Le formalità burocratiche dello stato dei Gran Mogol, nella misura in cui ci sono note, si avvicinano al tipo turco ed ai suoi noti modelli, le amministrazioni dei califfi e dei Sasanidi31. Già nell’epoca precedente alla dominazione straniera, in seguito alla straordinaria razionalizzazione del sistema fiscale, la categoria degli scrivani era penetrata in modo massiccio in tutta la compagine dell’amministrazione politica; lo scrivano del villaggio, che dappertutto si trovava accanto al capo del villaggio, rappresentava il grado più basso, e ciononostante molto importante, di questa burocrazia di scrivani, le cui considerevoli prebende erano contese tra brahmani ed altri, tanto da caste nobili quanto da quelle di parvenus. Il regno dei Maratti razionalizzò nella maniera più avanzata il dualismo del deshmukh (funzionario del distretto) e del patel (sindaco del villaggio), che erano ambedue maràthà, e del deshpandya e kulkurmu (contabili del villaggio) che stavano accanto a loro ed erano generalmente dei brahmani.

Anche il concetto ambiguo di ksatriya — non è chiaro se per esso si intendano famiglie di piccoli re o cavalieri — si spiega con la struttura politica dell’india, oscillante tra la frantumazione in numerosi piccoli regni (in origine semplici capitanati) e la concentrazione in imperi ad amministrazione patrimoniale. Già nel periodo epico, come si è visto, vi era da un lato il combattimento degli eroi, dall’altro gli inizi di un esercito disciplinato che non si equipaggiava più da sé ma veniva fornito ed equipaggiato dai magazzini reali. Tale esercito esisteva già all’epoca dell’invasione di Alessandro. Il dualismo tra sistema di auto-equipaggiamento e sistema basato sulla separazione tra guerrieri e possesso degli strumenti di combattimento, che costituisce il maggior contrasto storico nell’organizzazione militare, continuò a sussistere anche più avanti, e non era scomparso sotto il dominio dei Moghul. Il cavaliere che si equipaggiava da sé ha sempre goduto di una considerazione sociale diversa da quella riservata al guerriero equipaggiato dal re o da un ufficiale addetto al reclutamento. Ma l’impiego di soldati mercenari provenienti da ogni sorta di tribù semibarbariche e la concessione di diritti territoriali signorili e feudali ai cavalieri mercenari più meritevoli devono aver reso molto più fluide le differenze di ceto a partire dall’epoca dei ràjpiit. A ciò si è aggiunta l’oscillazione della struttura sociale delle associazioni politiche tra organizzazione feudale e patrimonialismo. Nel primo caso il re impiegava sempre le antiche stirpi nobili sacerdotali e laiche, mentre nel secondo affidava il potere politico a uomini venuti su dagli strati inferiori.

Nessuno può dire in che misura sia presente ancora al giorno d’oggi tra i ràjpiit la nobiltà derivante dagli antichi capi e guerrieri seguaci del ret2. Certamente la sua presenza è molto limitata. Infatti nel periodo burocratico patrimoniale vennero immessi in dosi massicce nei ranghi dell’antica nobiltà quegli elementi che provenivano dagli strati degli appaltatori d’imposte e dei prebendari d’ufficio i quali con la concessione di feudi territoriali erano diventati proprietari terrieri. Inoltre anche i soldati di ventura ed i mercenari molto spesso, dopo una serie di generazioni, rivendicavano il rango di ksatriya. Lo stesso accade ancora oggi per un certo numero di tribù semi-induizzate e di caste di contadini, che una volta prestavano servizio come mercenari e che dopo la fine di tale istituzione e la pacificazione dell’india hanno dovuto guadagnarsi la vita con attività pacifiche. Altre caste, che nel passato avevano costruito grandi imperi tramite le loro conquiste, dopo la distruzione di questi e la loro soggezione al dominio inglese sono definitivamente cadute in un particolare stato intermedio tra la «tribù» e la «casta».

Tra queste figura in primo luogo la tribù dei Maràthà, originaria della costa nord-occidentale. Il nome tribale(maràthà= grande guerriero) appare nelle iscrizioni prima ancora degli inizi della nostra era. Hiuen Tsang32 esalta nei suoi rapporti di viaggio il loro modo cavalleresco di combattere. Combattevano già allora in formazioni preordinate, benché sembra che fosse frequente un residuo dell’antica estasi eroica nell’inebriamento (dei guerrieri e anche degli elefanti) prima del combattimento. Sotto il dominio islamico continuarono ad occupare i loro feudi ed a prestare servizio come cavalieri mercenari. Nel xviii secolo si ribellarono contro il dominio dei Gran Mogol stabilendo in India l’ultimo stato a base nazionale indù. I t(nobili»{assai), cioè gli antichi guerrieri, reclamarono il rango di ksatriya e ci fu evidentemente una commistione con famiglie di ràjpùt. Il rituale e l’organizzazione per schiatte alla maniera indù sono stati realizzati in maniera abbastanza completa: brahmani di buon rango (deshashth) li servono ora come sacerdoti; tuttavia i residui dell’organizzazione totemica (de-vaì() ne tradiscono l’origine tribale. I contadini (kunbì-marà- thà) sono separati da loro da barriere di ceto.

Se già il rango nobile di tali tribù straniere di cavalieri era oggetto di controversia, le rivendicazioni del rango di ksatriya da parte delle tribù di semplici mercenari non furono mai riconosciute. Così, l’ordinamento per ceto dei Tamil33 dell’india meridionaleu2 all’inizio della nostra era quando la loro induizzazione era nella sua prima fase, era il seguente: in primo luogo i brahmani (immigrati), gli unici ad essere designati come i «nati due volte» (perché erano gli unici a portare la sacra cinta); questi erano seguiti dai sacerdoti tamil(arivar, asceti) e dai nobili proprietari terrieri, gli ulavar, i «signori delle acque» (dell’irrigazione) dai cui ranghi provenivano i re e i vassalli politici; poi venivano diverse caste di allevatori di bestiame e di artigiani e sono al quinto posto i padaiachia, i soldati. Tutti questi gruppi sociali erano rigorosamente separati gli uni dagli altri. E anche la classifica brahmanica successiva, che mise i mercanti al disopra dei vellalar (gli antichi ulavar)che nel frattempo si erano fortemente «rusticizzati», evitò naturalmente, qui come altrove, di includere i soldati professionisti mantenuti dal re nelle caste dei a nati due volte»v2.

La posizione dei funzionari non militari rimaneva problematica. I semplici appaltatori d’imposte,zamindàrt, del regno dei Moghul, venivano reclutati presso diverse caste e non hanno acquisito nessun rango speciale di casta loro proprio. Altri entrarono a far parte dell’antica categoria dei prebendari d’ufficio, nella misura in cui persone di rango inferiore a quello di brahmano e ràjpùt (o caste equivalenti) riuscivano a raggiungere tali posizioni. Ciò avveniva in misura molto diversa a seconda del tipo di amministrazione. Naturalmente l’ascesa di rango della burocrazia di scrivani senza alcuna funzione militare è rimasta fortemente contestata dal tempo dei grandi re fino ad oggi. L’origine patrimoniale della categoria dei funzionari si esprime nel nomeàmàtya (in origine «compagni di casa»). Sembra che i re nazionali indiani, perlomeno, non abbiano impiegato funzionari che non fossero uomini liberi, come usavainvece nel Medio Orientew2. è cambiato solo il rango sociale della classe di provenienza dei funzionari. L’antico monopolio della cavalleria sugli uffici è stato infranto dal patrimonialismo. Il fatto che i grandi re, sin dalla dinastia Maurya (a partire dal iv secolo a. C.) e poi quelli della dinastia Gupta (dal iv secolo d. C.) governassero il paese tramite funzionari di caste sùdra viene messo in relazione, nella letteratura brahmanica, con l’inizio dell’era di Kàll, ma corrisponde in realtà alla natura dello stato patrimoniale che si ritrova in tutto il mondo, e in particolare al patriarcalismo orientale. Senza dubbio l’antica casta ksatriya aveva considerato la concessione dei posti di potere politico come suo speciale monopolio. Ma non è stata in grado di mantenerlo e lo stesso potere politico ha portato alla distruzione della casta. Lo stato patrimoniale non impiegava soltanto brahmani ma anche membri di altre caste abili nello scrivere. Concedeva le sue prebende, ovvero la riscossione delle imposte, agli appaltatori di imposte che erano funzionari civili, il reclutamento dell’esercito ai condottieri. Creò ogni sorta di prebendari fiscali sotto forma di jagirdàr, talukedàr, zamìndàr, i quali esercitavano il potere politico. In questo modo non si legò a nessun ceto. Tanto meno in quanto gli stessi re erano molto spesso dei fortunati parvenus. Sono apparsi monarchi che si descrivevano come i rampolli dei piedi di Brahma (ovvero sùdra). Secondo la teoria più rigorosa perfino il discendere da un re non nobilitava un sùdra’. la casta rajbansi del Bengala ha scomunicato recentemente un membro perché aveva dato in moglie sua figlia ad un membro della casta dei cuochi che era discendente di un ràjà.

Di regola prevaleva il peso del potere politico. Di conseguenza oggi nobili funzionari non militari generalmente competono nel rango con i ràjpùt e la nobiltà militare. Ciò vale soprattutto per le grandi caste di scrivani. Così per esempio la casta puramente burocratica dei kàyastha nel Bengala e, per esempio, la casta di prebendari militari semi-burocratica dei prabhu che oggi formano uno strato ristretto che si trova solo a Bombay. Questi ultimi erano una colta classe militare cui era affidata la direzione dell’amministrazione locale (prelievo di imposte, cura dei documenti e amministrazione militare) già al tempo del regno dei Gupta e che l’hanno mantenuto in seguito. Nel Bengala cerano solo poche famiglie indigene di ràjpùt;tra le famiglie più conosciute una sola sembra appartenere con certezza a queste. Sin dalla dinastia Sena il territorio era stato organizzato in modo burocratico patrimoniale. I kàyastha, che si presentavano anche in altri territori come una casta di scrivani, e che nel Vellala Canta (xvi secolo) sono ancora considerati sùdra «puri», sostengono oggi nel Bengala di essere degli ksatriya di rango superiore ai ràjpùt.

Queste caste di funzionari di formazione letteraria hanno oggi una composizione professionale molto diversa da quella dei ràjpùt e delle altre antiche caste militari, che presentano una percentuale particolarmente alta di analfabeti. Solo pochissimi ràjpùtsono presenti oggi nella moderna amministrazione burocratica della politica e dell’economia privata, dove i brahmani e le caste di scrivani hanno invece un ruolo eminente. Lo stesso vale per l’avvocatura, la stampa e le professioni «dotte»x2. Il rango di casta dei kàyastha è oggetto di contestazioni continue e appassionate, in particolare da parte della vecchia casta dei medici delBengala, i baidya, i quali rivendicano il rango superiore perché, oltre a compiere l’intera cerimonia upanayana possiederebbero anche il diritto di leggere essi stessi i Veda. I kàyastha dal canto loro accusano i baidya di aver carpito il diritto di portare la sacra cinta soltanto un secolo prima circa, con l’aiuto di brahmani corrotti. Ambedue le parti possono aver ragione storicamente. Se i kàyastha erano senza dubbio sudra, una casta di medici, malgrado l’antichità della medicina come scienza speciale in India, può aver avuto tutt’al più il rango di vai’sya, nei tempi più remoti, come le altre caste dell’antica associazione delle corporazioni (mahàjan). Oggi la casta dei baidya e le caste ad essa corrispondenti in altre regioni rivendicano spesso un rango superiore a quello dei ràjpiit, perché questi ultimi non considerano sempre degradante il metter mano all’aratro. I baidya possono appoggiare le loro rivendicazioni di rango con il fatto che la dinastia Sena del Bengala è sorta dalla loro casta.

Tutto sommato, il carattere di quelle caste alle quali viene oggi riconosciuto in modo più o meno controverso il rango di ksatriya è altamente misto e presenta con particolare chiarezza le tracce dei mutamenti storici subiti dall’induismo in campo politico dall’avvento dell’amministrazione di scrivani. Ancora più problematica era — e rimane — la posizione della terza casta della dottrina classica: i vai’sya.

Nella dottrina classica la casta dei vai’sya corrisponde più o meno al ceto del nostro «popolo libero». è caratterizzata innanzitutto in maniera negativa, rispetto alle caste superiori, per il fatto che le mancano i privilegi rituali, sociali ed economici della nobiltà sacerdotale e laica. Rispetto agli strati inferiori, cioè agli sudra, il suo privilegio di gran lunga più importante, anche se mai menzionato espressamente, era la partecipazione alla proprietà della terra, esplicitamente vietata agli sudra. Nei Veda il termine visa viene impiegato nel senso di «gente», «sudditi» (del signore). Secondo le fonti classiche il vai’sya è in primo luogo «contadino». Ma già nei libri della legge il prestito ad interesse ed il commercio vengono inclusi nelle occupazioni professionali permesse a questa casta. è degno di nota il fatto che nel periodo classico vigeva una rigida distinzione sociale tra la cura degli animali e la guida dell’aratro. Solo la prima di queste due attività costituisce uno dei modi in cui i brahmani sono autorizzati a guadagnarsi la vita in caso di emergenza. Ciò corrisponde ad una concezione molto antica, e molto diffusa. Quasi dappertutto la cura del bestiame era un lavoro da uomini, mentre la primitiva coltivazione dei campi era affidata alle donne o agli schiavi. Come «contadino» il vaisya è scomparso completamente in seguito e fino al giorno d’oggi; attualmente, e già sin dall’antichità, il commercio è considerato l’attività propria del vaisya, poichévaisya e vanik (mercanti) sono considerati identici. Una casta che rivendica il rango di vaisya cerca oggi di dimostrare di essere sempre stata una casta di mercanti.

L’eliminazione della classe contadina dalla parità di rango con le classi possidenti e industriali urbane è stata determinata da più fattori. In primo luogo dalla crescente feudalizzazione e più avanti dalla fiscalizzazione patrimoniale e dalla prebendizzazione della compagine sociale. Già nell’epoca classica si considerava il vaisya come destinato al «consumo» degli strati superiori. Nel Medioevo egli interessava solo come pagatore di tasse. L’India medioevale è il paese dei villaggi. L’estensione di un reame veniva indicata dal numero dei villaggi, cioè di unità fiscaliy2. L’imposta fondiaria era e rimase la fonte preponderante delle finanze ed il principale oggetto di concessioni feudali e di prebende. Nel periodo classico il re veniva chiamato «colui che prende la sesta parte». Infatti l’antica imposta fondiaria tradizionale di un sesto del raccolto era considerata un’imposta tollerabile. In realtà divenne così alta e — contrariamente alla vecchia dottrina — era soggetta a tali aumenti che si è potuta sviluppare una teoria che attribuiva al re il monopolio della terra. Nel Bengala ed in vari territori di conquista dell’india meridionale questa teoria si avvicinava abbastanza alla realtà.

Le ricerche più approfondite sull’organizzazione del villaggio indiano sono dovute a B. H. Baden-Powellz2 che ha lavorato servendosi come materiale dei ruoli delle imposte dell’amministrazione britannica. Del resto le iscrizioni dei monumenti ele fonti letterarie gettano ben poca luce sul passato dei contadini indiani. Ma sin dall’epoca del governo dei Moghul, e spesso anche prima, tutto viene determinato in funzione esclusiva degli interessi fiscali che governavano la condizione dei contadini. Da allora in poi il problema è sempre stato quello di determinare il soggetto responsabile del tributo fiscale.

Quando ogni singolo campo viene stimato separatamente ai fini dell’imposta, e ogni singolo proprietario terriero nel villaggio risponde fiscalmente della sua proprietà e solo di questa, allora il villaggio è un villaggio ryatvàrì o raiyatmria3. Manca in tal caso il signore che ha la proprietà fondiaria generale. Di conseguenza l’anziano capo carismatico del villaggio (patel), considerato un funzionario del governo, è investito di un’autorità considerevole: raccoglie le imposte; detiene, nell’india centrale, una sorta di feudo ereditario, la terra watan, esente da imposte e trasmissibile ereditariamente; vive in una residenza centrale, spesso fortificata. Non esiste oggi una «marca» appartenente al villaggio oltre al confine dei campi coltivati; la terra appartiene allo stato che solo può concedere il diritto di coltivarla.

La situazione è diversa quando un gruppo di proprietari è responsabile in solido di fronte al fisco per l’imposta forfettaria di un villaggio(jama). In questo caso il gruppo di proprietari che spesso — in origine quasi sempre — possiede un pancàyata come organo rappresentativo ha l’autorizzazione di emanare disposizioni su tutto ciò che concerne il villaggio e la terra comune appartenente al villaggio (cioè la terra incolta). Il pancàyata assegna i campi del villaggio in cambio di una rendita ai contadini, agli artigiani ed ai mercanti del villaggio, divide a suo piacimento la terra incolta, fa la parte della terra «sir» (terra demaniale sotto la propria amministrazione) per i singoli interessati, e, a suo giudizio, anche per la collettività, e ne permette eventualmente la concessione temporanea in appalto. Manca in questo caso il patel del villaggio con la sua posizione dominante dovuta alle sue prerogative carismatiche; al suo posto in certi casi compare il lambardàr, un amministratore che rappresenta gli interessi comuni del villaggio di fronte al fisco.La parte di terra di ciascuno e le corrispondenti obbligazioni fiscali possono essere divise tra gli interessati in quote ereditarie (j patti) e in tal caso abbiamo i villaggi pattidàrì, oppure in base ad altri criteri, in particolare secondo le prestazioni di cui è capace il singolo proprietario (villaggi bhaiacàra).

Baden-Powell presume a ragione che i villaggi pattidàrì siano nati dalla proprietà fondiaria signorile. I villaggi zamlndàrì,cioè quelli di proprietà di un singolo signore proprietario fondiario, si trovano spesso anche oggi. Perfino nel Kautilya Artha’sàstra citato prima si consiglia di ipotecare la terra incolta a chi sia in grado di garantire l’imposta concordata. Questa asserzione è comprovata dalle numerose iscrizioni che testimoniano del fatto che le spettanze economiche del ràjà — se non i suoi diritti strettamente politici — erano divisibili, e della concessione di villaggi ad una pluralità di brahmani in quote determinate(vrittt). Ma Baden-Powell attribuisce la stessa origine ai villaggi bhaiacàrà dove le quote sarebbero cadute nell’oblio. Questa ipotesi però non è convincente in quanto ancora oggi i villaggi raiyatvàrì possono passare volutamente alla forma di villaggi bhaiacàrà, con responsabilità fiscale in solido e disposizione della «marca» comune in seguito alla stima dell’imponibile.

A prescindere dalla tipologia della moderna organizzazione dei villaggi, Baden-Powell ha messo in luce con molta chiarezza le conseguenze che in tale organizzazione deve aver avuto il mantenimento della schiatta e della fratria (che egli chiama «clan») come base delle concessioni fondiarie del ceto signorile, in connessione con l’eccedenza di terre delle epoche precedenti. Vanno mantenute in particolare le seguenti sue asserzioni che mettono in luce delle analogie con altre regioni asiatiche: i) la completa comunità delle terre del villaggio (comuniSmo agrario), non costituiva l’organizzazione rurale primitiva dell’india, e in ogni caso non è stata alla base dell’organizzazione rurale posteriore; 2) la tribù invece (e la sua eventuale sotto-divisione, l’associazione della fratria) si considerava proprietaria delle terre occupate e le difendeva dalle aggressioni; 3) gli antichi villaggi indiani non conoscevano, o perlomeno non necessariamente, la proprietà «comune» del villaggio in senso europeo, con il diritto di pascolo e di legnatico, comeparte costitutiva del possesso rurale del contadino. Questo fatto era una conseguenza dell’eccedenza di terra e del persistere delle associazioni di fratria; 4) la proprietà fondiaria sulla base di una struttura feudale analoga o equivalente a quella occidentale ha avuto un ruolo scarsissimo nello sviluppo del sistema agrario indiano. Questo è stato invece determinato in larga misura da un lato dalla comunità di schiatta e fratria (clan) dei conquistatori, dall’altra dalla concessione di prebende fiscali; 5) il dissodamento e la conquista costituirono i due più antichi titoli di proprietà sulla terra.

diretti, chiamati upri nell’india meridionale e designati ufficialmente col termine di «occupants» — in concreto, coloro che guidano di persona l’aratro e pagano il fitto dovuto ai partecipanti della comunitàpattìdàn e bhaiacàrà — hanno oggi, in generale, dopo le leggi di riforma britanniche, un rapporto di proprietà con la terra che ricorda più di tutto la posizione dei fittavoli irlandesi dopo la riforma agraria di Gladstone34. è chiaro che questa non era la situazione originaria. La letteratura classica, in particolare i libri della legge, ma anche i]àtaka e gli scrittori della stessa epocab3, non conoscono né il signore proprietario terriero né l’odierno joint village. Esiste la vendita e la colonia parziaria della terra, quest’ultima tuttavia non applicabile alla terra del villaggio. Il pascolo comune e il pastore del villaggio si trovano nell’india settentrionale. In origine il diritto di prelazione degli abitanti del villaggio rispetto agli stranieri era una cosa che andava da sé. I villaggi dell’india meridionale usano riunirsi per formare una nuova comunità unitariac3. A volte le comunità di villaggi ottengono concessioni dal red3; i villaggi agiscono anche in veste collettiva, per esempio come donatori, rappresentati dalloro pancae3. Esisteva quindi una primaria «comunità del villaggio», anche indipendentemente dai rapporti di soggezione fiscalef3, e doveva esistere, come avviene dovunque le zone di colonizzazione dei conquistatori si chiudano dinanzi ai popoli soggetti. Da sempre, ci sono stati dei forti rapporti comunitari secondari laddove gli impianti di irrigazione determinavano la fertilità delle terre; il diritto a determinate quote d’acqua era senza dubbio determinato dalla misura della partecipazione ai costi. Ma proprio gli impianti di irrigazione potevano diventare la base di una maggiore differenziazione economica. Senza dubbio i bacini di irrigazione ed i loro accessori venivano spesso impiantati sotto forma di donazione. Ma molto più spesso ancora gli impianti venivano realizzati da grossi imprenditori economici, singoli o in società, i quali poi fornivano l’acqua a pagamento. Da questi derivano i «signori dell’acqua» dell’india meridionale.

Una fonte ancora più importante per la nascita di una proprietà economicamente privilegiata era la terra watang3, costituita dalle grandi proprietà terriere spettanti d’ufficio al capo del villaggio, al sacerdote del villaggio, al contabile del villaggio e a volte ad altri ministri della comunità. Tali possedimenti erano ereditari e più tardi divennero alienabili, ma soprattutto o erano esenti da imposte, o avevano solo dei tributi fissi, contrariamente ai normali poderi dei contadini il cui imponibile era determinato in quote del raccolto e poteva, in pratica se non in teoria, venire aumentato a piacere. Sotto il dominio dei Maratti i prebendari di ufficio cercarono di avere e di conservare nelle loro mani perlomeno la terra watan del proprio villaggio natale, e questo qualunque fossero le fonti del loro reddito e dovunque si trovassero. Per lo strato socialmente dominante diventò un punto d’onore il non far uscire dalla famiglia questa prebenda collegata al loro ufficio. Quanto più crescevano gli oneri tributari, tanto più il watan veniva considerato proprietà privilegiata ed era quindi molto ricercato dai più alti strati sociali come occasione di investimento puro e semplice. La prebenda collegata ad un determinato ufficio era ben nota anche nell’india settentrionale nell’antico periodo epico. Secondo l’importanza dellufficio tali prebende andavano dalle rendite di singoli pezzi di terra alle rendite di intere città. Qui, però, l’antica monarchia patrimoniale aveva fatto di tutto, evidentemente, per impedire che si sviluppasse un diritto ereditario di proprietà sulle terre in questione. I Maratti più tardi tentarono di fare la stessa cosa nel Sud, senza tuttavia riuscirvi pienamente.

In origine la qualità particolare della terra watan era strettamente collegata allo status; meglio alla qualità carismatica della schiatta — quella del capo del villaggio — che la possedeva come compenso per i suoi servizi. Esisteva ovviamente un gran numero di diritti di proprietà similmente collegati alle qualità di status del proprietario. Già la monopolizzazione dell’intera proprietà della terra nei villaggi arii a favore dei conquistatori e con esclusione dei popoli soggiogati deve essere stata fonte di differenze delle quali non è più possibile accertare lo sviluppo. Troviamo tuttavia delle conferme di diritti di proprietà terriera quale «il diritto delle prebende brahmaniche». Nelle iscrizioni si trova particolarmente spesso una forma giuridica di proprietà terriera chiamata bhumichchida che indica senza dubbio una proprietà terriera ereditaria non soggetta ad un aumento arbitrario d’imposta e che deriva questa sua qualità dalla posizione personale di status della schiatta che gode di tale diritto (schiatta investita del carisma familiare). In generale, come mostrano i casi studiati da Baden-Powell di associazioni privilegiate di proprietari fondiari che godono di rendite(joint village),questi rivendicano la compartecipazione in virtù del loro «diritto di nascita» (mirasi, tradotto da Baden-Powell come birth right) fondato sulla loro appartenenza ad una schiatta (principesca) dotata del carisma familiare. Di fatto ogni terra soggetta ad un diritto ereditario fìsso e (eventualmente) ad una rendita fissa si chiama tecnicamente mìràs. è quindi stata la qualità ereditaria di status della schiatta, e più tardi della casta, a determinare originariamente la qualità del possesso come mirasi. Si trattava comunque di classi di proprietari i quali, anche quando si occupavano personalmente dell’amministrazione delle proprie terre, evitavano finché era possibile di metter mano di persona all’aratro, per non subire la degradazione rituale nella quale incorrevano occasionalmente i ràjpiit impoveriti ed altri nobili proprietari terrieri. Quando nei documenti medioevali indiani appaiono (abitanti di villaggio» come testimoni o donatori, o quando la «gente di campagna» viene citata accanto alla schiatta reale, ai funzionari ed ai mercanti di città (evidentemente come ceto per nulla degradato)h3, non siamo quindi mai in grado di sapere se si tratta di coloro che godono di rendite fondiarie, o di veri e propri contadini, o di un ceto che sia una via di mezzo tra questi due. Di regola è di gran lunga più probabile che si tratti della prima di queste categorie.

Anche per quanto riguarda il tempo presente, le relazioni dei «Census Reports» sulle singole caste, ottime per tutto il resto, sono piuttosto oscure su questo punto. Naturalmente al giorno d’oggi le differenze tra gli strati rurali sono spesso molto fluide. Due categorie di abitanti di villaggio hanno chiaramente conservato nel modo più completo la loro posizione di contadini «indipendenti» (nel senso tedesco del termine)35: i kunbì nell’Ovest e nel Nord, e i vellalar nel Sud. I primi provengono perlopiù da regioni in cui la stratificazione socialenell’ambiente rurale era prevalentemente determinata da una differenziazione non a carattere finanziario ma militare: separazione dei cavalieri e dei militari di carriera dai contadini. Come sempre in questi casi, le differenze sociali erano quindi sostanzialmente meno rigidei3. I vellalar, invece, rappresentano l’antica classe, citata in precedenza, degli uomini liberi (proprietari fondiari) che è stata «irrustichita» sotto il patrimonialismo e il dominio dell’esercito di mercenari e degradata nel rango di casta dopo l’attuazione del sistema castuale indù. Queste due caste forniscono notoriamente i migliori agricoltori dell’india e soprattutto quelli maggiormente dotati di senso degli affari; i kunbt in particolare sono molto aperti alle moderne tecniche economiche, per esempio appaiono inclini ad investire i loro risparmi in fabbriche e in titoli. Per il resto, tra le caste rurali di rango relativamente superiore si trova un certo numero di tribù induizzate, come i Jàt, i Gujar, i Koch; inoltre alcune antiche caste di mercenari i cui membri si sono oggi stabiliti come proprietari terrieri, e sparsi residui di agricoltori non nobili considerati tuttavia relativamente distinti.

Altrimenti i liberi contadini in parte sono diventati valvassori (fittavoli) di qualcuno investito del potere politico nel villaggio all’epoca delle faide continue tramite commendazione, occasionalmente anche tramite indebitamente o semplicemente tramite atti di violenza acuti o cronicij3. La grande massa della popolazione rurale indiana, tuttavia, non è decaduta per questi motivi ma per via del sistema finanziario dei grandi regni, sistema che riduceva tali masse a puri soggetti da spremere per ottenerne la massima rendita. Non si potevano considerare come membri di una casta di «nati due volte». Tra loro troviamo una quantità di tribù indigene più o meno completamente induizzate; motivi rituali ne hanno ostacolato l’accoglienza tra i vai’syak3. Ingenerale, dove non sussistevano motivi di impurità rituale, venivano considerati «siidra puri»l3 In breve, il destino di casta dei contadini porta le tracce dei mutamenti sociali prodotti dal fiscalismo dello stato burocratico. Una serie di condizioni in parte molto generali, in parte specificamente indiane, hanno contribuito a questo destino.

Il decadimento sociale dei liberi popolani nel Medioevo occidentale era notoriamente collegato alla loro separazione dalla categoria degli uomini addestrati militarmente — che quindi erano membri di pieno diritto nella comunità guerriera — e alla nascita della milizia professionale cavalleresca. Dal punto di vista economico questo sviluppo è stato causato dall’aumento della popolazione che, insieme alle condizioni culturali generali, ha portato ad una coltivazione sempre più intensiva. Questa a sua volta ha assorbito sempre di più la capacità lavorativa del libero contadino vivente del lavoro della sua famiglia, rendendo lo così economicamente sempre meno «disponibile» a scopi bellici e sempre più «pacifista». La massa di questi liberi agricoltori — contrariamente agli uomini liberi di Tacito — è stata ovunque costretta, con sempre maggior frequenza, a mettere mano di persona all’aratro. In Occidente questo fatto non era degradante come lo era in India, perlomeno nel passato storico; lo mostrano tanto gli esempi nordici quanto la leggenda romana di Cincinnato (che è una leggenda ideologica). In India infatti, oltre alle generali circostanze presenti nello sviluppo della società rurale entravano in gioco altri fattori sociali specifici destinati a contribuire al generale processo di squalificazione sociale del contadino come tale. Lo sviluppo delle città e delle classi cittadine ha portato dappertutto nel mondo, nell’Occidente antico, ivi compreso il mondo ebraico, e nel Medioevo, alla squalifica sociale del pisangm3, perché egli non partecipava alle convenzioni della società urbana colta e anche perché non poteva tenere il passo con il suo sviluppo militare ed economico.La contrapposizione tra popolazione urbana(paura) e popolazione rurale(janapada) emerge anche nelle fonti indiane di ogni sorta. Ma a ciò si aggiungono anche le particolari condizioni indiane.

Poiché qui lo sviluppo urbano ha fatto sorgere, come vedremo, presso le religioni pacifiste di redenzione — quella dei buddhisti e quella, la più rigida, dei Jain — il principio del-Yahimsà, cioè il divieto di uccidere qualsiasi essere vivente. Di conseguenza il contadino che conduce l’aratro e quindi uccide vermi ed insetti si trovò ancora più profondamente degradato, sul piano rituale, di quanto non lo fosse perfino nella società giudaica e in quella cristiana (antica e medioevale). Di questa degradazione sono rimaste perlomeno alcune tracce anche dopo che le religioni di redenzione di origine urbana erano di nuovo scomparse o comunque retrocesse. L’allevamento di bestiame, nella misura in cui comprendeva spargimento di sangue, cadde molto in basso nella considerazione sociale. Numerose colture, quali verdure, tabacco, rape e altre, erano considerate degradanti o addirittura contaminanti per motivi rituali diversi. In ultimo, però, fu soprattutto l’accento sempre più marcato posto sulla «cultura» letteraria e sul «sapere» come l’elemento qualificativo più importante sul piano dello status come su quello religioso, al posto del carisma magico, che contribuì maggiormente all’oppressione sociale del contadino, fenomeno, questo, che si riscontra anche nel giudaismo e nel cristianesimo medioevale (per esempio in S. Tommaso d’Aquino)n3.

Mentre nell’antichità l’allevamento di bestiame veniva per primo in ordine di rango nella scala delle occupazioni lavorative, seguito dalla coltivazione dei campi e per ultimo dal commercio, che si trovava sul gradino più basso, oggetto di disprezzo e di sospetto presso tutti i popoli contadini (soprattutto il prestito ad interesse)o3, più tardi invece il commercio venneconsiderato di gran lunga superiorep3. Questo rappresenta un rovesciamento radicale della scala dei valori dell’epoca vedica che vedeva nel mercante(pani) soltanto un vagabondo, di regola proveniente da una tribù straniera, un individuo che di giorno mercanteggia, di notte ruba, che accumula le sue ricchezze in luoghi segreti custoditi, che è odiato dagli dèi per la sua avarizia nei loro confronti (nei sacrifici) e nei confronti degli uomini (in particolare dei cantori sacri e dei sacerdoti), e i cui «tesori iniqui» sono quindi contrapposti ai tesori dei nobili che riempiono le mani dei cantori sacri e dei sacerdoti. «Ari», il ricco, il potente, ha quindi un significato positivo ed uno negativo, come hanno notato Pischel36 e Geldner37 (III, p. 27 e seg.). Il ricco è l’uomo più ricercato, più odiato, più invidiato, l’uomo con cui non si può andare d’accordo; è grasso e arrogante: soprattutto quando non paga cantori e sacerdoti o paga solo i suoi. Egli dovrebbe donare, e donare ancora, e se lo fa, è il beneamato degli dèi e degli uomini. Ma il mercante non lo fa. Tuttavia perfino l’Atharvavedaq3 contiene una preghiera per l’aumento del denaro con cui il mercante va al mercato per guadagnare con esso altro denaro. La religiosità primitiva opera una trasfigurazione della ricchezza che secondo il Rgvedar338 permette di guadagnare il paradiso. La ricchezza dà influenza persino agli sùdra poiché il sacerdote accetta anche il loro denaro.

L’odio per il commercio scomparve totalmente all’epoca del lo sviluppo delle città. Il possesso di denaro ed il commercio, che costituiscono le tipiche qualifiche dei vaisya nel Medioevo come ancora al giorno d’oggi, non hanno tuttavia esentato que sto gruppo da numerose crisi che toccavano il suo rango di casta. è estremamente sorprendente che una casta come quella degli orefici, che all’epoca del potere delle gilde e della fioritura delle citta godeva, qui come in Occidente, della massima considerazione, e che ancora oggi in alcune regioni occupa il primo rango, quasi pari ai brahmani, venga indicata nelle fonti relative all’india settentrionale come una tipica corporazione di abietti truffatoris3. Lo stesso vale per alcune altre caste di mercanti del Bengala, le quali all’epoca della nascita dei grandi reami fungevano da prestatori di denaro ai principi ed erano all’apice delle caste sùdra degradate. Si dice che a ciò diedero luogo i conflitti con i re Sena, in particolare con Veliala Sena, sul quale del resto ricade di solito l’odio per il rovesciamento dell’antico ordine delle caste da parte di coloro che oggi reclamano un’elevazione di rango per le loro caste. è ben documentato, oltre ad essere sufficientemente credibile di per sé, che l’avvento del dominio burocratico-patrimoniale ha provocato anche qui, come in seno alle caste nobili, dei forti spostamenti: l’attuale ordinamento delle caste nel Bengala reca in sé le tracce di una catastrofe, mentre in altre regioni presenta un’atrofia o una crisi dello sviluppo del potere della borghesia. Questi fenomeni spesso cancellano la linea di demarcazione tra vai’sya e sùdra. Le odierne caste di commercianti di rango superiore sono solo in parte costituite dalle antiche caste di mercanti cittadini. Per il resto sono derivate dalle organizzazioni commerciali monopolistiche create dal potere del principe patrimoniale. D’altra parte non ogni casta di commercianti è una casta di alto rango; tutt’altro. Una parte di esse è addirittu ra impura e proviene probabilmente da tribù paria che hanno monopolizzato quel dato ramo del commercio. Anche qui si riflette la storia dell’amministrazione nei rapporti tra le caste.

La penetrazione dell’«economia monetaria» in India avvenne all’incirca nello stesso periodo dell’ascesa dell’ellenismo nel commercio occidentale. Gia molto prima esisteva il commercio marittimo e il traffico delle carovane che andava a Babilonia e più tardi in Egitto. In India come a Babilonia la creazione di denaro coniato, cioè di blocchi di metallo segnati in qualche modo, più tardi stampati o colati, di peso determinato, rimase in origine un affare privato delle grandi famiglie di mercanti il cui conio godeva di ampia fiduciat3. Perfino i re della dinastia Maurya, compreso Asoka, non battevano moneta per proprio conto. Solo l’affluenza dei metalli nobili dalla Grecia e da Roma indussero i grandi re del i secolo d. C. a farlo, mentre all’interno del paese le antiche monete di conio privato e i surrogati di monete rimasero ancora a lungo in circolazione.

In India come a Babilonia l’assenza di una zecca di stato non ha ostacolato la nascita del commercio capitalistico e del capitalismo politico. DalVII secolo a. C. all’incirca e per quasi un millennio lo sviluppo capitalistico ha conosciuto una vasta espansione. Apparve il «mercato» che diventò il centro amministrativo; i villaggi senza mercato(mouza), sotto il regno dei Maratti, erano ancora legati al kusha, che era la grande borgata con diritto di mercato (una specie di metrokomia39 nel senso tardo antico). Le citta persero il loro carattere originario di semplici fortificazioni dei principi(pura, nagara). Esse acquisirono invece — soprattutto lungo il mare — un rione che nella sua articolazione rispetto alla vecchia sede principesca e nella sua forma stava nello stesso rapporto che in Italia il «mercato» economico, il luogo dove si vende e si acquista, in rapporto alla «piazza» (del campo della signoria), il luogo dove si passano in rassegna le milizie e dove si tengono tornei. Tale struttura è conservata ancora oggi in modo chiaramente visibile nella pianta di Siena con le sue due piazze davanti e dietro al Palazzo pubblico. La si riscontra anche nel dualismo del castello(kasbah) e del mercato{bazar) nelle citta islamicheu3. I ricchi nobili erano affluiti nella citta per consumarvi le proprie rendite. Secondo una cronaca, nella citta poteva vivere soltanto chi possedeva i karora, equivalente a 100lakha (l’unita in cui si misuravano le grandi prebende, corrispondente al numero dei villaggi di cui riscuotevano le rendite)v3. Accanto alle rendite fondiarie apparve ora l’accumulazione patrimoniale mediante il commercio.

Esisteva la tipica organizzazione del traffico carovaniero sotto i capi-carovana, e le gilde dei mercanti (creni, più tardi gana)realizzavano in potere con la classe cavalleresca e la nobilta sacerdotale. Il re dipendeva finanziariamente dalle gilde; egli aveva soltanto i mezzi per dividerle tra loro o corromperle. Gia nell’epicaw3, dopo una sconfìtta, il re esprime la sua preoccupazione nei loro confronti (oltre a quella nei confronti dei suoi parenti e sacerdoti). In alcune citta, a capo delle gilde appare un capo carismatico che, affiancato dal corpo consultivo degli anziani delle gilde (Marktherrn), rappresentava gli interessi della cittadinanza dinanzi al rex3. I tre ceti aristocratici erano quindi la nobilta laica, la nobilta sacerdotale ed i mercanti; essi erano spesso considerati di pari rango, non di rado ammettevano il connubio tra di loro ed avevano rapporti di parita con i principi. Imercanti finanziavano le guerre dei principi e si facevano dare, a titolo individuale o alla gilda come tale, i diritti signorili in pegno o concessione. E come la commune, la fratellanza del ceto signorile, legata da giuramento, aveva invaso in Occidente, in particolare in Francia, anche le campagne, un fenomeno analogo si riscontra anche in Indiay3. L’aristocrazia colta dei sacerdoti, la nobilta cavalleresca e la plutocrazia borghese erano in concorrenza tra di loro per la maggiore influenza sociale, e perfino i ricchi artigiani, cioè quelli che partecipavano al commercio, avevano rapporti con i principi. La liberta nella scelta professionale sembra essere esistita perlomeno presso una parte degli artigiani. è l’epoca in cui i membri di tutte le classi, perfino gli sùdra, erano in grado di acquisire il potere politico.

Il potere nascente del principe patrimoniale, con il suo esercito disciplinato e la sua burocrazia, era sempre più importunato dal potere delle gilde e dalla sua dipendenza finanziaria nei loro confronti. Sappiamo che un vanik (mercante) rifiutò un prestito per finanziare la guerra a un re del Bengala, osservando che il dharma di un principe non è di fare la guerra ma di proteggere la pace e la pacifica prosperita dei cittadini. Aggiunse tuttavia che il prestito poteva forse essere concesso se il re era in grado di fornire un castello adeguato come pegno. Si narra poi della grande ira del re che si sfogò nel corso di un banchetto quando le caste dei mercanti si rifiutarono di occupare il posto in mezzo agli sùdra che era stato loro indicato dal maresciallo di corte e si allontanarono protestando. Quando il funzionario comunicò il fatto al re, questi degradò le caste in questione al di sotto degli sùdra. Qualunque sia la parte di vero di questo racconto del Vellala Caritaz3., resta il fatto che testimonia palesemente di certi tipici stati di tensione.

L’antagonismo tra i funzionari del principe e il potere dei plutocrati borghesi era naturale e si esprime anche nel Kautilya Arthasastra, nella condanna degli orefici che in parte possono essere stati i detentori dell’antica zecca privata e in parte erano i finanziatori del principe. Accanto alla sua indubbia debolezza numerica, certe circostanze specificamente indiane furono fatali alla borghesia nella sua lotta contro il potere del principe patrimoniale. La prima di queste era l’assoluto pacifismo di quelle religioni di redenzione che si erano diffuse più o meno in concomitanza con lo sviluppo delle citta (vedremo più avanti le possibili relazioni causali tra i due fenomeni): il jainismo ed il buddhismo. La seconda era l’articolazione per caste, presente gia allora anche se poco sviluppata. Ambedue questi fenomeni ostacolavano lo sviluppo del potere militare della borghesia, il pacifismo in via principale, le caste in via subordinata in quanto, come vedremo, impedivano la nascita di una polis o di una commune di tipo europeo. Non poteva quindi nascere né l’esercito degli opliti dell’antica polis, né la milizia corporativa e l’armata dei condottieri delle citta occidentali del Medioevo, che rappresentavano allora il più alto stadio raggiunto dalla tecnica militare: l’esercito fiorentino, a quanto ci è noto, fu il primo in Europa ad impiegare le armi da fuoco. Megastene parla di «citta con auto-governo»a4. Vaisalì all’epoca era una citta libera: un consiglio dei 5000, cioè di tutti coloro che potevano fornire un elefante, governava la citta tramite un uparaja (viceré)b4. L’epica conosceva anche paesi senza re, ma questi erano considerati «non classici»: non si doveva vivere in tali paesic4. Questa posizione corrisponde agli interessi della classe sacerdotale che dipendeva economicamente e socialmente dalla monarchia. Si trovano forme embrionali dei privilegi «di ceto». Le antiche assemblee del popolo(samiti e sabha) erano o assemblee dell’esercito o — nei tempi più remoti come nei tempi epici — assemblee giudiziarie in cui esperti giuristi, qualificati per le loro virtù carismatiche o per la loro posizione di anziani,interpretavano la legge. Senza questi anziani l’assemblea, nell’epica, non era considerata una sabha legittimad4.

Nell’epica i re chiedono consiglio ai loro parenti ed amici; i nobili, cioè in pratica gli alti funzionari, costituiscono gia il consiglio reale. Nell’India meridionale si conservavano ancora nel Medioevo delle notevoli limitazioni al potere del re; le assemblee rappresentative godevano di diritti analoghi a quelli dei nostri «stati». Nelle fonti epiche gli anziani della cittae4 ed i cittadini (paurah)f4 vengono citati accanto ai sacerdoti i quali spiccano sempre più come funzionari coll’affermarsi dell’amministrazione degli scrivani. Nelle parti successive dell’epica i sacerdoti appaiono come quasi i soli consiglieri del re. La citta è ora «un luogo dove si trovano sacerdoti eruditi»g4, più o meno come la civitas medioevale era la sede di un vescovo. Nell’amministrazione della citta il re impiegava in quote determinate anche funzionari della casta dei vai’sya purché fossero «ricchi», e della casta degli sudra purché fossero «virtuosi» (questi evidentemente servivano come esattori delle liturgie o delle imposte delle corporazioni)h4. Sono sempre però i funzionari del re che esercitano l’amministrazione. Per quanto ci risulta, da nessuna parte si è costituita in modo durevole e tipico un’amministrazione cittadina repubblicana di tipo occidentale, per quanto ampie fossero le premesse esistenti in tale senso. Comunque nell’insieme di tutte le citta indiane, è sempre stato il re con il suo corpo di funzionari a governare, anche se in casi isolati può esser stato costretto a tenere nel debito conto, anche in misura molto ampia, il potere delle gilde. Ma questo potere era e rimase di regola un potere puramente finanziario che non aveva dietro di sé una propria organizzazione militare, ed era quindi destinato a crollare non appena i principi avessero trovato interesse ad appoggiarsi ai sacerdoti ed ai funzionari. Il potere del capitale era grande anche qui, fintanto che numerosi piccoli principi cercavano il suo appoggio per la sua forza finanziaria.Ma tale potere non poteva far fronte permanentemente ai grandi re, secondo un processo che in piccolo e in grande si ripete ovunque.

A questo si aggiunse la superiorita intrinseca dell’organizzazione di casta che i brahmani e i re contrapponevano al potere delle gilde e alla loro organizzazione. La casta disponeva del mezzo della scomunica nei confronti dei membri recalcitranti, ed è noto il ruolo giocato dalla superiorita dei mezzi di costrizione spirituali, sul piano storico-economico, anche nel nostro Medioevo. Una gilda che volesse assicurarsi l’osservanza delle sue disposizioni, per esempio circa il mantenimento dei limiti della concorrenza tra i suoi membri, quando questi appartenevano a caste diverse, spesso poteva farlo solo richiedendo a queste caste di impiegare i propri mezzi di costrizione o rivolgersi al rei4. Dopo la sconfitta delle gilde i re dal canto loro hanno spesso investito singoli mercanti della qualifica di mercanti reali, concedendo loro ampi monopoli nell’interesse mercantilistico ed innalzandoli nello stesso tempo ad un rango elevato, proprio come è avvenuto nell’Occidente moderno. Ma l’antica autonomia delle gilde e la loro posizione come rappresentanti della cittadinanza contro il re era finita. Del resto, questa non è esistita in tutta l’india. è vero che sotto il regno dei Maratti il «mercato» era il centro amministrativo, ma ogni mercato lo era per sé, per cui nelle citta in cui c’era più di un mercato i vari quartieri con i loro rispettivi mercati erano organizzati ciascuno separatamente come un borgo di campagna con mercato(kusha). Si era ben lontani dalla vera e propria «autonomia amministrativa» di tipo occidentale. Dell’antica posizione delle gilde e dei mercanti «regi» privilegiati sono rimasti in alcune parti dell’india, in particolare nel sud, nel corso del Medioevo, certi privilegi sociali ed anche certi monopoli il cui contenuto non ci è noto nei dettagli, ma che a poco a poco si sono dissolti in pure prerogative onorifichej4.

La decadenza di molti strati di mercanti e l’ascesa di nuovi ceti impiegati nel sistema monopolistico del principe patrimonialek4 si riflette ancora nell’odierna posizione delle caste commerciali indiane. Alcuni residui dell’antica struttura corporativa e anche del mahajanl4, la fratellanza delle gilde, si trovano ancora in parte del Gujaratm4. Fatta eccezione per zone dove determinate sette, come quella dei Jain, organizzate di fatto in modo analogo alle caste, hanno conservato per conto proprio il monopolio del commercio (se ne parlera più avanti) esistono alcune caste appartenenti all’antico ceto mercantile dei vanik che mantengono ancora oggi la loro antica posizione di rango. Tra quest’ultime figura innanzitutto la casta dei bhaniya, diffusa in tutta l’india ed in particolare nell’ovest, i cui membri nell’insieme sono indù ortodossin4, vegetariani ed astemi, e portano lasacra cinta. Al contrario nel Bengala, la regione caratterizzata dalla più rigorosa organizzazione burocratico-patrimoniale ad opera dei re Sena, sono proprio le antiche caste mercantili dei gandhabanìk e dei subarnabanik che da quell’epoca ad oggi hanno subito la più profonda decadenza di rango. Alle caste, economicamente in ascesa, dei commercianti in alcoolici, malgrado la loro ricchezza, talvolta considerevole, non è quasi mai stato riconosciuto, per motivi rituali, un rango pari a quello delle antiche caste mercantili. Non è possibile qui entrare nei particolari. Quanto si è detto mostra fino a che punto le caste vai’sya portano in sé le tracce del destino storico dell’india e della sua struttura politica, in particolare del destino della sua «borghesia».

D’altra parte si presenta come residuo dell’antica epoca feudale ai nostri giorni la posizione di rango, in genere abbastanza privilegiata, di alcune caste professionali come quelle dei bardio4, degli astrologhi, dei genealogisti, degli aruspici, che nel passato erano indispensabili in ogni corte principesca e presso ogni famiglia distinta, e che oggi sono tali anche presso ampi strati delle sottocaste ostili ai brahmani. Quasi ovunque i membri di queste caste appartengono al numero dei «nati due volte» e spesso hanno una posizione di rango superiore perfino alla classe dei vai’sya. L’alta posizione della gia citata aristocrazia colta dei baidya (medici) è naturalmente anch’essa connessa ai loro rapporti con le casate aristocratiche.

Il rango di vai’sya è stato rivendicato e lo è ancora oggi da numerose caste che prima erano caste di artigiani (o lo sono tuttora); in particolare da quelle caste che lavorano le proprie materie prime sulla base di scorte personali e che vendono liberamente il proprio prodottop4, il che vale loro di solito l’appellativo cortese di vanik (mercante). Siamo qui ai limiti della sfera occupata dalle caste siidra che erano i principali esponenti dell’industria indianaq4.

Tra queste caste spiccano due gruppi. In primo luogo c’è un gruppo socialmente, cioè ritualmente degradato, dal quale i brahmani non accettano acqua e che non accettano di servire come sacerdoti domestici (criterio decisivo, questo, nell’india meridionale, dove ogni individuo può accettare l’acqua solo da membri della propria casta). Questa classe, a prescindere dai suoi diversissimi elementi costitutivi, comprende in primo luogo e soprattutto gli antichi mestieri artigiani del villaggio, cioè gli artigiani e gli operai esclusi dal pieno possesso del suolo, che ricevono la concessione di orticelli, compensi in natura o in denaro, e che sin dagli inizi degli insediamenti agricoli sono stati gli indispensabili complementi dell’economia domestica del contadino. Sul loro stesso piano erano e sono gli altri servitori della comunita che ricevevano compensi in naturar4 e tra i quali spesso erano compresi anche i sacerdoti del villaggio. è lecito presumere che queste categorie abbiano costituito il nucleo storico dell’antica classe siidra esclusa dal possesso delle terre del villaggio. Dello stesso rango sono poi di regola, tra le industrie interlocali, le grandi caste antiche dei tessitori. Di pari rango sono pure i sarti, la maggior parte dei vasais4, parte dei mercanti ambulanti, dei commercianti in alcoolici e dei pressatori d’olio, ed infine numerose caste di braccianti e piccoli contadini. Nei grandi villaggi dov’erano sufficientemente numerosi, questi outsiders formavano talvolta una comunita separata con un fateispeciale proveniente dal mestiere più nobile, per esempio dalla classe dei carpentierit4.

Al di sopra di questi si trovava un altro strato, sostanzialmente meno degradato e considerato «puro». Accanto a tutta una serie di caste contadine, che avevano un rango molto diverso a seconda delle varie singole religioni e che formavano il grosso di questa classe, si trovava in questo strato «puro» una categoria di caste abbastanza tipica, qualitativamente importante: il cosiddetto Nabasakha o «gruppo delle nove parti». Queste caste costituivano chiaramente il nucleo dei cosiddetti sat’sudra (sùdra «puri»). Le attivita professionali di questo gruppo comprendono mestieri artigiani e commerciali urbani; venditori di betel, di profumi, di oli, pasticcieri, giardinieri, talvolta vasai. Sul loro stesso piano a un grado più elevato si trovano gli orefici e gli argentieri, i laccatori, i muratori, i carpentieri, i negozianti di passamani di seta e tutta una serie di simili industrie specificamente urbane e di lusso. Altre caste appartengono a questa categoria in virtù di circostanze storiche fortuiteu4. Del pari vi sono caste sìidra di servitori domestici di vario tipo che sono considerate «pure».

I motivi di tale classifica sono evidentemente tutt’altro che univoci. In parte sono entrati in gioco motivi di pura necessita pratica. Un individuo che deve prestare dei servizi estremamente personali, che deve toccare e curare la persona del suo cliente ? come per esempio un domestico o un barbiere — non poteva facilmente venir rigettato in una casta impura. Per il resto, può essere esatta l’ipotesi secondo cui gli artigiani apparsi solo con lo sviluppo delle citta, non essendo membri del villaggio sonostati sin dall’inizio superiori a questi «servi della gleba» e quindi anche ritualmente privilegiativ4. Le industrie che partecipavano al commercio urbano al dettaglio si trovavano gia in pratica in una situazione socialmente più favorevole per via della loro posizione personale economicamente indipendente. Inoltre, all’epoca della fioritura delle citta, tali industrie erano spesso organizzate in gilde, mentre caste come quelle dei tessitori, qui come in Occidente, erano impiegate dalle gilde nel lavoro salariato e venivano duramente sfruttate. In questo caso dunque la struttura economica dell’antica economia urbana o meglio i suoi inizi quali sono esistiti in India, gettano ancora la loro ombra sull’epoca presente. L’importanza di questo fenomeno per lo sviluppo delle caste della classe degli sildra deve essere stata comunque considerevole. Nella letteratura anticaw4 si trova il concetto secondo cui le citta in genere erano essenzialmente colonie di sùdra, di artigiani. Ma l’economia urbana e la nascita posteriore di singole industrie artigiane nelle citta non bastano da sé a spiegare le differenze di rango tra i singoli mestieri.

I libri della leggex4 assegnano allo sùdra il dovere del «servire». Solo quando non trova nessun servizio è autorizzato a diventare un mercante o un artigiano indipendente. Da tale sentenza si può trarre un’unica conclusione: gli schiavi e i servi del grande signore, nella misura in cui non erano sfruttabili nel suo oìkps, ricevevano dal signore l’autorizzazione a lavorare in proprio in modo indipendente, in cambio di determinati tributi (apophora, obrok, leibzins)40 come avveniva nell’antichita e nel Medioevo occidentale e orientale, e in Russiafino all’abolizione della servitù della gleba. Sembra che non vi siano testimonianze dirette di questo. Ancora oggi tuttavia si trovano dei residui di tale stato di cosey4, e anche lo spazio ristretto che il vero e proprio lavoro servile di schiavi occupa nell’economia produttiva indiana conferma quest’ipotesi. In ogni caso però le fonti indicano in modo inequivocabile che accanto alle categorie i) degli artigiani di villaggio, particolarmente importanti e caratteristici dell’india, e 2) degli artigiani indiani delle corporazioni, esisteva anche la categoria 3) degli artigiani al servizio dei signori. Nessuna di queste categorie sembra però rappresentare l’autentico archeotipo degli sùdra.

L’ordinamento economico dell’industria indiana nel periodo che va dai tempi epici fino al Medioevo e in parte fino all’era moderna conosceva quattro tipi di artigiani. Questi erano:

1) gli iloti dei singoli villaggi, i quali erano installati ai margini del villaggio(Wurth) e ricevevano un compenso fisso in natura o un pezzo di terra (artigianato ilota); il loro lavoro era quasi sempre sotto forma di un rigido lavoro salariato, cioè il committente doveva fornire tutta la materia prima.

2) Gli artigiani che erano installati in villaggi artigiani separati che si amministravano autonomamentez4. Qui essi offrivano in vendita i loro servizi, o i loro prodotti confezionati con la loro propria materia prima; oppure vendevano questi prodotti all’estero, personalmente o tramite mercanti; o ancora lavoravano a giornata in casa del committente (artigianato tribale).

3) Gli artigiani che il re, oppure un principe, un tempio o un proprietario fondiario avevano installato sulle loro terre. Potevano essere servi della gleba o uomini liberi, ma comunquetenuti ad un certo lavoro. Essi coprivano i bisogni del signore con i prodotti della loro industria, che poteva essere un artigianato atkYoikos o un artigianato liturgicoa5. Quest’ultimo era parzialmente combinato ad un lavoro indipendente.

4) Gli artigiani indipendenti che vivevano nelle citta, in determinate vie, e vendevano nel bazar la loro merce come lavoratori in proprio, o i loro servizi come salariati (artigianato da bazar). Tuttavia quest’ultima categoria, in gran parte, non era permanentemente urbanizzata; costituiva piuttosto una propaggine della seconda categoria. Ancora oggi viene riferito da Bombay che l’artigiano spesso abbandona la citta per tornare al villaggio della sua casta, quando è anziano o quando ha raggiunto una sufficiente agiatezza. In ogni caso questa categoria non è quella principale, e non lo è neppure la terza. 1 principi, soprattutto i ricchi principi delle citta commerciali dell’india meridionale e di Ceylon, hanno fatto venire da lontano artigiani per la costruzione di palazzi e di templi e hanno concesso delle terre in cambio della loro opera come costruttori, artisti e artigiani di corte. Il loro status giuridico varia, e si tra va, accanto agli artigiani puramente liturgici, remunerati con prebende di servizio o con compensi in natura, anche il lavoro salariato, contrattualmente libero o sottoposto a tariffe, di artigiani immigrati di loro spontanea volontab5.

La prima categoria, quella degli artigiani iloti, probabilmente derivava molto spesso dalla seconda. Infatti venivano chiamati nel villaggio, ed ivi installati, artigiani provenienti da tribù paria, che in precedenza lavoravano a giornata prestando servizio in casa dei diversi clienti. A quando risalga questo artigianato ilota non si può stabilire, perché le fonti più antiche non offrono una prospettiva chiara della situazione dell’artigiano.Tuttavia è molto probabile che il suo sviluppo seguisse da vicino gli insediamenti stabili. Ma l’autentica forma primaria è, secondo ogni probabilita, quella dell’artigianato tribale. Questo si sviluppava quando una tribù o una frazione di essa cominciava a smerciare i prodotti del proprio villaggio su mercati sempre più lontani. Poteva anche succedere che una parte della tribù immigrasse nei pressi di residenze e corti di principi e vi fondasse nuovi villaggi artigiani a struttura chiusa. Sappiamo infatti dell’esistenza di tali villaggi proprio in queste zone.

Sembra — ed è anche comprensibile — che gli artigiani del re, i quali arrivavano come i brahmani su convocazione di un principe che forniva loro una sistemazione, detenessero nell’insieme il rango più prestigioso tra gli artigianic5. In particolare l’epoca delle grandi costruzioni, che seguì l’introduzione degli edifìci in pietra in India (in secolo a. C.)d5, incrementò la domanda di questi artigiani, in particolare di quelle categorie sorte di recente, scalpellini e minatori, ed insieme a loro favorì anche la posizione dei loro aiutanti e dell’industria della decorazione. Lo stesso è avvenuto, in seguito alle importazioni di metalli preziosi dall’Occidente, per gli artigiani interessati ad essi. Un importante esempio è costituito dagli artigiani kammalardell’india meridionale e delle isole vicine. Il loro ordine di rango laggiù e il seguente: i) fabbri; 2) falegnami; 3) lavoratori del rame e del bronzo; 4) scalpellini; 5) orefici, argentieri e gioiellieri; gli artigiani delle cinque caste (Panchvala) come sono chiamati a Mysoree5. Adorano Visvakarma come dio ancestrale e patrono dei loro mestieri, hanno — come si è gia detto — i propri sacerdoti, e rivendicano un rango molto alto, a volte addirittura un’ascendenza brahmanicaf5. Il grande scisma delle caste nel sud, ancora persistente, in caste di «mano sinistra» e «destra» fu promosso dal loro sollevamento contro i brahmani. In ogni caso il loro rango, in generaleg5, è superiore a quello degli antichi mestieri locali, quali ad esempio i vasai ed i tessitorih5. Tuttavia il rango sociale e lo stesso potere economico spesso sono il risultato di circostanze molto particolarii5.

Le fonti letterarie e monumentali rivelano la portata notevole di questo artigianato legato skk’oikos del principe e alle prestazioni liturgichej5. Sono presenti quasi sempre degli impiegati, presso i principi, e dei comitati ministeriali, presso i grandi re, addetti all’industria; la loro funzione non poteva essere altra che quella di sovrintendenti al lavoro di questi artigianik5. Lasostituzione di tributi monetari a molte tradizionali prestazioni di lavoro obbligatoriol5 rispondeva al tipo di sviluppo amministrativo in corso e poneva questi artigiani sullo stesso piano degli altri mestieri delle citta del re, soggetti a licenze e a tributi. Il pagamento di un’imposta era considerato come un compenso dei monopoli di mestiere garantiti quasi ovunque in qualche misura agli artigiani che si erano stabiliti sul postom5. D’altra parte troviamo anche, in seno all’oikos del principe, lo sviluppo dell’ergasterìonn5, come lo conosciamo dalla tarda antichita dell’Occidente e soprattutto dall’Egitto, e come era presente nel Medioevo bizantino e del Medio Oriente. Quando troviamo menzione di prestiti di artigiani fatti dal re a templi o a brahmani o a cavalieri vassallio5 possiamo quindi dedurre che si tratta in generale di artigiani liturgici o AckYoikos. Tuttavia non è del tutto escluso, anche se improbabile, che il re, che rivendicava in misura sempre crescente la sovranita sul territorio e la libera disposizione delle prestazioni economiche dei suoi sudditi, possa aver concesso in prestito anche altri artigiani, sia iloti, sia perfino artigiani tribali.

All’epoca del potere delle gilde gli artigiani delle citta parteciparono in parte alla loro prosperita. Dove erano organizzati in corporazioni artigiane, spesso le tariffe di ammissione erano molto alte (secondo il mestiere, arrivavano fino a varie centinaia di marchi, un piccolo patrimonio in India allora).Da qui si sviluppò il sistema ereditario nelle ricche corporazioni di artigiani indipendenti, come esisteva nelle gilde mercantili; vennero istituite le ammende e con questi mezzi di costrizione fu regolato il lavoro (giorni festivi, orario di lavoro) e soprattutto furono stabilite delle garanzie di qualita per le merci. Tuttavia molti artigiani, come si è gia detto, si trovavano evidentemente a dipendere molto strettamente dai mercanti che smerciavano i loro prodotti. Del resto la loro autonomia amministrativa condivise, con il sorgere del patrimonialismo, la sorte delle gilde mercantili di fronte alla penetrazione del sistema delle caste ed al potere della burocrazia regia. I maestri regi delle gilde apparvero molto presto; in particolare nelle citta, come sedi di principi, il re, per interessi fiscali, controllava senza dubbio l’artigianato con crescente severita. è possibile che questi interessi fiscali abbiamo contribuito al consolidamento dell’ordinamento delle caste. Naturalmente si deve presumere che numerose gilde si siano sviluppate direttamente in caste (o sottocaste) o anche che, appartenendo a tribù-paria, non se ne siano distinte sin dall’inizio.

Le caste di artigiani, perlomeno quelle superiori, cioè le caste di artisti artigiani, avevano un sistema fisso di apprendistato. Il padre, lo zio, o il fratello maggiore prendeva il posto come maestro d’arte e, alla fine dell’apprendistato, come padrone della casa, al quale andavano consegnati tutti i guadagni salariali. Esiste anche l’apprendistato presso un maestro estraneo membro della casta; questo segue delle rigide norme tradizionali e comprende l’ammissione dell’apprendista nella comunita domestica con la sua corrispondente sottomissione al maestro. In teoria l’apprendista dovrebbe acquisire le basi della sua tecnica secondo le indicazioni del Stipa éastra, un prodotto dell’erudizione sacerdotale. Per questo motivo gli scalpellini in particolare a volte erano considerati una casta di letterati ed avevano il titolo di acarya («maestro»,magister)p5.

Gli strumenti tecnici dell’artigiano indiano erano nell’insieme così semplici che almeno buona parte di essi potevano essere fabbricati dall’artigiano stesso. Cionondimeno essi godevano presso molti mestieri di una venerazione quasi feticistica e spesso ancora oggi sono onorati come oggetto di culto dalla casta in occasione della festa del Da’sahara. Accanto agli altri tratti tradizionalistici dell’ordinamento castuale indiano, l’uso di strumenti di lavoro rigidamente fissati (a cui corrispondeva nel campo delle arti figurative l’uso di modelli stereotipati e il rifiuto di ogni forma presa dalla natura) costituì uno dei maggiori ostacoli ad ogni sviluppo tecnico. Inoltre presso vari mestieri artigiani connessi con l’edilizia, e più particolarmente per tutti i mestieri aventi a che fare con oggetti del culto, anche certi elementi del procedimento tecnico (per esempio la pittura degli occhi di un’immagine sacra) avevano assunto il carattere di una cerimonia di rilevanza magica che doveva svolgersi secondo regole ben definite. Se sopravvenivano mutamenti nella tecnica spesso veniva consultato un oracolo, che dava perlopiù risposte negative; così i vasai avevano una volta l’oracolo della dea Bhagavatl.

È difficile determinare con precisione per quanto tempo la rigida segregazione di casta dei singoli mestieri artigiani regi e urbani sia esistita nelle diverse regioni. Vari mestieri possono coesistere ed essere esercitati l’uno accanto all’altroq5; di regola però ciò comporta nello stesso tempo più rigide garanzie per il mantenimento della clientela ereditaria.

Infine lo strato inferiore delle caste, considerato ritualmente del tutto impuro e infetto, comprende in primo luogo un certo numero di mestieri quasi ovunque disprezzati perché richiedono un lavoro materiale sporco, come quello degli spazzini e simili. In secondo luogo vi è un certo numero di quei mestieri considerati impuri dalla religione indù per motivi ritualistici; in questi rientrano quello dei conciatori e dei lavoratori del cuoio. Infine vi sono alcuni mestieri che sono nelle mani di lavoratori stranieri itineranti. Tuttavia sarebbe un grave errore credere che i tre strati industriali che abbiamo distinto — originariamente: artigiani urbani e reali, artigiani rurali dei villaggi, artigianiospiti — rientrino anche solo approssimativamente nelle tre categorie castuali dei sat’sùdra, ’sùdra ordinari e caste impure, se non si tiene conto di eccezioni specifiche, ritualisticamente determinate (come, per esempio, i lavoratori del cuoio). Anche al di fuori delle eccezioni a tale regola determinate in maniera diretta o indiretta da condizioni rituali, l’articolazione delle caste offre a questo fine un’immagine decisamente troppo complessa e irrazionale. Numerosi casi di rango di certe caste, a prima vista inspiegabili, si spiegano solo in termini puramente e concretamente storici. Per molti altri esistono motivi di ordine generale su cui si basa la decadenza o l’ascesa di una casta o sottocasta. Questi però sono connessi ai motivi generali per i quali nascono nuove caste o sottocaste, o quelle antiche mutano le loro caratteristiche. E con ciò, dopo questo sguardo generale sull’ordinamento effettivo delle caste, torniamo allo studio delle loro condizioni generali. 9. Tipi di caste e scissioni di caste.

I compilatori del censimento inglese distinguono a ragione due tipi fondamentali di caste:tribal castes e professional castes, ovvero caste tribali e caste professionali. Della prima categoria si è gia parlato; si può ora aggiungere che il numero delle caste che con ogni probabilita risalgono storicamente a tribù e popoli-ospiti induizzati è molto considerevole. Sono queste in primo luogo che rendono il quadro d’insieme del sistema di caste oltremodo irrazionale. è chiaro infatti che, a parita di circostanze, una tribù che all’epoca della sua induizzazione si trovava stabilita sul proprio territorio, avrebbe conservato un rango decisamente superiore a quello di una pura e semplice tribù-«paria» induizzata. Inoltre una tribù che forniva mercenari e soldati di ventura si trovava in una posizione ancor più privilegiata.

Una casta tribale può essere identificata dal suo tipo di denominazione, ma non poche tribù hanno assunto un nome professionale quando si sono induizzate. Ancora, si possono identificare le caste tribali per il fatto che adducono (spesso) il possesso di un antenato comune (nelle caste superiori figurano di solito signori ancestrali delle sottocaste); spesso poipresentano residui di un’organizzazione totemica, conservano divinita tribali e, soprattutto, mantengono i sacerdoti tribali come sacerdoti della casta; infine i membri della casta possono venire espressamente reclutati a livello locale su territori ben determinati. Questi due ultimi tratti sono tuttavia indicativi soltanto nella misura in cui si combinano con qualcuno degli altri, poiché esistono anche caste di tipo professionale puro con reclutamento abbastanza rigidamente locale e con sacerdoti propri. Inoltre l’endogamia presso le caste tribali è spesso meno rigida e di solito, quanto più si avvicinano ancora al tipo primitivo della tribù, tanto meno sono esclusive nell’ammissione di membri estranei alla casta. Le caste professionali pure sono, sotto tutti questi aspetti, le più rigidamente esclusive, perlomeno in generale, il che dimostra che l’esclusivismo rituale delle caste, pur essendo in parte determinato dall’estraneita etnica, non è assolutamente una semplice proiezione religiosa di tale fenomeno.

La casta tribale si identifica come tale con la massima chiarezza nei casi in cui, tra varie caste con la stessa professione, una o più di queste caste porta, oltre al nome professionale usuale della casta, anche un nome tribale. Non è possibile determinare la misura in cui le caste erano originariamente caste tribali. è senz’altro possibile che le caste inferiori siano derivate in larga misura da tribù-ospiti e tribù-paria. Ma comunque ciò non vale certamente per tutte. Sono relativamente pochi i mestieri artigiani di rango superiore, in particolare i mestieri liberi e liturgici della citta, e le antiche caste mercantili, che possono avere avuto questa origine. Tali caste risultano probabilmente dalla specializzazione economica, dalla differenziazione della proprieta e del lavoro. Ciò che caratterizza lo sviluppo indiano e richiede una spiegazione è il fatto che tale fenomeno abbia portato alla formazione delle «caste».

A parte l’ammissione di tribù nel sistema delle caste, questo può essere modificato solo da scissioni di caste.

Una scissione di casta, che si esprime sempre con il rifiuto (totale o parziale) del connubio e della commensalita, può essere in primo luogo una conseguenza del cambiamento di residenza di membri della casta. I membri emigrati diventano infatti sospetti di avere infranto i doveri rituali o perlomeno si sottraggono al controllo sulla correttezza del loro comportamentor5. Essendo solo il suolo indiano considerato ritualmente sacro, e ciò solo nella misura in cui il giusto sistema di caste vi è stabilito, ne consegue che agli occhi dei rigidi ortodossi ogni cambiamento di residenza, anche entro i confini dell’india, è sospetto, poiché porta in un ambiente di diverso rituale; i viaggi sono ammessi solo in caso di necessita. Di conseguenza le migrazioni interne in India sono ancora al giorno d’oggi molto più limitate di quanto ci si potrebbe aspettare data la grande trasformazione delle condizioni economiche. Più dei nove decimi della popolazione vive nel proprio distretto di nascita e di regola solo l’antica esogamia di villaggio porta al trasferimento in un altro villaggio. Il trasferimento definitivo in altra localita da parte dei membri di una casta porta regolarmente alla nascita per scissione di nuove sottocaste in quanto i membri della casta che rimangono sul suolo d’origine rifiutano di continuare a considerare i discendenti degli emigrati come membri di pieno diritto.

Poiché il sistema indù si è diffuso partendo dal Gange superiore verso est, ne deriva che in genere, a parita di condizioni, le sottocaste orientali di una determinata casta sono considerate inferiori a quelle occidentali.

Le scissioni di caste si verificano, in secondo luogo, quando una parte dei membri di una casta, in contrasto con gli altri, decide di non riconoscere più come vincolanti per sé determinate prescrizioni rituali, oppure al contrario assume su di sé dei nuovi doveri rituali. I due fenomeni possono avere diversi motivi, vale a dire: 1) l’appartenenza ad una setta, che esonera da determinate prescrizioni rituali o ne impone di nuove. Questo caso non è troppo frequente. 2) La differenziazione della proprieta, che induce i membri benestanti ad assumere i doveri rituali delle caste superiori per poter affiancarsi in un secondo tempo a quest’ultime o comunque elevarsi al di sopra del proprio rango attuale. La rottura del connubio e della commensalita con i precedenti compagni di casta è una condizione preliminare indispensabile per realizzare tale ambizione. è abbastanza frequente oggi che la mera differenza di proprieta venga presa come occasione per spezzare la comunita. 3) Il cambiamento del tipo di occupazione. Secondo la rigida concezione ortodossa, non solo il passaggio ad un’occupazione diversa da quella tradizionale ma in certi casi un mero cambiamento nella tecnica di lavoro può essere un motivo, per coloro che rimangono fedeli alla tradizione, per considerare la comunita come spezzata. Anche se in pratica non sempre si verifica tale conseguenza, tuttavia questo motivo è una delle occasioni più frequenti e di fatto più importanti, di tutte le scissioni. 4) La rottura delle tradizioni rituali da parte di alcuni membri che può portare la parte ortodossa a ricusare la comunita.

Anche oggi possono nascere nuove caste attraverso rapporti sessuali ritualmente illeciti tra le caste. è noto che secondo la teoria classica tutte le caste impure erano nate da commistioni di caste. Questa spiegazione beninteso è del tutto astorica. Tuttavia esistono anche oggi degli esempi di caste nate da commistioni di caste, ovvero dal concubinato. Infine le scissioni possono anche risultare semplicemente da contrasti interni su qualsiasi argomento per il quale non si riesca a giungere ad un accordo. Questo motivo però è considerato riprovevole e vengono volentieri addotte come giustificazione delle presunte infrazioni rituali della parte avversaria.

Tra i motivi della nascita di nuove caste e sottocaste quelli che presentano per noi il massimo interesse sono quelli economici: le differenziazioni nella proprieta, i cambiamenti di professione o i mutamenti tecnici. Si può assumere con certezza che le differenziazioni di proprieta (il cambiamento legale di professione esisteva solo sotto forma della «professione di emergenza») nel passato, sotto le dinastie nazionali, portavano molto meno spesso alle scissioni di casta che al giorno d’oggi. Questo perché il potere dei brahmani, che allora era incomparabilmente maggiore, si adoperava dappertutto al mantenimento dell’ordinamento tradizionale delle caste. Se la stabilita dell’ordinamento castuale di allora non poteva impedire il sorgere di differenziazioni patrimoniali, in cambio ostacolava molto più l’introduzione di nuove tecniche di lavoro, riprovevoli dal punto di vista della casta, nonché la mobilita professionale. Ambe

due erano ritualmente pericolose. Anche oggi il fatto stesso che nuove professioni e nuove tecniche determinino effettivamente la formazione di nuove caste e sottocaste rappresenta gia di per sé un grosso ostacolo a ogni innovazione e un puntello a favore della tradizione, per quanto spesso quest’ultima sia scavalcata dallo sviluppo oggi preponderante del capitalismo di importazione.

Tutti i dati storici indicano che il vero rigido ordinamento delle caste ha avuto sede originariamente nella sfera delle caste professionali. Lo indica in primo luogo la ripartizione geografica tra caste tribali e professionali. Senza dubbio è solo raramente possibile accertare se una casta è nata originariamente da una differenziazione a carattere etnico o da una differenziazione professionale basata sul carisma familiare, soprattutto se si tratta di caste di antica formaziones5. Risulta comunque che nei territori di tarda conquista, il Bengala orientale e il Sud, le caste la cui origine si può rintracciare in caste tribali sono presenti in misura molto più forte, per importanza e percentuale numerica, rispetto alle caste professionali, che non nella regione classica dell’india centro-settentrionale dove prevalgono invece caste la cui origine accertata o presunta risale a categorie professionali familiari carismatiche senza differenze etnichet5. Inoltre proprio le caste professionali e in particolare quelle deH’industria sono le sostenitrici del più rigido sistema di caste e della tradizione, accanto alle caste contadine pure per le quali un tale atteggiamento è normale per definizione. Ciò si esprime oggi soprattutto nell’attaccamento ancora molto forte da parte di queste caste professionali alle loro occupazioni tradizionali, in questo sono superate solo da alcune tribù-paria molto anticheu5.

Naturalmente esistono non poche caste professionali la cui sopravvivenza nel loro ramo economico tradizionale è stata resa semplicemente impossibile, del tutto o perlomeno a livello artigianale, dalla spietata concorrenza europea e ora anche dall’industria capitalistica indiana. Tuttavia quando ciò non avviene, la percentuale dei membri di caste professionali che continuano ad esercitare il loro mestiere tradizionale è spesso straordinariamente alta, tenendo conto dei mutamenti radicali avvenuti nell’economia. Negli sbocchi lavorativi specificamente moderni, in particolare nella grande industria, sono confluiti in massima parte non le antiche caste artigiane ma gli immigrati della campagna, le caste degradate, le caste di paria e i membri degradati di certe caste superiori. I moderni imprenditori capitalistici, nella misura in cui sono di origine indiana, gli impiegati commerciali e i funzionari superiori sono reclutati in larga misura, oltre che nelle antiche caste mercantili, anche nelle caste dei letterati, per ovvi motivi, date le caratteristiche del moderno lavoro d’ufficio e la preparazione che richiede. Le caste letterate, del resto, disponevano gia da prima di più ampie possibilita di scelte professionali che non le caste artigianev5.

Sul piano economico, il tradizionalismo delle caste artigiane si basa non solo sulla delimitazione reciproca delle singole branche della produzione, ma, molto spesso ancora oggi, sull’assicurazione dei mezzi di sostentamento dei singoli membri della casta contro la reciproca concorrenza. Sotto questo aspetto l’artigiano appartenente all’antica «amministrazione del villaggio», installato su un pezzetto di terra e compensato con quotefisse, godeva e gode tuttora della massima protezione. Ma il principio della protezione clientelare, della garanzia del rapporto jajmanì, va molto più lontano e viene rigidamente applicato ancora oggi presso un gran numero di caste professionali. Abbiamo gia trovato il principio della protezione del jajmanì presso i brahmani, ed il significato di questo termine («colui che offre il sacrificio») mostra che il concetto trae origine proprio dalla condizione di questa casta e si potrebbe forse tradurre con «diocesi personale». Presso i brahmani tale privilegio è protetto dall’etichetta del ceto, presso varie altre caste è garantito dall’organizzazione della casta ed è comunque — come sempre in India —ereditario (per carisma familiare). Così il camara riceve ereditariamente da determinate famiglie il bestiame che muore e fornisce loro il cuoio per le scarpe e per altre necessita mentre nello stesso tempo sua moglie serve come levatrice la stessa clientela. Le caste di mendicanti hanno determinati distretti dove possono mendicare, un po’ come i nostri spazzacamini (solo che i distretti dei mendicanti sono ereditari); il noi serve la sua clientela ereditaria come barbiere, manicure, pedicure, flebotomo e dentistaw5, il bhangì è spazzino di determinati quartieri. Risulta da alcuni rapportix5 che varie caste — per esempio i dom (servitori domestici e mendicanti) e i bhangì — hanno una clientela alienabile che spesso costituisce parte della dote. Dove sussiste tale istituzione l’impadronirsi della clientela altrui costituisce ancora oggi motivo di scomunica.

Tuttavia le antiche caste professionali non sono soltanto sostenitrici di un rigido tradizionalismo ma in generale anche fautrici del più rigoroso esclusivismo rituale di casta. Da nessuna parte l’endogamia e l’esclusione della commensalita è osservata rigorosamente come presso queste caste. Né questo atteggiamento è limitato ai rapporti delle caste superiori con quelle inferiori. Al contrario le caste impure evitano tra di loro il contatto infetto degli estranei alla loro casta in modo altrettanto rigido quanto le caste pure nei loro confronti, il chedimostra che questo esclusivismo reciproco ha in prevalenza delle motivazioni non di origine sociale, ma bensì rituale, basate sul carattere di antichi popoli-ospiti e popoli-paria di molte di queste caste. Proprio tra le antiche caste artigiane ed in parte tra le caste impure si trovano delle comunita particolarmente ortodosse secondo la dottrina indù.

Il fortissimo tradizionalismo di casta di numerose caste artigiane e tra queste addirittura di molte caste inferiori è determinato (a prescindere dall’importante motivazione religiosa di cui si parlera più avanti) dalla loro organizzazione, spesso particolarmente rigida, di casta o — di regola — di sottocasta. è questa infatti che normalmente fornisce gli organi che assicurano la disciplina di casta di cui dovremo ora parlare.

L’organizzazione della casta corrisponde a quella dell’antica comunita del villaggio con il suo capo ereditario ed il suo consiglio di capifamiglia o capi di schiattay5. Il carattere ereditario della carica di capo del villaggio non era tale in senso assoluto ma solo in senso familiare carismatico. Un capo del villaggio cui mancavano i requisiti necessari poteva in certi casi venire deposto ma la scelta del successore rimaneva di solito nell’ambito stesso della famiglia. Il principio del carisma familiare permeava, come si è gia visto, tutte le organizzazioni esistenti in India, dalla comunita politica — dove il rigoroso diritto di primogenitura diventò solo più tardi una legge sacra — fino alla gilda, il cui capo ed anziani (sresthi) di regola erano, e sono rimasti, investiti ereditariamente del carisma familiare. Lo stesso per la casta, perlomeno per il capo, il sor panca, e avolte, ma non sempre, anche per i membri del pancayata. Il fatto che in origine, nel villaggio indiano, tutte le funzioni economiche e amministrative al servizio della «comunita» fossero sempre di competenza di lavoratori insediati in via ereditaria che venivano pagati in natura, può aver contribuito al mantenimento e alla diffusione di questo stato di cose, di cui le iscrizioni testimoniano l’esistenza anche altrove, per esempio presso gli artigiani del Medio Oriente nel periodo ellenistico. Un altro fattore può essere stato quello delle nomine da parte del re di persone responsabili delle singole industrie con i loro servizi all’epoca dei grandi regni patrimoniali indù. L’elemento decisivo, tuttavia, era sempre l’antico principio onniprevalente del carisma familiare e il sostegno datogli dai brahmani.

Proprio nelle organizzazioni religiose, più ancora che in quelle politiche, non si trova originariamente in nessun modo l’idea dell’«elezione» del capo nel nostro senso odierno. Cio che ci sembra una «elezione» era sempre il riconoscimento doveroso o l’acclamazione di un portatore del carisma personale o familiare. L’antica posizione degli «anziani» nella costituzione presbiteriana riformata era ancora carismatica. Al contrario la costituzione dei nostri «ordinamenti sinodali» deriva gia dal moderno concetto di rappresentativita. Cosὶ pure in India le sabha (assemblee di casta di tutti i membri o perlomeno di tutti i capifamiglia), oggi sempre più frequenti, ci appaiono di origine modernaz5.

Di regola il distretto sotto la giurisdizione del pancayata ècostituito da un territorio delimitato localmente. In seno alle caste esistono delle associazioni di interessi o dei cartelli interlocali per il disbrigo di determinati affari. Esistono pure le gilde, sia come facenti parte di una casta, sia come associazioni di caste, ma anche come sopravvivenza di gilde comprendenti estranei alla casta. Esistono, ma solo in via eccezionale, delle organizzazioni centrali di intere caste che costituiscono un’autoritasuperiore al pancayata. Ciò avviene perlopiù nei territori che per lungo tempo hanno costituito un regno politico unitario. Al contrario le scissioni locali di caste sono più frequenti laddove per molto tempo è mancata l’unita politica. 10. La disciplina delle caste.

Quali sono dunque le effettive competenze del pancayata (o dell’organo ad esso corrispondente)? Sono molto varie. Al giorno d’oggi le questioni professionali non costituiscono in nessun modo il problema centrale: la casta (o sottocasta) attualmente non ha una funzione preminente di «corporazione» o di «sindacato». Gli argomenti principali sono costituiti da questioni rituali. In ordine numerico vengono in primo luogo l’adulterio e tutte le altre infrazioni dell’etichetta rituale che regola i rapporti sessuali, poi la punizione e l’espiazione di altre offese al rituale da parte dei membri della casta, tra cui in primo luogo le infrazioni alle regole del connubio e della commensalita o alle leggi sulla purezza rituale e sulla dieta. Questo compito ha sicuramente avuto sempre un ruolo importante poiché la tolleranza di contravventori magici da parte della casta avrebbe potuto attirare l’incantesimo malefico su tutta la comunita.

Tuttavia presso un certo numero di antiche caste medie e inferiori particolarmente attaccate alla tradizione, anche le questioni professionali hanno un ruolo molto importante. In primo luogo, com’è ovvio, tali questioni riguardano tutti i casi di passaggio di un membro della casta ad un’occupazione sospetta o ritualmente degradante, che si tratti di un nuovo mestiere o di una nuova tecnica; secondo i casi, le conseguenze sul piano pratico possono andare molto lontano. Ma vi sono anche problemi non connessi al rituale. In primo luogo l’infrazione dei diritti jajmanì da parte di un membro della casta, o la loro usurpazione da parte di outcastes o di caste estranee. Ma ci può anche essere l’infrazione di altri diritti della casta da parte di qualcuno che stia al di fuori della casta. Il fatto che proprio le caste più antiche e più tradizionalistiche intervengono con particolare energia in questa sfera d’interessi economici lascia supporre che questo aspetto dell’ordinamento delle caste abbiaavuto in epoca precedente un significato probabilmente molto più generale. E che proprio le caste artigiane, e tra queste molte caste inferiori, abbiano assunto questa funzione corporativa o, secondo i casi, sindacale, si spiega con lo stato degli interessi tipici dell’artigianato e degli operai specializzati, e d’altro canto spiega a sua volta, almeno in parte, la frequente e spiccata lealta di casta delle caste inferiori. Debiti non pagati, divisioni di patrimoni e processi su argomenti futili tra membri non sono più al giorno d’oggi fenomeni troppo frequenti. Occasionalmente però capita che la casta tenti di impedire ai propri membri di testimoniare l’uno contro l’altro. Tuttavia la maggior parte delle questioni sono di natura rituale e tra queste vi sono talvolta dei problemi alquanto importanti. Ciò sembra accadere oggi con frequenza sempre maggiore; il potere dei pancayata e delle sabha in campo rituale è in ascesa e ciò costituisce in realta un aspetto caratteristico del lento e progressivo movimento di emancipazione dal potere dei brahmani, che si esprime in queste questioni apparentemente arcaiche delle caste. Questa preoccupazione costituisce l’equivalente indù della lotta per l’«autonomia della congregazione» nella Chiesa occidentale.

I mezzi coercitivi delle autorita castuali sono il boicottaggio nei confronti degli estranei, le multe e la condanna ad espiazioni rituali nei confronti dei propri membri e, in caso di rifiuto o in caso di gravi violazioni delle norme della casta, la scomunica (bahiskara). Quest’ultima sanzione, oggi, non significa espulsione dall’induismo ma solo dalla singola casta. Naturalmente le sue conseguenze possono andare molto lontano, per esempio con il boicottaggio di chiunque continui a richiedere i servizi di un membro scomunicato della casta. Oggi la maggior parte dei pancayata (e gli altri organi corrispondenti) deliberano in maniera autonoma e senza consultare i sastri e i pandit il cui parere è considerato facoltativo. A dire il vero alcune caste, tra cui anche quelle inferiori, riconoscono ancora oggi la giurisdizione di una delle sacre sedi (i monasteri di Sankeswar o di Srlnagarì). Secondo le concezioni dell’antico induismo l’istituzione autonoma di nuove norme giuridiche da parte di una casta era del tutto esclusa. La legge sacra, ovunque, può essere solo «rivelata» o nuovamente «riconosciuta», sottintendendo che essa esiste da sempre. Ma la mancanza, al giorno d’oggi, diun’autorita politica indù, e il conseguente indebolimento della posizione dei brahmani ha fatto sì che in certe occasioni una produzione giuridica autonoma si esplicasse di fatto sotto la forma corretta del riconoscimento della legge. Come nel caso dell’usurpazione del rango di casta, anche qui la soppressione della struttura politica dello stato patrimoniale-ecclesiastico degli antichi regni fa sentire nettamente i suoi effetti nel senso di una lenta disintegrazione della tradizione delle caste.

Per quanto riguarda le caste tribali, quanto meno la loro induizzazione è completa, tanto più spesso si trovano residui dell’antica organizzazione tribale che sostituiscono gli elementi tipici dell’organizzazione castuale vera e propria. I dettagli di questi fatti qui non ci interessano.

Le caste superiori, infine, in particolare i brahmani ed i rajpiit, sono spesso sprovviste di ogni sorta di organizzazione stabile unitaria; ciò vale anche per le loro sottocaste ed è una situazione che esiste da sempre, per quanto ne sappiamo. In casi particolarmente urgenti —? ad esempio una grave offesa rituale da parte di un membro — i capi dei math (monasteri) si riuniscono come vuole l’antica consuetudine per deliberare sul singolo caso; recentemente sono anche state introdotte assemblee per le rispettive suddivisioni delle caste. è naturale che i brahmani, con i loro sastrì e pandit, le loro scuole ed i loro monasteri di chiara fama come centri di studi religiosi, le loro sacre sedi riconosciute sin dall’antichita, siano generalmente in grado di conservare la loro autorita. Ma l’antica rivalita tra scuole vediche, scuole filosofiche, sette e ordini ascetici e l’ostilita delle antiche, nobili stirpi di brahmani nei confronti da un lato di coloro che sono saliti gradualmente al rango di brahmani usurpandone i diritti, dall’altro di quegli strati e sottocaste degradati al rango di brahmani con diritti inferiori, tutti questi fatti generano profonde tensioni e limitano, all’interno, quel forte sentimento di solidarieta che all’esterno si manifesta come coscienza del proprio ceto.

Presso i rajpiit la forte influenza dei sacerdoti domestici brahmanici(purohita) serve al mantenimento della correttezza rituale sostituendo così gli organi di casta che mancano. Comunque una parte delle sottocaste possiede anche degli organi molto forti; come molto forte è anche, nell’insieme, il loro senti

mento di ceto. La molteplicita delle attivita professionali di ambedue le caste, che tuttavia nell’insieme si mantengono abbastanza rigorosamente entro i limiti della correttezza rituale, è molto antica, come dimostra la lista dei mestieri di emergenza citati da Manu.

Le caste pure di scrivani sono un prodotto del patrimonialismo dei regni indiani, la cui influenza storica si estende tramite loro sin nel presente. Contrariamente all’antica aristocrazia sociale e feudale queste caste hanno alte pretese di rango ma un senso di ceto molto meno marcato. Ciò viene confermato dalla loro attuale composizione professionale ed è facilmente comprensibile. Nelle caste mercantili esistono i residui delle antiche gilde; per il resto la loro organizzazione, oggi, è molto meno rigida, stando all’apparenza, di quanto non lo fosse sotto i principi indigeni i quali spesso si servivano delle caste economicamente produttive, in particolare di quelle urbane (ma anche dei popoli-paria), per l’esecuzione di doveri liturgici in cambio dei corrispondenti diritti monopolistici. il.Caste e tradizionalismo.

Possiamo così concludere questo schema generale sul sistema di caste — che malgrado la sua ampiezza rimane inevitabilmente molto incompleto — ed indagare ora sugli effetti di questo sistema in campo economico. Essendo questi essenzialmente negativi, e rilevabili più per deduzione che per induzione, possiamo formulare soltanto poche proposizioni generali sull’argomento. Un solo punto interessa qui, e cioè che questo ordinamento, per la sua stessa natura, non può agire che in senso tradizionalistico ed anti-razionale. Bisogna stare attenti tuttavia a non cercare la spiegazione nel luogo sbagliato.

Karl Marx ha individuato nella posizione peculiare dell’artigiano del villaggio indiano — che lavora per un compenso fisso in natura invece che per la vendita sul mercato — il motivo della speciale «stabilita dei popoli asiatici». E in questo ha ragione. Ma accanto all’antico artigianato del villaggio c’era il mercante e l’artigiano urbano, e quest’ultimo lavorava per il mercato o dipendeva economicamente dalle gilde mercantili come in Occidente. è vero che l’india è sempre stata prevalente

mente un paese di villaggi. Ma anche in Occidente gli inizi delle citta furono modesti, soprattutto nell’interno, e la posizione del mercato indiano era stata regolata dai principi in maniera sotto molti aspetti «mercantilistica», in senso analogo a quella degli stati territoriali agli inizi dell’evo moderno.

Inoltre, per quanto concerne la struttura sociale, va comunque presa in considerazione non solo la posizione dell’artigiano del villaggio ma anche l’ordinamento di caste nel suo insieme come puntello di questa stabilita. Qui l’effetto non va concepito in maniera troppo diretta. Si potrebbe pensare, ad esempio, che gli antagonismi ritualistici delle caste abbiano reso impossibile il sorgere della «grande impresa» con la divisione del lavoro in uno stesso stabilimento, e che questo sia stato il fattore decisivo. Ma non è così. La legge delle caste si è mostrata altrettanto flessibile di fronte alle necessita della concentrazione del lavoro nelle fabbriche quanto lo è stata di fronte al bisogno di concentrare il lavoro ed il servizio nelle caste di famiglie nobili. Come abbiamo visto, tutti i servitori domestici necessari alle caste superiori erano ritualmente puri. Il principio: «La mano dell’artigiano che compie il suo mestiere è sempre pura»a6 rappresenta un’analoga concessione alla necessita di potersi servire di personale salariato e a giornata, che non appartiene alla casa, per lavori di installazione, di riparazione, o per servizi personali. Nello stesso modo anche il laboratoriob6 (ergasterion) era considerato puro. Di conseguenza l’impiego congiunto di diverse caste nella stessa sala di lavoro non avrebbe incontrato ostacoli rituali, proprio come il divieto dell’interesse, come tale, nel Medioevo, non ostacolò lo sviluppo del capitale industriale, il quale non comparve sotto forma di investimento contro un interesse fìsso.

Il nocciolo del problema non stava in queste difficolta particolari che ognuno dei grandi sistemi religiosi ha messo a modo suo, o è parso mettere sulla via dell’economia moderna. Il veroostacolo era nello «spirito» di tutto il sistema. Nei tempi moderni, se non è sempre stato facile, è pur stato possibile, in definitiva, impiegare lavoratori di caste indiane nelle fabbriche moderne. E gia prima si era potuto utilizzare anche il lavoro dell’artigiano indiano in maniera capitalistica, nelle forme usua li anche in altre regioni coloniali, quando fu possibile importare dall’Europa il moderno capitalismo come una macchina finita e messa a punto. Tuttavia, malgrado ciò, dovrebbe apparire come il colmo dell’inverosimile che sulla base del sistema di caste potesse mai nascere originariamente la moderna forma organizzativa del capitalismo industriale. Una legge rituale in base alla quale ogni cambiamento di professione e ogni cambiamento nella tecnica lavorativa poteva portare alla degradazione rituale non era certo adatta a promuovere delle rivoluzioni economiche e tecniche nella sua sfera né a rendere possibile anche solo il primo germogliare di tali mutamenti. Il tradizionalismo dell’artigiano, gia di per sé molto forte, veniva esasperato da questo sistema, e tutti i tentativi del capitale commerciale di organizzare il lavoro industriale sulla base della vendita all’ingrosso dovevano incontrare una resistenza molto più forte che non in Occidente.

I mercanti stessi, nella loro segregazione rituale, rimanevano nelle pastoie della tipica classe mercantile orientale che non ha mai creato da sé una moderna organizzazione capitalistica del lavoro. è come se popoli ospiti, in tutto diversi, ritualmente esclusivisti tra di loro e verso i terzi, come gli Ebrei, si occupassero dei propri affari professionali l’uno accanto all’altro, in una stessa area economica. Alcune delle grandi caste mercantili indù, in particolare i baniya, sono state chiamate gli «Ebrei dell’india» e — prendendo l’espressione in questo senso negativo — a ragione. Erano infatti parzialmente costituite da virtuosi del guadagno senza scrupoli. In particolare, molte caste che in passato erano considerate socialmente degradate o impure e quindi particolarmente esenti dal peso di esigenze «etiche» (nel nostro senso), si mostrano oggi capaci di accumulare ricchezze a ritmo alquanto accelerato. In questo concorrono con alcune caste che prima monopolizzavano i posti di scrivani, funzionari, appaltatori d’imposte e analoghe opportunita di guadagno politicamente condizionato, caratteristiche dello stato patrimoniale. Ancheuna parte degli imprenditori capitalistici proviene dalle caste mercantili. Ma — come si è gia osservato — in questo campo potevano tenere il passo con le caste di letterati solo nella misura in cui acquisivano la «formazione culturale» oggi necessaria per tale occupazionec6. L’addestramento commerciale presso di loro è, per una parte, così intensivo — stando ai rapporti disponibili ? che il loro specifico «talento» per il commercio non sembra davvero riposare su di una mera «inclinazione naturale»d6. Nulla indica tuttavia che queste caste avrebbero potuto creare da sé l’impresa razionale del moderno capitalismo. è certo che questo non sarebbe mai nato dai circoli dell’industria indiana più tradizionalista. D’altra parte però l’artigiano indù è notoriamente molto laborioso; in particolare è considerato molto più laborioso dell’artigiano indiano di fede islamica, e nell’insieme l’organizzazione castuale indù ha spesso sviluppato in seno alle antiche caste professionali un livello molto intenso di lavoro e di accumulazione della proprieta. Il primo livello si riscontra di più nelle caste artigiane e in alcun antiche caste agricole; tra queste poi vi sono caste come i kunbì (per esempio nell’india meridionale) che all’intensita del lavoro affiancano una non meno intensa accumulazione della proprieta, che oggi si esplica in modo considerevole anche in forme moderne.

Sotto l’amministrazione inglese che gli diede diretto e potente impulso, il moderno capitalismo industriale, in particolare la fabbrica, fece il suo ingresso in India. Ma — facendo un confronto — in misura quanto limitata, e con quante difficolta! Dopo vari secoli di dominazione britannica attualmente ci sono in India circa 980.000 operai di fabbrica, ovvero circa lo 0,33% della popolazione. Inoltre il reclutamento della manodopera si presenta difficile anche nelle industrie che pagano i più alti salarie6; solo il recentissimo Atto per la protezione dell’operaio ha reso il lavoro di fabbrica un po’ più popolare. Il lavoro femminile è scarso e praticato solo dalle caste più disprezzate, benché vi siano delle industrie, come quelle tessili, in cui la donna può rendere il doppio dell’uomo. Il lavoro di fabbrica indiano presenta proprio quegli stessi tratti tradizionalistici che si trovavano anche in Europa agli albori dell’era capitalistica.

Gli operai aspirano a guadagnare rapidamente un po’ di soldi per rendersi indipendenti. Un aumento salariale non agisce su di loro come incentivo per un maggiore lavoro o per un più alto tenore di vita, ma ha proprio effetto opposto: gli operai in questo caso si prendono delle vacanze più lunghe perché possono permettersele, o le loro mogli si adornano di gioielli. L’astensione dal lavoro a piacimento è una cosa che va da sé; inoltre appena può l’operaio se ne ritorna col gruzzoletto di risparmi al suo villaggio natalef6. è un puro e semplice operaio «occasionale». La «disciplina» in senso europeo è un concetto a lui ignoto. Di conseguenza, benché i salari siano quattro volte inferiori a quelli europei, la concorrenza con l’Europa si mantiene a buon livello solo nell’industria tessile; infatti l’industria indiana richiede due volte e mezzo più operai e molta più sorveglianza. Uno dei vantaggi dell’imprenditore in India è che la diversita di casta degli operai ha reso sinora impossibile qualsiasi organizzazione sindacale e qualsiasi vero «sciopero». è vero — come abbiamo visto — che il lavoro in fabbrica è «puro» ritualmente e viene eseguito in comune (sono solo necessarie delle coppe distinte per bere alle fonti, perlomeno una per gli indù ed una per gli islamiti, e nei dormitori solo le persone di una stessa casta dormono insieme); tuttavia una fraternizzazione è stata (finora) altrettanto difficile che una conjuratio dei cittadinig6.

Purtroppo esistono solo in scarsa misura — almeno per quanto riguarda l’accessibilita allo studioso straniero — dati particolareggiati sulla partecipazione delle singole caste alle moderne imprese capitalisticheh6.

Circa il reddito delle caste principali (da fonti che non siano uffici pubblici, pensioni o titoli secondo la Parte IV dell’Income Tax Act) esiste una serie di dati elaborati da Gait, sulla base dei rapporti dei sovrintendenti al censimento, nel Rapporto Generale sul censimento del 1911i6. Riportiamo qui di seguito quelli che ci interessano.

Nel Bengala risultano circa 23.000 contribuenti sui ruoli delle imposte sul reddito da attivita economica produttiva. I musulmani, che sono 24 milioni, ossia il 51,7% della popolazione, hanno solo 3.177 contribuenti tassabili per questo tipo di reddito, ovvero circa un po’ più di un ottavo del totale. La sola casta dei kayastha (scrivani) ne conta per sé quasi altrettanti, in parte imprenditori e in parte professionisti. Subito dopo vengono i brahmani, tra cui il 50% dei contribuenti trae il proprio reddito da attivita imprenditoriali. Molto vicino ai brahmani stanno i saha, una piccola sottocasta dei sunri (conta 119.0 membri) che ha il monopolio del commercio degli alcoolici. Rappresentano la maggior percentuale dei contribuenti. Accanto a loro solo la casta dei mercanti e pressatori d’olio dei teli conta più di 1.000 contribuenti; tutte le altre caste ne contano meno. Il rapporto sul censimento trova sorprendente che le antiche caste mercantili dei gandhabanik e dei subarnabanik, che stando al loro nome, dovevano essere in origine caste di mercanti rispettivamente in spezie e in metalli preziosi, siano presenti solo con 500 contribuenti ciascuna; tuttavia rispetto al totale (ognuna delle caste conta tra i 100.000 ed i 120.0 membri) tale cifra è ancora superiore in proporzione al numero dei contribuenti della casta dei teli (che conta un milione e mezzo di membri). Il fatto che una casta mercantile come quella dei saha, considerata sùdra (i brahmani non sempre accettano acqua da loro) abbia meno esitazioni ad inserirsi nelle moderne opportunita di guadagno di quante ne abbiano la casta dei teli (che nel Bengala ha lo stesso rango del gruppo Nabasakha) e le due caste dei gandhabanik e dei subarnabanik che rivendicano, probabilmente a ragione, il rango di vai’sya avuto in passato, è di per sé perfettamente comprensibile; nello stesso tempo sta anche a testimoniare lo spirito tradizionalistico dell’autentico vecchio induismo. Il maggior grado di adattabilita ai metodi razionali di profitto da parte delle caste indù che abbiano qualche inclinazione in questo senso, rispetto ai musulmani del Bengala, appare chiaramente. Questa relativa inferiorita dell’IsIam si ripete anche in tutte le altre province. La casta islamica degli sceicchi conta dei grossi contribuenti (in particolare nel Punjab) soprattutto tra i grandi proprietari terrierij6; lo stesso vale per i rajpùt, i babhan (una casta aristocratica di proprietari terrieri e mercanti di cereali all’ingrosso); e spesso anche per i brahmani ed i Xfiatrì che sono vicino ai rajpùt. Nel Bihar, tra i contribuenti tassabili per redditi capitalistici vi sono in primo luogo gli agarval(una sottocasta dei kewat, antichissima casta mercantile). Vengono poi i kalvan e i sunri (antiche caste di distillatori di succo di palma) e i teli (pressatori d’olio) che quantitativamente sono sullo stesso piano delle caste aristocratiche dei brahmani e dei babhan (queste sette caste nell’insieme detengono la meta dei redditi imponibili derivanti da trade). Nella valle superiore del Gange (United Provinces), l’antico territorio classico dell’induismo, nel Punjab e nel sud, è l’antica casta mercantile dei baniya che detiene in genere il primato dei redditi di gran lunga superiori a tutti gli altri, redditi che derivano dal commercio. Nelle regioni nord-occidentali, invece, i khatrì — un’antica casta aristocratica di mercanti e scrivani, di fama internazionale, che occupa anche una posizione considerevole, accanto ai brahmani, nel possesso di rendite fondiarie — sorpassano di gran lunga tutti quanti sul piano dei redditi di origine industriale. Tuttavia i kayastha (nella valle superiore del Gange) hanno una percentuale di redditi derivanti da professions estremamente alta in proporzione al loro numero.

La partecipazione del patrimonio indigeno — a volte considerevole — sotto forma di «capitale» nelle imprese moderne è rimasta a lungo molto limitata; nell’industria della juta era quasi totalmente assente. Delle «brutte esperienze» non solo con gli imprenditori ed i consociati, ma anche con i capotecnici hanno poi fatto sì che ancora oggi per esempio nell’industriadella juta, un’industria indiana nel vero senso della parola, in pratica solo il sorvegliante sia di origine indiana, mentre altrimenti non lo è quasi nessuno che abbia funzioni tecniche e commerciali (queste sono perlopiù in mano a scozzesi: v.DELDEN, Die lndische fute-Industrie, 1915, p. 86). L’industria della juta con una media di 3.420 operai per ogni stabilimento (v.DELDEN,op. cit., p. 179) è l’industria indiana con il più alto grado di sviluppo in termini di «grande industria».

Il diverso grado di intensita dell’impulso al guadagno tra indù e musulmani si manifesta in modo inequivocabile sia nella posizione privilegiata dei commercianti, meno vincolati, dal punto di vista indù, da princìpi etici (vedi i commercianti di alcoolici), e in quella dei letterati, sia nella maggiore tendenza del capitale indù all’investimento intensivo nelle attivita commerciali rispetto al capitale islamico; a questa diversita corrisponde la maggiore laboriosita, spesso notata, dell’artigiano indiano — più tradizionalista — rispetto a quello musulmano. Ambedue i fenomeni sono in parte determinati dal significato particolare che l’adempimento dei doveri di casta riveste per l’induismo. Dobbiamo ora occuparci di questo importante aspetto. 12. Il significato di salvezza religiosa del sistema delle caste.

Abbiamo visto come in seno all’induismo vige un’insolita tolleranza per quanto riguarda la dottrina(mata), mentre la massima importanza viene accordata ai doveri rituali(dharma). Tuttavia anche l’induismo ha certi «dogmi», se per questo si intendono quelle verita di fede la cui negazione totale è considerata «eretica» e pone una comunita, se non un individuo, che la professi apertamente, al di fuori della comunita indù. Di questi ci occuperemo adesso.

L’induismo riconosce in primo luogo un certo numero di sistemi dottrinali ufficiali. Li esamineremo in breve più avanti, quando discuteremo le religioni di redenzione degli strati intellettuali. Qui ci interessa solo il fatto che esistono anche delle dottrine filosofiche specificamente eterodosse. Due vengono citate con maggiore frequenza: la filosofia dei materialisti e quella dei Bauddha (buddhisti). Cosa c’è di specificamente eterodossonella dottrina di questi ultimi? Il rifiuto dell’autorita dei brahmani esiste anche presso le caste indù. L’ammissione di tutte le caste alla redenzione esiste anche presso gli indù. Il reclutamento di monaci presso tutte le caste avrebbe potuto fare di loro una casta-setta ritualmente impura. Più grave è il rifiuto dei Veda e del rituale indù come privi di valore per la salvezza. Ma i buddhisti li hanno sostituiti con un loro dharma, in parte più rigido di quello dei brahmani. Inoltre i buddhisti non vengono accusati solo di trascurare i doveri rituali di casta, ma anche di predicare una dottrina eretica come se questo fosse il vero motivo per cui non vengono riconosciuti come indù. In che cosa consiste questa dottrina, e cos’ha in comune con l’eresia dei «materialisti» in opposizione alla dottrina delle scuole ortodosse? I buddhisti, come i materialisti, negavano l’esistenza dell’«anima»k6 perlomeno come un’unita dell’io. Per i buddhisti tale negazione aveva un significato quasi puramente teorico, e questo proprio sotto l’aspetto più importante che ora chiariremo. Tuttavia sembra che proprio in ciò stesse il punto decisivo di discordia (sul piano teorico). Perché tutte le filosofie indù e tutto ciò che si può designare come «religione» dell’indù, al di la del puro ritualismo, dipende dalla credenza nell’anima.

Nessun indù nega i due princìpi fondamentali della religiosita indù: la credenza nel samsara (metempsicosi) e la dottrina ad esso collegata del karma (retribuzione). Questi, e solo questi, sono gli autentici «dogmi» dottrinali di tutto l’induismo, e lo sono proprio per il modo in cui si collegano l’un l’altro alla teodicea indù — unica nel suo genere — dell’ordine sociale esistente, cioè il sistema delle caste.

La credenza nella metempsicosi(samsara), che nasce direttamente da certe concezioni universalmente diffuse circa il destino dello spirito dopo la morte, si è sviluppata anche altrove, per esempio nell’antichita ellenica. In India la nascita di tale concezione può essere stata facilitata dalla fauna e dalla coesistenza di razze di colore diverso. è molto probabile che l’esercito di scimmie apparso nell’india meridionale secondo il Ramati.yana fosse in realta un esercito di Dravida negri. E anche se non era così, ciò mostra comunque che scimmie e uomini erano considerati simili e che quest’idea valeva soprattutto per l’india meridionale, sede delle popolazioni negre che agli occhi degli Arii sembravano scimmie.

In origine, in India, le anime dei trapassati non erano considerate «immortali» più di quanto non lo fossero altrove. I sacrifìci mortuari dovevano portarle al riposo e placare la loro invidia e la loro collera contro i fortunati vivi. Tuttavia la dimora dei «padri» nell’insieme rimaneva problematica. Secondo i Brahmano, rischiavano di morire di fame se restavano senza sacrifìci; i sacrifìci erano quindi considerati un puro atto benemerito. Occasionalmente si augurava «lunga vita» anche agli dèi e si trova sempre più spesso l’idea che l’esistenza nell’aldila non fosse eterna né per gli uomini né per gli dèil6. Quando la speculazione filosofica dei brahmani incominciò quindi ad occuparsi della loro sorte, si sviluppò a poco a poco la dottrina di una «seconda morte» che avrebbe introdotto lo spirito o il dio morente in un’altra esistenza. Era facile poi concepire questa nuova esistenza sulla terra e quindi collegarla alle concezioni di «animali con anima» che devono essere esistite in India come altrove. Con ciò erano dati gli elementi fondamentali della dottrina.

Anche il collegamento della dottrina della metempsicosi con quella della retribuzione delle buone e cattive azioni mediante la rinascita in una posizione più o meno onorevole o ignominiosa non si trova esclusivamente in India ma anche, per esempio, presso gli Elleni. Due princìpi, tuttavia, costituiscono il tratto specifico del razionalismo dei brahmani e sono questi a determinare quel significato altamente penetrante della dottrina così formulata: i. l’idea, portata fino alle estreme conseguenze, che ogni singola azione eticamente rilevante abbia un effetto ineluttabile sul destino dell’attore, sicché nessuna di queste conseguenze può andare perduta: è la dottrina del karmak 2. il collegamento della dottrina del karma con ildestino sociale del singolo individuo in seno all’organizzazione sociale: il suo collegamento, quindi, al sistema delle caste. Tutti i meriti e le colpe (rituali ed etiche) dell’individuo costituiscono una specie di conto corrente il cui saldo finale determina immancabilmente la sorte ulteriore dell’anima al momento della rinascita, in maniera esattamente proporzionale al saldo attivo o passivo del bilanciom6.

Una ricompensa od una punizione «eterne» sono considerate impossibili: sarebbero assolutamente sproporzionate ad un’azione finita. Si può restare in paradiso come all’inferno solo per un periodo di tempo finito. Ambedue, del resto, hanno solo un ruolo secondario. Il paradiso in origine era solo un paradiso di brahmani e di guerrieri. D’altra parte l’inferno poteva essere evitato anche dal più nero peccatore con mezzi puramente rituali e dei più comodi quali la pronuncia di determinate formule nell’ora della morte, anche da parte di altri (perfino pronunciate inconsciamente e da un nemico). Al contrario non esisteva praticamente nessun mezzo rituale e in genere nessuna azione (mondana) con cui l’uomo potesse sottrarsi alla rinascita ed alla seconda morte. La concezione universalmente diffusa secondo cui la malattia, le infermita, la poverta, in breve tutte le cose che nella vita vengono temute, siano le conseguenze di mancanze magicamente rilevanti, consce ed inconsce, di cui l’individuo è responsabile, viene qui elevata all’idea generale secondo cui l’intero destino della vita dell’individuo viene costruito da lui stesso. E, poiché le apparenze contraddicevano sin troppo chiaramente l’asserzione che la retribuzione etica si realizzasse nella vita di ciascuno in questo mondo, si rendeva necessaria l’elaborazione di una nuova concezione che si collegava facilmente alla metempsicosi e che all’inizio venne sviluppata evidentemente dai brahmani come dottrina esoterica: e cioè che i meriti e le colpe della vita precedente determinano quella futura. Che l’uomo, nella serie di nuove vite e nuove morti che si ripete all’infinito, determini, lui solo, con le sue azioni, il proprio destino, era l’estrema conseguenza della dottrina del karma.

Le fonti, in particolare le iscrizioni dei monumenti, mostrano in realta che non sempre ci si atteneva a tale conseguenza. Gli antichi tradizionali sacrifici mortuari, infatti, la contraddicevano nella misura in cui si tendeva con questi a influenzare il destino dei morti. Come nel cristianesimo, troviamo offerte di preghiere, sacrifici, donazioni e monumenti destinate ad accrescere i meriti e quindi migliorare il destino futuro degli antenati. Tuttavia questi ed altri residui di una diversa concezione non cambiano il fatto principale, e cioè che l’individuo si preoccupava soprattutto e in modo incessante del miglioramento del proprio destino di rinascita. Le iscrizioni mostrano proprio questo. Si offrono sacrifici e si fanno donazioni per rinascere in futuro in una situazione altrettanto favorevole o migliore, per esempio con la stessa moglie o gli stessi figli; le principesse sperano di ricomparire in futuro sulla terra in una posizione altrettanto rispettabile. E proprio in ciò sta la connessione decisiva con il sistema di casta.

La posizione di casta dell’individuo, infatti, non ha nulla di casuale. La concezione critica della societa, l’idea del «caso della nascita», comune alla credenza nel destino del confucianesimo tradizionalista e ai riformisti sociali occidentali, manca quasi completamente in India. L’individuo nasce nella casta che si è meritata con il suo comportamento nella vita precedente. Di fatto quindi si può dire del singolo indù che egli ha «scelto» in modo più o meno saggio se non i propri genitori, come vuole la battuta tedesca, perlomeno la casta alla quale appartengono. Un indù ortodosso, di fronte alla miserabile situazione del membro di una casta impura pensera soltanto che questo ha un numero particolarmente grande di peccati da espiare per la sua vita precedenten6. L’altra faccia della medaglia sta nel fatto che il membro di una casta impura pensa innanzitutto alle sue possibilita di migliorare la sua futura posizione sociale al momento della rinascita conducendo una vita esemplare conforme al rituale di casta. In questa vita non c’è viad’uscita dalla casta o perlomeno non esiste possibilita d’ascesa verso l’alto. Infatti l’ineluttabile svolgersi della causalita del karma corrisponde all’eternita del mondo, della vita e soprattutto del sistema delle caste.

Nessuna autentica dottrina indù prevede una «fine del mondo». Vi sono senza dubbio, secondo delle dottrine diffuse, delle epoche in cui il mondo ripiomba nel caos, come nel GɃtterd’ammerung41 germanico, ma solo per ricominciare tosto il suo ciclo. Gli dèi non sono «immortali» più di quanto non lo siano gli uomini. Secondo alcune dottrine è addirittura possibile che un uomo particolarmente virtuoso rinasca dio, per esempio come Indra, che sarebbe in realta solo un nome per designare delle personalita mutevoli e fungibili. Il fatto che il singolo indù devoto non abbia costantemente presente nel loro insieme i solenni presupposti della dottrina del karma che trasforma il mondo in un cosmo rigorosamente razionale ed eticamente determinato — e costituisce la più coerente teodicea che la storia abbia mai prodotto — è senza importanza agli effetti pratici che ci interessano. L’indù devoto rimane confinato in una gabbia che ha senso solo in questo contesto ideale e le conseguenze di ciò pesano sul suo agire. Il Manifesto comunista termina con queste parole: «Essi (i proletari) non hanno da perdere che le loro catene; hanno un mondo da guadagnare»; lo stesso vale per l’indù devoto delle caste inferiori. Anch’egli può guadagnare «il mondo»; perfino il mondo celeste, può diventare uno ksatriya, un brahmano, un membro del paradiso e perfino un dio, solo non in questa sua vita attuale, ma nella sua esistenza futura dopo la rinascita, nello stesso ordinamento di questo mondo.

L’ordine e il rango delle caste sono eterni (secondo la dottrina) come il corso delle stelle e la differenza tra le specie animali e la razza umana. Sarebbe insensato tentare di sovvertire quest’ordine. La rinascita può abbassare l’individuo alla vita di un «verme nell’intestino di un cane», ma, secondo la sua condotta, può anche innalzarlo fino al grembo di una regina e figlia di un brahmano. Condizione assolutamente indispensabile a ciò è la rigorosa osservanza in questa vita dei doveri della sua casta attuale, e l’astensione dal tentativo, ritualmente sacrilego, di uscire dalla propria casta. Il precetto «rimani costante nella tua vocazione», escatologicamente motivato nel cristianesimo dei primi tempi e la «fedelta alla vocazione» in genere, sono qui ancorati alla promessa di rinascita dell’induismo con maggiore solidita che in qualsiasi altra etica sociale «organica». Infatti nell’induismo tale precetto non si collega agli insegnamenti etico-sociali sulla moralita della costanza nella vocazione e della paziente modestia, come nelle forme patriarcali del cristianesimo, ma agli interessi di salvezza del tutto personali dell’individuo. Oltre ad alimentare il massimo terrore per le conseguenze magiche delle innovazionio6, promette anche la massima ricompensa che l’indù possa conoscere alla fedelta di casta. L’artigiano che lavora seguendo fedelmente quanto prescrive la tradizione, che non chiede mai un salario eccessivo, che non inganna mai nella qualita, rinascera, secondo la dottrina di salvazione dell’induismo, come re, nobile, ecc., a seconda del rango della sua casta attuale. Vale in merito il principio spesso citato della dottrina classica: «è meglio adempiere ai doveri della propria casta pur senza eccellere che adempiere a quelli di un’altra casta sia pure in maniera eccellente: perché in ciò sta il pericolo». Il trascurare i doveri della propria casta per seguire più alte ambizioni porta sempre immancabilmente degli svantaggi in questa vita o in quella futura.

La concezione indù della virtù professionale era fautrice delle idee le più tradizionalistiche immaginabili in materia di dovere professionale. Le caste estranee l’una all’altra potevano coesistere, con odio profondo, poiché l’idea che ciascuno avesse «meritato» il proprio destino non rendeva certo più riconfortante il miglior destino altrui per quelli socialmente svantaggiati. Idee di sovvertimento e aspirazioni al «progresso» erano inconcepibili in questo campo fintanto che la dottrina del karma non veniva scossa. Proprio presso le caste inferiori, che avevanoil massimo da guadagnare dall’ortodossia rituale di casta, i tentativi di innovazione erano i più limitati e la loro fedelta alla tradizione, ancora oggi spesso particolarmente forte, si spiega con le grandi promesse che proprio per queste caste venivano messe in pericolo da ogni deviazione. Sulla base di questo ritualismo di casta ancorato alla dottrina del karma infrangere la tradizione razionalizzando l’economia era impossibile. Chi voleva uscire da questo mondo eterno delle caste, dove gli dèi stessi costituivano una casta — superiore, è vero, ai brahmani, ma inferiore, come vedremo, ai maghi dotati di forze magiche conseguite con l’ascesi — e sfuggire all’ineluttabile ciclo di nuove nascite e nuove morti, doveva lasciare del tutto il mondo stesso per addentrarsi in quel «mondo dell’aldila» a cui portava la «redenzione» indù. Sullo sviluppo di questa credenza indiana nella redenzione si tornera più avanti in modo dettagliato. Qui ci interessa prima un altro problema. 13. Condizioni storiche dello sviluppo delle caste in India.

Una volta chiarito che il tratto specifico dell’induismo è il nesso tra la teodicea del karma, che si trova anche altrove, e l’ordinamento sociale delle caste, la domanda che si pone è la seguente: perché questo sistema di caste, che sotto questa forma altrove non esiste o è appena abbozzato, è sorto proprio in India? Quanto segue in proposito può essere aggiunto come appendice alle osservazioni precedenti, con la riserva che, data la diversita di opinioni che regna anche tra i migliori indoioghi, su molti punti sono qui possibili solo delle supposizioni.

È chiaro che la mera stratificazione professionale di per sé non era sufficiente a dar vita ad un sistema così rigido di segregazione. La sua presunta origine nell’organizzazione di corporazioni liturgiche non è né dimostrabile né probabile. Inoltre il grande numero di caste che in origine erano caste etniche mostra quanto meno che l’articolazione professionale non basta da sola a spiegare tale stato di cose, per quanto forte possa essere stata la sua influenza. L’importanza di fattori etnici accanto a quelli economici e di ceto è indiscutibile.

Si è tentato, in maniera più o meno radicale, di equiparare in modo puro e semplice l’articolazione castuale con la struttura razziale. Il termine più antico per «ceto» èvarna, che significa «colore». La tradizione distingue spesso le caste in base al caratteristico colore della pelle: i brahmani sono bianchi, gli ksatriya rossi, i vaisya gialli, gli siidra neri. Le ricerche antropometriche, in particolare quelle di Risley42 hanno rilevato una serie di gradazioni degli indici antropometrici che varia secondo il tipo di casta. Senza dubbio la correlazione esiste. Semplicemente non bisogna immaginarsi che il sistema di caste sia un prodotto della «psicologia delle razze», da spiegare con segrete tendenze presenti nel «sangue», proprie dell ’«anima indiana». Né si deve pensare che la casta sia l’espressione del conflitto tra diversi tipi razziali, o il prodotto di una «repulsione razziale»p6 presente «nel sangue» o di una differenza di «doti» e di capacita, presenti «nel sangue», per le professioni delle singole caste. La razza, o meglio, il fatto della collisione in India di popoli di diversa razza e — elemento decisivo sul piano sociologico — vistosamente diversi nelle loro caratteristiche razziali esteriori ha avuto un’importanza considerevole per lo sviluppo del sistema di casteq6. Ma questo fattore va collocato al posto giusto nel contesto delle relazioni causali.

L’antico periodo vedico conosce solo l’opposizione tra arya e dasyu. Il nome arya rimane come termine per indicare l’«aristocratico», il gentleman. Il dasyu era il nemico dalla pelle scura che ostacolava l’invasione del conquistatore; la sua civilta era perlomeno sullo stesso piano, con residenze castellane e un’organizzazione politica. Come tutti i popoli dalla Cina all’Irlanda anche la stirpe aria visse allora la sua epopea di cavalieri che combattevano su carri e vivevano nei castelli. Questo strato cavalleresco era chiamato tecnicamente maghavan,«elargitore di doni». A chiamarli così sono i poeti cantori e i maghi, che dipendono dai loro doni, lodano il donatore, deridono l’avaro e si studiano di danneggiarlo con mezzi magici. Cantori e maghi avevano gia allora, presso gli Arii, un ruolo importante, che col tempo è andato visibilmente crescendo. «Noi e i maghavan», «i nostri maghavan», così si esprimono i maghi parlando dei cavalieri ai quali si sono associati. Gia allora, con la loro magìa, essi davano un contributo importante ai successi militari. Nel periodo dei Brahmana e dell’epica l’importanza della magìa salì a vette inaudite.

In origine il passaggio tra stirpi di guerrieri e di sacerdoti (Rsi) era libero. Nell’epica, tuttavia, il re Visvamitra deve praticare l’ascesi per millenni prima che gli dèi, che temono il suo potere magico, gli donino la qualita di brahmano. La preghiera del brahmano ottiene la vittoria per il re. Il brahmano torreggia al di sopra del re. Non solo è ritualmente un «superuomo», ma il suo potere eguaglia quello degli dèi e un re senza brahmano è detto semplicemente «senza guida», poiché la guida del purohita è cosa che va da sé. La realta spesso contraddiceva fortemente tali pretese. Nelle regioni che la societa cavalleresca dell’alto Medioevo — l’epoca pre-buddhistica — aveva conquistato, e che corrispondono circa all’odierno Bihar, la societa cavalleresca (ksatriya) non pensava assolutamente a riconoscere i brahmani come suoi pari socialmente. Furono i grandi regni patrimoniali indù ad appoggiarsi per primi ai brahmani in vista dei propri interessi di legittimazione. Poi la conquista islamica distrusse il potere politico-militare degli ksatriya, favorendo così il dominio dei brahmani, pure odiati da loro stessi, e le cui pretese, riferite dalla letteratura classica e dai libri della legge, rimangono oggi tali e quali.

Vi è poi tutta una serie di motivi per i quali questo dominio sacerdotale si è incanalato nei binari del sistema castuale. Gli antagonismi etnici si giustificano con differenze nel comportamento esteriore e nel modo di vita. Ma la differenza più vistosa nell’aspetto esteriore è sempre il diverso colore di pelle. Anche se il conquistatore, per supplire alla mancanza di donne, le prendeva tra i popoli assoggettati, la differenza nel colore di pelle ha impedito il verificarsi di una fusione tra conquistatori e conquistati, come è avvenuto tra Normanni e Anglo-Sassoni. In tutto il mondo le famiglie aristocratiche si fanno un punto d’onore dell’accettare solo pretendenti di pari rango per le loro figlie mentre ai figli viene lasciata la scelta dei mezzi per soddisfare i loro bisogni sessuali. In ciò, e non in qualche mitico «istinto di razza» o in qualche ignota differenza delle «qualità della razza», sta il punto che determina l’influenza delle differenze di colore: il connubio con i sudditi disprezzati non ha mai ottenuto riconoscimento sociale. Il mezzosangue, perlomeno quello che nasce dall’unione sessuale delle figlie di strati superiori con i figli dei ceti inferiori, resta socialmente oggetto di disprezzo.

Queste barriere, forti di per se stesse, consolidate dal timore magico, dovevano accrescere e mantenere l’importanza immensa del diritto di nascita, del carisma familiare, in tutti i campi. Abbiamo visto come praticamente tutte le posizioni che, sotto il dominio della credenza magica negli spiriti, venivano collegate al possesso del carisma magico, in India tendevano immediatamente a diventare «familiari carismatiche» o più semplicemente «ereditarie». Ciò vale in primo luogo per le posizioni di potere, spirituale e mondano, ma si estende anche all’arte dell’artigiano. Questo fenomeno non è limitato all’india ma in nessun altro luogo si è manifestato con eguale forza. In ciò sta il nocciolo della formazione delle caste per queste posizioni e professioni.

In combinazione con un certo numero di circostanze esteriori, fu questo il fenomeno che portò alla formazione delle caste vere e proprie. Tali circostanze esterne derivano dall’occupazione delle terre conquistate da parte di schiatte e fratrie investite del carisma familiare. Queste si stabilirono nei villaggi, ridussero le popolazioni conquistate a pagatori d’imposte o a lavoratorial servizio del villaggio, contadini o artigiani, ricacciandoli ai margini del villaggio, sul Wurth, e anche relegandoli in speciali villaggi di iloti e di artigiani. Ben presto però lavoratori provenienti da tribù-paria artigiane si stabilirono fuori dai villaggi. I conquistatori mantenevano il «diritto sulla terra» in modo simile agli Spartani: il diritto cioè di assegnare lotti di terra(ftferos) in cambio di un tributo.

Questa analogia esteriore tra la posizione dell’artigiano indiano e delle tribù assoggettate e la posizione degli iloti nello stato spartano va sempre tenuta presente (per quanto grandi possano essere le differenze sotto altri aspetti) per capire il processo di formazione delle caste. Le schiatte dei conquistatori installati nei villaggi e le popolazioni assoggettate costituivano due collettività contrapposte. La schiavitù individuale perse importanza di fronte ad un fenomeno più importante: il suddito(sùdra) era certo un servo ma, in linea di principio, non il servo di un individuo, bensì il servo di tutta la comunità dei «nati due volte».

I conquistatori trovarono presso i popoli conquistati un certo sviluppo industriale, presumibilmente abbastanza considerevole. Tuttavia questo sviluppo industriale e la vendita dei prodotti in un primo momento lungi dal realizzarsi in un’articolazione professionale locale accentrata sul mercato e sulla città, sfociarono al contrario nella transizione dall’economia domestica autarchica alla vendita basata sulla specializazzione professionale interlocale e interetnica. Lo stesso fenomeno nella sua forma primitiva si incontra spesso, per esempio nelle descrizioni di Steinen43 sul Brasile e in quelle di altri studiosi. Le singole tribù, frazioni di tribù, o villaggi, che nell’«industria tribale» producono per l’esportazione — o perché sono in ciò favoriti dalla vicinanza di materie prime o corsi d’acqua e altri mezzi di comunicazione o per certe capacità artigianali casualmente acquisite e quindi trasmesse ereditariamente come arte segreta — incominciano a smerciare su territori sempre più vasti il crescente surplus della loro industria domestica. I loro artigiani specializzati si mettono in viaggio come operai itineranti esi stabiliscono come lavoratori ospiti, prima temporaneamente, infine permanentemente, presso le comunità straniere.

Questa divisione interetnica del lavoro si trova nei continenti e nei territori più svariati; naturalmente dei residui considerevoli sono presenti anche nell’Occidente antico e medioevale. Se in India tale sistema è rimasto predominante lo si deve allo scarso sviluppo delle città e dei loro mercati. I castelli dei principi ed i villaggi dei contadini rimasero per secoli i luoghi di smercio. Tuttavia nei villaggi dei conquistatori la coesione della comunità delle schiatte aristocratiche si mantenne anche quando i conquistatori si furono completamente «irrustichiti»; la causa di ciò sta senz’altro nel conflitto delle razze che dava un supporto decisivo al carisma familiare. E quando comparve il fiscalismo patrimoniale, rafforzò questo sviluppo. Per il fisco era comodo da un lato avere a che fare con un singolo contribuente responsabile per l’imposta, dall’altro considerare responsabili in solido tutti i membri del villaggio godenti del pieno diritto sul possesso del suolo. Così il fisco entrò prima in contatto con gli antichi signori del villaggio e lasciò loro la cura di distribuire le terre coltivate e disporne a loro piacimento, accontentandosi della garanzia del pagamento della somma globale d’imposta attraverso la responsabilità in solido di tutti i membri di pieno diritto del villaggio. Parimenti si può presumere — anche se non è dimostrabile — che anche le tribù assoggettate, specializzate in un mestiere artigianale, dovevano pagare un’imposta collettiva concordata; ciò infatti avrebbe stabilizzato la struttura tradizionale dei mestieri.

Le città erano sempre delle fortezze principesche. In esse e nei dintorni erano installati, come abbiamo visto, i servi della gleba, legati al loro mestiere in via liturgica e quindi perlopiù ereditaria, oppure le associazioni di lavoratori ospiti responsabili in solido per l’imposta, o i membri di tribù artigiane, tutti sottoposti alla sorveglianza di un funzionario del principe. Gli interessi fiscali in materia di licenze e di imposte di consumo portarono, come si è visto, ad una specie di politica del mercato urbano simile a quella occidentale. E lo sviluppo dell’industria urbana, in particolare del lavoro in proprio nella città, fece sorgere le gilde e le corporazioni e in ultimo anche le leghe di gilde. Ma si trattava sempre di uno strato molto sottilenel mare dei mezzadri di villaggio, degli artigiani ospiti, dei mercanti tribali. La specializzazione industriale, nell’insieme, restava legata allo sviluppo dei popoli ospiti. Nelle città, però, in quell’ampio strato sociale costituito dall’industria, le differenze razziali ed etniche che separavano gli artigiani ospiti ostacolavano lo sviluppo di associazioni alla maniera del «popolo» occidentale. E, soprattutto, da nessuna parte si realizzò una fratellanza dei cittadini come tali, che potesse portare alla formazione di quell’organizzazione militare altamente sviluppata che si trova nell’antica polis e nella città medioevale occidentale, perlomeno nell’Europa meridionale. Invece, al posto dei cavalieri, subentrarono immediatamente i signori ed i principi. Le città con i loro abitanti rimasero di regola specificamente non militariste e pacifiste, in senso religioso, in conseguenza del carattere apolitico delle religioni di redenzione dell’india.

Con la sconfitta del potere sociale delle gilde da parte dei principi le basi di uno sviluppo urbano di stampo occidentale vennero distrutte. I brahmani ed i principi patrimoniali, giunti al potere, si allearono sfruttando le organizzazioni rurali, conformemente al carattere continentale dell’india, come fonti di contingenti militari e di imposte. Nelle campagne però, lo sviluppo della divisione del lavoro tra popoli ospiti ed il compenso in natura dei vecchi artigiani del villaggio, rimasero le direttrici prevalenti. Le città avevano portato solo un incremento del numero dei mestieri e l’insediamento di ricche gilde di mercanti e artigiani in proprio. Seguendo il modello del principio jajamà- riì proprio dei brahmani e degli artigiani del villaggio, anche le gilde presero la via della ripartizione per quote delle opportunità di lavoro e dell’appropriazione ereditaria della clientela. Ancora una volta il principio del carisma familiare, universalmente accettato, favorì questo sviluppo. Le concessioni di monopoli al commercio interlocale da parte del principe portavano nella stessa direzione poiché anche queste riguardavano spesso dei popoli-ospiti di mercanti. L’esogamia delle schiatte e dei villaggi, l’endogamia delle tribù ospiti e il persistere della loro mutua segregazione, sanzionata dal rito e dal culto, e mai intaccata da fratellanze di culto da parte delle cittadinanze autonome governanti il paese, tutto ciò diede ai brahmani la possibilità dicristallizzare in senso religioso i rapporti sociali esistenti regolandoli in termini ritualistici.

Gli stessi brahmani avevano interesse a ciò; si trattava di consolidare il loro potere, derivato dall’antica monopolizzazione delle qualità magiche, dei mezzi coercitivi magici e dell’istruzione e formazione necessarie a ciò. Il potere dei principi forniva loro i mezzi per opprimere le religioni di redenzione eterodosse, come pure i sacerdoti tribali e professionali, conservati o anche creati ex-novo dalle gilde e corporazioni aristocratiche in ascesa, che non erano brahmani ma rivendicavano tale rango; nello stesso tempo fu possibile ai brahmani soffocare l’autonomia di queste associazioni considerate usurpatricir6.

Lo sviluppo di uno strato di maghi in ceto carismatico non è un fenomeno proprio solo dell’india. Anche nell’antichità ellenica (Mileto) troviamo occasionalmente delle iscrizioni che indicano una corporazione di danzatori sacri come ceto dominante. Ma il generale e reciproco straniamento culturale e rituale degli artigiani ospiti e delle loro tribù non aveva riscontro nella sfera della fratellanza della polis.

I mercanti e gli artigiani puramente professionali e quindi liberamente reclutati rimasero in India un fenomeno secondario, indotti perciò a conformarsi, sul piano rituale, agli usi prevalenti presso la grande maggioranza. Tale conformismo veniva incoraggiato dal fatto che proprio il carattere ritualisticamente chiuso delle associazioni professionali garantiva loro in modo assoluto il legittimo monopolio delle «occasioni di lavoro».

Come dappertutto in Occidente, anche qui la burocrazia patrimoniale all’inizio non ostacolò la chiusura delle corporazioni e delle gilde ma anzi la promosse, e nel primo stadio della sua politica insediò semplicemente varie associazioni interlocali al posto dei monopoli puramente locali dell’economia cittadina. Ma il secondo stadio della politica dei principi occidentali — ossia l’alleanza con il capitale onde accrescere il potere verso l’esterno — era del tutto escluso in India per via del suo carattere continentale e per il peso preponderante dell’imposta fondiaria che poteva essere rialzata a piacere.

All’epoca del potere delle gilde i principi si erano trovati in stretta dipendenza di queste, sul piano finanziario.

Ma questo ceto urbano non militarizzato non era in grado di opporre resistenza al potere del principe una volta che costui, stanco di tale indegna dipendenza, passò a coprire i costi dell’amministrazione con imposte liturgiche al posto dei proventi capitalistici. Con l’aiuto dei brahmani il potere patrimoniale dei principi riuscì ad avere il sopravvento sulla borghesia delle gilde, allora ai suoi inizi e temporaneamente anche potente. La teoria brahmanica si prestò in modo ineguagliabile alla domesticazione religiosa dei sudditi. D’altra parte anche il dominio straniero degli invasori si risolse in definitiva a favore dei brahmani, permettendo loro di monopolizzare il potere. I loro concorrenti più importanti, cioè la cavalleria ed i residui delle gilde nelle città, considerati politicamente pericolosi, furono spogliati dai conquistatori di ogni potere autonomo. Nello stesso tempo il potere dei brahmani crebbe: i conquistatori, dopo un periodo di fanatismo iconoclasta e di energica propaganda islamica, accettarono la continuazione della cultura indù, e avvenne come sempre sotto il dominio straniero, quando il potere teocratico costituisce da un lato il rifugio dei popoli assoggettati, dall’altro il mezzo di domesticazione al servizio dei signori stranieri.

Con la crescente stabilizzazione delle condizioni economiche, le tribù ospiti e paria, ritualmente segregate, vennero sempre più ad essere integrate nel sistema castuale in continua espansione, sicché quest’ultimo diventò quel sistema dominante che troviamo per mille anni, dal n secolo d. C. fino agli inizi del dominio islamico, in continua espansione, irresistibile anchese rallentato dalla propaganda dell’IsIam. Come sistema chiuso il sistema castuale è un prodotto logico del pensiero brahmanico e non avrebbe mai potuto diventare egemone senza la grande influenza esercitata dai brahmani come sacerdoti domestici, responsabili, confessori e consiglieri in tutte le situazioni della vita, e come funzionari del principe, sempre più ricercati, in quest’ultima veste, con gli inizi del governo burocratico, per via della loro abilità di scrivani.

Ma le basi del sistema castuale vennero fornite dalle antiche condizioni dell’india: la specializzazione interetnica del lavoro e il nascere di numerosi popoli-ospiti e popoli-paria, l’organizzazione dell’artigianato del villaggio sulle basi del lavoro ereditario con compenso in natura, il commercio interno nelle mani di tribù-ospiti, lo scarso sviluppo urbano e la via della segregazione ereditaria di status e del protezionismo della clientela ereditaria imboccata dalla specializzazione professionale. Accanto a questi fattori, gli inizi di vincoli liturgici e fiscali imposti dai principi ai mestieri ebbero solo un ruolo secondario, mentre fu molto forte l’influenza dei loro interessi di legittimazione e di domesticazione dei sudditi che li indusse ad allearsi con i brahmani per conservare e consolidare l’ordinamento sociale già esistente e sacro.

Ognuno di questi singoli fattori di sviluppo del sistema castuale ha operato, isolatamente, anche nel resto del mondo. Da nessuna parte però questi fattori si sono trovati a concorrere tutti insieme in una situazione particolare come quella dell’india: la situazione di un territorio di conquista con indelebili conflitti razziali che risaltano in modo stridente nei rapporti anche superficiali per via del colore della pelle. Oltre alla reiezione sociale questo elemento provocò anche il rifiuto magicamente motivato di una fusione comunitaria con gli stranieri in misura molto più forte che ovunque altrove e contribuì a conservare il carisma delle schiatte aristocratiche e a rendere insormontabili le barriere tra le tribù assoggettate di origine etnica straniera, ossia i popoli-ospiti e le tribù-paria da un lato e lo strato signorile dall’altro; e questo anche dopo l’integrazione definitiva dei primi nella comunità economica locale. Fenomeni tipici dell’Occidente come l’ammissione individuale all’apprendistato, al baratto sulla piazza del mercato, al diritto di cittadinanza, onon si svilupparono affatto o scomparvero di nuovo soffocati dal peso dei vincoli dapprima etnici, poi castuali.

Ancora una volta però va ripetuto che senza l’influenza penetrante e sempre prevalente dei brahmani questo sistema sociale chiuso che non trova il suo eguale in tutto il mondo non avrebbe potuto nascere o comunque diventare il sistema dominante. Un sistema del genere doveva essere pronto come struttura concettuale molto prima di aver compiuto la conquista anche solo della maggior parte dell’india settentrionale. La connessione — a suo modo geniale — della legittimità delle caste con la dottrina del karma e quindi con la specifica teodicea brahmanica è comunque solo un prodotto del pensiero etico razionale e non un prodotto di «condizioni» economiche di qualunque sorta. E solo il connubio di questo prodotto del pensiero con l’ordinamento sociale reale tramite la promessa della rinascita dava a questo ordinamento il suo potere irresistibile sul pensiero e sulle speranze degli individui in esso inseriti e forniva lo schema fisso dell’ordinamento gerarchico religioso e sociale dei singoli gruppi professionali e popoli-ospiti. Dove mancava questa connessione tra teodicea e ordine sociale — come nell’IsIam indiano — il sistema di casta poteva venire mutuato dall’esterno; ma rimaneva un caput mortuum, utilizzabile per consolidare le differenze di status, per rappresentare gli interessi economici attraverso il pancàyata (anche questo assimilato dall’esterno), e soprattutto per adattare gli individui all’influsso coercitivo dell’ambiente sociale, ma senza lo «spirito» che anima questo sistema sull’autentico terreno religioso dove nasce. AH’infuori di questo non avrebbe potuto né sorgere né spiegare con la stessa intensità quegli effetti sulla «virtù professionale» che sono propri delle caste professionali indù. I «Census Reports»s6 mostrano chiaramente che alle caste islamiche mancano alcune delle particolarità più importanti del sistema castuale indù: soprattutto manca la contaminazione rituale che dovrebbe essere provocata dal prendere cibo insieme ad un estraneo alla casta, e questo per quanto il rifiuto della commensalità possa essere abbastanza rigorosamente osservato; ma questo in definitiva non è molto diverso dall’esclusione di ogni rapporto sociale tra ceti diversi che vige da noi. La contaminazione rituale invece non può sussistere nell’IsIam, poiché l’eguaglianza religiosa dei credenti, seguaci del profeta, davanti ad Allah, la esclude. Anche l’endogamia esiste ma con intensità molto minore. Le cosiddette «caste» islamiche sono in realtà dei «gruppi di status», non delle caste in senso proprio. E manca soprattutto lo specifico collegamento della «virtù professionale» alla casta, come manca pure l’autorità di una casta di brahmani.

Il prestigio dei brahmani, che sta alla base dello sviluppo del sistema castuale, è in parte di natura magica, ma in parte anche condizionato dalla loro qualità di strato colto, dotato di una speciale distinzione. Dobbiamo ancora esaminare questo tipo di cultura e le condizioni che ne hanno determinato la nascita. Questo anche per un altro motivo.

Il sistema castuale e la dottrina del karma collocano l’individuo in una sfera di doveri nettamente delimitata e gli offrono un’immagine del mondo armoniosa e soddisfacente sul piano metafisico. Ma per quanto sicuro e univoco, questo ordine etico razionale del mondo può apparire spaventoso all’individuo che comincia ad interrogarsi circa il «senso» della propria vita presa in questo meccanismo di compensazioni. Il mondo con il suo ordine sociale e cosmico è eterno e la vita individuale è solo una di una serie di vite della stessa anima, ripetentesi all’infinito e quindi, in ultima analisi, qualcosa di infinitamente insignificante. La concezione indiana della vita e del mondo ricorre spesso all’immagine di una «ruota» di rinascite che gira eternamente su se stessa, immagine che del resto, come ha osservato Oldenberg44, si trova occasionalmente anche nella filosofia ellenica. Non è un caso che l’india non abbia sviluppato nessuna storiografia degna di essere menzionata. L’interesse per le forme di relazioni politiche e sociali esistenti di volta in volta, che sta alla base di tale disciplina, era decisamente troppo debole per l’uomo che medita sulla vita e ne contempla lo svolgimento. La credenza in una «snervatezza» dovuta al clima come motivo della presunta inattività indiana è del tuttoinfondato. Nessun paese al mondo ha conosciuto come l’india le feroci guerre permanenti e il libero corso della più sfrenata sete di conquista.

Il fatto è che per ogni persona riflessiva e dedita alla meditazione una tale vita destinata a ripetersi eternamente doveva facilmente apparire come del tutto priva di senso e insopportabile. Ed è importante chiarire che ciò che veniva temuto non era tanto la vita sempre nuova su questa terra che è bella malgrado tutto, ma l’ineluttabile morte che sempre si rinnova. L’anima viene sempre irretita di nuovo negli interessi della vita, attaccata con tutte le fibre del suo cuore alle cose e soprattutto agli uomini amati, e sempre di nuovo viene strappata a tutto e tutti in maniera insensata per essere irretita con la rinascita da nuovi rapporti sconosciuti con lo stesso destino davanti a sé. Questa «nuova morte» era quello che si temeva in realtà, e lo si intuisce anche, con una forte carica di pathos, tra le righe di molte iscrizioni e nelle prediche di Buddha e altri redentori. La domanda comune a tutte le religioni di redenzione dell’induismo è questa: come si può sfuggire alla «ruota» delle rinascite e quindi, soprattutto, alla morte sempre rinnovata ? Dov’è la liberazione da una morte che si ripete eternamente, e quindi la liberazione dalla vita ? Dobbiamo ora esaminare quali modelli di comportamento esistenziale sono scaturiti da questa problematica, e con quali conseguenze sull’agire degli individui.

a. Bibliografia. Sono fondamencali per la conoscenza dell’India e in particolare anche del sistema delle caste le statistiche e soprattutto gli eccellenti studi sociologici contenuti nelle pubblicazioni dei censimenti decennali dell’India (Census of India, Reports: questi consistono sempre di uno speciale rapporto generale e di una relazione completa di tabelle per ogni presidency, oltre ai volumi di dati puramente statistici. Vengono pubblicati a Calcutta). In particolare il censimento del 1901 ha portato alia luce per la prima volta dei dati esaurienti per tutta l’lndia, dati che il censimento del 1911 ha completato su mold punti importanti. Le relazioni generali e provinciali di Risley—l’autore di Castes and Tribes of Bengal (Calcutta, 1891-92)—Blunt, Gait e altri appartengono a quanto di meglio la letteratura sociologica generale abbia da offrire. Un’opera di consultazione, esemplare nei suo genere, e YImperial Gazetteer of India, ordinato alfabeticamente, che comprende quattro volumi introduttivi sistematici, intitolati The Indian Empire (New Ed. Oxford, Clarendon Press, 1908-1909), che tratta delle condizioni naturali, storiche, economiche, sociali e culturali dell’India. I relatori del censimento discutono anche le numerose teorie moderne sull’origine delle caste, quali tra le altre quella di Senart (Les Castes dans VInde, Paris, 1908), Bougle (Essai sur le regime des castes, Trav. de l’«Annee Sociologique», Paris, 1908) e lo studio piu vecchio di N esfield (Brief View of the Caste System of the North Western Provinces and Oudh, Allahabad, 1885). La migliore opera moderna e YEthnography di Baynes, in Buhler, Grundriss der Indo-arischen Philologie (Strassburg, 1912), ricca di riferimenti bibliografici. Questa opera, come pure quelle ben note e voluminose degli eminenti indologhi tedeschi, A. Weber, Zimmer, H. Oldenberg, sulla storia della civilta indiana, sono naturalmente utilizzate in continuazione in questo studio ma vengono citate separatamente soltanto quando si presenta qualche motivo particolare. Tra i migliori studi sulla storia sociale indiana figura R. F ick, Soziale Gliederung im norddstlichen Indien zu Buddhas Zeit (Kiel, 1897). Lo completano i saggi, da citare nei passi appropriate di Washburne, Hopkins (in particolare India Old and New, New York, 1911), Caroline Rhys Davids e altri. Nella letteratura storica sono da consultare in particolare V incent A. Smith, Early History of India from 600 b.C. to the Mohammedan Conquest (Oxford, 1904), G rant D uff, History of the Mahrattas (London, 1912) e opere come i Rulers of India Series (Oxford). Delle buone note introduttive si trovano in The Indian Empire. Altri riferimenti bibliografici vengono citati in luogo appropriato. Per la piu recente storia militare, il lavoro piu adatto e quello di P. H orn, Heerund Kriegswesen der Grossmoguls (Leiden, 1894). Per quanto riguarda la storia economica, le opere consultate sono citate nelle sezioni corrispondenti di questo studio. Le ricchissime fonti costituite dalle iscrizioni dei monumenti contengono una massa di dati utili per settori storiografici particolari ma finora sono state impiegate solo in minima parte opere di carattere generale. La maggior parte delle iscrizioni finora tradotte sono state pubblicate progressivamente, in originale e con la traduzione, corredate da note filologiche e contenutistiche, in parte sulla rivista di archeologia «Indian Antiquary» (finora 45 volumi in 40) e in parte sulla rivista, esclusivamente epigrafica, «Epigraphia Indica». In ambedue le riviste si trovano delle eccellenti monografie di Hultzsch, Fleet e soprattutto Biihler. Purtroppo in quell’epoca non ho potuto consultare le opere di H ultzsch, South Indian Inscriptions e Corpus Inscript. Indie.

Per quanto riguarda le abbondantissime fonti letterarie, esistono traduzioni tedesche e inglesi delle parti piu importanti dei Veda. Inoltre sono da consultare per fini sociologici gli eccellenti Vedischen Studien di P ischel e G eldner; per lo sviluppo del brahmanesimo: Bloomfield, The Atharva Veda (in B uhler, Grundriss der Indo-arischen Philologie, Strassburg, 1899); Per l’sviluppo religioso: H. Oldenberg, Die Religion derVeda. Della letteratura epica sono tradotte parti del Mahdbharata (cfr.D ahlmann, S. J., Das Mahabharata als Epos und Rechtsbuch, Berlin,95) e del Ramayana. La letteratura Sutra finora tradotta si trova inSacred Books of the East. Le opere summenzionate di Fick, Mrs. RhysDavids, W. Hopkins sulla societa indu della primitiva epoca buddhistasi basano in gran parte sulle importantissime leggende buddhiste di queitempi, i ]ataka (tradotti in inglese). Ulteriori fonti sono i codici di Apa-stamba, Manu, Vasistha, Brhaspati, Baudhayana (in «Sacred Books of the E a s t»). Per il diritto indiano sono da consultare soprattutto il volume di Jolly in: B uhler, Grundriss der Indo-arischen Philologie, e quello di West e B uhler, Digest of Hindu Law (Bombay, 1867-69). Le fonti greche sono state raccolte e pubblicate (in traduzione inglese) da McCrindle. La relazione di viaggio cinese di Fa Hien e stata tradotta da Legge. Cio che e stato tradotto e utilizzato della grande massa di letteratura religiosa propria del periodo dei Brahmana e dei Purana sara citato nella Parte II. Sull’induismo come sistema religioso al giorno d’oggi esistono esposizioni esaurienti, e utili a fini introduttivi, soprattutto nelle pubblicazioni dei censimenti, citate alPinizio, mentre delle esposizioni storiche si trovano nelle diverse raccolte sulla scienza comparata delle religioni e in The Indian Empire. Cfr. inoltre Barth, Les Religions de Vlnde, Paris, 1879 e M onier W illiams, Religious Thought and Life in India, Parte I, 1891. Altre opere e monografie consultate verranno citate nella Parte II. L a maggior parte degli articoli monografici si trovano in «Journal of the Royal Asiatic Society (J.R.A.S.)», in «Journal Asiatique (J.A.)» e in «Zeitschrift der deutschen Morgenlandischen Gesellschaft (Z.D.M.G.)». Non ho purtroppo avuto accesso ai Gazetteers delle singole presidencies e mi e stato solo in parte accessibile il «Journal of the Asiatic Society of Bengal». Sulla letteratura indiana in generale cfr. W internitz, Geschichte der indischen Literatur, Leipzig, 1908.

b. Il sistema numerico «posizionale» esiste da un periodo indeterminato dell’antichità. L’esistenza dello zero è provata dal v-vi secolo dopo Cristo. Si pensa che l’algebra abbiano avuto uno sviluppo autonomo in India. Per le grandezze negative si usava il termine «debiti» (ksaya).

c. Nel nostro contesto non vi è motivo per occuparci di questa setta, molto importante sul piano politico, originariamente pacifista e più tardi costituitasi in ordine militare, che deriva da un miscuglio di islamismo e induismo.

d. Come quasi tutte le osservazioni sull’induismo, anche questa e solo parzialmente esatta. A prescindere dagli occasionali rilassamenti, che si verificano in epoca moderna, dell’antica esclusivita tra caste superiori di pari rango, quali vengono riferiti dai rapporti del censimento, sussiste anche il fatto che il reclutamento in varie caste inferiori comprende non solo ex membri scomunicati di altre caste ma avviene a volte in maniera del tutto indiscriminata. Cosὶ la casta impura dei bhangt della provincia di Bombay si recluta in parte tra gli outcastes di caste superiori. E i bhangi delle «United Provinces» testimoniavano dell’esistenza di un reclutamento anche mediante ammissioni individuali (per questo motivo sono stati spesso identificati, come da B lunt nei Census Report del 1911, con i candala, la piu bassa casta impura dei vecchi codici). Esistono anche alcune altre caste che in linea di principio accettano l’assunzione di singoli individui. Tra le caste che si reclutano (e anche in misura notevole) nei crescente numero di outcastes, figura in particolare quella dei vaisnava, una casta-setta in cui confluisce ancora al giorno d’oggi una buona parte di tutti coloro che si ribellano al dominio dei brahmani. Inoltre varie «tribu» non ancora perfettamente induizzate (cioe non ancora trasformate in «caste») e le «caste tribali» (di cui si parlera piu tardi) ancora prese nei residui della loro origine tribale sono spesso tolleranti nell’ammettere anche singoli individui. Le piu aperte sono le tribu paria di bassissimo rango dei fabbricanti di stuoie e cesti. Ma in generale quanto piu una casta e induizzata, secondo lo schema classico, tanto piu e esclusiva e non c’e dubbio che per le autentiche vecchie caste indu il reclutamento individuale mediante «ammissione» era ed e tuttora sconosciuto. K etkar {Hinduism, London, 1911) va quindi troppo lontano quando interpreta questa situazione asserendo che nell’induismo l’ammissione o meno di stranieri viene «lasciata alia discrezione» delle singole caste e che nessuna casta puo formulare precetti per un’altra in materia. Quest’ultima asserzione e formalmente esatta. Ma quando la casta in generale e organizzata in certo qual modo secondo il sistema indu, al singolo che vorrebbe entrarvi mancherebbe ogni rapporto di schiatta. In nessun luogo si e riscontrato finora un qualsivoglia tipo di «regole» sui requisiti e le modalita di tale ammissione individuale. Laddove questa e impossibile in pratica, l’infiltrazione individuale di stranieri in una casta sta a indi care che mancano ancora delle regole, non che queste esistono. Anche quando un territorio veniva sistematicamente induizzato, i barbari induizzati (mlechcha), almeno secondo l’antica teoria, potevano solo entrare a far parte della piu bassa casta impura (quella dei candala). In alcune occasioni (vedi, per es. Manubhasya, II, 23) si e sollevata la questione di quando un territorio barbaro possa considerarsi un luogo appropriate per i sacrifici, ossia ritualmente «puro». La risposta e che il luogo sara ritualmente puro solo quando il re vi avra stabilito le quattro caste e avra fatto candala i barbari assoggettati.Èovvio che le altre caste (ivi comprese le caste degli sudra) possono sorgere in un determinato luogo solo tramite l’immigrazione di indu appartenenti a tali caste (cfr. Van NAMALI CHAKRAVANTI, (c Indian Antiq.», 41, 1912, p. 76, il quale sostiene che i numerosi candala delle regioni sud-orientali derivano da tali insediamenti «rituali»). In ogni caso il barbaro, come tale, deve, per cosὶ dire, «venire su dalla gavetta» e puo avanzare ulteriormente solo tramite la metempsicosi. Cio non significa che il «barbaro» viene considerato una volta per tutte socialmente inferiore perfino alle caste impure riconosciute. Cio dipende dal suo modo di vita e dalle sue abitudini. Per le «Central Provinces» il Census Report del 1901 riferisce che le tribu che si trovano al di fuori del sistema delle caste godono di maggiore rispetto che le caste inferiori impure degli artigiani dei villaggi, proprio perche non sono «assoggettate». Se dovessero venire accettate come caste, lo sarebbero tra le caste pure. Il fenomeno e chiaramente analogo a quello della stima sociale di cui godono rispettivamente gli indiani e i negri negli Stati Uniti. La ragione ultima della maggiore stima di cui godono i primi, se si va in fondo alia questione, e questa: «They didn’t submit to slavery». Per questo motivo il gentleman ammette il connubio e la commensalita con gli indiani, ma mai con i negri. Un non-indu, per esempio un europeo, nelle regioni in cui il sistema di caste sussiste intatto, trovera per domestici esclusivamente dei membri di caste impure, mentre al contrario i domestici delle caste indu ritualmente pure appartengono (e devono appartenere) senza eccezione a caste pure. Su questo fatto dovremo tornare in seguito.

e. O piu precisamente: le caste, sospettate a ragione di partecipare a pratiche di avvelenamento di bovini (in particolare le caste dei conciatori) sono oggetto di esecrazione per ogni indu, anche se esse stesse sono ufficialmente indu in piena regola.

f. Del resto anche i brahmani sono spesso molto tolleranti per quanto riguarda le usanze matrimoniali. Per esempio, nei corso dell’induizzazione di varie piccole regioni hanno lasciato sussistere la discendenza matrilineare preesistente. Inoltre alcune caste che si danno grande importanza hanno residui di un’organizzazione totemica, come vedremo. La stessa tolleranza e applicata riguardo agli alcoolici e al cibo, eccettuata la carne bovina. Da questo punto di vista, come si vedra nei capitoli seguenti, nelle caste nobili spesso i membri di sette—come i visnuiti e gli sivaiti—si differenziano tra di loro piu marcatamente delle caste.

g. Fleet ha confermato resistenza di numerosi falsi alberi genealogici di famiglie di principi nell’India meridionale gia nei ix secolo («Ep. Ind.», III, p. 171).

h. Nella terminologia induistica l’espressione sarebbe del tutto inesatta. La casta dei pulayan o parayan («paria») delPIndia meridionale e ben lontana dal rappresentare il piu basso strato sociale o uno strato di outcastes, come credeva l’abbe Raynal. Essi possiedono dei solidi privilegi di casta anche se, come antica casta di tessitori (oggi anche di braccianti agricoli)—menzionata per la prima volta in iscrizioni dell’xi secolo — non occupavano socialmente un’alta posizione e dovevano vivere ai margini dei villaggi. Sotto di loro c’erano non soltanto le caste dei lavoratori del cuoio (casta dei camara) e degli spazzini, ma soprattutto caste come quella dei dom e simili che rappresentano perlopiu la «feccia» delle caste. Qui adoperiamo il termine «paria» nella ormai consueta accezione europea, in modo analogo all’uso del termine «cadi» in «giustizia di cadi».

i. La contaminazione rituale da parte di un uomo appartenente ad una casta impura può giungere, a seconda della sua casta, ad annientare la potenza sessuale di un brahmano.

j. Un esempio misto e dato dagli Ahir, una tribù induizzata, originariamente di pecorai e guardiani di bestiame. Ancora oggi (1911) nella provincia di Bombay in varie caste coesistono sia sottocaste Ahìr che altre. Così nel Khàndesh i brahmani, i sonar, i lohàr, i koli. Là, come altrove, ancora oggi spesso non vi sono rapporti matrimoniali tra carpentieri, orefici e fabbri Ahir e membri non Ahir di caste con identiche professioni, mentre invece tra carpentieri e fabbri Ahir, per esempio, che pure appartengono a caste diverse, spesso sussistono rapporti matrimoniali. Inoltre gli Ahir che sono rimasti pastori hanno spesso ancora oggi un’organizzazione totemica, come una tribù, e non per schiatte, come una casta. D’altra parte però in molte caste gli Ahir, come sottocasta, sono totalmente scomparsi o non sono mai esistiti (un’iscrizione 舒 «Ind. Ant.», IX, p. 272 舒 cita un principe feudale di Jodhpur che avrebbe cacciato la tribù degli Ahir da un villaggio stabilendovi l’ordinamento castuale).

k. Che tale declino sia realmente dovuto soltanto alla più forte mortalità della popolazione urbana, come afferma il «Census Report» del 1911, è alquanto opinabile. Nel periodo 1881-1891 vi è stato un relativo incremento (da 0,45 a 0,49). I Jain delle città hanno nell’insieme un tasso di mortalità inferiore a quello della popolazione urbana indù.

l. Un po’ come avviene al giorno d’oggi per la discendenza aristocratica dei padri pellegrini del Mayflower nella Nuova Inghilterra, così i discendenti dei primi convertiti si considerano per primi come una sottocasta nobile e fortemente privilegiata rispetto ai più recenti proseliti.

m. Cfr. per esempio Shridar V. Ketkar,An Essay on Hinduism,London, 1911 (una concezione «modernistica» deU’induismo, e quindi non del tutto libera da tendenze di parte).

n. Cio risulta gia da antiche iscrizioni. Cosi, nel 706 d. C., un maharajarinnovò una donazione fatta dai suoi antenati: viene menzionato che uno di questi era seguace di Visnu, un altro di Siva; tuttavia nipoti e pronipoti erano adoratori di Bhagavati (cioe Durga o LaksmI).

o. Con Veda qui si indicano soltanto i Samhità, le raccolte di inni, preghiere, formule. In senso più ampio per Veda si intendono tutti i libri «sacri», cioè anche i Brahmano e le Upanisad e infine anche i Suàtra.

p. L’adorazione della vacca (e, in misura minore, dei bovini in genere) era portata alle estreme conseguenze economiche e rituali. Ancora oggi l’allevamento razionale di bestiame non riesce perché gli animali devono per forza morire solo di morte naturale e quindi continuano a venir nutriti dopo che da tempo non hanno più alcuna utilità (un rimedio è dato dall’avvelenamento, ritualmente illegale, ad opera di caste reiette). Il concime e l’orina di vacca hanno delle virtù purificatrici. Ancora oggi un indù osservante, che ha mangiato con un europeo, disinfetterà ritualmente se stesso, ed eventualmente la sua abitazione, con concime di vacca. Nessun indù osservante passerà davanti a una vacca che sta orinando senza mettere la sua mano sotto lo zampillo ed inumidirsene la fronte e gli abiti, come il cattolico con l’acqua santa. Quando c’è un cattivo raccolto viene messo eroicamente da parte in primo luogo il mangime per la vacca.

q. Secondo gli specialisti, la «Magna Charta del sistema di casta» si trova nel Purusa Stinta del Rgveda, il più tardo prodotto dell’epoca vedica. Dell’Atharvaveda si parlerà più avanti.

r. L’espressione è di origine portoghese. L’antico nome indiano èvarna, «colore».

s. Delle caste indù odierne (le caste principali) si può dire al giorno d’oggi che circa 25 sono diffuse nella maggior parte delle regioni dell’india. Queste comprendono circa 88 milioni di indù (su un totale di 217 milioni). Tra queste vi sono, accanto alle antiche caste di sacerdoti, guerrieri e mercanti: i brahmani (14,60 milioni), i ràjpùt (9,43 milioni), i baniya (circa 3 o solo 1,12 milioni, a seconda che vengano incluse o meno anche le sottocaste che si sono scisse) e l’antica casta dei funzionari (scribi), i kàyastha (2,17 milioni), anche le antiche caste tribali come gli Ahìr (9,50 milioni) e i]àt (6,98 milioni); come pure le grandi caste professionali impure, quali i camàra (lavoratori del cuoio, 11,50 milioni); la casta sùdra dei teli, i pressatori d’olio (4,21 milioni); la casta industriale nobile degli orefici (i sonar, 1,26 milioni); le antiche caste degli artigiani di villaggio, i kumhar (i vasai, 3,42 milioni) e i lohar (i fabbri, 2,07 milioni); la casta contadina inferiore dei holi (kuli, da kul, clan, nel senso di «compari», 3,17 milioni) e altre singole caste di svariata origine. Le grandi differenze di rango sociale, nelle singole province, tra caste che hanno chiaramente la stessa origine, rendono il confronto diretto estremamente difficile.

t. I Banjarì, per esempio, sono parzialmente organizzati in «caste», nelle «Central Provinces», mentre a Mysore sono organizzati in tribù («animiste»). Nei due casi hanno le stesse mansioni. Casi analoghi si verificano spesso.

u. Come per tutti i fenomeni sociologici, anche qui il contrasto non è assoluto o privo di stadi di transizione, ma tuttavia rimane tale nei suoi tratti «essenziali» che sono stati storicamente decisivi.

v. La piena commensalità che esiste tra certe caste qui non fa altro, in realtà, che confermare la regola. Esiste per esempio commensalità tra certe sottocaste di ràjpùt e brahmani che riposa sul fatto che questi ultimi sono stati sin dall’antichità i sacerdoti di famiglia dei primi.

w. Una casta inferiore separata (i kallar) è nata nel Bengala da persone che durante la carestia del 1866 avevano infranto le leggi rituali e dietetiche e di conseguenza erano state scomunicate. In seno a questa una minoranza si separa di nuovo, formando un’altra sottocasta, la quale mantiene un tasso di 6seer per rupia in contrapposizione alla prima, già colpevole di sacrilegio, che mantiene un tasso di 10seer per rupia.

x. Un nababbo di Bankura, sulla preghiera di un càndàla, voleva costringere la casta dei karnakara (lavoratori del metallo) a mangiare con i càndàla. Secondo la leggenda dell’origine dei Mahmudpuria, questo fatto provocò la fuga di una parte della casta a Mahmudpura, dove si costituì in sottocasta separata con più alte pretese sociali.

y. Porre come seconda altenativa lo «status professionale» è un’inesattezza. L’elemento decisivo non è mai la «professione» ma sempre lo «stile di vita». Quest’ultimo può esigere una determinata attività professionale (per esempio la carriera militare). Ma il tipo di attività professionale risultante dalle esigenze dello stile di vita (per esempio la carriera militare come cavaliere e non come mercenario) rimane sempre determinante.

z. Tale è il caso, secondo la relazione generale di Gait per il 1911 («Census Report», vol. I, p. 378), tra le caste egualmente nobili dei baidya e dei kfiyastha nel Bengala, tra i kànet e i khas nel Punjab, o in alcuni casi tra i brahmani e i ràjpùt, e anche tra i sonar e i nai e i kànet. I contadini maràthà arricchiti possono ottenere delle mogli mohratha in cambio di una dote sufficiente.

a1. Tra i ràjpùt del Punjab l’ipergamia esiste ancora oggi in misura tale che vengono comperate perfino ragazze camara.

b1. La formazione di cartelli matrimoniali tra villaggi e tra determinate associazioni (golìs), quali si trovano di frequente per esempio presso le caste dei baniya (mercanti) nel Gujarat, ma anche presso le caste di contadini, è una contromisura nei confronti dell’ipergamia delle classi ricche e delle popolazioni urbane, che rialzava il prezzo delle spose per le classi medie e le popolazioni rurali; non è il «residuo» di un presunto «primitivo matrimonio di gruppo». Se in India capita («Census Report», 1901, XIII P. I., p. 193) che l’intero villaggio, ivi comprese le caste impure, si considera «imparentato» reciprocamente tra tutti i suoi membri, per cui colui che entra con il matrimonio viene chiamato da tutti «genero» e i membri sono chiamati da tutti «zio», ciò mostra evidentemente che il fenomeno non ha proprio nulla a che vedere con la derivazione da un «primitivo matrimonio di gruppo» né qui né altrove.

c1. Cio ha portato a risultati grotteschi, quali ad esempio l’usanza matrimoniale dei brahmani kulin, che gode di una certa fama. I brahmani kuUn sono molto ricercati come sposi ed hanno messo su un vero e proprio giro d’affari che consiste nello sposare in absentia, su richiesta e dietro remunerazione, delle ragazze, che sfuggono così all’ignominia dello zitellaggio, ma che rimangono presso le loro famiglie e vedono lo sposo quando gli affari o altri motivi portano quest’ultimo per combinazione in un luogo dove risieda una (o più) di queste sue «mogli». Allora egli mostra al suocero il contratto di matrimonio e stabilisce in casa sua il suo «alloggio di passaggio», ottenendo per di più, gratis, il godimento della ragazza che è considerata come sua «legittima» moglie.

d1. Questo ha determinato in primo luogo il fatto che in India una parte delle bambine tra i 5 e i 10 anni sono già vedove, e lo rimangono per tutta la vita. Ciò si ricollega all’istituzione del celibato delle vedove che, qui come altrove, si è aggiunta a quella del suicidio della vedova, a sua volta derivato dal costume cavalleresco di seppellire insieme al signore morto i suoi beni personali, in particolare le donne; in secondo luogo il matrimonio di ragazze impubere ha avuto per conseguenza un alto tasso di morti per parto.

e1. In particolare tra i ràjpùt. Malgrado le severe leggi inglesi (del 1829), ancora nel 1869 in 22 villaggi del Rajputànà erano stati contati 284 ragazzi e 23 ragazze. Nel 1836, in alcune regioni di ràjpùt, un censimento non aveva trovato una sola bambina viva di più di un anno su una popolazione di 10.000 anime!

f1. In tutti questi casi non di rado le caste di rango inferiore sono più rigorose nelle loro pretese di quelle che altrimenti sono considerate di rango superiore. La straordinaria varietà di queste regole di ordine di rango proibisce qui ogni trattazione più approfondita.

g1. Così i makishya kaibartha rifiutano sempre più la comunità con i chasi kaibartha (nel Bengala) perché questi ultimi vendono personalmente i loro prodotti (agricoli) sul mercato, cosa che loro non fanno. Altre caste sono considerate declassate perché le loro donne partecipano al commercio nei negozi, e la cooperazione delle donne nelle attività economiche è generalmente considerata specificamente plebea. La struttura sociale e del lavoro nell’agricoltura è fortemente condizionata dal fatto che varie attività sono considerate assolutamente degradanti. Spesso il rango della casta determina l’impiego o meno di buoi o cavalli e altri animali da tiro e da trasporto nell’attività lavorativa (per esempio è determinato in questo modo il numero di buoi impiegati dai pressatori d’olio).

h1. Brhaspati (trad, di Jolly) in «Sacred Books of the East», 33, XIV, pp. 28, 29.

i1 Id., XIV, p. 17.

j1. Nella sua opera Indian Village Community (1896). Nei dettagli molte delle conclusioni di Baden-Powell sono forse contestabili.

L’espressione irlandese «clan» è ambigua. L’articolazione tipica delle collettività organizzate militarmente consiste in: 1) la tribù, come comunità di «fratrie», cioè, secondo la nostra terminologia, sempre essenzialmente delle associazioni di guerrieri addestrati militarmente (in origine, magicamente); 2) la schiatta, cioè (sempre nella nostra terminologia) i discendenti agnatizi carismaticamente preminenti dei capi carismatici. Il semplice guerriero non aveva necessariamente una «schiatta», ma apparteneva, accanto alla sua fratria e eventualmente a una classe di età militare, anche ad una «famiglia» o ad un’associazione totemica (o quasi totemica). Al contrario una stirpe di signori non possedeva un totem, o meglio non l’aveva conservato ma se ne era emancipata. Quanto più completo era la sviluppo delle tribù dominanti in India in classe dominante, tanto più scomparivano i residui del totem (devaì{) e sorgevano (o meglio restavano) solo le «schiatte». D’altra parte si verificò una graduale cancellazione della differenza carismatica familiare per il fatto che la fratria cominciò a sviluppare un sentimento comunitario basato sull’ascendenza comune piuttosto che sulla fratellanza guerriera, diventando quindi una sorta di «schiatta».

k1. A. Weber,Collektaneen, in «Indische Studien», X.

l1. Anche l’ingresso nell’esercito moderno è impossibile per il brahmano ortodosso, poiché in tal caso dovrebbe obbedire a dei superiori di casta inferiore o di origine barbarica.

m1. Nel Deccan, sotto i Maratti, esistevano due categorie tipiche di questi servitori del villaggio: i baruh balowtay, che comprendevano i vecchi mestieri tipici 舒 falegnami, fabbri, calzolai, vasai, barbieri, lavandai, bardi, astrologhi, lavoratori del cuoio, guardie, pulitori delle effigi sacre,mullah (che nei villaggi indù puri erano coloro che abbattevano le pecore per i sacrifici) 舒 e i baruh alowtay, tra cui vi erano i mestieri artigiani nati più tardi, come gli orefici, i lavoratori del rame, i fabbri, i portatori d’acqua, il guardiano della porta del villaggio, il messaggero, i giardinieri, i pressatori d’olio, e tutta una serie di impiegati religiosi subalterni. Raramente tutti questi posti erano effettivamente occupati (cfr.GRANT Duff,History of the Mahrattas, London, 1912). Anche la composizione di questi lavoratori aventi diritto ad un compenso in natura non era sempre tipica in tutti i suoi elementi. Nella provincia di Bombay tra di essi vi erano anche i mahàr, che una volta erano contadini, poi come esperti agrimensori erano stati degradati a servi e mandati a stabilirsi su appezzamenti esterni al villaggio (oggi diventano spesso autisti malgrado le proteste dei conservatori)

n1. Al contrario i doveri rituali hanno reso diffìcile per i brahmani l’esercizio della professione medica e anche la loro partecipazione odierna nel campo dell’ingegneria rimane scarsa.

o1. Cfr. Caland, in «Zeitschrift fiir die Kunde des Morgenlands», XIV, 1900, p. 114.

p1. Cfr. Bloomfield,The Atharva Veda, nei Grundriss di Bùhler.

q1. Pancavimsa, 14, VI, 6, citato in A. Weber,Collektaneen uber die Ka-stenverhàltnisse der Brahmanen, in «Indische Studien», X, p. 1 e segg.

r1. Circa i limiti, cfr. p. 613.

s1. Secondo A. Weber,Collektaneen, in «Ind. Studien», X, c’è anche il purohita di più principi.

t1. I brahmani che operano come sacerdoti di Visnu e servono, anche in basse posizioni, nei templi (per esempio nelle posizioni ben pagate della setta dei Vallabhakhari) s’incontrano spesso (per esempio presso i Gujaratyajurvedi) ma non sono mai esenti da una certa degradazione.

u1. Cfr. più su, p. 605, nota b.

v1. Al posto dei numerosi esempi che i «Census Reports» contengono ancora per l’epoca attuale, basta ricordare i kammalar. Si tratta degli artigiani specializzati del metallo, del legno e della pietra, che sostengono di discendere dal dio dell’artigianato Visvakarma. Chiamati dai re, essi si sono sparsi ampiamente in Birmania, Ceylon, Giava e hanno rivendicato il rango dei sacerdoti, anche quello dei brahmani immigrati. Evidentemente nella loro qualità di portatori di arti magiche, sono stati presi anche dalle altre caste come guru, come direttori spirituali delle anime: «il kammalar è il guru di tutti» (Pulney Andy,Journal of Indian Art and Industry, citato in Coomaraswamy,The Indian Craftsman, p. 55. Su questo punto vedi anche più avanti).

w1. I «Census Reports» hanno in proposito una parte di informazioni molto esaurienti.

x1. Tale celebrazione è tramandata storicamente.

y1. Quando il fondatore del regno dei Maratti stette un anno senza intraprendere guerre, i signori vicini considerarono ciò un segno sicuro di una sua malattia mortale.

z1. Ràjpùt d’insediamento urbano appaiono in iscrizioni del x secolo;Epìgraphìa ìndica, III, 169.

a2. Sui Dravida cfr. Hewitt, in «J.R.A.S.», 1890 (april).

b2. Cfr. «Ep. Ind.», Vili, p. 229.

c2. «Ep. Ind.», VI, 53 (x secolo): il nome indiano viene così interpretato.

d2. «Ep. Ind.», VI, p. 47 (x secolo). Dopo la morte di un vassallo in combattimento il suo posto come comandante delle truppe veniva dato a qualcun altro. L’investito riceveva come feudo alcuni villaggi di terre incolte, che diventavano quindi feudo ereditario.

e2. «Ep. Ind.», VI, 361.

f2. Vedi la concessione di villaggi Iba al genero del re con simultaneo concentramento in una circoscrizione politica speciale, in «Ep. Ind.», IV, p. 185 (regione dei Tamil, xi secolo).

g2. Si può perlomeno presumere che le massicce concessioni di terre ai vassalli, citate in un documento del re Krsna datato dal campo di battaglia del vincitore dopo la sconfitta del regno dei Chola (x secolo) non fossero soltanto a beneficio dei parenti («Ep. Ind.», IV, p. 290).

h2. Parte del demanio di un principe è citato come dote in «Ep. Ind.», IV, p. 350. La vendita di un villaggio con inclusione dei diritti signorili da parte di un vassallo a un altro, in «Ep. Ind.», III, p. 307 e segg. (xi secolo).

i2. Cfr. per es. «Ep. Ind.», IV, p. 180; V, p. 264.

j2. Cfr. Rose in «Indian Antiquary», 36 (1907).

k2. Cfr. B uhler in «Ind. Ant.», 25 (1896), p. 261 e segg.

l2. Viene sostenuto da un lato (da V. A. Smith, Ashoka, Oxford, 1911 e soprattutto da B uhler, in «Ind. Ant.», 26, p. 334) e contestato dall’altro (cfr. Levy) che gli «scrivani» sono apparsi per la prima volta sotto Asoka in veste di redattori legali degli editti reali.

m2. Le parti che qui ci interessano sono state tradotte da R.SHAMA SASTRY in «Ind. Ant.», 34 (1905).

n2. Il ràjà conserva ancora oggi un monopolio commerciale sullo zafferano nel Kashmir, sulle pietre preziose nell’india meridionale, sui cavalli nell’ovest, sulle armi e tessuti di lusso nell’est, sugli elefanti in tutta l’india.

o2. Esistevano particolari feudi militari, i ghahtala, simili ai feudi militari romani di frontiera.

p2. Rose, in «Ind. Ant.», 36 (1907).

q2. Questa cifra si basa sul limite imposto ai profitti di questa categoria di appaltanti di imposte, limite che consiste nel io per cento di tutti i proventi fiscali; un analogo provvedimento si riscontra anche nel Medio Oriente.

r2. Per l’IsIam cfr. il lavoro di C. H. Becker che verrà citato più avanti.

s2. Anche i ràjà indiani acquistavano occasionalmente prebende fiscali e politiche di ogni sorta

t2. Cfr. R. Hoernle, in «J.R.A.S.», 1905, p. 1 e segg.

u2. Cfr. in proposito l’ottimo libro di V.KANAKASABHAI,The Tamils 1800 Years Ago, Madras, 1904.

v2. Un’antica tribù di «guerrieri» (in realtà spesso di briganti e ladri di bestiame) era per esempio quella dei KhatT, che possedevano solide roccaforti nel Sindh. Dopo la loro espulsione si sono stabiliti a Ahmadabad e oggi sono in parte proprietari terrieri (talukdàrì) e in parte contadini. Sono adoratori del sole, hanno dei brahmani per sacerdoti e dispongono di un’organizzazione centrale. Le antiche tribù plebee di mercenari sono relativamente instabili nella scelta della loro occupazione. I Khatri di Bombay, originariamente una tribù di guerrieri con pretese al rango di ksatriya e che ancora oggi rivendicano il diritto di portare la sacra cinta sono diventati tessitori di cotone. L’antica tribù dei briganti-mercenari Halepaika è passata dopo la caduta del regno dravidico alla distillazione dell’olio di palma.

w2. Il sentimento di rango del libero funzionario si esprime in formule come questa: il funzionario occupa la sua posizione «in base ad un accordo amichevole con il re suo signore» (come si legge in un’iscrizione in «Epigraphia Indica», V, 213, del regno occidentale della dinastia dei Càlukya del xii-xm secolo).

Tuttavia il grosso dei funzionari apparteneva alla categoria dei britya comprendente custodi di harem e poveri mercenari.

x2. A Calcutta il 30 per cento dei kàyastha sono impiegati; i brahmani e i kàyastha si contendono il primo posto nelle categorie dei commessi, degli avvocati, dei medici, dei giornalisti, degli ingegneri. Nella provincia di Bombay i ràjpùt ed i maràthà sono presenti rispettivamente nella misura del 74 per cento e del 92 per cento nell’agricoltura, ma solo del 2 per cento o dello 0,3 per cento nell’amministrazione politica, dello 0,8 per cento e dello 0,2 per cento nelle learned professions, percentuali più o meno analoghe a quelle della tanto disprezzata casta contadina dei kuli nel Gujarat. Là, i brahmani e i prabhu sono presenti rispettivamente nella misura del 7 per cento e del 27 per cento nell’amministrazione e del 22 per cento e del 18 per cento nelle learned professions (anche nella casta di mercanti dei lohàr vengono reclutati ampiamente membri dell’amministrazione e delle professioni dotte in misura rispettivamente del 5,8 per cento e del 27 per cento). Un ràjpùt passa molto di rado al mestiere di negoziante, un maràthà quasi mai: la casta dei maràthà costituisce ancora oggi un esempio di predilezione per fasti feudali.

y2. Più tardi indicate in laàkh, cioè unità di rendita basate sulla stima dell’imposta.

z2. Soprattutto:The hand Systems of India, Oxford, 1892 (3 voli.), oltre al breve compendio già citato sulla Village Community.

a3. Da raiyat, cioè suddito, protetto (cliente).

b3. Cfr.CAROLINE Rhys Davids,Notes on the Early Economic Con-ditions in N. India, in «J.R.A.S.», 1901, p. 859 e segg.

c3. Iscrizione tamil delPvin secolo, in «Ep. Ind.», III, p. 142 e segg.

d3. «Ep. Ind.», IX, p. 91; iscrizione del ix secolo.

e3. Cfr. la grande iscrizione del i secolo a. C., in «Ep. Ind.», II, p. 8 e segg.

f3. La divisione indiana delle terre coltivate non poteva essere di tipo analogo a quella tedesca con campi sparsi e misti tra loro. è vero che spesso i patti si trovano spezzettati a seconda delle diverse qualità del suolo (in alcuni casi appare la rotazione delle culture), ma nell’insieme costituiscono dei grossi blocchi la cui superficie non può essere comparata in termini aritmetici. Il numero di aratri posseduti da un uomo determinavano la terra che egli aveva da coltivare e che quindi era in mano sua. All’inizio vi era terra in eccedenza e quindi non c’era bisogno di calcolarla; l’acqua necessaria aH’irrigazione era, al contrario, un bene economico, e qualsiasi tipo di usurpazione in questa sfera avrebbe incontrato, come sottolinea Baden-Powell, una forte resistenza. Vi erano redistribuzioni delle terre per livellare i mezzi di sostentamento. Ma con la crescente pressione fiscale apparvero fenomeni simili a quelli che si trovano in Russia; la misura dell’onere tributario determina il diritto (ed eventualmente il dovere) di partecipazione alla proprietà della terra.

g3. Argomento trattato in modo esauriente da Baden-Powell nella maggiore delle opere sue citate.

h3. Così nell’iscrizione del ix secolo, in «Ep. Ind.», I, p. 184, accanto al re ed ai thàkur (feudatari politici) sono citati i janapada (che il traduttore rende con provincials). Solo occasionalmente appare nelle iscrizioni un rayat, e chiaramente in qualità di uomo libero.

i3. Un editto reale di Udaipur, delXII secolo, si rivolge ancora ai rashtrakutra (cavalieri) e ai kutunbì come alle due classi di abitanti di una località («Ep. Ind.», IV, p. 627).

j3. Cfr.BADEN-Powell,Land System, II, p. 162 e segg.

k3. Cfr. «Ep. Ind.», IX, p. 227, l’iscrizione in cui un principe feudale della regione di Jodhpur si vanta di aver cacciato gli Ahlr (cfr. più su) da una regione e di avervi stabilito il mahàjana, cioè i brahmani, i pràkriti(che il traduttore vorrebbe interpretare come ksatriya) ed i vai’sya.

l3. Mentre per quanto riguarda i vellolar è sempre stato un punto fermo che essi non sono’sùdra.

m3. Pisang, da paysan. Cfr.paganus (che in latino significava «contadino», più tardi anche «civile» e tra i cristiani «pagano»). Cfr. anche il termine ebraico’am ha-arez.

n3. Viene spesso trascurato il fatto che nel cristianesimo il contadino come tale è giunto alla sua odierna posizione di stima e di onore solo quando lo sviluppo del razionalismo e dello scetticismo nelle classi borghesi ha indotto la Chiesa a fondare il suo potere sugli istinti tradizionalisti dei contadini.

o3. Come ancora nel Mahàbhàrata, XIII, 60, 23, e in Manu, IX, 327.

p3. Superiore in ogni caso all’allevamento di bestiame già per il semplice fatto che quest’attività comporta l’esecuzione di attività come la castrazione.

q3. III, 15. Indra è considerata addirittura il dio dei mercanti.

r3. VIII, 13, 5.

s3. Cosὶ per esempio nelPArthasastra di Kautilya.

t3. Cfr. Kennedy, «J.R.A.S.», 1898, p. 251. Una breve esposizione della storia monetaria indiana si trova nell’«Imperial Gazetteer», The Indian Empire, vol. II, cap. IV, p. 157 e segg.

L ’argento, che e il metallo dell’odierna moneta legale in India, all’epoca non si produceva per niente, mentre Toro, il metallo da conio dei grandi re del 1 secolo, veniva prodotto in quantita molto limitata. I tesori di metalli nobili provenivano dal commercio con l’Occidente; le cifre relative al bottino dei musulmani possono darci un’idea del loro ammontare. Tali tesori servivano essenzialmente per l’accumulazione di scorte, anche se non e forse un caso che uno dei periodi di fioritura o di rinascita del potere delle gilde (11 secolo d. C.) coincida con la grossa affluenza di denaro dall’impero romano e con il conio di aurei di tipo romano.

u3. Cosὶ viene descritta la citta tamil di Kaverlpattanam in un periodo poco anteriore alia nostra era. Nella citta commerciale si trovano la maggior parte degli empori e delle industrie artigiane, e vi risiedono i mercanti occidentali {yavana). Nella citta reale si trovano le industrie di lusso, vi abitano i brahmani, i medici, gli astrologi, i bardi, gli attori, i musici, i fabbricanti di decorazioni floreali e di collane di perle, e proprietari fondiari viventi di rendita. Tra i due quartieri c’e la piazza del mercato. I re tamil avevano dei mercenari romani (cfr. V. K anakasabhai, The Tamils 1800 Years Ago, Madras, 1904).

v3. «Int. Ant.», XIX, 1890, p. 231 e segg.

w3. Op. cit., Ill, 249, 16; XII, 54, 20. Cfr. W. H opkins, The Social and Military Position of the Ruling Castes in Ancient India, in «Journal of the American Oriental Society», XIII, p. 57 e segg.

x3. Così a Ahmadhabad.

y3. Una gilda controlla l’amministrazione di un distretto; «Ind. Ant.», XIX, 145 (iscrizione del vi secolo). I mahajana di un villaggio con la loro direzione in testa ottengono la concessione di un’imposta sui villaggio per la costruzione di una cisterna; «Ind. Ant.», XIX, p. 165.

z3. Èriportata nell’opera di C haudre Dus, The Vaisya Caste, I, The Gandhavarniks of Bengal (Calcutta, 1903), che e un tipico prodotto della letteratura nata dal tentativo del censimento del 1901 di determinare l’ordine di rango delle caste.

a4. Cfr. Lassen, «J.A.», III, pp. 727 e 786.

b4. Per tutto cio che segue, cfr. H opkins, in <(Journ. of the Amer.O.S.», 1890, XIII, p. 57 e segg.

c4. Id., XII, pp. 67, 4 e segg.

d4. Id., V, pp. 35, 58.

e4. Id., V, pp. 2, 7.

f4. Id., I, pp. 221, 31.

g4. Id., Ill, pp. 200, 92.

h4. Id., XII, pp. 88, 6-9; 118, 1 e segg.

i4. Cfr. «Imperial Gazetteer», V, p. 101 per Ahmadabad.

j4. I re tamil concessero i diritti ekYaujpvannam e del manigranam in una citta a dei mercanti stranieri (e in un caso ad un ebreo); «Epigraph. Ind.», III, p. 67, IV, p. 290 e segg. Non appare possibile determinare il contenuto preciso di tali diritti. Il primo, il «diritto delle cinque caste», potrebbe significare sia l’appartenenza ad una corporazione artigiana ma-hajana secondo il sistema delPIndia settentrionale, sia un monopolio rispetto ai «cinque mestieri» artigiani. I «cinque mestieri» in questione sono senza dubbio quelli esercitati dai cinque figli leggendari del dio dell’artigianato Visvakarma: la lavorazione del ferro, del legno, del rame e ottone, della pietra, delPoro e dell’argento. Di questi si parlera ancora. Nel secondo caso certe industrie vengono specificamente indicate come subordinate a colui che ne ha la concessione e che viene chiamato «signore della citta»: tra i suoi privilegi, oltre all’esenzione da imposte, viene citato un monopolio di commissione (forse di smercio). Per il resto determinate entrate sono connesse a questa posizione, come pure certi diritti onorifici, quali ad esempio gli abiti da cerimonia, le portantine, gli ombrelli, le lampade, le musiche, ecc.

k4. Cosὶ le caste dei lamani o vanjani, chiamati anche banjari nella Presidency di Bombay, una tribu ospite migratoria, che a suo tempo aveva in mano il commercio del sale e del grano negli stati indu dell’ovest e che seguiva gli eserciti (come riferito nel xvi secolo). Forse costituisce uno degli ascendenti dell’odierna casta bania (baniya).

l4. Il nome mahajana, «popolo grasso», big people, non era affatto limitato alle gilde. Le iscrizioni mostrano al contrario che esso in origine indicava semplicemente «i signori», cioe i brahmani, nelle campagne, e in certe circostanze le altre caste dei «nati due volte». Ma all’epoca delle gilde e delle citta delle gilde tale designazione era loro riservata e in diverse regioni, in particolare nell’ovest e nel centro dell’India settentrionale, esistono ancora oggi delle sottocaste di commercianti che reclamano per se il titolo di mahajana.

m4. Cfr. Teccellente saggio di W. H opkins sulle gilde in India Old and New.

n4. Essi hanno comunque cambiato il loro rituale in modo tale da poter compiere i viaggi all’estero che, come dovremo ancora spiegare, sono sospetti per la religione indu. Il grado di adattabilita alle circostanze moderne e diverso presso le varie caste di commercianti a seconda che le regole della loro casta gli permettano, per esempio, di fondare delle filiali e di viaggiare per visitare la clientela. I banlya soprattutto sono abbastanza liberi sotto questo aspetto e quindi «piu moderni» di altre caste.

o4. Cosὶ la casta, molto diffusa, dei bhat.

p4. La comparsa di persona sul mercato, al contrario, e considerata degradante presso le «buone» caste e porta occasionalmente a scissioni di casta.

q4. Per quanto segue cfr. la piccola pubblicazione di Ananda K. Coomaraswamy (D. sc.), The Indian Craftsman, Probsthain series, London (W. C. 41, Great Russel Street), 1909. Cita delPottimo materiale a me inaccessibile.

r4. La composizione locale di tali «mestieri» variava moltissimo da un luogo all’altro come occorre di nuovo sottolineare.

s4. Il rango di casta dei vasai varia molto a seconda che lavorino con la ruota o adoperino lo stampo, che abbiano buoi o impieghino l’asino, il che e sempre degradante.

t4. Un caso simile e citato da C oomaraswamy, op. cit., p. 4, ripreso dallo scritto di W eddeburn, The Indian Raiyat as a member of the Village Community, London, 1883, a me inaccessibile.

u4. Il gruppo Nabasakha costituiva nei 1901 nei Bengala il 16,4 per cento della popolazione. Ad esso appartenevano originariamente le seguenti caste (che costituiscono ancora oggi P84 per cento dei suoi membri): tre caste di contadini (i baruis, i walakan e i sadgop); i fabbri e i lavoratori metallurgici affini (kamar); i vasai (kumhara); i barbieri (napit); i confettieri (mayra); i tessitori (tanti); i pressatori d’olio (iteli). Di solito la posizione dei tessitori e dei pressatori d’olio, e spesso quella dei vasai e molto inferiore.

v4. Sulla distinzione tra vecchie e nuove classi di servitori del villaggio, che si collega anche a questo sviluppo, cfr. piu sopra, p. 605, n. b.

w4. Kautaliya Arthasastra, edito da S h am a sa str y («Indian Antiquary», 34, 1905).

x4. Manu, VIII, p. 413; X, p. 99, 100.

y4. Esiste per esempio nell’India nord-occidentale una piccola casta di «schiavi», cioe di lavoratori domestici i quali, essendoci scarso bisogno di loro nel lavoro domestico, sono stati autorizzati dai loro padroni a lavorare in proprio.

z4. Per esempio, la grande iscrizione in «Ep. Ind.», V, p. 23 e segg. (fondazione di un re Calukya) presuppone chiaramente che la corporazione di tessitori ivi menzionata con il suo gouda (capo del villaggio) vive in uno speciale villaggio di tessitori. Accanto a questa compaiono le corporazioni degli importatori di granaglie, dei distillatori di succo di palma e dei pressatori d’olio del luogo della fondazione, ed il loro gouda con la sua schiatta; a tutti il re impone un determinato tributo a favore di Mahadeva (Siva) e della sua consorte.

a5. In questa categoria, sin dall’ascesa del patrimonialismo, troviamo innanzitutto gli artigiani militari (costruttori navali e armaiuoli) i quali, come viene riferito, spesso non erano autorizzati a lavorare per i privati. Anche i fabbri e gli artigiani simili erano soggetti ad una sorveglianza particolarmente severa. Questi mestieri sono quelli che nell’antico stato romano costituivano la centurio fabrum.

b5. Le prebende territoriali degli artigiani reali di Ceylon variavano secondo la natura del servizio. Legalmente Tartigiano aveva il diritto di ritirarsi dal servizio in qualsiasi momento rinunciando alia prebenda.

c5. Questi artigiani godono di una protezione personale particolarmente forte. Chiunque causasse iesioni gravi ad un artigiano rischiava la pena di morte sotto la dinastia dei Maurya. La posizione di rango relativamente elevata della casta dei tanti (tessitori) nel Bengala, in confronto al loro rango in altre regioni, si spiega forse con la loro origine da un gruppo di artigiani reali del Bengala.

d5. L ’antica citta di Pataliputra aveva, fino all’epoca di re Asoka (111 secolo a. C.), mura di legno. Fu il re ad introdurre mura di mattoni e case di pietra. Anche i Grandi Re indiani crearono la loro burocrazia almeno in parte come una burocrazia di costruttori.

e5. NelPepica: Panchkhalsi. Hanno conservato a lungo la commensalita professionale.

f5. Sui kammalar, cfr. C oomara sw amy, op. cit., pp. 55-56. Nella provincia di Bombay si trovano gli stessi cinque mestieri: fabbri, carpentieri, lavoratori del rame, scalpellini, orefici, riuniti come pancal. Siccome avevano i propri sacerdoti, ma seguivano tutti i riti vedici (vegetarianismo, astensione dalle bevande alcooliche) e pretendevano di essere brahmani, sono stati spesso perseguitati sotto i peswa dei Maratti.

g5. Nel Malabar erano considerati impuri; probabilmente in quanto scismatici.

h5. Tale frattura puo anche attraversare una stessa casta. I sutar di Bombay, come carpentieri del villaggio, sono servi compensati in natura. I loro compagni di casta inurbati divennero costruttori navali, rivendicarono di essere brahmani e, quando questo titolo venne loro rifiutato, ruppero almeno la commensalita con i carpentieri del villaggio, nominando i propri sacerdoti.

i5. Cosὶ quando un membro del villaggio aveva bisogno di particolari servizi fuori turno, o che esorbitavano dalle prestazioni tradizionali, come le riparazioni fuori stagione, era costretto ad addivenire a un accordo particolare con 1’artigiano ilota il quale era favorito dal fatto di detenere un particolare monopolio. In particolare il fabbro del villaggio sembra avere avuto spesso delle pretese elevate, in India come altrove.

j5. Questi artigiani del re (lo stesso vale per quelli dei templi) fornivano i prodotti di massima qualita dell’artigianato artistico indiano. Sicuri delle loro prebende, potevano permettersi di impiegare il tempo necessario a produrre oggetti artistici. Coomaraswamy cita senza dati piu precisi un vaso di Delhi al quale hanno lavorato tre generazioni di una famiglia di artigiani reali.

k5. Cio che i greci e le fonti indigene (Kautaliya Arthasastra) riferi-scono circa tali boards of trade reali puo essere comparato sostanzialmente alle istituzioni che ROBERT KNOX descriveva per Ceylon nei 1682 (An Historical Relation of the Island of Ceylon, a me inaccessible, citato da Coomaraswamy, op. cit., pp. 34 e segg.).

l5. Le liturgie degli orefici, fabbri, vasai reali, ecc. potevano essere sostituite da un tributo fisso in oro (C oomar a sw am y, op. cit., pp. 38-39).

m5. Di conseguenza gli artigiani, dopo che, con l’abolizione dei monopoli e deH’imposta sui mestieri, la concorrenza dei prodotti industriali inglesi si era abbattuta su di loro, pensavano che l’abolizione dell’imposta aveva minato la loro esistenza (COOMARASWAMY, op. cit).

n5. L ’organizzazione di tali ergasteria a Ceylon ci viene descritta da Knox (citato in COOMARASWAMY, op. cit., pp. 33 e segg.); erano evidentemente molto simili a quelli faraonici, tardo ellenistici, bizantini e islamici.

o5. Cfr. per es. «Ep. Ind.», III, pp. 295 e segg. (11 sec.) e vari altri riferimenti.

p5. Questa incerta posizione di rango ha il suo parallelo in Occidente nel problema, trattato da Hasack, della posizione dell’«architetto» all’epoca della costruzione delle cattedrali gotiche.

q5. Per esempio, la combinazione del lavoro del legno, della pietra e del metallo, osservata dal colonnello H e n d l e y, Indian Jewelry, p. 153, cit. da Coomaraswamy, op. cit., p. 56.

r5. La vita nomade degli allevatori di bestiame ha anche contribuito ad abbassare il loro rango. Sul viaggiare dei mercanti, cfr. piui sopra (p. 650, nota d).

s5. Una tipica «casta professionale» e, per esempio, nei Bengala, Pantica casta di fabbri, i lohar, i quali sono indubbiamente di origine etnica mista.

t5. Cfr. per tutte queste questioni Pottima relazione generale di G ait nei «Cens. Rep.», 1911, vol. I, pp. 377 e segg.

u5. NelPambito della metropoli di Calcutta, avulsa dalla tradizione, tra le caste indu quella dei lavandai contava piu dell*80 per cento dei suoi membri che esercitavano la loro professione tradizionale; lo stesso vale per il 50% dei membri delle caste dei pescatori, degli spazzini, dei cestai, dei pasticcieri e dei servitori domestici, ma anche di una casta di orefici. D’altra parte tra gli scrivani {^ayastha) solo il 30% erano clerks, tra i brahmani solo il 13 per cento erano sacerdoti, insegnanti, pandit e cuochi (secondo il «Cens. Rep.», 1901, vol. VII, relazione di Blackwood, p. IV). Dell’antica casta dei tessitori (tanti) in seguito alia concorrenza europea solo il 6% esercita il mestiere tradizionale.

v5. Per le cifre, cfr. piu avanti, p. 679, nota b. Nella provincia di Bombay le caste piu importanti sono occupate nell’amministrazione nel seguente ordine: prabhu (antica casta d’impiegati): 27% dei membri della casta; mahar (impiegati del villaggio): 10%; brahmani: 7,1%; lohana (mercanti nobili): 5,8%; bhatia (mercanti): 4,7%; vania (grande e antica casta mercantile): 2,3%; rajput: 2%; tutte le altre caste sotto l’i% dei propri membri.

w5. Queste due ultime attivita erano ritualmente degradanti.

x5. Cfr. B lunt nel «Cens. Rep.», 1911, per le United Provinces e l’Oudh (antico classico territorio indu), p. 233, da cui sono tratte le notizie sopra riferite.

y5. Oggi l’esistenza di un pancayata del villaggio viene contestata con molta enfasi (cfr. ad esempio Me G rego r nei «Cens. Rep.» del 1911 per Bombay, vol. VII, p. 200). Esisterebbero solo dei pancayata di casta e tra questi i pancayata di contadini appartenenti ad una stessa casta e installati normalmente in un villaggio. Basandosi sui risultati del materiale accessible nell’Europa continentale la questione puo essere posta solo in questi termini: i pancayata che in numerosi villaggi rappresentano i membri del villaggio («contadini in senso pieno») hanno origine nella casta, oppure al contrario l’istituzione della casta ha ricalcato in qualche modo le antecedenti istituzioni del villaggio? L ’esistenza nei villaggi di un comitato corrispondente al pancayata, che decideva sulle controversie giuridiche, sembra sufEcientemente provata per quanto riguarda 1’epoca classica («Manu Samh.», vol. XII, p. 1087).

z5. Oggi per esempio esse deliberano non solo sull’invio di studenti in Giappone ma anche sui mutamento d’importanti consuetudini sociali, per esempio sulla soppressione del celibato delle vedove, argomento questo che in passato non avrebbe potuto essere regolato mediante «deliberazione» ma solo mediante il parere dei brahmani.

a6. Baudhayana, Libro della legge, vol. I, pp. 5, 9, 1. Lo stesso vale per tutte le merci messe in vendita al pubblico.

b6. Baudhayana, op. cit., vol. I, pp. 5, 9, 3. Sono ritualmente pure le miniere e tutti i laboratori ad eccezione di quelli destinati alia distillazione dell’alcool.

c6. Sui rapporti tra le sette e le religioni di redenzione indiane da un lato ed i circoli bancari e commerciali dell’India dall’altro si parlera piu avanti.

d6. Sull’addestramento professional al commercio presso i bhaniya cfr. il «Cens. Rep.» per il Bengala. L ’ipotesi delle «inclinazioni naturali» e confortata dal fatto che le antiche caste con alto grado di mobilita professional spesso confluiscono in mestieri diametralmente opposti alia loro precedente occupazione per quanto riguarda, sui piano psicologico, le esigenze di «inclinazioni naturali», ma che hanno invece in comune l’utilita di certe conoscenze e di certe abilita acquisite mediante un precoce addestramento. Un esempio e dato dal passaggio molto frequente—come si e gia detto—dalle antiche caste di agrimensori, i cui membri naturalmente conoscono le strade con particolare precisione, al mestiere di autista. Esistono mold esempi analoghi.

e6. A Calcutta il reclutamento deve spesso rivolgersi alPesterno: in un villaggio vicino alia metropoli appena 1/9 della popolazione parla la lingua indigena del Bengala.

f6. Cfr. v. D elden, op. c i t p. 96.

g6. V. Delden, op. cit., pp. 114-125.

h6. A Calcutta, a quanto pare, la manodopera moderna «qualificata» viene reclutata perlopiu nelle caste dei kaivartha (un’antica casta tribale di contadini e pescatori), dei kayastha (scrivani) e dei tanti (antica casta di tessitori), mentre la manodopera non specializzata, i cosiddetti coolies, e reclutata da un lato anch’essa nelle caste dei kaivartha e dei kayastha, dall’altro nelle caste disprezzate dei gvala (i lattai, un’antica tribu paria) e dei camara (la grande casta impura di lavoratori del cuoio del Bengala). Anche altrove le caste inferiori private dei loro mezzi di sostentamento tradizionali sono quelle che costituiscono in massima parte la manodopera dei coolies.

I veri e propri operai di fabbrica provengono anch’essi soprattutto dalle quattro caste dei tanti (tessitori), kaivartha (contadini e pescatori), camara (lavoratori del cuoio), kayastha (scrivani). Al contrario presso i catri (presunti ksatriya, in realta un’antica tribu di mercenari), per esempio, il 45% sono contadini, peones e servitori domestic!, mentre quasi nessuno e impiegato nei servizi pubblici e nell’industria.

Nell’industria tessile della provincia di Bombay lavora il 63% dei membri della casta dei tessitori, l’n,7% di bhatia (un antico popolo ospite di mercanti), il 9,8% di vani (mercanti nobili), il 3,8% di rajput; i prabhu (impiegati) ed i mahar (impiegati di villaggio) sono presenti in misura superiore all’ i%, le altre caste in misura inferiore. I mercanti e le ultime caste citate costituiscono perlopiu la categoria imprenditoriale (oppure, nei caso dei rajput, i «proprietari»).

Al commercio (eccetto le industrie alimentari) nella provincia di Bombay partecipano le seguenti percentuali delle singole caste: brahmani 3,2%; baniya (antica nobile casta mercantile) 24,8%; bhatia (antico popoloospite di mercanti) 7%; rajput e maratha in pratica o; prabhu (impiegati) 9,3%; lohana (antica casta nobile mercantile del Sindh) 6%; tessitori, koli (piccoli proprietari contadini), kunbi (contadini), mahar (impiegati di villaggio), in pratica o; pandhari (distillatori di succo di palma) 2%. Delle antiche caste mercantili una parte considerevole e oggi impiegata nelle industrie alimentari (in particolare nella vendita al dettaglio): il 40% dei baniya, il 61,3% dei bhatia, il 22,8% dei lohana. Vi lavorano invece solo pochi membri delle altre caste e praticamente nessuna delle caste nobili.

i6. p. 480.

j6. Nella provincia di Bombay i proprietari terrieri si trovavano perlopiii nelle caste dei brahmani, dei prabhu (impiegati), dei mahar (impiegati di villaggio), dei lohana (mercanti).

k6. Usiamo qui questo termine in maniera del tutto provvisoria e indifferenziata trascurando quindi, per il momento, il fatto che la filosofia indu ha sviluppato diverse concezioni metafisiche delFessenza dell’anima.

l6. Cfr. Bayer, «Journal Asiatique», 9, Serie 18 (1901). Sulla «seconda morte» vedere in particolare H. Oldenberg, Die Lehre der Upanischaden und die Aufgange des Buddhismus, Gottingen, 1915.

m6. La credenza nel fato, l’astrologia, gli oroscopi erano molto diffusi in India sin da tempi remoti. A un esame piu attento appare tuttavia che l’oroscopo indica, si, il destino, ma che il significato stesso della costellazione, favorevole o sfavorevole per l’individuo, e determinato dal karma.

n6. Lo riferisce anche Blunt nei «Cens. Rep.» del 1911 come un’espressione degli indu di alto rango nei confronti dei camara.

o6. Ancora oggi e impossibile o molto difficile convincere i contadini indiani che coltivano juta a concimare il terreno, perche cio e «contrario alle usanze» (Cfr. v. D elden, Studien uber die Indische ]uteindustrie, 1915).

p6. Questo tipo di idee compaiono anche nelle discussioni sui problema negro degli Stati Uniti. Per quanto riguarda la presunta antipatia «naturale» delle razze, e stato notato a ragione come l’esistenza di vari milioni di sangue misti costituisca una smentita esauriente di questa presunta estraneita «naturale». L ’estraneita di sangue rispetto agli indiani e perlomeno uguale, se non maggiore; tuttavia ogni yankee cerca di rintracciare del sangue indiano nel suo pedigree, e se la figlia del gran capo Pocohontas dovesse essere responsabile dell’esistenza di tutti gli americani che vorrebbero discendere da lei, dovrebbe aver avuto un numero di figli uguale a quello di Augusto il Forte.

q6. Ancora nel xn secolo la frontiera etnica tra Arii e Dravida si esprime neirindravati nella diversa lingua delle iscrizioni: l’amministrazione manteneva la differenza. Tuttavia un posto con gente «che veniva da ovunque», ossia etnicamente misto, venne concesso per un tempio («Ep. Ind.», vol. IX, p. 313).

r6. L’importanza di questo aspetto della questione appare nei mezzi ai quali ricorre oggi talvolta l’opposizione anti-brahmanica delle distinte caste borghesi. Questi mezzi sono: i) eliminare la partecipazione al culto pubblico nel tempio limitandosi al culto domestico; in questo modo l’individuo acquista la possibilità di scegliere un brahmano di suo gradimento, e nello stesso tempo annulla il più efficace mezzo coercitivo dei principi e dei brahmani: la chiusura del tempio, vale a dire una specie di «interdetto». 2) Ancora più radicale; formare i propri sacerdoti, reclutati nella propria casta ed impiegarli al posto dei brahmani. 3) La tendenza molto generale, rivolta contro l’autorità brahmanica, di risolvere le questioni della casta, anche quelle rituali, tramite i pancàyata o addirittura attraverso moderne assemblee di casta, invece di rivolgersi per la decisione a un pandit o a un math (monastero).

s6. Cfr. per esempio il «Cens. Rep.» per il Bengala, 1911, parte I, ŧ 958, p. 495.

1. Akbar, 1524-1605, sultano musulmano della dinastia Moghul (o Gran Mogol) dell’India, noto per il suo tentativo di riforma religiosa e sociale volto awto.

2. Codice di Manu, famoso codice di leggi che la religiosita indiana attribuisce a Manu, progenitore del genere umano secondo la mitologia indiana.

3. Jain, seguaci del jainismo, religione indiana soteriologica ed eterodossa rispettoalia tradizione brahmanica, sorta contemporaneamente o anteriormente al buddhismoe diffusa tuttora in tutta l’India.

4. Montanisti, setta cristiana sorta intorno al 172 in Frigia; prende il nome dal suo fondatore Montano. Era a carattere entusiastico, dava grande importanza ai carismi, alia profezia e all’attesa escatologica.

5. Wurth, antico termine germanico che indica un pezzo di terra ai margini dei poderi.

6. Dharmasastra, trattati giuridici composti in sanscrito che discendono dai dharmasiitra vedici. I piu antichi risalgono all’inizio dell’era volgare; costituiscono veri e propri codici di leggi relativi alia condotta e alia vita sociale;Brahmana, testi liturgici e teologici dell’antica letteratura indiana;Purana, testi religiosi della letteratura indiana a carattere eterogeneo: costituiscono una vera e propria enciclopedia dell’induismo. I piu antichi risalgono al vi secolo d. C.

7. Visnu, nell’antica religione vedica, divinita con caratteri cosmici e solari. Membro della triade sacra, insieme a Brahma e Siva, e diventato il dio supremo adorato da un’ingente massa di fedeli.

8. Siva, dio della mitologia indiana che compare nell’epica e nei Purana. Rappresenta il principio distruttore.

9. Mahabharata grandioso ed enciclopedico poema epico della letteratura indiana.

10. Kali, divinita indiana, moglie di Siva, rappresentata in modo cruento e per molto tempo venerata con sacrifici umani.

11. Max Muller, 1823-1900, indologo e storico delle religioni tedesco. Fondo l’importante collezione di testi Sacred Books of the East.Èfondatore della scuola di mitologia comparata.

12. File, termine greco che designa le tribu in cui si suddivideva la popolazione dell’antica Grecia.

13. Instleute, termine che indica varie categoric di lavoratori agricoli. In questo caso, in particolare, quelli contrapposti ai giornalieri in quanto lavorano fissi su una tenuta e ricevono invece del compenso in denaro, o accanto ad esso, l’ alloggio, un pezzo di terra e un compenso in natura. Moglie e figli partecipano al lavoro. Tali lavoratori si differenziano dagli altri coloni in quanto la. loro piccola proprieta e un salario e non una locazione; Deputatleute, lavoratori agricoli il cui compenso e prevalentemente in natura, con un pezzo di terra per i propri bisogni.

14. Pritani, nell’antica Atene, i cinquanta consiglieri in carica durante una decima parte dell’anno.

15. In tedesco Stand, letteralmente status o «gruppo di status». I due termini verranno d’ora in poi impiegati alternativamente con lo stesso significato.

16. Sena, 1095-1200 circa, dinastia sivaita del Bengala, rappresento la reazione indu al buddhismo della dinastia precedente (i Pala).

17. Maratti, popolazione dell’India sud-occidentale che si rivelo nei Medioevo per le sue doti militari e guerriere.

18. Arii, gli Indiani e gli Irani secondo il nome che essi stessi si davano. Nella preistoria, quel complesso di nomadi che portarono le lingue indiane e iraniche nelle sedi storiche.

19. Atharvaveda, titolo della quarta raccolta dei Veda, di data più recente delle altre. è una raccolta di 731 inni contenente formule ed esorcismi. è spesso considerata poco ortodossa (per il suo legame con la superstizione) ed esclusa dal canone dei sacri testi vedici.

20. Soma, nome di una pianta e del succo inebriante che se ne estraeva e che era, nella religione vedica, la materia sacrificale più importante.

21. Feaci, mitico popolo di navigatori che figura WOdissea (episodio di Nausicaa) e alia cui isola (Scheria = Corfu) approdano anche gli Argonauti.

22. Berserker: letteralmente «guerriero furibondo», eroe estatico della mitologia nordica; moshuah (ebr.): da mashiah, «unto», ossia «l’unto del Signore», il Salvatore; Degen (germ.): letteralmente «campione», «eroe».

23. Urteilsschelte, appello, secondo l’antico diritto germanico.

24. Visvamitra e Vaistha, personaggi della mitologia indiana al centro di varie vicende che figurano nei Veda, nell’epica e nei Purana. Il primo e nato nella casta guerriera e riesce ad elevarsi con l’ascetismo alia casta brahmanica. Il secondo, suo grande rivale, e un saggio di casta brahmanica che per molto tempo non voile riconoscere la dignita brahmanica del primo.

25. Megastene, geografo e etnografo greco (iv - i i i secolo a. C.). Incaricato dai Seleucidi di varie missioni in India, serisse un trattato in quattro libri su questa regione.

26. Arriano, 95-180 d. C. circa, storico greco, autore tra l’altro di un’opera geografico-etnografica sull’India.

27. Maurya, dinastia dell’India (321-185 a. C.), fondata da Candragupta Maurya.

28. Asoka, re dell’India della dinastia Maurya dei Magadha (odierno Bihar meridionale). Sail al trono nel 272 a. C. e estese il suo dominio su quasi tutta 1’India. Nel 231 a. C. si convert! al buddhismo. Le sue iscrizioni, i piu antichi documenti datati dello indoario, rivelano la sua alta concezione morale e la sua saggezza amministrativa.

29. Arthasastra, termine sanscrito che designa la scienza amministrativa e l’arte del governo. Kautihya Arthasastra e 1’opera piu ragguardevole sulla scienza politica, attribuita all’autore semileggendario Canakya, noto anche, per l’appunto, sotto il name di Kautilya e identificato dalla tradizione con l’anonimo ministro del re Candragupta della dinastia Maurya, al quale avrebbe assicurato con la sua notevole abilita politica il trono di Pataliputra nel 322 a. C.

30. Jataka, testo buddhistico che comprende oltre cinquecento racconti riferentisi alla passata esistenza del Buddha.

31. Sasanidi, dinastia iranica che regno nella Persia dal 226 al 640 d. C. circa.

32. Hiuen Tsang, adattamento occidentale grafico del nome di religione Hsiian Tsang del pellegrino cinese buddhista Chen I (602-664), il quale per vari anni giro l ’India tornandone con immagini, reliquie e libri sacri buddhisti che tradusse. La relazione dei suoi viaggi e nel Hsi Yu Chi («Notizie dei paesi d’Occidente»).

33. Tamil, popolazione dell’India meridionale e di Ceylon, di lingua dravidica.

34. William Ewart Gladstone, 1809-1898, celebre statista inglese. Come capo del governo fece approvare nel 1869 dal parlamento la soppressione della Chiesa di stato irlandese, affrancando 1 contadini cattolici dall’obbligo di pagare la decima e varo nel 1870 Vlrish Land Act, una legge favorevole ai fittavoli irlandesi.

35. Proprietari-coltivatori diretti.

36. Richard Pischel, 1849-1908, indianista, studioso in particolare dei Veda del buddhismo e dei dialetti indiani.

37. Karl Friedrich Geldner, 1852-1923, indianista, specialista della letteratura vedica.

38. Rgveda, il piu antico testo letterari dell’ India; e una raccolta di inni composti in epoche diverse che riflette le credenze religiose degli antichi Ario-Indiani.

39. Metrokomia, termine greco che indica il «borgo principale».

40. Apophora (apofora), in Atene, in particolare nel iv secolo a. C., somma di denaro che alcuni schiavi, lasciati liberi di esercitare un’attivita lucrosa, dovevano detrarre periodicamente dai propri guadagni per consegnarla ai loro padroni; obro nell’antica Russia un pagamento fisso di vario tipo; in particolare, un tributo per l’uso di proprieta statali o private; leibzins, rendita (o rispettivamente tributo) a carattere vitalizio nell’antico diritto germanico.

41. Gotterdammerung, «Crepuscolo degli dei», la fine del mondo secondo la mitologia nordica.

42. Sir Herbert Hope Risley, 1851-1911, etnologo e diplomatico, presto servizio in India dove fu incaricato del primo censimento ufficiale da cui trasse materiale per i suoi studi.

43. Karl von den Steinen, 1855-1929, etnologo ed esploratore, comp! importanti studi antropologici sugli indigeni dell’alto Xingu (Brasile).

44. Hermann Oldenberg, 1854-1920, indianista. Sono particolarmente importanti i suoi studi sulla religione vedica e sul buddhismo.