale puritana la quale, come religiosità di virtuosi, rinunciava all’universalismo dell’amore e considerava tutta l’opera in questo mondo come svolta al servizio di Dio; del tutto incomprensibile, quindi, nel suo significato ultimo, ma razionalmente oggettivato come unico segno riconoscibile di una volontà positiva e prova dello stato di grazia. Nello stesso tempo, quest’etica trasfigurava anche l’universo economico — deprezzato come creaturale e corrotto insieme a tutto il mondo — in un’entità voluta da Dio ed in materia prima sulla quale compiere il dovere. Si trattava, in ultima analisi, della rinuncia alla redenzione come scopo raggiungibile dall’uomo con le sue forze e da ogni uomo, in favore della concezione di una grazia immotivata ma sempre soltanto individuale. In realtà, in questa posizione di non-fratellanza non c’era più una vera e propria «religione della redenzione». Per questo l’unica via era il salto qualitativo dalla fratellanza al puro amore acosmico del mistico che non chiede nulla sull’uomo dal quale e per il quale si sacrifica, che in ultima analisi non è veramente interessato a lui, alla sua «bontà»; dà la camicia, quando gli vien chiesto il mantello, a colui che per caso capita sulla sua strada. Si tratta insomma di una particolare fuga dal mondo nella forma di una dedizione priva d’oggetto, a chiunque sia, non per l’uomo in sé, ma per la pura dedizione come tale, secondo le parole di Baudelaire: per la «sacra prostituzione dell’anima».
L’etica di fratellanza delle religioni redentrici, se coerente, doveva anche trovarsi in uno stato di tensione particolarmente forte nei confronti degli ordinamenti politici del mondo. Per la religiosità magica come per quella degli dèi funzionali il problema non esisteva. L’antico dio della guerra e il dio che garantiva l’ordine legale erano divinità funzionali che proteggevano beni della vita quotidiana il cui valore non veniva messo in dubbio. L’antico dio locale, tribale e nazionale, doveva occuparsi solo degli interessi delle sue associazioni. Doveva combattere contro altri suoi simili, proprio come la comunità, e confermare proprio attraverso le battaglie il suo potere divino. Il problema sorse invece quando tali barriere furono scosse dalle religioni universali, con il comparire, quindi, del Dio unico e universale, e soprattutto quando questo era concepito come un Dio d’amore, ovvero nel caso delle religioni di redenzione, sulla base della richiesta di fratellanza. Anche qui, come per la sfera economica, quanto più razionale era l’ordinamento politico, tanto più cresceva la tensione. L’apparato burocratico dello stato e Yhomo polìtìcus razionale ivi inserito conducono gli affari pubblici, compresa la punizione dell’ingiustizia in maniera oggettiva, «senza riguardo alla persona», sine ira et studio, senza odio e quindi senza amore; ed è proprio agendo in questo modo che applicano in modo ideale le regole razionali dell’ordinamento del potere statale. Proprio in virtù di questa sua spersonalizzazione lo stato burocratico, anche se le apparenze sembrano mostrare il contrario, è molto più inaccessibile, sotto molti aspetti, ad una moralizzazione sostanziale, che non gli ordini patriarcali del passato che riposavano sui doveri personali di pietas e sulla concreta valutazione personale del singolo caso con riguardo, appunto, alla persona. Infatti tutto l’andamento delle funzioni di politica interna dell’apparato statale, riguardanti l’organizzazione amministrativa e giudiziaria, è sempre regolato in definitiva, inevitabilmente, malgrado tutta la «politica sociale», dal pragmatismo oggettivo della ragion di stato; suo scopo assoluto è il mantenimento (o la riforma) della distribuzione interna ed esterna del potere. Tale scopo in ultima analisi deve apparire privo di senso ad ogni religione di redenzione. Ciò è sempre stato valido soprattutto per la politica esterna. Elemento costitutivo di ogni società politica è l’appello alla nuda violenza come mezzo di coercizione non solo verso l’esterno ma anche verso l’interno. Anzi, la violenza è ciò che nella nostra terminologia definisce in primo luogo la società politica: lo «stato» è quell’associazione che rivendica il monopolio dell’uso legittimo della violenza: altre definizioni non esistono. Contro il precetto «non opponetevi al male con la forza» del Sermone della Montagna lo stato dice: «aiuterai la giustizia a trionfare anche con la forza, sotto pena della tua propria responsabilità per l’ingiustizia». Dove ciò manca, manca lo «stato»; entrerebbe in vita l’«anarchia» pacifista. Ma la violenza e la minaccia di violenza, secondo una prassi inevitabile per ogni agire, dà inevitabilmente vita ad una nuova violenza. Inoltre la ragion di stato, aH’intemo come all’esterno, segue le proprie leggi autonome. E il successo della violenza o della minaccia di violenza dipende naturalmente, in ultima analisi, dai rapporti di forza e non dal «diritto» etico anche se si pensa di poter trovare dei criteri oggettivi per definire tale diritto. In ogni caso, quel fenomeno tipico dello stato razionale ? in contrasto con la primitiva e spontanea società eroica — che è l’assoluta e sincera convinzione di ciascuno dei gruppi o detentori di forza che si affrontano l’un l’altro nella lotta per il potere di «essere dalla parte del diritto», non può apparire, agli occhi di una razionale coerente coscienza religiosa, che come una parodia dell’etica; inoltre trascinare Dio nella lotta politica per il potere non può considerarsi che un invocare invano il nome del Signore, e di fronte a tale blasfema l’eliminazione totale di tutta l’etica dal ragionamento politico appare come una posizione più pulita, e come l’unica onesta. Ogni politica sarà quindi tanto più estranea alla fratellanza, quanto più sarà «oggettiva» e calcolatrice, libera da sentimenti appassionati, senza ira e senza amore.
L’estraneità reciproca delle due sfere, quella politica e quella etica, quando ambedue sono completamente razionalizzate, si manifesta con particolare asprezza su punti decisivi, in quanto la politica, contrariamente all’economia, è in grado di presentarsi come una diretta concorrente dell’etica religiosa. La guerra, come realizzazione della minaccia di violenza, crea proprio nelle moderne comunità politiche un pathos, un sentimento comunitario, suscitando così una devozione e un’incondizionata disposizione al sacrificio nella comunità dei combattenti; inoltre muove alla pietà e ad un amore per i bisognosi che infrange tutte le barriere delle associazioni naturali, a livello di un fenomeno di massa che le religioni in genere possono eguagliare solo nelle comunità eroiche dell’etica di fratellanza. E per di più la guerra dà al guerriero, conformemente al suo significato concreto, qualcosa di unico nel suo genere: il sentimento di un senso e di una consacrazione della morte, che appartiene solo alla morte in guerra. La comunità dell’esercito sul campo di battaglia si sente, oggi come all’epoca dei seguaci del capo, una comunità fino alla morte: la più forte comunità nel suo genere. La morte sul campo si distingue da quella morte che è il destino comune di tutti gli uomini e nulla di più, un destino che raggiunge ciascuno senza che si dica mai perché è toccato proprio a quella persona e proprio in quel momento; un destino che mette una fine laddove, per il crescente sviluppo e la sublimazione dei beni culturali fino all’incommensurabile, è sempre solo un inizio che appare dotato di senso. A differenza di quella morte che è solo un fatto inevitabile, qui, nella morte sul campo, e solo qui in misura così massiccia, l’individuo può credere di sapere che muore «per» qualcosa. Allora, il perché e per che cosa deve affrontare la morte sono interrogativi la cui risposta gli apparirà di regola inequivocabile, come accade, accanto al guerriero, solo a colui che perisce «nell’adempimento della sua vocazione»; e il problema del «senso» della morte, nel suo significato più ampio di cui le religioni di redenzione sono indotte ad occuparsi, non trova in queste persone le premesse atte a suscitarlo. Questa operazione che consiste nel porre la morte tra gli avvenimenti significativi e consacrati sta in ultima analisi alla base di tutti gli sforzi per sostenere la dignità dell’associazione politica fondata sulla forza. Ma il senso che qui viene dato alla morte è diametralmente opposto a quello che si trova nella teodicea della morte concepita dalle religioni di fratellanza. Per queste ultime la fratellanza dei gruppi di uomini uniti nella guerra può apparire soltanto come uno spregevole riflesso della brutalità tecnicamente raffinata della lotta, e la consacrazione mondana della morte in guerra non è altro che un’esaltazione del fratricidio. Ed è in questo campo che la competizione tra politica e religione raggiunge la sua massima intensità, proprio per il carattere eccezionale della fratellanza guerriera e della morte in guerra, carattere comune anche al carisma di santità ed all’esperienza della comunione con Dio.
Anche qui esistono solo due soluzioni coerenti a tale contrasto. Da un lato c’è il particolarismo della grazia dell’ascesi puritana che si compie nella vocazione; il puritano crede nei comandamenti fissi e resi manifesti di un Dio altrimenti del tutto incomprensibile e interpreta la volontà divina nel senso che tali comandamenti devono essere imposti a questo mondo creaturale e quindi assoggettato alla violenza ed alla barbarie etica anche con l’uso dei mezzi di questo mondo, ossia con la violenza. Ciò comporta però quantomeno dei limiti al dovere di fratellanza, nell’interesse della «causa» di Dio. D’altra parte c’è il radicale atteggiamento antipolitico della ricerca di salvezza del mistico con la sua bontà e la sua fratellanza acosmiche. Il mistico, con il principio «Non resistere al male» e con la massima «Porgi l’altra guancia» 舦— massima necessariamente rozza e priva di dignità agli occhi di ogni mondana e spavalda etica «da eroi» — si sottrae alla prassi della violenza che è inevitabile in ogni agire politico. Tutte le altre soluzioni sono gravate da compromessi o da presupposti che devono necessariamente apparire disonesti o inaccettabili agli occhi di un’autentica etica di fratellanza. Tuttavia alcune di queste soluzioni presentano un interesse autonomo per la loro tipologia.
Ogni organizzazione della redenzione tramite un’istituzione universalistica per la grazia si sente responsabile davanti a Dio per le anime di tutti gli uomini, o perlomeno di tutti quelli che le sono affidati. Di conseguenza si sentirà anche giustificata, anzi in dovere, di opporsi anche con la violenza spietata ai pericoli di deviazione dalla fede e di promuovere con tutti i mezzi la diffusione dei mezzi di grazia salutiferi. E anche l’aristocratismo della salvezza produce il fenomeno del «crociato» attivo quando, come nel caso del calvinismo (in modo diverso nell’IsIam), lo sovrasta il comando del suo Dio di domare il mondo del peccato per Sua maggior gloria. Nello stesso tempo il «crociato» distingue la guerra «giusta» o «santa», cioè intrapresa per eseguire il comando divino, per la causa della fede, che è sempre in qualche modo una guerra di religione, da tutte le altre imprese belliche, puramente mondane e quindi profondamente disprezzate. La costrizione a partecipare a queste guerre, che non si presentano come sante e conformi alla volontà di Dio, che non sono avallate dalla sua coscienza, verrà quindi rifiutata dal «crociato» — come fece il vittorioso «esercito dei santi» di Cromwell con la sua opposizione all’obbligo del servizio militare 舦— che preferirà l’esercito di mercenari alla coscrizione obbligatoria. Nel caso di violazione della volontà di Dio da parte degli uomini, in particolare in materia di fede, il credente, in virtù del principio che bisogna obbedire a Dio prima che agli uomini, spingerà la coerenza fino all’azione rivoluzionaria in nome della fede.
Del tutto opposta era invece per esempio la posizione della religione istituzionale luterana. Rifiutando la crociata ed il diritto di resistenza attiva contro la violazione della fede da parte degli ordini mondani come un arbitrario coinvolgimento della redenzione nel pragmatismo della violenza, il luteranesimo accetta su questo tema soltanto la resistenza passiva, e afferma l’ineccepibilità dell’obbedienza alle autorità mondane anche quando queste comandano una guerra mondana, poiché queste autorità, e non l’individuo, ne portano la responsabilità e perché viene riconosciuta l’autonomia etica dell’ordine di potere di questo mondo, in contrasto con l’istituzione di salvezza intimamente universalistica (propria del cattolicesimo). Quella venatura di religiosità mistica propria del cristianesimo personale di Lutero è portata qui solo a conseguenze parziali. Poiché la ricerca di salvezza propriamente mistica e pneumatica, religiosamente carismatica, dei virtuosi religiosi è sempre stata di sua natura soprattutto apolitica e antipolitica. Ha volentieri riconosciuto l’autonomia degli ordinamenti terreni ma solo per definirli coerentemente di carattere diabolico e perlomeno per adottare nei loro confronti quella posizione di assoluta indifferenza che si esprime nella massima: «Date a Cesare quel che è di Cesare» (infatti: che importanza hanno queste cose per la salvezza?).
La stretta implicazione delle organizzazioni religiose negli interessi e nelle lotte relative al potere, la caduta nel compromesso e nella relativizzazione, sempre inevitabile anche negli stati di massima tensione contro il mondo, l’uso delle organizzazioni religiose per la domesticazione politica delle masse e la loro idoneità a tali fini, in particolare il bisogno di una legittimazione religiosamente consacrata del potere esistente, tutto ciò ha determinato le più diverse prese di posizione empiriche delle religioni di fronte all’azione politica che la storia presenti. Quasi tutte erano forme di relativizzazione dei valori religiosidi salvezza e della loro autonomia etico-razionale. Tuttavia tra queste il tipo in pratica più importante era quello dell’etica sociale «organica», che era diffusa sotto molteplici forme ed i cui concetti di vocazione costituivano il più importante contrasto rispetto alla concezione di vocazione delì’ascesi intramondana.
Anche l’etica sociale organica, quando riposa su basi religiose, si esplica nella sfera della «fratellanza». Ma contrariamente all’amore acosmico dei mistici, il campo che domina è quello di un’esigenza di fratellanza cosmica, razionale. Il punto di partenza sta nell’esistenza di una disuguaglianza empiricamente provata nel possesso del carisma religioso. Proprio questo le è inaccettabile: il fatto che per questa disuguaglianza la salvezza sia accessibile solo per alcuni, non per tutti. L’etica sociale cerca quindi di collegare questa disuguaglianza con l’articolazione mondana in ceti per incanalarla in un cosmo di prestazioni volute da Dio e ordinate in base ad una specializzazione funzionale; entro questo cosmo, ad ogni individuo e ad ogni gruppo toccano determinati compiti secondo il carisma personale e la posizione socio-economica voluta dal destino. Di regola questi sono al servizio della realizzazione di una condizione interpretata simultaneamente in termini di utilitarismo sociale e di provvidenzialità, che malgrado il suo carattere di compromesso è tuttavia gradita a Dio perché di fronte al mondo corrotto dal peccato è la condizione che permette di debellare almeno in certa misura il peccato e la sofferenza, e di preservare e salvare il maggior numero possibile di anime in pericolo per portarle al regno di Dio. Esamineremo tra poco la teodicea, ben più ricca di pathos, che la dottrina indiana del karma ha dato alla dottrina sociale organica, partendo, proprio all’opposto del caso precedente, da un pragmatismo della salvezza orientato puramente verso gli interessi dell’individuo. Senza questo tipo molto particolare di collegamento ogni etica sociale organica rimane inevitabilmente, per quanto riguarda la posizione radicale, mistica, dell’etica religiosa di fratellanza, un accomodamento agli interessi degli strati privilegiati di questo mondo; mentre d’altra parte, dal punto di vista dell’ascesi intramondana, le manca l’impulso interiore alla totale razionalizzazione etica della vita individuale. Le manca infatti l’incentivo posto all’organizzazione razionale metodica della vita dell’individuo da parte dell’individuo stesso nell’interesse della propria salvezza. D’altra parte, agli occhi del pragmatismo organico della salvezza, l’aristocratismo della salvezza proprio dell’ascesi in tramondana con la sua oggettivazione razionale degli ordini di vita deve apparire come la forma più arida di assenza d’amore e di fratellanza; mentre la posizione del mistico gli apparirà come un godimento sublimato, in realtà anti-fraterno ed egoisticamente limitato, del proprio carisma e l’amore acosmico senza piano preordinato sarà solo un mezzo egoistico per la ricerca della propria salvezza. Ambedue queste ultime posizioni condannano in ultima analisi il mondo ad un’assoluta assenza di significato o perlomeno ad un’assoluta incomprensione degli scopi di Dio su di esso. Il razionalismo della dottrina sociale organica religiosa non accetta questa concezione e tenta dal canto suo di vedere nel mondo, nonostante tutta la corruzione del peccato, l’esistenza dei residui del piano di salvezza di Dio che ne fanno un cosmo almeno relativamente razionale. Ma proprio questa relativizzazione costituisce, agli occhi del carismatismo assoluto della religiosità dei virtuosi, l’aspetto veramente riprovevole ed estraneo alla salvezza.
Come l’agire razionale nei campo economico e politico segue le sue leggi autonome, cosὶ anche ogni altro agire razionale all’interno del mondo rimane legato inevitabilmente alle condizioni del mondo, estranee alia fratellanza, che devono costituire i suoi mezzi od i suoi fini, e percio entra sempre in qualche modo in tensione con l’etica di fratellanza. Tuttavia l’azione razionale porta una forte tensione anche in se stessa. Infatti non sembra esserci nessun criterio atto a fornire una risposta alia questione preliminare, e cioe: nei singolo caso, in base a che cosa va determinate il valore etico di un’azione, in base ai suoi risultati, o ad un valore intrinseco a quest’azione stessa (valore da determinare eticamente in qualche modo)? II problema e se e in quale misura la responsabilita di chi agisce giustifica i mezzi in vista dei risultati o viceversa il valore dell’intenzione che sta dietro all’azione giustifica chi agisce rifiutando di assumersi la responsabilita di risultati che vanno attribuiti a Dio o alia corruzione ed alia stoltezza del mondo permesse da Dio. La sublimazione dell’etica religiosa in etica d’intenzionetendera verso quest’ultima alternativa: «II cristiano fa cio che e giusto e rimette il risultato a Dio». Se pero questo principio viene portato realmente e coerentemente alle sue conseguenze ultime ne deriva che l’azione specifica di fronte alle leggi autonome del mondo viene condannata all’irrazionalita nei suo esplicarsib. Di fronte a questo fatto la conseguenza di una ricerca di salvezza sublimata pub portare ad un incremento dell’acosmismo fino al punto di rifiutare l’agire razionale rispetto alio scopo, semplicemente come tale; di rifiutare, in altri termini, tutte le azioni che rientrano nelle categorie dei mezzi e dei fini, considerandole legate al mondo ed estranee a Dio. Cio awiene, come vedremo, in diversi contesti logici che vanno dalla parabola biblica dei gigli nei campo fino alle principali formulazioni del buddhismo, per esempio.
L’etica sociale organica è soprattutto un potere eminentemente conservatore e ostile ad ogni rivoluzione. Un’autentica religiosità di virtuosi, al contrario, può avere in certi casi altre conseguenze, di tipo rivoluzionario. Questo, naturalmente, solo se non si riconosce come qualità permanente di tutto il creaturale il pragmatismo della violenza, secondo il quale la violenza chiama la violenza e può solo portare a un cambiamento di persona o tutt’al più di metodi di governo sempre comunque fondati sulla violenza. A seconda del tipo della religiosità del virtuoso però la sua tendenza rivoluzionaria può assumere due forme principali. Una nasce dall’ascesi intramondana ovunque questa può contrapporre agli ordinamenti empirici del mondo, creaturalmente corrotti, una «legge naturale» assoluta e divina. L’attuazione di questa legge diventa allora un dovere religioso, secondo il principio valido in qualche modo in tutte le religioni razionali, che bisogna obbedire prima a Dio che agli uomini. Un esempio che trova riscontro anche altrove è dato dalle genuine rivoluzioni puritane. Questo atteggiamento corrisponde perfettamente al dovere della crociata.
Diversamente accade quando, come nel caso del mistico, si attua il mutamento, psicologicamente sempre possibile, dal possesso di Dio al possesso da parte di Dio. Ciò è possibile significativamente, quando divampano le aspettative escatologiche di un immediato inizio dell’epoca della fratellanza acosmica, e cade quindi la credenza in una eterna tensione tra il mondo ed il regno, irrazionale e ultramondano, della redenzione. Il mistico diventa allora salvatore e profeta; ma i comandi che proclama non hanno carattere razionale. Come prodotti del suo carisma sono rivelazioni di tipo concreto e il rifiuto radicale del mondo volge facilmente all’anomismo radicale. Gli imperativi del mondo non valgono per coloro che sono sicuri di essere posseduti da Dio: πάντα μοι ἔξεστιν. Tutti i movimenti chiliastici, fino alla rivoluzione degli anabattisti, riposano in qualche misura su questo sostrato. Per colui che è redento in virtù del suo «possesso di Dio» il genere di azione che compie è sprovvisto di significato per la salvezza. Troveremo una situazione analoga presso il djuanmukhtì indiano.
Se l’etica di fratellanza religiosa vive in uno stato di tensione con l’autonomia dell’agire mondano razionale rispetto allo scopo, lo stesso avviene, in misura non inferiore, per i suoi rapporti con quelle forze mondane della vita, la cui essenza è fondamentalmente di carattere arazionale o antirazionale; in particolare per quanto riguarda la sfera estetica e quella erotica.
La religiosità magica ha rapporti strettissimi con la prima di queste sfere. Idoli, icone, e altri prodotti dell’arte religiosa, la stereotipizzazione magica delle loro raffigurazioni provate come primo grado del superamento del naturalismo attraverso uno «stile» fisso, la musica come mezzo di estasi, di esorcismo o di magia apotropaica, gli stregoni come cantori e danzatori sacri, i rapporti tonali provati magicamente e quindi magicamente stereotipati come primissimi passi della scala musicale, i passi di danza magici con funzione strumentale per l’estasi come una delle fonti della ritmica; i templi e le chiese come i maggiori di tutti gli edifici, prodotti dalla stereotipizzazione stilizzante del piano architettonico dovuta a scopi fissati una volta per tutte, e delle forme architettoniche dovute alla sperimentazione magica; i paramenti e gli arredi sacri di ogni sorta come oggetti artistici collegati alla ricchezza dei templi e delle chiese determinata dallo zelo religioso: tutto ciò ha fatto della religione, da sempre, una fonte inesauribile di possibili sviluppi artistici da un lato, della stilizzazione attraverso i vincoli della tradizione dall’altro.
Per l’etica religiosa di fratellanza, come pure per il rigorismo aprioristico, l’arte come portatrice di effetti magici non solo è disprezzata ma è direttamente sospetta. La sublimazione dell’etica religiosa e della ricerca di salvezza da un lato, e lo sviluppo dell’autonomia dell’arte dall’altro tendono già di per sé a creare una condizione di crescente tensione. Ogni religiosità redentrice sublimata guarda solo al significato, non alla forma, delle cose e delle azioni rilevanti per la salvezza. La forma viene degradata a elemento fortuito, creaturale, che allontana dal significato. è vero che dal punto di vista dell’arte questo rapporto primitivo è proprio quello che può rimanere integro o venire ogni volta ristabilito fin tanto e tutte le volte che l’interesse consapevole di chi recepisce si concentra candidamente sul contenuto dell’opera plasmata e non sulla forma pura come tale, e fintanto che l’attività creatrice viene percepita o come un carisma (originariamente magico) della «capacità» o come un libero gioco. Ma lo sviluppo dell’intellettualismo e la razionalizzazione della vita rimuovono questa situazione. L’arte si costituisce allora in un cosmo di valori indipendenti sempre più consciamente compresi. Assume la funzione di una liberazione intramondana, non importa come interpretata: liberazione dalla routine quotidiana e soprattutto anche dall’oppressione crescente del razionalismo teorico e pratico. Con tale rivendicazione, però, l’arte entra in diretta concorrenza con la religione redentrice. Contro questa redenzione intramondana e irrazionale ogni etica religiosa razionale deve prendere posizione trattandosi di un regno che, dal suo punto di vista, è fatto di godimento irresponsabile e di una segreta mancanza d’amore. In pratica il rifiuto della responsabilità di un giudizio etico — che di solito si adatta a epoche intellettualistiche, in parte per via di necessità soggettive, in parte per il timore di apparire attaccati a pregiudizi tradizionali e filistei — tende a trasformare i giudizi di valore intesi in senso etico in giudizi di gusto (dove «privo di gusto» sostituisce «riprovevole») la cui inappellabilità esclude la discussione. La «validità generale della norma etica» è quella che fonda la comunità perlomeno nella misura in cui l’individuo, di fronte ad un modo di agire inaccettabile sul piano etico ma tollerato sul piano della convivenza umana, conscio della propria miseria creaturale, si sottomette spontaneamente a tale norma. Di fronte a ciò, la fuga dalla necessità di una presa di posizione etica razionale può apparire alla religione redentrice come un modo di pensare dei più profondamente antifraterni. D’altra parte, all’artista creatore come all’individuo esteticamente sensibilizzato e ricettivo la norma etica come tale potrà facilmente apparire come una forma di violenza contro ciò che è veramente creativo e intimamente personale nell’uomo. Ma la forma più irrazionale di comportamento religioso individuale, e cioè l’esperienza mistica, è nella sua più intima essenza non solo estranea alla forma, ininformabile ed inesprimibile, ma addirittura ostile alla forma, perché è proprio con il sentimento della rottura di tutte le forme che il mistico spera di poter penetrare nel Tutto-Uno che è al di là di ogni condizionamento e di ogni raffigurazione. Ai suoi occhi l’indubitabile affinità psicologica tra l’emozione artistica e quella religiosa non può essere che una manifestazione del carattere diabolico della prima. Proprio la musica, la più «spirituale» delle arti, nella sua forma più pura, cioè la musica strumentale, può apparire, con la sua autonomia propria di un regno che non appartiene alla vita interiore, come una forma di surrogato illusorio, irresponsabile, di un’autentica esperienza religiosa. La nota presa di posizione del concilio tridentino può essere fatta risalire a questa intuizione. L’arte diventa allora «divinizzazione della creatura», potere concorrente e apparenza illusoria; il ritratto e il simbolo delle cose religiose diventa blasfemo semplicemente in quanto tale.
Certamente nella realtà storica empirica questa affinità psicologica ha sempre nuovamente portato a quelle alleanze, così importanti per lo sviluppo dell’arte, cui si sono prestate la maggior parte delle religioni, in modo tanto più sistematico quanto più aspiravano a essere religioni di massa ed erano quindi orientate verso degli effetti di coinvolgimento delle masse e una propaganda emotiva. L’autentica religiosità dei virtuosi rimase sempre la più ostile nei confronti dell’arte, partendo dal pragma del dissidio interno, e questo sia nel suo orientamento ascetico attivo che in quello mistico, e tanto più rigidamente, quanto più poneva l’accento o sul carattere ultramondano del suo Dio o su quello extramondano della redenzione.
Come per la sfera estetica, così l’etica religiosa di fratellanza delle religioni di redenzione si trova in un rapporto di profonda tensione anche con la forza più irrazionale della vita, e cioè l’amore sessuale. E anche tale tensione è tanto più aspra, quanto più da un lato la sessualità è sublimata, e dall’altro l’etica redentrice della fratellanza viene portata senza remore alle più estreme conseguenze. Anche qui il rapporto primitivo tra religione ed erotismo era molto stretto. Il rapporto sessuale molto spesso era una parte costitutiva dell’orgiasmo magicoc; la prostituzione sacra — che non aveva nulla a che vedere con una presunta «promiscuità primitiva» — era perlopiù un residuo di quella situazione originaria in cui ogni estasi era considerata «sacra». La prostituzione profana, sia eterosessuale che omosessuale, era antichissima e spesso piuttosto raffinata (si riscontra l’allevamento di tribadi da parte dei cosiddetti «popoli viventi allo stato di natura»). Il passaggio da questa al matrimonio legalmente contratto era alquanto fluido per via di tutta una serie di forme intermedie. La concezione del matrimonio come un affare economico volto a garantire la sicurezza della moglie ed il diritto all’eredità del figlio, e inoltre come istituzione importante anche per il destino nell’aldilà perché diretto a produrre figli e quindi a creare una discendenza che assicuri agli antenati i sacrifici mortuari, è una concezione preprofetica e universale e non ha quindi nulla a che vedere con l’ascesi in sé. La vita sessuale come tale aveva i suoi spiriti e le sue divinità come ogni altra funzione. Una certa tensione è venuta alla luce solo con il fenomeno abbastanza antico della castità temporanea, cultuale dei sacerdoti; fenomeno dovuto senz’altro al fatto che, dal punto di vista del rituale fortemente stereotipato caratteristico di un culto comunitario regolato, la sessualità, com’è già facile di per sé, appariva specificamente dominata da forze demoniache. Ma anche in seguito, in realtà non è stato un caso che le profezie e i sistemi di vita sotto controllo sacerdotale abbiano tutti, praticamente senza eccezioni degne di nota, regolato il rapporto sessuale a favore del matrimonio. In ciò si esprime l’opposizione di ogni regolamentazione della vita contro l’orgiasmo magico e ogni specie di forme irrazionali di esaltazione. L’incremento della tensione è poi stato condizionato da fattori di sviluppo dell’una e dell’altra parte. La sessualità è stata sublimata in «erotismo» e quindi — in contrasto con il sobrio naturalismo del contadino — in una sfera consapevolmente curata e per di più a carattere «extraquotidiano». Extraquotidiano non solo e non necessariamente nel senso dell’estraneità alle convenzioni. La convenzione cavalleresca faceva proprio dell’erotismo l’oggetto di un regolamento; anche se ciò avveniva in modo caratteristico, tenendo velata la base naturale e organica della sessualità. Il carattere extraquotidiano stava proprio in questo allontanamento progressivo dal primitivo naturalismo della sessualità. Questo sviluppo però era compreso, nelle sue basi e nel suo significato, nel contesto universale della razionalizzazione e dell’intellettualizzazione della cultura.
Richiamiamo in brevi tratti gli stadi di questo sviluppo e scegliamo a questo scopo gli esempi offerti dall’Occidente.
L’emancipazione dei contenuti generali della vita dell’uomo dal ciclo organico dell’esistenza contadina, il crescente arricchimento della vita con contenuti culturali, sia individuali sia di altro tipo considerati extraindividuali, allontanando i contenuti esistenziali dal dato naturale ha operato simultaneamente nella direzione di un acuirsi della posizione particolare dell’erotismo. Questo fu elevato alla sfera del godimento cosciente (nel senso più sublime). Pure esso apparve, proprio per questo, come una porta verso il nucleo più irrazionale e insieme più reale della vita, rispetto ai meccanismi della razionalizzazione. Accanto a ciò, il tipo e l’intensità dei giudizi di valore che vennero posti sull’erotismo come tale furono estremamente mutevoli secondo le circostanze storiche. Il possesso delle donne e la lotta per le donne come per i beni preziosi e per la conquista del potere corrispondeva con sufficiente approssimazione ai sentimenti intatti di una comunità guerriera. Nell’ellenismo preclassico, all’epoca del romanticismo cavalleresco, una delusione erotica poteva essere, stando al poeta Archiloco1, un’esperienza con effetti rilevanti e durevoli, e il ratto di una donna poteva costituire l’occasione di una guerra d’eroi senza pari. E anche negli ultimi echi della mitologia, ancora presso i tragici greci, l’amore sessuale è conosciuto come un’autentica forza del destino. Ma nell’insieme fu una donna, Saffo, che ebbe una capacità di esperienza erotica mai raggiunta dagli uomini. D’altra parte l’epoca ellenica classica, il periodo dell’esercito degli opliti, ebbe in questo campo un atteggiamento singolarmente sobrio, in termini relativi, come attestano tutte le testimonianze dirette dell’epoca; perfino più sobrio di quello dello strato colto cinese. Non che i Greci non abbiano più conosciuto la mortale serietà dell’amore sessuale. Ma non era questa, bensì proprio il suo contrario, la caratteristica dell’erotismo greco: ci si ricordi — malgrado Aspasia2 — del discorso di Pericle e della nota sentenza di Demostene. Per il carattere esclusivamente maschile di quest’epoca della «democrazia», il concepire l’esperienza erotica, con le donne, come «destino di vita» — per esprimerci coi termini odierni — sarebbe parso di un sentimentalismo più o meno da liceali. Il «compagno», il fanciullo, era proprio al centro della cultura ellenica, come l’oggetto desiderato con tutto il cerimoniale dell’amore. L’eros di Platone è quindi, malgrado tutta la sua magnificenza, un sentimento fortemente temperato; la bellezza della passione bacchica pura come tale in questo rapporto non era ufficialmente riconosciuta.
La possibilità di una problematica e di un carattere tragico di tipo essenziale venne inserita per la prima volta nella sfera erotica da determinate esigenze di responsabilità che in Occidente sono di origine cristiana. Ma l’accento valutativo posto sulla sensazione erotica pura come tale si è sviluppato in Occidente in primo luogo e soprattutto come conseguenza delle condizioni culturali proprie alla concezione feudale dell’onore. In particolare ciò è avvenuto attraverso la trasposizione del simbolismo cavalleresco dei rapporti di vassallaggio nella sfera erotica sublimata dei rapporti sessuali. E soprattutto quando entrarono in gioco qualche sorta di combinazioni con una religiosità criptoerotica o direttamente con l’ascetismo, come avvenne nel Medioevo. L’amore cavalleresco del Medioevo cristiano era notoriamente un vassallaggio amoroso non nei confronti di una ragazza ma esclusivamente di una donna estranea, maritata, e comprendeva caste notti d’amore (in teoria !) e un codice casistico dei doveri. Cominciò allora — in ciò risiede il grosso contrasto con il culto ellenico del genere maschile — il fenomeno della «prova» che l’uomo doveva dare, non ai suoi simili, ma all’interessamento erotico della «dama», la cui concezione venne plasmandosi per la prima volta proprio attraverso questa funzione. Un ulteriore progresso del carattere specificamente sensitivo dell’erotismo si sviluppò con il superamento della convenzione rinascimentale che — malgrado le sue grosse diversità per il resto ? era ancora essenzialmente orientata verso la mascolinità agonistica e sotto questo aspetto affine alla tradizione antica, essendosi spogliata dell’ascetismo cavalleresco cristiano; convenzione che si ritrova ancora all’epoca del «Cortigiano»3 e di Shakespeare. Il progresso fu allora dovuto al crescente intellettualismo non-militare della cultura da salotto. Questa riposava sulla convinzione della forza creativa della conversazione intersessuale, per la quale la sensazione erotica aperta o latente e la prova agonistica del cavaliere davanti alla dama divennero mezzi indispensabili di stimolo intellettuale. A partire dalle Lettres Portugaises4 l’autentica problematica amorosa femminile diventò oggetto di mercato, specificamente intellettuale, e la corrispondenza amorosa femminile divenne «letteratura».
L’ultimo stadio del progresso nella rivalutazione della sfera erotica si compì, infine, sul terreno delle culture intellettualistiche, quando tale sfera entrò in conflitto con l’inevitabile vena ascetica propria dell’umanità dedita al lavoro professionale. In questo stato di tensione rispetto alla razionalità della vita quotidiana la vita sessuale, venuta così ad assumere un carattere extraquotidiano — in particolare quella affrancata dal matrimonio — poteva apparire come l’unico legame sussistente ancora tra l’uomo, ormai completamente emancipato dal ciclo dell’antica, semplice ed organica esistenza contadina, e le fonti naturali di tutta la vita. Con questi nuovi e potenti accenti veniva quindi sottolineato il valore di questa sensazione specifica che implicava una liberazione intramondana dal razionale: un felice trionfo su quest’ultimo. A questa valutazione radicale corrispondeva un rifiuto, necessariamente altrettanto radicale, da parte di ogni etica redentrice a carattere extramondano o ultramondano. Per questa etica infatti il trionfo dello spirito sul corpo doveva avere proprio qui il suo punto culminante ed essa poteva addirittura giungere ad attribuire alla vita sessuale il carattere di unico inestinguibile legame con l’animalesco. Tuttavia, nel caso di un’elaborazione sistematica della sfera sessuale trasformata in sensazione erotica di alto valore, con un’interpretazione trasfigurata di tutto ciò che è puramente animalesco nel rapporto, questa tensione doveva manifestarsi nella maniera più acuta e più inevitabile proprio allorquando la religiosità redentrice assunse il carattere della religiosità dell’amore: la fratellanza e l’amore del prossimo. E questo proprio perché nelle circostanze date il rapporto amoroso sembra offrire il punto culminante nell’adempimento all’esigenza dell’amore: la compenetrazione diretta delle anime da uomo a uomo. Per quanto opposta, nel ruolo più radicale possibile, a tutto ciò che è oggettivo, razionale, universale, l’immensità della dedizione vale qui come un sentimento unico nel suo genere, che l’individuo, nella sua irrazionalità, ha per un altro individuo e solo per questo. Ma questo sentimento, e il valore stesso del rapporto, dal punto di vista dell’amore, sta nella possibilità di una comunicazione che viene sentita come un’unione totale, come una scomparsa del «tu», ed è così travolgente da venire interpretata «simbolicamente», sacramentalmente. Proprio per il carattere ingiustificabile ed inesauribile della propria esperienza — che non può comunicare con nessun mezzo ed in ciò è analoga al «possesso» mistico — e non solo in virtù dell’intensità di tale esperienza ma anche sulla base della realtà direttamente posseduta, colui che ama sa di essere radicato nel nucleo dell’autentica vita, per sempre inaccessibile ad ogni sforzo razionale, e che sfugge completamente alle fredde mani scheletriche degli ordinamenti razionali come pure all’ottusità della vita quotidiana. Sapendosi legato «a ciò che esiste di più vivo», l’amante vede nell’esperienza priva d’oggetto (secondo lui) del mistico un pallido reame al di là del mondo. Come l’amore sciente dell’uomo maturo sta alle fantasticherie appassionate dell’adolescente, così la mortale serietà di questa visione erotica propria dell’intellettualismo sta all’amore cavalleresco: riaffermando il carattere naturale della sfera sessuale, ma in modo cosciente, come forza creatrice incorrotta.
Una coerente etica religiosa di fratellanza è radicalmente ostile a tutto ciò. In primo luogo questa sensazione di liberazione puramente terrena — dal suo punto di vista — già di per sé fa la più forte concorrenza possibile a sentimenti quali la dedizione al Dio ultramondano, o ad un ordinamento divino eticorazionale o alla fusione mistica — l’unica «autentica» secondo lui — dell’individuo. Ma vi sono inoltre proprio dei rapporti di affinità psicologica tra le due sfere che ne accentuano la tensione. L’amore erotico al suo grado più alto ha certi aspetti psicologici e fisiologici comuni a certe forme sublimate della devozione eroica. Più che all’ascetismo attivo razionale, che rifiuta il sesso per via della sua stessa irrazionalità ed è percepito dall’erotismo come una forza mortalmente ostile, questa comunanza di sentimenti appartiene alla concezione mistica di Dio. Con la conseguenza della minaccia sempre presente di una vendetta mortalmente raffinata dell’animalesco o di un’improvvisa caduta dal regno mistico di Dio nel regno del troppo umano. Proprio questa affinità psicologica aumenta naturalmente l’ostilità che vige tra queste concezioni opposte. Dal punto di vista di ogni etica religiosa di fratellanza il rapporto erotico rimane necessariamente legato, in modo specificamente raffinato, alla pura brutalità, e tanto più quanto più esso è sublimato. L’amore sessuale è inevitabilmente considerato come una condizione di lotta, che non è solo e nemmeno essenzialmente una lotta della gelosia e della volontà di possesso esclusivo contro terzi; si tratta piuttosto della violenza più profonda, perché spesso non percepita dagli stessi partecipanti, che viene fatta all’anima della parte meno brutale, un godimento raffinato dell’io in altrui che inganna la devozione umana. Nessuna unione amorosa completa si considera fondata su altro che su di una - determinazione segreta: il fato nel senso più alto del termine. è così (in un senso totalmente non etico) che l’unione conosce la sua «legittimazione». Ma per la religione di salvezza questo «fato» non è altro che il caso che governa l’ardore delle passioni. Le manifestazioni patologiche fondate su queste basi di infatuazione, di idiosincrasia e di rimozione di ogni misura e di ogni giustizia obiettiva non possono apparire, agli occhi di tale religione, che come il rinnegamento più totale di tutto ciò che è amore fraterno e servizio di Dio. Di conseguenza l’euforia che l’amante felice percepisce come un «bene», con il suo bisogno amichevole di vedere visi allegri anche in tutto il resto del mondo e di coinvolgere tutti nel suo ingenuo desiderio di rendere felici, viene sempre ad urtare la fredda ironia dell’autentica radicale etica di fratellanza fondata sulla religione (in questo rapporto rientrano per esempio le parti psicologicamente più significative delle opere giovanili di Tolstoi)d. Agli occhi di questa, infatti, anche l’erotismo più sublimato rimane sempre un rapporto necessariamente esclusivo nella sua più intima essenza e quanto di più soggettivo sia concepibile, un rapporto assolutamente incomunicabile che sotto tutti questi aspetti è per forza agli antipodi di ogni fratellanza religiosamente orientata. Questo anche prescindendo totalmente dal fatto che già per il suo carattere stesso di passione tale rapporto appare naturalmente come un’indegna perdita dell’autocontrol lo e di quell’orientamento basato secondo i casi sul senso razionale delle norme volute da Dio, o sul «possesso» mistico del divino, mentre per l’erotismo l’autentica «passione» incarna di per sé il tipo puro della bellezza, mentre il suo rifiuto è come una bestemmia.
L’esaltazione erotica, per quanto riguarda tanto le sue basi psicologiche quanto il suo significato generale, si accorda solo con la forma orgiastica, extraquotidiana ma in certo senso intramondana della religiosità. Il riconoscimento della consumazione del matrimonio, la copula carnìs, come «sacramento», è da parte della Chiesa cattolica una concessione fatta a tale sentimento. Malgrado la presenza di una forte tensione esiste una certa fungibilità psicologica in virtù della quale l’erotismo tende facilmente a stabilire con il misticismo extramondano ed extraquotidiano un rapporto labile ed inconscio di surrogato o di fusione dal quale poi discende molto facilmente la caduta nell’orgiastico. L’ascetismo razionale intramondano (ascesi professionale) può accettare solo il matrimonio regolato razionalmente come uno degli ordinamenti voluti da Dio per la creatura irrimediabilmente corrotta dalla concupiscenza; all’interno di tale istituzione, e solo di questa, è ammesso vivere conformemente ai suoi scopi razionali che sono la generazione e l’educazione dei figli e l’azione reciproca dei coniugi per il loro progresso nello stato di grazia. Ogni raffinatezza che favorisce l’erotismo va rifiutata, da tale concezione, come la peggior forma di divinizzazione della creatura. D’altra parte essa include anche la naturale primitiva sessualità contadina, non sublimata, in un ordine razionale del creato; ma in tal caso tutto ciò che rileva della «passione» viene considerato come residuo dello stato di peccato su cui Dio «chiude un occhio», secondo Lutero, per impedire un male peggiore. L’ascetismo razionale extramondano (ascetismo monastico attivo) rifiuta anche questo tipo di sessualità e quindi ogni tipo di amore sessuale in genere come una forza diabolica che mette a repentaglio la salvezza eterna.
L’etica dei quaccheri (come si esprime nelle lettere di William Penn a sua moglie) è quella che meglio di tutte è riuscita, superando l’interpretazione abbastanza grossolana di Lutero, a dare del senso del matrimonio un’autentica interpretazione umana che ne spiega gli intimi valori religiosi. Da un punto di vista puramente intramondano, solo il collegamento con il concetto della reciproca responsabilità etica — un rapporto, quindi, che si configura come categoria al di fuori della sfera puramente erotica — può giustificare l’intuizione della presenza di qualche cosa di speciale e sublime nella serie dei mutamenti attraverso i quali passa il sentimento amoroso consciamente responsabile: mutamenti che coprono tutte le sfumature proprie del corso della vita organica, «bis zum Pianissimo des hòchsten Alters» (fino alla quiete della tarda età), e a cui si accompagna la disponibilità reciproca e di debiti reciproci contratti (nel senso di Goethe). Raramente la vita concede tale sentimento nella sua forma pura; l’individuo cui è stato concesso deve parlare di fortuna e di grazia del destino, non di «merito» personale.
Il rifiuto di ogni naturale dedizione alle forme di esperienza più intense della vita ?— l’esperienza artistica e quella erotica ? è senza dubbio di per sé solo un atteggiamento negativo. Solo che qui appare evidente come un tale atteggiamento poteva incrementare quella forza con la quale le energie vengono a confluire nei canali delle attività razionali: sia etiche che puramente intellettuali.
Ma non c’è dubbio che in definitiva la tensione consapevole con la religiosità si manifesta in primo luogo e con la massima forza proprio nel campo della conoscenza raziocinante. Un’unità integrale esiste sotto questo aspetto per quanto riguarda la sfera della magia e della raffigurazione puramente magica del mondo, come si è visto per la Cina. Un ampio riconoscimento reciproco è possibile anche per quanto riguarda la speculazione puramente metafisica. Anche se questa di solito porta facilmente allo scetticismo. Per questo motivo non di rado la religiosità ha considerato la ricerca puramente empirica, anche nel campo delle scienze naturali, come più compatibile con i suoi interessi che non la filosofia. Ciò vale soprattutto per il protestantesimo ascetico. Ma ogni volta che la conoscenza razionale empirica ha lavorato in modo coerente al disincantamento del mondo ed alla sua trasformazione in un meccanismo causale, sempre, in conclusione, è venuta alla luce la tensione contro le pretese del postulato etico secondo cui il mondo sarebbe un cosmo ordinato da Dio e quindi in qualche modo orientato secondo un significato etico. Infatti l’osservazione empirica del mondo, soprattutto quella orientata in senso matematico, sviluppa principalmente un rifiuto di ogni visione che in qualche modo s’interroghi sul «senso» degli avvenimenti intramondani. Con ogni progresso del razionalismo della scienza empirica la religione si è trovata respinta sempre di più dal regno del razionale in quello dell’irrazionale, fino a diventare semplicemente la forza sovrapersonale irrazionale o antirazionale per eccellenza. La misura di coscienza e di coerenza nella percezione di questo contrasto è senza dubbio molto variabile. Non appare impensabile quanto è stato sostenuto a proposito di Atanasio il quale avrebbe opposto le sue formule semplicemente assurde, da un punto di vista razionale, nella lotta contro tutti i filosofi ellenici di allora, forse anche per ottenere davvero un esplicito sacrificio dell’intelletto e imporre un limite fisso alla discussione razionale. La Trinità stessa però è stata fondata e discussa razionalmente. E proprio per via di questa stessa tensione apparentemente inconciliabile, la religione — quella dei profeti come quella dei sacerdoti — si ritrova sempre in intimo rapporto con l’intellettualismo razionale. Quanto meno la religione è magia o mera mistica contemplativa e quanto più è «dottrina», tanto più si pone per essa la necessità di un’apologetica razionale. Dai maghi, che erano dappertutto i tipici conservatori di miti e delle leggende eroiche, in quanto interessati all’educazione e all’istruzione dei giovani guerrieri allo scopo di svegliare in essi l’estasi eroica e la rinascita degli eroi, l’istruzione della gioventù passò ai sacerdoti, come gli unici capaci di mantenere una tradizione perenne; tale istruzione riguardava la legge e spesso anche le pure arti delle tecniche amministrative, in particolare la scrittura e il conto. Ora quanto più la religione diventava una religione libresca e una dottrina, tanto più diventava letteraria e quindi atta a suscitare un pensiero razionale laico affrancato dai sacerdoti. Ma dal pensiero laico sono sempre nati tanto i profeti ostili ai sacerdoti, quanto i mistici ed i settari che cercano la loro salvezza religiosa senza la mediazione dei sacerdoti, ed infine gli scettici ed i filosofi ostili alla fede; contro questi, regolarmente, veniva poi la reazione, sotto forma di una nuova razionalizzazione dell’apologetica sacerdotale. Lo scetticismo antireligioso, in linea di massima, era presente come tale in Cina, in Egitto, nei Veda, nella letteratura ebraica postesilica, nella stessa misura di oggi. Quasi nessun argomento nuovo è venuto ad aggiungersi a quelli esistenti allora. Di conseguenza la monopolizzazione dell’educazione della gioventù divenne il problema centrale per la classe sacerdotale. Il suo potere potè accrescersi con la crescente razionalizzazione dell’amministrazione politica. Di tutti i grandi sistemi pedagogici, solo quelli del confucianesimo e dell’antichità mediterranea hanno saputo sottrarsi a questo potere sacerdotale, il primo grazie alla sua potente burocrazia statale, il secondo al contrario proprio per la sua assoluta mancanza di un’organizzazione burocratica; sono riusciti così anche ad eliminare la religione sacerdotale. Altrimenti il clero costituiva di regola la classe portante della scuola. Tuttavia non erano solo questi concretissimi interessi dei sacerdoti che condizionavano la relazione sempre rinnovata della religione con l’intellettualismo ma anche la pressione interna esercitata dal carattere razionale dell’etica religiosa e dal bisogno specificamente intellettualistico di redenzione. In effetti ogni religiosità si trovava sotto questo aspetto in una posizione differenziata rispetto all’intellettualismo, sia per il suo fondamento psicologico e mentale, sia per le sue conseguenze pratiche, senza tuttavia che scomparissero mai gli effetti di quella tensione ultima interiore insita nell’inevitabile divario delle raffigurazioni ultime dell’immagine del mondo. Non esiste assolutamente nessuna religione integrale, operante come forza vitale, che in qualche luogo non debba esigere il v credo non quod, sed quia absurdum», il «sacrificio dell’intelletto».
Non sembra necessario, e non sarebbe nemmeno possibile presentare qui uno per uno gli stadi di questa tensione tra religione e conoscenza intellettuale. La religione redentrice si difende naturalmente dagli attacchi dell’intelletto autosufficiente sostenendo soprattutto che la propria conoscenza si compie in un’altra sfera, ed è del tutto diversa ed eterogenea, per tipo e per senso, rispetto al tipo di conoscenza fornita dall’intelletto. Ciò che offre la religione non è una conoscenza intellettuale ultima su ciò che deve essere o su ciò che è normativamente valido, ma è invece una definitiva presa di posizione rispetto al mondo in virtù di una comprensione totale e immediata del suo «senso». Questa comprensione non viene raggiunta per mezzo dell’intelletto ma in virtù del carisma di un’illuminazione. Tale carisma viene concesso soltanto a colui che, con l’aiuto delle tecniche apposite messe a sua portata, si liberi dai surrogati illusori che inducono in errore, che producono le impressioni confuse del mondo sensibile e che fanno passare per conoscenza le vuote astrazioni dell’intelletto, in realtà prive di importanza per la salvezza. Così l’individuo può prepararsi interiormente a ricevere quella concezione del senso del mondo che in pratica è la sola importante. In tutti i tentativi della filosofia di rendere dimostrabile quel senso ultimo e la presa di posizione (pratica) che lo include, come anche però nel tentativo di acquisire qualche sorta di conoscenza intuitiva, apparentemente ed essenzialmente ad un altro livello pur concernendo nello stesso tempo l’«essere» del mondo, la religione non vedrà altro che l’aspirazione dell’intelletto a sfuggire alla propria autonomia. E vi vedrà soprattutto un prodotto specifico proprio di quel razionalismo al quale l’intellettualismo vorrebbe così volentieri sfuggire in questo modo.
Ma non c’è dubbio che anche la religione, vista dalla sua stessa posizione, si renderà colpevole di trasgressioni del tutto incoerenti, non appena rinuncia all’inattaccabile incomunicabilità dell’esperienza mistica per la quale, coerentemente, possono esistere solo mezzi che la suscitino, come avvenimento oggettivo, ma non mezzi adatti a comunicarla e a dimostrarla in maniera adeguata. A questo fine ogni tentativo di operare sul mondo deve mettere in pericolo la religione, non appena esso assume il carattere della propaganda. Lo stesso però vale anche per ogni tentativo di interpretazione razionale del mondo; eppure questi tentativi si ripetono e si rinnovano continuamente. 4. Gli stadi del rifiuto del mondo.
Il «mondo», in definitiva, può entrare in conflitto con i postulati religiosi da diversi punti di vista. Il punto di vista che di volta in volta è in questione è sempre, nello stesso tempo, il più importante punto di riferimento contenutistico per determinare il tipo di ricerca della redenzione.
Il bisogno di redenzione volutamente coltivato come contenuto di una religiosità, è sorto sempre e dappertutto come una conseguenza del tentativo di realizzare una razionalizzazione pratica sistematica della realtà della vita. Solo la chiarezza mantenuta in tale contesto varia molto d’intensità. Si tratta, in altri termini, dell’asserzione — che a questo punto diventa la premessa specifica di ogni religione — secondo cui il corso del mondo, perlomeno nella misura in cui tocca gli interessi degli uomini, è in qualche modo un avvenimento dotato di significato. Come abbiamo visto, questa teoria è naturalmente emersa in primo luogo in relazione al problema generale della sofferenza immeritata, ossia come il postulato di un’equa compensazione dell’iniqua ripartizione della fortuna individuale in questo mondo. La teoria manifestò poi la tendenza a progredire gradualmente, da questa posizione a quella di un sempre maggiore deprezzamento del mondo. Infatti, quanto più profondamente il pensiero razionale penetrava il problema dell’equo pareggio retributivo, tanto meno la sua soluzione pareva possibile in termini puramente intramondani e tanto più probabile e significativa appariva una soluzione extramondana. Il corso del mondo, così com’è di fatto, si interessò poco a quel postulato, stando a ciò che appare ad un primo esame. Infatti non solo la disuguaglianza eticamente immotivata della distribuzione della fortuna e della sofferenza, per la quale una compensazione sembrava possibile, ma anche il mero fatto dell’esistenza della sofferenza come tale era destinato a rimanere irrazionale. Il problema della diffusione universale della sofferenza, infatti, potè essere sostituito solo da quello, ancor più irrazionale, dell’origine del peccato, che secondo la dottrina dei profeti e dei sacerdoti doveva spiegare la sofferenza come castigo e mezzo di espiazione. Ma un mondo fatto per il peccato doveva apparire dal punto di vista etico ancora più imperfetto di un mondo condannato alla sofferenza. In ogni caso per il postulato etico l’assoluta imperfezione di questo mondo era un punto fermo. Solo questa imperfezione d’altra parte ne sembrava giustificare la caducità. E questa giustificazione poteva apparire ben appropriata per deprezzare ulteriormente il mondo. Infatti non si mostrava effìmero solo o principalmente ciò che era privo di valore. Il fatto che la morte e la decadenza si affrettavano a livellare gli uomini e le cose migliori come quelli peggiori poteva apparire come un elemento di deprezzamento proprio dei più alti beni intramondani come tali, non appena si concepiva l’idea di una durata eterna del tempo, di un Dio eterno e di un ordine eterno. Se allora a questi si opponevano altri valori, e proprio tra quelli ritenuti più preziosi, che venivano trasfigurati in «eterni», per cui l’importanza della loro realizzazione nella «cultura» si presentava come indipendente dalla durata temporale del fenomeno concreto della realizzazione, il rigetto etico del mondo empirico trovava l’occasione di un ulteriore progresso. A questo punto infatti potevano rientrare nell’orizzonte religioso una serie di concetti di importanza ben maggiore di quelli sull’imperfezione e la caducità dei beni mondani in generale, in quanto questi nuovi concetti erano atti a mettere sotto accusa proprio quei «beni culturali» di solito maggiormente apprezzati. Su tutti questi beni il peccato mortale faceva gravare un peso specifico inevitabile di colpa. Essi si mostravano legati al carisma dello spirito o del gusto e la loro premura sembrava inevitabilmente quella di prevedere delle forme di esistenza che andavano contro all’esigenza della fratellanza e vi si adattavano solo mediante la loro autoillusione. Le barriere culturali dell’educazione e del gusto costituiscono le più profonde e insormontabili differenziazioni di ceto. Sicché ora il peccato religioso poteva apparire non più come un mero accidente occasionale ma come un elemento integrativo di ogni cultura, di ogni agire in un mondo culturale e infine di ogni vita plasmata in qualche modo. I beni supremi che offre questo mondo apparivano allora proprio quelli gravati dalla massima colpa. L’ordinamento esterno della comunità sociale veniva palesemente mantenuto — quanto più diventava comunità culturale del cosmo statale — con la forza bruta che si preoccupava della giustizia solo nominalmente e occasionalmente, e in ogni caso solo nella misura in cui la propria ratio lo permetteva; violenza che generava inevitabilmente sempre nuovi atti di violenza all’interno e all’esterno e inoltre procurava anche falsi pretesti per tali atti; una violenza che quindi significava un’assenza d’amore palese o, ciò che doveva sembrare ancora peggio, farisaicamente velata.
L’universo economico oggettivato, quindi la più alta forma razionale di cura per i beni materiali, indispensabile per ogni cultura intramondana, era una struttura alla quale l’assenza d’amore era inerente fino alle radici. Ogni tipo di attività nel mondo formato dall’uomo sembra impigliata nella stessa colpa. Una brutalità nascosta e sublimata, un’idiosincrasia ostile alla fratellanza e una rimozione illusoria del giusto senso della misura accompagnano inevitabilmente l’amore sessuale; quanto più la sua violenza si manifesta in maniera irresistibile, tanto più passa inosservata, soprattutto agli occhi di coloro che vi partecipano, o viene coperta da un velo farisaico. La conoscenza razionale, a cui si era appellata la stessa religiosità etica, aveva dato forma a un universo di verità autonomo che seguiva le proprie norme all’interno del mondo; tale universo non solo non aveva più nulla a che vedere con i postulati sistematici dell’etica religiosa 舦— secondo cui l’universo soddisfa le sue esigenze o presenta qualche sorta di «significato» — ma doveva soprattutto rifiutare necessariamente tali asserzioni. L’universo della causalità naturale e quello postulato della causalità compensativa etica stavano l’uno contro l’altro in un contrasto inconciliabile. E benché la scienza, che aveva creato il primo dei due universi, non pareva in grado di dare una dimostrazione certa delle proprie premesse basilari, tuttavia rivendicava, in nome dell’» onestà intellettuale», di essere l’unica forma possibile di esame ragionevole del mondo. Come tutti i valori culturali, così anche l’intelletto veniva a creare un’aristocrazia del possesso della cultura razionale che, essendo indipendente da tutte le qualità etiche personali degli individui, era profondamente antifraterna. Ora questo possesso della cultura, ossia il bene supremo di questo mondo per l’uomo «intramondano», oltre al suo peso di colpevolezza etica portava un’altra tara che doveva deprezzarlo in maniera ancora più definitiva, e cioè l’insensatezza che appare ad una stima fatta sullo stesso metro dell’uomo. L’insensatezza dell’autoperfezionamento puramente intramondano che fa dell’individuo un uomo di cultura, del valore ultimo quindi, al quale la cultura sembra riducibile, derivava per il pensiero religioso semplicemente dalla palese insensatezza della morte — concetto valido anche dal punto di vista intramondano — che proprio rispetto alle premesse della «cultura» sembrava imprimere l’accento definitivo all’insensatezza della vita. Il contadino poteva morire «sazio della vita», come Abramo. Lo stesso valeva per il signore feudale e l’eroe guerriero. Infatti ambedue compivano il ciclo della loro esistenza senza tendere a qualcosa fuori di essa. Potevano così giungere a loro modo ad un compimento terreno che derivava dalla semplice ed assoluta chiarezza data al contenuto della loro vita. Ciò invece non era più possibile all’uomo «colto», che aspirava all’autoperfezionamento nel senso dell’appropriazione o della creazione di «contenuti culturali». Egli poteva certamente diventare «stanco della vita» ma non «sazio della vita» nel senso del compimento di un ciclo vitale. Infatti la sua perfettibilità arrivava all’infinito, come quella dei beni culturali. E quanto più i beni culturali e le mete di autoperfezionamento si differenziavano e si moltiplicavano, tanto più esigua diventava quella frazione che l’individuo nel corso di una vita finita riusciva ad abbracciare, passivamente come ricevente o attivamente come creatore. E quindi la tensione tra l’interno e l’esterno di questo universo culturale poteva offrire sempre di meno all’individuo una qualche probabilità di recepire in sé la cultura globale o ciò che in qualche senso sarebbe l’«essenziale» in essa, per determinare il quale oltretutto non esiste alcun criterio definitivo; diventava così improbabile che la cultura e la ricerca della cultura potesse avere un qualche senso per l’uomo singolo. Certamente la «cultura» per l’individuo non consisteva in un quantum dei beni culturali da lui arraffati ma in una strutturata selezione di questi. Ma nulla garantiva che il raggiungimento di questa meta per lui significativa coincidesse proprio con il momento «casuale» della sua morte. E se egli si distoglieva aristocraticamente dalla vita — «ne ho abbastanza; la vita mi ha offerto (o negato) tutto ciò che per me aveva valore» — questo atteggiamento orgoglioso doveva apparire alla religione redentrice come un disprezzo blasfemo del cammino della vita e del destino ordinati da Dio: nessuna religione redentrice sanziona positivamente il suicidio che solo le filosofie hanno trasfigurato.
Vista così, ogni «cultura» appare come una deviazione dell’uomo dal ciclo organicamente preordinato della vita naturale e per questo condannata, con ogni suo progresso, ad un’insensatezza sempre più distruttrice. Quanto più il mettersi al servizio dei beni culturali viene considerato un compito sacro, una «vocazione», tanto più esso diventa una corsa insensata alla ricerca di scopi privi di valore e per di più contraddittori e antagonistici tra di loro.
Come luogo di imperfezione, d’ingiustizia, di sofferenza, di peccato, di caducità, di una cultura necessariamente tarata dalla colpa e che necessariamente diviene sempre più insensata con ogni suo ulteriore sviluppo e differenziazione, il mondo, in tutte queste istanze, da un punto di vista puramente etico, doveva apparire molto fragile ed inutile anche per il postulato religioso di un «senso» divino della sua esistenza. A questo deprezzamento, conseguenza del conflitto tra esigenza razionale e realtà, tra etica razionale e valori in parte razionali, in parte irrazionali — un conflitto che con ogni elaborazione del carattere specifico di ogni sfera particolare esistente nel mondo sembrava diventare sempre più aspro e insolubile — il bisogno di «redenzione» reagì cominciando a diventare ciò che poi si fissò come contenuto specifico del religioso. Ossia quanto più sistematica diventava la riflessione sul «significato» del mondo, quanto più razionalizzato il mondo stesso nella sua organizzazione esteriore, quanto più sublimata l’esperienza coscientemente vissuta dei suoi contenuti irrazionali, tanto più si fece extramondano, estraneo ad ogni vita concretamente plasmata con un processo precisamente parallelo, ciò che costituiva lo specifico contenuto del religioso. E a condurre su questa strada non fu solo il pensiero teoretico che operò il disincantamento del mondo, ma fu proprio il tentativo dell’etica religiosa di razionalizzarlo in senso etico-pratico.
E per concludere: la ricerca di redenzione specificamente intellettuale, mistica, venne anch’essa a ricadere tra gli atteggiamenti antifraterni che dominano il mondo. Da un lato infatti il carisma che comportava non era accessibile a tutti. Esso si configurava quindi, nelle sue intenzioni, come un aristocratismo devoto all’ennesima potenza; un aristocratismo della salvezza religiosa. E in seno ad una cultura razionale organizzata per il lavoro professionale restava a malapena lo spazio da dedicare alla cura della fratellanza acosmica, fatta eccezione per gli strati liberi da preoccupazioni economiche: il tentativo di condurre la vita del Buddha, di Gesù, di San Francesco, nelle condizioni tecniche e sociali della cultura razionale sembra condannato, sul piano puramente esteriore, all’insuccesso.
5. Le tre forme razionali della teodicea.
Le singole etiche di redenzione del passato che hanno rifiutato il mondo si trovano ognuna, con il loro rifiuto del mondo, in punti molto diversi di questa scala costituita in modo puramente razionale. Accanto alle numerose circostanze concrete dalle quali ciò dipendeva e per verificare le quali non basta una casistica teoretica, ci fu anche un elemento razionale che ebbe un ruolo in questo fenomeno: si tratta della costruzione di quella teodicea tramite la quale il bisogno metafisico di trovare malgrado tutto un senso comune in queste tensioni insormontabili reagiva alla coscienza della loro esistenza. Dei tre tipi di teodicea già indicati come i soli coerenti nell’esposizione introduttiva, la teoria del dualismo poteva prestare a tale bisogno metafisico un servizio di portata non trascurabile. La coesistenza e l’opposizione, esistenti da sempre e destinate a durare in eterno, tra una potenza della luce, della verità, della purezza e del bene, ed una potenza delle tenebre, della menzogna, dell’impurità e del male, rappresentavano in ultima analisi soltanto una sistematizzazione diretta del pluralismo magico degli spiriti con la loro divisione in buoni (utili) e cattivi (nocivi): ossia lo stadio preliminare dell’opposizione tra dèi e dèmoni. In quella religiosità profetica che ha elaborato più coerentemente questa concezione — il zoroastrismo — il dualismo si collegava direttamente al contrasto magico tra «puro» e «impuro» nel quale si integravano tutte le virtù e tutti i vizi. Tale concezione significa la rinuncia all’onnipotenza di un Dio che trova invece la sua limitazione nell’esistenza del potere antidivino. Essa è stata abbandonata dai fedeli odierni di questa religione (i Parsi) perché tale limitazione non veniva tollerata. Mentre nella sua escatologia più coerente i due mondi del puro e dell’impuro, dalla cui commistione deriva il fragile mondo empirico, erano destinati a dividersi di nuovo, per sempre, in due regni senza rapporti tra di loro, la concezione più moderna di speranza nella fine del mondo prevede la vittoria del Dio della purezza e della bontà, come il cristianesimo quella del Salvatore sul demonio. Questa forma, meno coerente, del dualismo è quella della concezione popolare del «paradiso» e dell’«inferno», diffusa in tutto il mondo. Tale concezione ristabilisce la sovranità di Dio sullo spirito maligno che è sua creatura e in questo modo crede salva l’onnipotenza divina. Ma nello stesso tempo, bene o male, esplicitamente o velatamente, ciò comporta il sacrificio di ima parte dell’amore divino perché, ferma restando l’onniscenza, la creazione di una potenza del male assoluto e l’ammissione del peccato, specialmente insieme all’eternità delle punizioni infernali per una delle sue proprie creature finite e per peccati finiti non corrisponde affatto a tale amore. In tal caso solo la rinuncia alla bontà è coerente. Questa è stata attuata, in pratica, con tutte le sue conseguenze, dalla credenza nella predestinazione. L’impossibilità riconosciuta di misurare i decreti divini con il metro umano significava rinunciare con chiarezza senza amore a trovare un senso del mondo accessibile alla comprensione umana e ciò implicava anche la fine di ogni problematica di questo tipo. Portato a queste conseguenze il concetto non è stato tollerato a lungo al di fuori di una cerchia di virtuosi ad altissimo livello. Proprio perché il concetto di predestinazione — contrariamente alla fede nella forza irrazionale del fato — implica l’accettazione di una determinazione provvidenziale, quindi in qualche modo razionale, dei dannati non solo alla rovina ma anche al male e tuttavia esige la «punizione» del dannato e quindi l’applicazione di una categoria etica.
Del significato della credenza nella predestinazione si è parlato nel primo saggio di questa raccolta. Tratteremo più avanti il dualismo zoroastriano, brevemente perché il numero dei suoi seguaci è ristretto. Potrebbe rientrare totalmente qui se l’influenza delle concezioni persiane sul giudizio finale e la loro dottrina dei dèmoni e degli angeli non costituisse un momento di notevole importanza storica per il tardo giudaismo.
La terza forma di teodicea, che si distingue sia per la sua coerenza che per il suo straordinario livello metafisico, è quella propria alla religiosità intellettuale indiana. Essa unisce l’autoredenzione del virtuoso compiuta con le proprie forze con l’accessibilità universale della salvezza, il più rigoroso rifiuto del mondo con un’etica sociale organica, la contemplazione come via superiore alla salvezza con un’etica professionale intramondana. Di questa ci occuperemo ora.
a. Sulla quale E. Troeltsch, a ragione, richiama l’attenzione ripetutamente.
b. Concetto elaborato teoricamente con la massima coerenza nella Bhagavadgttà, come vedremo.
c. O una conseguenza non voluta dell舗eccitazione orgiastica. L舗origine della setta degli Skopzen (castrati) in Russia derivava dallo sforzo di sottrarsi a questa conseguenza, considerata peccaminosa, della danza orgiastica (radjenie) dei Chlysty.
d. In particolare Guerra e Pace. Del resto le note analisi di Nietzsche sulla «volontà di potenza» concordano perfettamente con ciò, malgrado siano e anzi proprio perché si tratta di valori di segno opposto come è stato chiaramente riconosciuto. La posizione della religiosità redentrice è chiaramente definita in Asvagosa.
1. Archiloco, il piu antico poeta greco di cui si conosca la personalita, vissuto intorno alia meta del vn secolo a. C.
2. Aspasia di Mileto, donna greca recatasi ad Atene poco dopo il 450 a. C., convisse con Pericle dal quale ebbe un figlio. Fu accusata di avere istigato Pericle alia guerra. Nella letteratura antica appare talora vituperata (dai comici), talora esaltata (da Platone e Senofonte).
3. Il Itbro del Cortegiano, opera di B. Castiglione, pubblicata nei 1528.
4. Lettres Portugeses, titolo di una famosa raccolta di cinque lettere d’amore attribuite alia monaca portoghese Marianna Alcoforado (1640-1723).