OSSERVAZIONI PRELIMINARI
Nel trattare i problemi della storia universale, il figlio della moderna cultura europea formulerà inevitabilmente e a ragione la seguente domanda: per quale concatenazione di circostanze, proprio qui, in terra d’Occidente, e soltanto qui, si sono prodotti dei fenomeni culturali i quali - almeno come ci piace raffigurarceli - si sono trovati in una direttrice di sviluppo di significato e di validità universali?
Soltanto in Occidente esiste una «scienza» a quello stadio di sviluppo che noi oggi riconosciamo come valido. Conoscenze empiriche, riflessioni sui problemi del mondo e della vita, saggezza filosofica e anche teologica della massima profondità (limitata, questa, a forme embrionali nell’Islam e in alcune sette indiane, mentre lo sviluppo completo di una teologia sistematica è proprio solo del cristianesimo influenzato dall’ellenismo), insomma sapere e osservazione di grandissima finezza si sono riscontrati anche altrove, soprattutto in India, in Cina, a Babilonia, in Egitto. Ma all’astronomia babilonese, come a tutte le altre, mancavano quelle basi matematiche che i Greci furono i primi a darle, e ciò rende ancora più sorprendente lo sviluppo stesso della scienza degli astri babilonese. Alla geometria indiana mancava la «dimostrazione» razionale: un altro prodotto dello spirito ellenico come pure la meccanica e la fisica. Alle scienze naturali indiane, molto sviluppate dal punto di vista deirosservazione, mancava la sperimentazione razionale che, a prescindere dai tentativi dell’antichità, è essenzialmente un prodotto del Rinascimento, e così pure il laboratorio moderno; per cui alla scienza medica che in India era particolarmente sviluppata sul piano tecnico-empirico mancavano le basi biologiche e soprattutto quelle biochimiche. Una chimica razionale manca in tutte le civiltà eccetto quella occidentale. Alla storiografia cinese altamente sviluppata manca il pragma di Tucidide. Machiavelli ha dei predecessori in India. Ma a tutte le dottrine asiatiche dello Stato manca un sistema di tipo aristotelico e mancano i concetti razionali in genere. D’altra parte, per una dottrina giuridica razionale, malgrado tutti i tentativi presenti in India (Scuola di Mimansa1), malgrado le ampie codificazioni specialmente nell’Asia anteriore e malgrado tutti i libri di diritto, indiani e altri, manca la rigorosa schematizzazione giuridica e la forma di pensiero del diritto romano e del diritto occidentale da esso derivato. Inoltre, un prodotto come il diritto canonico è conosciuto solo in Occidente.
Parimenti nel campo dell’arte. L’orecchio musicale ha avuto probabilmente presso altri popoli uno sviluppo più precoce e raffinato che da noi; comunque non meno raffinato. Diversi tipi di polifonia erano largamente diffusi ovunque; sono stati riscontrati in diversi luoghi anche il concerto di una pluralità di strumenti e il discanto. Tutti i nostri intervalli razionali di suoni erano conosciuti e computati. Ma la razionale musica armonica - sia il contrappunto che l’armonia vera e propria - la struttura del materiale tonale sulla base delle tre triadi con la terza armonica; il nostro cromatismo e la nostra enarmonia, non rapportati a un sistema di distanze, dal Rinascimento in poi, ma interpretati in forma razionale armonica; la nostra orchestra con il suo quartetto d’archi come nucleo centrale e l’organizzazione dell’insieme degli strumenti a fiato; il basso continuo; la nostra scrittura musicale (la prima che ha reso possibile la composizione e l’esecuzione delle moderne opere musicali e soprattutto la loro durevole esistenza); le nostre sonate, sinfonie, opere - sebbene la musica programmata, la modulazione e l’alterazione dei suoni, oltre al cromatismo, siano esistiti come mezzi espressivi nelle più diverse tradizioni musicali - e i nostri strumenti di base, l’organo, il pianoforte, il violino, come mezzi per la loro esecuzione: tutto questo si è avuto solo in Occidente.
L’arco a sesto acuto come mezzo di decorazione è esistito anche altrove, nel mondo antico e in Asia; presumibilmente nemmeno la volta a crociera era sconosciuta in Oriente. Ma l’impiego razionale della volta gotica come mezzo per distribuire le spinte e per colmare spazi di ogni forma e soprattutto come principio costruttivo per l’erezione di edifici monumentali e come base di uno stile che si estende alla scultura e alla pittura, come quello creato dal Medioevo, non esiste altrove. E non esiste nemmeno, seppure le basi tecniche siano state importate dall’Oriente, quella soluzione del problema della cupola e quel tipo di razionalizzazione «classica» dell’insieme dell’arte nella pittura tramite l’uso razionale della prospettiva lineare ed aerea - che il Rinascimento ha creato da noi. In Cina esistevano i prodotti della stampa. Ma una particolare letteratura concepita solo per la stampa e possibile solo tramite essa - la «stampa» periodica, insomma, e soprattutto i giornali - è nata solo in Occidente. Istituti superiori di ogni sorta, anche superficialmente simili alle nostre Università e perfino alle nostre Accademie sono esistiti in vari luoghi (Cina, Islam). Ma so lo in Occidente sono sorte delle razionali e sistematiche industrie specializzate della scienza e il corpo di specialisti da esse formato con la sua odierna posizione dominante nella cultura. Ed è apparso, in particolare, il funzionario specializzato, la pietra angolare dello stato moderno e della moderna economia in Occidente. Di questa figura si trovano soltanto dei precursori che non hanno avuto in nessun luogo e in nessun senso quell’importanza costitutiva per l’ordinamento sociale che essa ha avuto in Occidente. Naturalmente il «funzionario», anche quello specializzato in qualche ramo particolare, è una figura molto antica nelle più diverse civiltà. Ma l’assoluta e inevitabile dipendenza della nostra intera esistenza, delle condizioni fondamentali politiche, tecniche ed economiche della nostra vita da un’organizzazione di funzionari specializzati sotto il profilo tecnico, commerciale, ma soprattutto giuridico, come esecutori delle più importanti funzioni quotidiane della vita sociale, sono fenomeni che nessun paese e nessuna epoca ha conosciuto come il moderno Occidente. L’organizzazione per ceti dei gruppi politici e sociali è stata largamente diffusa. Ma già lo stato dei ceti «rex et regnum» in senso occidentale è stato conosciuto solo da noi. Ciò vale ancora di più per i parlamenti di «rappresentanti del popolo» eletti periodicamente, con i demagoghi e il governo dei capi di partito come «ministri» responsabili di fronte al parlamento, che sono prodotti esclusivi dell’Occidente, benché naturalmente in tutto il mondo siano esistiti «partiti» nel senso di organizzazioni volte a conquistare e influenzare il potere politico. E soprattutto lo «stato», nel senso di un’istituzione politica con una «costituzione» posta razionalmente, un diritto razionalmente stabilito e un’amministrazione retta da funzionari specializzati secondo delle regole enunciate razionalmente, le «leggi», è conosciuto soltanto in Occidente in questa essenziale combinazione di caratteri determinanti, nonostante tutti gli altri tentativi in questo senso.
Lo stesso accade oggi anche per il potere più decisivo della nostra vita moderna: il capitalismo.
L’«istinto del profitto», la «sete di guadagno», di guadagno monetario, anzi del massimo guadagno monetario possibile: tutto ciò non ha niente a che vedere con il capitalismo. Tale aspirazione è presente, e lo è sempre stata, presso camerieri, medici, cocchieri, artisti, prostitute, impiegati venali, soldati, banditi, crociati, giocatori d’azzardo, mendicanti; è presente, si può dire, presso all sorts and conditions of men, in tutte le epoche e in tutti i paesi del mondo dove vi sia stata o vi sia in qualche modo la possibilità obiettiva di raggiungere tale scopo. Questa ingenua definizione del concetto di capitalismo dovrebbe venire abbandonata una volta per tutte allo stadio primitivo della storia della cultura. La sconfinata sete di profitto non s’identifica minimamente con il capitalismo né tantomeno con il suo «spirito». Il capitalismo, anzi, può coincidere con il temperamento o perlomeno con il controllo razionale di questi impulsi irrazionali. Di fatto il capitalismo coincide - nella razionale impresa capitalistica a carattere stabile - con la ricerca del profitto; anzi, del profitto sempre rinnovato, della «redditività». Perché così deve essere. AH’interno della vita economica a ordinamento capitalistico un’impresa che non orientasse la propria attività al raggiungimento della massima redditività sarebbe condannata a scomparire. Tentiamo di definire questo concetto in modo un po’ più preciso di quanto non si faccia di solito. Un atto economico capitalistico è per noi innanzitutto un atto fondato sull’aspettativa di un guadagno da ottenersi sfruttando delle possibilità di scambio: sfruttando, cioè, delle occasioni di lucro (formalmente) pacifiche. Il profitto ottenuto con mezzi violenti (che siano tali formalmente e realmente) segue le sue leggi proprie e non è opportuno (anche se non lo si può proibire) collocarlo nella stessa categoria dell’attività orientata, in ultima analisi, alla possibilità di profitto mediante lo scambioaa. Laddove il profitto capitalistico viene perseguito in maniera razionale, anche l’attività corrispondente è orientata secondo il calcolo del capitale. Ciò significa che l’attività è diretta all’impiego sistematico delle prestazioni utili di cose o persone come mezzo di profitto, in maniera tale che, alla fine di un periodo di attività, il ricavo finale dell’impresa, misurato in termini monetari (o l’attivo monetario valutato periodicamente nel caso di un’impresa a carattere permanente) superi, nel bilancio, il «capitale», ossia il valore stimato dei mezzi materiali di produzione impiegati nello scambio per conseguire il profitto. Poco importa che si tratti di un complesso di merce in natura affidata in commenda a un commerciante itinerante, il cui lucro finale può consistere nell’acquisizione di altra merce in natura; o invece di una fabbrica, il cui attivo è rappresentato da edifici, macchine, denaro liquido, materie prime, prodotti semilavorati e finiti, il tutto controbilanciato dagli impegni assunti. In tutti questi casi, un fattore è sempre decisivo: viene compiuto, cioè, un calcolo di capitale in termini monetari; poco importa che si conformi alle moderne regole della contabilitào che venga condotto nel modo più primitivo e rudimentale possibile. Tutto avviene sempre in termini di bilanci: all’inizio dell’impresa c’è il bilancio di apertura; prima di ogni singola azione, i calcoli che ne studiano e controllano l’opportunità; alla fine, il bilancio di chiusura, per valutare il risultato in termini di «profitto». Così, per esempio, il bilancio iniziale di una commenda2 consisterà nella determinazione del valore monetario - che dovrà essere riconosciuto tale da ambedue le parti - dei beni consegnati, a meno che questi non siano già sotto forma di denaro; il bilancio finale dovrà fornire la valutazione in base alla quale ripartire i profitti e le perdite. Le operazioni saranno razionali in quanto il calcolo sta alla base di ogni singola azione dei contraenti. Che poi un calcolo e una valutazione veramente precisi spesso non avvengano; che si proceda in modo puramente approssimativo o semplicemente secondo metodi tradizionali e convenzionali, sono fatti che fino al giorno d’oggi avvengono in ogni tipo d’impresa capitalistica, ogni volta che le circostanze non costringono ad un calcolo preciso. Ma questi sono punti che riguardano soltanto il grado di razionalità del profitto capitalistico.
L’importanza del nostro concetto, ciò che caratterizza in maniera decisiva l’atto economico, sta nella tendenza di fatto a stabilire un confronto tra il valore monetario guadagnato e il valore monetario investito - per quanto primitiva possa essere la forma di tale confronto. Ora in questo senso il «capitalismo» e le imprese «capitalistiche» sono esistiti presso tutte le civiltà - fin dove i documenti economici ci permettono di risalire - raggiungendo anche un discreto livello di razionalizzazione del calcolo capitalistico. Sono esistiti in Cina, in India, a Babilonia, in Egitto, nell’antica civiltà mediterranea, nel Medioevo come nell’era moderna. E non si trattava solo di singole imprese isolate ma anche di imprese economiche che riposavano interamente sul continuo rinnovarsi di operazioni capitalistiche isolate e anche di operazioni permanenti. Tuttavia, il commercio in particolare per lungo tempo non rivestì un carattere stabile come quello nostro odierno ma consistette in una serie di attività individuali. Solo gradualmente il commercio all’ingrosso perlomeno ha acquistato una coerenza interna (in particolare con l’apertura di filiali). In ogni caso, l’impresa capitalistica e anche l’imprenditore capitalista, non solo quello occasionale ma anche quello professionale sono figure antichissime e ampiamente diffuse.
Ma è in Occidente che il capitalismo ha avuto un’estensione eccezionale, basata inoltre su metodi, forme e direttrici che non sono mai esistiti altrove. Sono esistiti commercianti in tutto il mondo: grossisti e dettaglianti, dediti alle attività locali e internazionali. Vi sono stati prestiti di ogni tipo, banche dalle funzioni più diverse ma sostanzialmente analoghe perlomeno a quelle delle nostre banche del xvi secolo. Crediti marittimi, commende, operazioni e associazioni sul modello della società in accomandita sono stati largamente diffusi, anche a livello d’impresa permanente. Dovunque sia sorta l’esigenza di finanziare le istituzioni pubbliche sono apparsi i banchieri: a Babilonia, in Grecia, in India, in Cina, a Roma. Hanno finanziato innanzitutto la guerra e la pirateria, e forniture e costruzioni di ogni sorta. Nella politica d’oltremare hanno svolto il ruolo d’imprenditori coloniali, come proprietari di piantagioni con schiavi e sfruttatori del lavoro direttamente o indirettamente forzato; hanno preso in appalto beni demaniali, uffici pubblici e soprattutto imposte. Hanno finanziato i capi di partito nelle elezioni e i condottieri nelle guerre civili. E infine sono stati degli «speculatori» in ogni sorta di occasioni che promettessero un profitto pecuniario. Questa figura d’imprenditore - l’avventuriero capitalista - è esistita in tutto il mondo. All’infuori del commercio e delle operazioni bancarie e di credito le attività di tali imprenditori gravitavano intorno ad imprese di carattere puramente irrazionale e speculativo, oppure erano orientate al profitto ottenuto con la violenza, al bottino soprattutto: sia il bottino ottenuto direttamente in guerra, sia il bottino fiscale permanente ottenuto tramite lo sfruttamento dei sudditi.
Il capitalismo degli avventurieri della finanza, dei grossi speculatori, dei cacciatori di concessioni coloniali e anche il moderno capitalismo finanziario possiede spesso questa impronta anche al giorno d’oggi nei paesi occidentali, perfino in tempo di pace; essa è caratteristica tuttavia del capitalismo specificamente diretto allo sfruttamento della guerra, e alcune parti - ma solo alcune parti - del grosso commercio internazionale gli sono strettamente collegate, oggi come sempre.
Ma il moderno Occidente conosce accanto a queste una forma di capitalismo totalmente diversa e che non si è sviluppata da nessun’altra parte: l’organizzazione razionale capitalistica del lavoro (formalmente) libero. Di questo fenomeno si trovano altrove soltanto dei rudimenti. Perfino l’organizzazione del lavoro forzato ha raggiunto un certo grado di razionalizzazione solo nelle piantagioni e, in misura molto limitata, negli ergasteria dell’antichità. Ancora più limitata era la razionalizzazione all’inizio dell’era moderna nelle fattorie soggette a servitù e nelle fabbriche o industrie domestiche dei proprietari terrieri che adoperavano il lavoro servile. è stato provato come, all’infuori dell’Occidente, delle vere e proprie «industrie domestiche» che impiegassero il lavoro libero sono esistite solo in pochi casi isolati. L’impiego, pur molto diffuso, di lavoratori salariati, ha portato solo in casi eccezionali alla creazione di manifatture - come i monopoli di Stato, la cui organizzazione era co munque molto diversa da quella delle imprese moderne - e mai, in ogni caso, ad un’organizzazione razionale delle corporazioni di mestieri come quella del nostro Medioevo.
L’organizzazione razionale dell’impresa, orientata sulle possibilità offerte dal mercato dei beni e non dalla forza politica o dalle speculazioni irrazionali non è tuttavia l’unica struttura particolare del capitalismo occidentale. La moderna organizzazione razionale dell’impresa capitalistica non sarebbe stata possibile in assenza di altri due importanti fattori di sviluppo: la separazione tra amministrazione domestica e impresa, che domina totalmente l’odierna vita economica e, strettamente collegata a questo fattore, la contabilità razionale. Si trova anche altrove (nel bazar orientale e negli ergasterìa3 di altre civiltà) la separazione materiale tra luogo di lavoro o di vendita e luogo d’abitazione. E si sono sviluppate associazioni capitalistiche con una contabilità indipendente per l’impresa anche nel Medio ed Estremo Oriente, e nell’antichità. Ma di fronte alla moderna posizione di autonomia dell’impresa, questi sono soltanto dei primi passi. E ciò è dovuto in primo luogo al fatto che le condizioni indispensabili di tale autonomia - tanto la nostra contabilità razionale dell’impresa quanto la nostra separazione legale tra patrimonio dell’impresa e patrimonio personale - mancano totalmente o sono solo agli inizi del loro sviluppoa.bQuasi dappertutto le imprese di profitto hanno avuto la tendenza a nascere come parte di una grande economia domestica principesca o latifondista (1 ‘oikos) uno sviluppo che, come ha già riconosciuto Rodbertus4, accanto ad alcune superficiali parentele con l’economia moderna, è fondamentalmente divergente e addirittura opposto.
Tuttavia, tutte queste particolarità del capitalismo occidentale hanno trovato in ultima analisi il loro significato moderno soltanto nella loro associazione con l’organizzazione capitalistica del lavoro. Anche ciò che si suole chiamare la «commercializzazione», cioè lo sviluppo dei titoli negoziabili, e la Borsa, che è la razionalizzazione della speculazione, gli sono strettamente collegati. Infatti senza l’organizzazione razionale capitalistica del lavoro, tutto ciò, anche lo sviluppo della commercializzazione - ammettendo pure che fosse stato possibile - non avrebbe avuto neanche lontanamente lo stesso significato, soprattutto per quanto riguarda la struttura sociale del moderno Occidente e tutti i problemi specifici ad essa connessi. Il calcolo esatto - la base di tutto il resto - è possibile soltanto se fondato sul lavoro libero.
E proprio come il mondo, all’infuori del moderno Occidente, non ha conosciuto un’organizzazione razionale del lavoro, così, per questo stesso motivo, esso non ha conosciuto nemmeno un socialismo razionale. Sono esistiti senza dubbio fatti come l’economia cittadina, la politica del rifornimento alimentare della città, il mercantilismo e la politica del benessere condotta dai prìncipi, i razionamenti, l’economia regolata, il protezionismo e le teorie del laissez-faire (in Cina). Nello stesso modo il mondo ha conosciuto anche delle economie comunistiche e socialistiche di diverso tipo: comuniSmo familiare, religioso o militare, socialismo di stato (in Egitto), cartelli monopolistici e perfino organizzazioni di consumatori. Ma benché siano esistiti dappertutto dei privilegi di mercato per le città, delle corporazioni, delle gilde, e ogni sorta di differenziazioni legali tra città e campagna nelle forme più diverse, ciononostante il concetto di borghese non è esistito all’infuori dell’Occidente né quello di borghesia all’infuori dell’Occidente moderno. Così pure non è esistito altrove il «proletariato» come classe, né poteva esistere, mancando l’organizzazione razionale del lavoro libero nell’impresa. Le «lotte di classe» tra strati di creditori e debitori; tra proprietari fondiari e contadini senza terra, servi o fittavoli; tra commercianti e consumatori o proprietari fondiari, sono esistite dappertutto in diverse forme. Ma già le lotte medievali in Occidente tra committenti e lavoratori5 a domicilio sono presenti altrove soltanto in forma embrionale. Manca totalmente il conflitto moderno tra grossi imprenditori industriali e liberi lavoratori salariati. E di conseguenza non poteva esistere nemmeno una problematica come quella sviluppata dal moderno socialismo.
In una storia universale della cultura, quindi, il problema centrale, per noi, anche da un punto di vista puramente economico, non è, in ultima analisi, lo sviluppo dell’attività capitalistica in quanto tale, che si differenzia solo nelle forme assunte presso le diverse civiltà: capitalismo d’avventurieri, o mercantile, oppure orientato a cercare le occasioni di lucro nella guerra, nella politica, nelPamministrazione. Il problema sta piuttosto nell’origine di questo capitalismo imprenditoriale borghese con la sua organizzazione razionale del lavoro libero. O, per espri merlo in termini di storia della civiltà, nell’origine della borghesia occidentale e dei suoi caratteri: un problema senza dubbio strettamente connesso con quello dell’origine dell’organizzazione capitalistica del lavoro ma, beninteso, non semplicemente identico a quest’ultimo. Infatti, a borghesi», in riferimento a un ceto esistevano già prima dello sviluppo della forma specificamente moderna del capitalismo, seppure, è vero, solo in Occidente.
La forma particolare del moderno capitalismo occidentale è stata determinata, com’è noto, in grande misura, a prima vista, dallo sviluppo delle possibilità tecniche. Oggi la sua razionalità dipende essenzialmente dalla calcolabilità dei più importanti fattori tecnici: la base di ogni calcolo preciso. Ma ciò significa soprattutto che essa dipende dai caratteri peculiari della scienza occidentale, in particolare le scienze naturali basate sulla matematica e sulla sperimentazione esatta e razionale. D’altra parte, lo sviluppo di queste scienze e della tecnica basata su di esse ha ricevuto e riceve anche al giorno d’oggi un impulso decisivo dalle occasioni di profitto capitalistiche che si pongono come incentivo alle sue applicazioni pratiche economiche. è vero che l’origine della scienza occidentale non può essere attribuita a tali occasioni. Il calcolo, anche quello basato sul valore posizionale delle cifre, e l’algebra, sono stati impiegati anche in India, dove il sistema dei numeri posizionali è stato inventato. Solo in Occidente però esso venne impiegato per i propri scopi dal capitalismo in via di sviluppo, mentre in India non ha creato né un’aritmetica né una contabilità moderna. Nemmeno l’origine della matematica e della meccanica può essere attribuita agli interessi capitalistici. Ma l’utilizzazione tecnica delle conoscenze scientifiche, così importante per le condizioni di vita delle masse, è stata sicuramente incoraggiata dagli incentivi economici che in Occidente venivano posti su di essa. Ma questi incentivi derivavano dai caratteri particolari della struttura sociale deU’Occidente. Dobbiamo quindi chiederci quali elementi particolari di questa struttura hanno fornito tali incentivi, poiché senza dubbio non tutti hanno avuto la stessa importanza.
Tra le componenti d’importanza indiscutibile si colloca la struttura razionale del diritto e dell’amministrazione. Il moderno capitalismo imprenditoriale razionale ha infatti bisogno, oltre che di strumenti tecnici di produzione che permettono un calco lo di previsione, anche di un sistema giuridico fondato sulla certezza del diritto e di un’amministrazione fondata su regole formali. Senza questi elementi possono sussistere senz’altro il capitalismo avventuristico e il commercio speculativo nonché tutte le forme possibili di capitalismo politicamente determinato, ma non è possibile l’esistenza della razionale impresa economica privata con capitale fisso e calcolo sicuro. Ora, un diritto e un’amministrazione siffatti sono stati messi a disposizione dell’attività economica, con un tale grado di perfezione tecnicogiuridica e formale, solo in Occidente. Dovremo quindi chiederci: donde proviene questo diritto? In altre circostanze, come dimostra la ricerca, anche gli interessi capitalistici, da parte loro, hanno spianato la via - seppure certamente non da so li e nemmeno come elemento principale - al dominio, nel campo della giustizia e dell’amministrazione, di una classe di giuristi specializzati nel diritto razionale. Ma questi interessi non hanno creato tale diritto. Ben altre forze invece hanno avuto un ruolo attivo in tale sviluppo. E perché gli interessi capitalistici non hanno avuto lo stesso ruolo in Cina o in India ? Per quale motivo laggiù né lo sviluppo scientifico, né quel lo artistico, né quello politico, né quello economico hanno imboccato la via della razionalizzazione che è propria dell’Occidente ?
è evidente infatti che in tutti questi casi ci troviamo di fronte ad una forma specifica di razionalizzazione che è propria della cultura occidentale. Con questo termine si possono indicare molte cose diverse come verrà chiarito ripetutamente dall’ulteriore esposizione. Esistono, per esempio, delle «razionalizzazioni» della contemplazione mistica, di una condotta, cioè, che, considerata da altri punti di vista, è specificamente «irrazionale», esattamente come vi sono razionalizzazioni dell’economia, della tecnica, della ricerca scientifica, dell’educazione, dell’arte militare, della giustizia e dell’amministrazione. Si può inoltre «razionalizzare» ciascuno di questi campi nei modi più diversi a seconda dei punti di vista e dei fini ultimi, e ciò che è «razionale» sotto un certo aspetto potrà apparire «irrazionale» sotto un altro. Per questo motivo le razionalizzazioni dei più diversi campi della vita sono esistite sotto le forme più varie in tutte le zone di civiltà. Per caratterizzare le loro differenze dal punto di vista della storia delle civiltà è necessario chiedersi innanzitutto in quali settori e in quali direzioni si sono avute queste razionalizzazioni. La questione che si pone in primo luogo è quindi di riconoscere i caratteri distintivi del razionalismo occidentale e, all’interno di questo, i tratti della sua forma moderna e di spiegarne poi l’origine. Ogni ricerca esplicativa di questo tipo, tenendo conto dell’importanza fondamentale del fattore economico, dovrà prendere in considerazione innanzitutto le condizioni economiche. Ma anche la correlazione inversa non dovrà essere lasciata in disparte. Poiché come il razionalismo economico, alla sua origine, dipende, in generale, dalla tecnica e dal diritto razionale, così esso dipende pure dalla capacità e dalle disposizioni degli uomini di adottare certi tipi di condotta pratica e razionale. Laddove questa condotta si è trovata ostacolata da inibizioni di carattere spirituale anche lo sviluppo di una razionale condotta economica si è urtato a gravi resistenze interne. Ora tra i più importanti elementi formativi della condotta vi erano ovunque, nel passato, le forze magiche e religiose ed i precetti etici collegati a tali credenze. Di ciò si parlerà negli studi qui raccolti.
All’inizio di questa raccolta abbiamo posto due saggi meno recenti che cercano di avvicinare un lato importante del problema che in genere è il più difficile da afferrare: l’influenza di determinate credenze religiose sullo sviluppo dello «spirito economico», dell ‘ethos di un determinato sistema economico. In questo caso portiamo ad esempio la correlazione tra lo spirito della moderna vita economica e l’etica razionale del protestantesimo ascetico. Qui verrà quindi trattato solo un lato del rapporto causale. I saggi seguenti su L’etica economica delle religioni mondiali tentano, con una visione generale dei rapporti che intercorrono tra le più importanti religioni, la vita economica e la stratificazione sociale del loro ambiente, di esaminare ambedue le relazioni causali nella misura necessaria per scoprire i punti di somiglianza con lo sviluppo occidentale che verrà analizzato in seguito. Solo in questo modo, infatti, si può intraprendere una valutazione causale di quegli elementi deiretica economica della religione occidentale che le sono peculiari in opposizione alle altre, con la speranza di raggiungere un grado tollerabile di approssimazione. Questi studi, quindi, non pretendono di essere delle analisi complete di determinate culture, per quanto succinte. Al contrario, per ogni cultura essi sottolineano deliberatamente ciò che la oppone allo sviluppo di quella occidentale. Sono quindi decisamente orientati verso i problemi che ci sembrano importanti per la comprensione della cultura occidentale da questo punto di vista. Per lo scopo che ci proponiamo nessun altro procedimento sembrava possibile. Ma onde evitare malintesi occorre sottolineare fortemente qui di seguito i limiti della nostra ricerca.
Il profano perlomeno va messo in guardia contro il rischio di sopravvalutare l’importanza di queste indagini. Il sinologo, l’indologo, il semitista e l’egittologo non vi troveranno naturalmente nulla di sostanzialmente nuovo per loro. C’è solo da sperare che non trovino nulla di falso nei punti essenziali. L’autore non può sapere fino a che punto egli si è avvicinato a questo suo obiettivo, perlomeno nella misura possibile ad un non specialista. è evidente che chiunque sia costretto a ricorrere a traduzioni e inoltre, per l’impiego e la valutazione di fonti archeologiche, documentarie e letterarie debba rifarsi ad una letteratura specializzata spesso molto controversa e di cui egli stesso non può ovviamente giudicare personalmente il valore, ha tutti i motivi per avere un’opinione molto modesta del proprio lavoro. Tanto più che la quantità disponibile di traduzioni di «fonti» autentiche (cioè iscrizioni e documenti) è ancora molto limitata, specialmente per la Cina, in confronto a ciò che esiste ed è importante. Da tutto ciò deriva il carattere del tutto provvisorio di questi studi, in particolare per la parte che riguarda l’Asiac. Solo allo specialista spetta un giudizio definitivo. E, logicamente, questi studi sono stati scritti soltanto perché finora non esiste un’indagine di specialisti che si ponga questo scopo specifico e sia condotta sotto questi specifici punti di vista. Essi sono destinati ad essere presto superati, più ancora di quanto non avvenga in generale per tutti i lavori scientifici. D’altra parte nei lavori di tipo comparativo un simile sconfinamento nel campo di altri specialisti, per quanto criticabile, non si può evitare. Occorre quindi accettarne le conseguenze e rassegnarsi a nutrire forti dubbi sulla misura della propria riuscita.
I letterati, per moda o per zelo, credono al giorno d’oggi di poter fare facilmente a meno dello specialista o di poterlo degradare a lavoratore subalterno al servizio del «veggente». Quasi tutte le scienze debbono qualcosa ai dilettanti: spesso dei punti di vista preziosi. Ma il dilettantismo eretto a principio della scienza ne marcherebbe in realtà la fine. Chi vuole «vedere» vada al cinema, benché oggi gli vengano offerte nozioni in abbondanza, anche in forma letteraria, in questo stesso campo d’indagined. Nulla è più lontano di un tale atteggiamento dalle intenzioni di questi studi oltremodo spassionati e rigorosamente empirici. E, potrei aggiungere, chi vuole una predica vada pure in convento. I rapporti di valore che intercorrono tra le diverse civiltà di cui ci occupiamo in senso comparativo non verranno assolutamente discussi in questa sede. è vero che il percorso del destino dell’umanità atterrisce chi ne contempla un tratto. Ma sarà bene che egli tenga per sé i suoi piccoli commenti personali, come fa alla vista del mare o dell’alta montagna, a meno che non si sappia chiamato e dotato per dare ad essi un’espressione artistica e profetica. Nella maggior parte degli altri casi, tutte le chiacchiere sull’«intuizione» non mascherano altro che l’incapacità di distanziarsi in rapporto aH’oggetto, che va giudicata alla stessa stregua di un analogo atteggiamento nei confronti degli uomini.
Occorre poi giustificare lo scarso impiego del materiale etnografico., molto lontano da quello che lo stato odierno di tale scienza rende ovviamente indispensabile per un’indagine realmente approfondita, in particolare nel campo delle religioni dell’Asia. Ciò non è dovuto soltanto al fatto che le capacità di lavoro di un uomo sono limitate. Questa omissione ci è parsa invece consentita considerando che questi studi debbono occuparsi necessariamente dell’etica religiosa di strati che sono stati «portatori di cultura» nei rispettivi paesi. Si tratta qui dell’influenza che la loro condotta ha esercitato. è esatto però che anche quest’ultima non può essere debitamente compresa nella sua particolarità se non viene raffrontata ai fatti etnografici e folcloristici. Occorre quindi ammettere apertamente, e sottolineare, che vi è qui una lacuna alla quale l’etnografo obietterà con ragione. Spero di contribuire in parte a colmarla con uno studio sistematico della sociologia della religione, ma tale impresa andrebbe oltre gli obiettivi limitati di questo studio. è stato necessario accontentarci del tentativo di porre in luce il più possibile i punti di confronto con le nostre religioni occidentali.
Va infine menzionato anche l’aspetto antropologico del problema. Quando vediamo ripetutamente come, anche in settori dell’esistenza (apparentemente) indipendenti l’uno dall’altro, certe forme di razionalizzazione si sono sviluppate in Occidente e solo lì, sorge naturale l’ipotesi che la causa decisiva di tutto ciò consiste nei fattori ereditari. L’autore ammette di essere propenso - in maniera del tutto personale e soggettiva - a dare grande importanza all’eredità biologica. Ma, malgrado le importanti realizzazioni della ricerca antropologica, io non vedo ancora al giorno d’oggi nessun modo di determinare con qualche esattezza, o anche in maniera soltanto approssimativa, la misura e soprattutto la forma di tale influenza sullo sviluppo qui esaminato. Dovrà essere quindi uno dei compiti della ricerca sociologica e storica il mettere in luce in primo luogo tutte le influenze e le relazioni causali che possono essere spiegate in maniera soddisfacente in termini di reazioni agli eventi e all’ambiente circostante. Soltanto allora, e quando inoltre le ricerche comparate di neurologia e psicologia razziale avranno superato il loro attuale stadio iniziale, e in molti sensi promettente, si potrà forse sperare di ottenere dei risultati soddisfacenti anche per questo problemae. Per il momento mi sembra che manchino tali condizioni e il richiamo all’«ereditarietà» sarebbe una rinuncia prematura alle conoscenze forse raggiungibili oggi e una deviazione del problema verso fattori (oggi) ancora sconosciuti.
a. Qui, come in alcuni altri punti, le mie posizioni si scindono anche da quelle del nostro illustre maestro Lujo Brentano6 (nella sua opera che verrà citata in seguito). Se tale divergenza è soprattutto a carattere terminologico essa è tuttavia anche concreta. Non mi sembra infatti opportuno includere nella stessa categoria degli elementi così eterogenei come il profitto mediante bottino e il guadagno mediante la direzione di una fabbrica. Ancora meno opportuno appare il definire come «spirito» del capitalismo - in opposizione ad altre forme di profitto - ogni aspirazione al guadagno di denaro. Nel secondo caso si perde tutta la precisione dei concetti, nel primo invece si perde soprattutto la possibilità di chiarire i caratteri specifici del capitalismo occidentale rispetto ad altre forme economiche. Anche nella Philosophie des Geldes di G. Simmel7 «economia monetaria» e «capitalismo» vengono eccessivamente equiparati a scapito deiranalisi concreta. Negli scritti di W. Sombart8, soprattutto nella più recente edizione della sua opera principale sul capitalismo, il tratto specifico del capitalismo occidentale - almeno dal punto di vista della problematica che mi interessa - cioè l’organizzazione razionale del lavoro, passa in secondo piano rispetto ad altri fattori di sviluppo che hanno operato in tutto il mondo.
b. Naturalmente questa differenza non può essere concepita in termini assoluti. Dal capitalismo a carattere politico (innanzitutto sotto forma di appalto delle imposte), nell’antichità mediterranea e orientale, e persino in Cina e in India, erano già scaturite delle imprese razionali e permanenti la cui contabilità - che ci è nota solo attraverso miseri frammenti - ha avuto probabilmente un carattere «razionale». Inoltre il capitalismo «avventuristico» orientato politicamente si trova in stretto contatto con il capitalismo d’impresa alle origini delle banche moderne (ivi compresa la Banca d’Inghilterra) che sono sorte per la maggior parte da transazioni di natura politica, spesso bellica. Ne è tratto caratteristico l’opposizione tra il carattere di Paterson9, per esempio - un tipico promoter - e quello dei membri del comitato direttivo della Banca che ne decidevano la politica permanente e che presto vennero conosciuti come The Puritan Usurers of GrocersJ Hall. Si veda ugualmente lo sbandamento della politica bancaria della «banca più solida» in occasione della fondazione della South Sea10. La differenza è quindi fluttuante, ciononostante esiste. L’organizzazione razionale del lavoro non è stata creata dai grandi promoters e finanzieri come non lo è stata - sempre in linea generale e con eccezioni individuali - da quei tipici rappresentanti del capitalismo politico e finanziario che sono gli Ebrei. La si deve invece a tutt’altra categoria di persone.
c. Anche i resti delle mie conoscenze dell’ebraico sono del tutto inadeguate.
d. Non occorre precisare che questo non si riferisce a tentativi come quelli di K. Jaspers11 (nella sua opera Psychologie der W eltanschauungen, 1919) o alla Charakterologie di Klages12 e studi simili che si differenziano dal nostro nell’impostazione stessa. D’altra parte manca qui lo spazio per un esame critico.
e. Anni fa un eminente psichiatra mi ha espresso la stessa opinione.
1. Purva Mìmàmsa («speculazione anteriore», cioè pratica), una delle sei scuole di pensiero a cui i filosofi indiani aderirono nei secoli successivi al periodo epico, il cui oggetto specifico era l’accertamento del dharma (dovere).
2. Lujo Brentano, 1844–1931, economista tedesco, autore in particolare di un importante studio sulle Trade Unions inglesi (Die Arbeitergilden der Gegenwart).
3. Georg Simmel, 1858–1918, filosofo e sociologo tedesco, noto per i suoi saggi di metodologia sociologica e i suoi studi analitici delle forme di interazione sociale. Nell’op. cit. egli tenta di applicare i suoi princìpi astratti all’interpretazione del comportamento sociale nel campo specifico dell’economia, sottolineando il ruolo dell’economia fondata sul denaro nella specializzazione delle attività sociali e la spersonalizzazione delle relazioni individuali e sociali. Il tema è stato ripreso e ampliato dal Sombart.
4. Werner Sombart, 1863–1941, economista e sociologo tedesco. L’opera a cui allude Weber è Der moderne Kapitalismus (1902–1908), in cui la sua analisi presenta delle notevoli divergenze con quella di Weber. Su tali divergenze Weber torna spesso polemicamente, richiamandosi anche a altri scritti del Sombart, in particolare Der Bourgeois (1908) e Die ]uden und das Wirtschaftsleben (1911).
5. Commenda, tipo di contratto commerciale in uso nel Medioevo.
6. Ergasterion, termine greco, propriamente «casa di lavoro». Diventato presso i Romani l’ergastolo, tipico dell’economia di latifondo (lavoro agricolo sorvegliato di schiavi o condannati), che era propriamente l’abitazione comune, spesso sotterranea, degli addetti al lavoro.
7. William Paterson, 1658–1719, autore inglese di saggi su argomenti monetari, commerciali, finanziari e politico-sociali. Fondatore della Banca d’Inghilterra e promotore dello sfortunato tentativo di colonizzazione a Darién (istmo di Panama), è stato coinvolto durante tutta la sua vita in una lunga serie di progetti politico-economici.
8. Johann Karl Rodbertus, 1805–1875, economista tedesco, esponente di una concezione conservatrice della riforma sociale e dell’intervento dello Stato nella legislazione sociale; fautore del nazionalismo economico.
9. South Sea bubble è il nome dato a una mania speculativa che rovinò molti investitori inglesi nel 1720. Prende il nome dalla South Sea Company fondata nel 1711 per il commercio con l’America Latina. Il disastro finanziario che seguì le vaste speculazioni assunse le dimensioni di uno scandalo nazionale in cui furono coinvolti anche membri del governo.
10. Committenti e lavoratori, rispettivamente, in tedesco, Verleger e Verlegte. I due termini, con questo particolare significato, sono intraducibili in italiano. Il Verleger era un tipo particolare d’imprenditore che s’incaricava di piazzare e di vendere la merce per lui prodotta dai lavoranti deH’industria a domicilio (Verlegte). Di questa figura parla anche Marx nel Capitale. A questo tipo di organizzazione si contrappone, in altri saggi di Weber, la cosiddetta industria «chiusa» (geschlossene Industrie), cioè il lavoro di fabbrica.
11. Karl Jaspers, 1883–1969, importante filosofo esistenzialista tedesco. La sua opera è stata in parte influenzata dalla sua prima formazione a carattere psicopatologico (è stato libero docente in psichiatria prima di passare all’insegnamento della filosofia nel 1920). Nel periodo in cui scrive Weber il suo orientamento era ancora prevalentemente psicologico.
12. Ludwig Klages, 1872–1956, psicologo e filosofo tedesco, si dedicò alla caratterologia e alla grafologia, inquadrando i dati positivi in una dottrina filosofica (conflitto tra «anima» e «spirito»). Lo scritto cui accenna Weber è Prinzipien der Charakterologie (1910).