L’ETICA PROTESTANTE
E LO SPIRITO DEL CAPITALISMOa
a. Pubblicato dapprima nell’«Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik» dello Jaffé (J. C. B. Mohr, Tübingen), voll. XX-XXI (1904- 1905). Dalla copiosa letteratura estraggo soltanto le critiche più particolareggiate. F. RACHFAHL,Kalvinismus und Kapitalismus, Internationale Wochenschrift für Wissenschaft, Kunst und Techni, 1909, n. 39–43. II mio articolo in risposta Antikritisches zum «Geist» des Kapitalismus nel cit. «Archiv», vol. XXX, 1910. E di nuovo RACHFAHL,Nochmals Kalvinismus und Kapitalismus, 1910, n. 22–25 e ‘m risposta il mio Antibritisches Schlusswort, nel cit. «Archiv», vol. XXXI. Brentano, nella critica che verrà qui sotto citata, probabilmente non conosceva queste ultime discussioni, poiché non ne fa menzione. In questa edizione non ho messo nulla della mia polemica, che fu, come doveva essere, assai inconcludente col Rachfahl, un erudito anche da me stimato ma che si era portato su di un terreno che non gli era completamente noto; ma ho riportato dalle mie risposte anticritiche quelle citazioni (molto poche) che completavano la mia esposizione, e con aggiunte e con note ho cercato di evitare per il futuro tutti i possibili equivoci. Oltre i già citati v. W. SOMBARTnel suo libro Der Bourgeois (Monaco e Lipsia, 1914) sul quale io tornerò più sotto nelle note e finalmente Lujo Brentano new Excursus II in appendice al discorso tenuto in occasione delle onoranze resegli a Monaco di Baviera (Accademia delle Scienze, 1913) sul tema Die Anfänge des modernen Kapitalismus, pubblicato a parte a Monaco nel 1916, allargato con degli excursus. Anche su questa critica tornerò con note, quando se ne presenterà l’occasione. Io invito chi, contro ogni mia aspettativa, prenda interesse a ciò a convincersi con un controllo diretto che io non ho né cancellato, né mutato, né attenuato neppure con aggiunte che per il loro contenuto se ne allontanassero, alcun periodo del mio scritto che contenesse una qualsiasi affermazione obiettivamente importante. Non ve n’era alcuna necessità ed il seguito di questa esposizione costringerà a convincersene coloro che ancora ne dubitassero. Gli ultimi due studiosi sono tra di loro in un contrasto ancor più vivace che con me. Ritengo in molti punti fondata la critica del Brentano all’opera del Sombart, Die Juden und das Wirtschaftsleben, ma in molti punti anche ingiusta; senza tener conto del fatto che anche il Brentano non riconosce il punto decisivo del problema ebraico che per la prima volta qui si tratta esaurientemente.
Da parte di teologi furono da segnalarsi moltissime e pregevoli menzioni singole in occasioni di questo mio lavoro, e l’accoglienza fu nel complesso favorevole e, anche quando le opinioni su di un particolare divergevano, molto obiettiva, il che fu per me tanto più lusinghiero in quanto non mi sarei meravigliato d’incontrare una certa antipatia verso il modo con cui inevitabilmente qui vengono trattati certi problemi. Ciò che per un teologo attaccato alla sua religione appare in essa di più prezioso, naturalmente qui può non tornarle a vantaggio. Noi abbiamo da fare con aspetti delle religioni che, valutati da un punto di vista religioso, appaiono molto grossolani ed esteriori, ma che pure esistono e spesso, appunto perché grossolani ed esteriori, ebbero la maggiore efficacia esterna. Rimandiamo qui in breve, - invece di citare più spesso in singoli punti - come ad un completamento e ad una conferma graditissima per i nostri problemi, oltre che come ad opera ricchissima di contenuto, al libro poderoso di E. TROELTSCH, Die Soziallehren der christlichen Kirchen und Gruppen (Tübingen 1912) che tratta da punti di vista originali e di ampia portata la storia dell’etica del Cristianesimo occidentale. All’autore interessano più le dottrine, a me gli effetti pratici della religione.
CONFESSIONI E STRATIFICAZIONE SOCIALE
Una sguardo alle statistiche professionali di un paese di confessioni miste ci mostra con sorprendente frequenzaa un fenomeno che fu discusso più volte e vivacemente nella stampa, nella letteraturab e nei congressi cattolici della Germania: il carattere prevalentemente protestante della proprietà e dell’impresa capitalistica e delle élites operaie più colte, e specialmente del più alto personale tecnico o commerciale delle imprese modernec. Non soltanto là dove la differente confessione coincide con una diversa nazionalità e quindi con un grado diverso di sviluppo, come avviene nella Germania orientale fra tedeschi e polacchi, ma quasi dappertutto dove lo sviluppo capitalistico, in sul suo fiorire, ebbe libera possibilità di trasformare i ceti sociali secondo i propri bisogni e di aggregarli secondo le professioni,–e in tali condizioni, il caso è tanto più notevole–noi troviamo quel fenomeno espresso nei numeri delle statistiche confessionali. Certamente la partecipazione dei Protestanti–relativamente più forte, nel senso che supera la percentuale sulla popolazione totale–al possesso di capitalid, alla direzione ed ai gradi più alti del lavoro nelle grandi intraprese industriali e commercialie, va in parte ricondotta a ragioni storichef, che rimontano lontano nel passato, e nelle quali l’appartenenza all’una o all’altra confessione non pare esser causa di fenomeni economici, ma, fino ad un certo grado, conseguenza di questi.
La partecipazione a quelle funzioni economiche presuppone in parte possesso di capitali, in parte un’educazione costosa, in parte l’uno e l’altra, ed è oggi legata al possesso di ricchezze ereditarie o per lo meno ad una certa agiatezza.
Proprio moltissimi dei territori più ricchi del Reich, più favoriti dalla natura o dalla posizione commerciale e più sviluppati economicamente, ma in particolar modo la più gran parte delle città ricche, si erano fino dal xvi secolo convertiti al Protestantesimo, e gli effetti di questo fatto vanno ancor oggi a vantaggio del Protestantesimo nella lotta economica per la vita. Ma sorge allora la questione storica: quale motivo ebbe questa predisposizione, in particolare modo forte, per una rivoluzione religiosa delle regioni economicamente più sviluppate? E la risposta non è così semplice come si potrebbe a tutta prima credere. Certamente l’abolizione del tradizionalismo economico appare come un momento che dovrebbe favorire grandemente la tendenza al dubbio anche rispetto alla tradizione religiosa ed all’insurrezione contro le autorità tradizionali in generale. Ma bisogna aver riguardo ad un fatto, che oggi troppo spesso si dimentica: che la Riforma significò non l’abolizione senz’altro del predominio religioso sulla vita, ma invece la sostituzione di una forma, fino allora dominante, con una nuova. E precisamente la sostituzione di un dominio comodissimo, praticamente allora poco sensibile, per lo più appena formale, con una regolamentazione della vita, pesante e presa molto sul serio, che penetrava, nella misura più ampia che si possa pensare, in tutte le sfere della vita pubblica e privata. Popoli di fisionomia economica perfettamente moderna, sono sottoposti ancor oggi al dominio della Chiesa cattolica, che punisce gli eretici, ma è clemente verso i peccatori, come vi furono sottoposti i paesi più ricchi, economicamente più sviluppati che la terra conobbe in sullo scorcio del secolo xv.
Il dominio del Calvinismo, quale ebbe vigore nel secolo xvi a Ginevra ed in Iscozia, tra il secolo xvi e xvn in gran parte dei Paesi Bassi, nel xvn nella Nuova Inghilterra, e per qualche tempo nell’Inghilterra stessa, sarebbe per noi la forma più insopportabile che mai possa esistere, di controllo religioso della vita deH’individuo.
E proprio come tale fu sentito allora da larghi strati del vecchio patriziato, così a Ginevra come in Olanda e come in Inghilterra.
Non un eccesso, ma un difetto di dominio religioso sulla vita fu quel che trovarono vituperevole i riformatori che sorsero nei paesi allora economicamente più sviluppati. Ma come avvenne che proprio questi paesi economicamente più sviluppati, ed in essi, come vedremo, proprio le classi medie «borghesi» che allora si elevavano economicamente, non solo lasciarono che si stendesse sopra di loro quella tirannide puritana, fino allora sconosciuta, ma dimostrarono nel difenderla un eroismo che le classi borghesi in quanto tali hanno conosciuto raramente prima di allora e mai più dopo: «thè last of our heroisms», come dice, non senza ragione, il Carlyle1 ?
Ma procediamo nella nostra trattazione: se la più forte partecipazione dei Protestanti al possesso di capitali e a posti direttivi nell’economia moderna si può oggi in parte comprendere come una conseguenza delle loro migliori condizioni economiche, dovute allo svolgimento storico; d’altra parte si vedono fenomeni, nei quali il rapporto causale senza dubbio è diverso.
Vi appartengono, per citarne alcuni, i seguenti: prima di tutto la differenza–riscontrabile ovunque–nel Baden, come in Baviera ed in Ungheria, nel genere di insegnamento superiore, che i genitori cattolici, a differenza di quelli protestanti, fanno impartire ai loro figli. Il fatto che la percentuale dei Cattolici tra gli scolari e i licenziati delle scuole superiori rimanga considerevolmente inferioreg a quella dei Cattolici nella popolazione, si potrà attribuire in gran parte alle differenze economiche su citate. Ma che, anche tra i licenziati cattolici la percentuale di quelli che escono da istituti specialmente destinati e adatti alla preparazione per studi tecnici ed occupazioni industriali e commerciali, soprattutto per una vita dedicata agli affari borghesi in modo considerevole ancora più bassah di quella dei protestanti; mentre viene da essi preferita quella preparazione culturale che offrono i Ginnasi umanistici; è un fenomeno che non si spiega con quelle condizioni economiche, di cui si è parlato, ma che viceversa deve essere addotto a spiegazione della scarsa partecipazione dei Cattolici all’industria capitalistica. Ancor più ci colpisce una osservazione, che aiuta a comprendere la scarsa parte dei Cattolici nella manodopera specializzata della moderna industria. Il noto fenomeno che la fabbrica toglie i suoi operai specializzati da ciò che rimane dell’artigianato, che lascia a questo, dunque, la preparazione dei propri operai, e glieli sottrae dopoché questa preparazione è compiuta, si nota in misura notevolmente superiore fra i garzoni dell’artigianato protestante che non fra quelli cattolici. Degli artigiani cattolicii più dimostrano la tendenza a rimanere nell’artigianato e diventano perciò relativamente più spesso padroni mentre i Protestanti passano nelle fabbriche in una misura relativamente più forte per occuparvi i posti più alti delle maestranze specializzate e del ceto impiegatizio industrialei. In questi casi il rapporto causale è senza dubbio tale, che l’orientamento spirituale dovuto all’educazione, e cioè l’indirizzo educativo condizionato dall’atmosfera religiosa del luogo natio e della casa paterna ha determinato la scelta e l’ulteriore svolgimento della professione.
La minor partecipazione dei Cattolici in Germania alla moderna vita economica colpisce tanto più, in quanto contraddice all’esperienza fatta finoraj e riscontrabile anche nel presente: che minoranze nazionali e religiose, che stanno, come dominate, di fronte a un altro gruppo «dominante», a causa della loro esclusione, volontaria od involontaria, da influenti posizioni politiche, sogliono esser spinte in forte misura sulla via dell’industria, e che i loro membri meglio dotati cercano di appagare qui l’ambizione che non può esser messa in valore nel servizio statale. Così avviene indiscutibilmente dei Polacchi della Russia e della Prussia orientale, senza dubbio assai progrediti economicamente, al contrario di quel che avviene nella Galizia da loro dominata. Così avvenne nel passato degli Ugonotti in Francia sotto Luigi XIV, dei Nonconformisti e dei Quaccheri in Inghilterra e–last not least–avviene degli Ebrei da due millenni. Tra i Cattolici in Germania non scorgiamo nulla di un simile effetto, o per lo meno nulla tale da colpirci; ed anche nel passato i Cattolici, contrariamente ai Protestanti, non hanno mai manifestato, né in Olanda né in Inghilterra–nei tempi in cui furono perseguitati o soltanto tollerati–alcuno sviluppo economico in particolar modo eminente. Sta, anzi, di fatto che i Protestanti (e fra di loro in particolar modo alcune tendenze di cui ci occuperemo più oltre) tanto come classe dominata quanto come classe dominante, tanto come maggioranza quanto come minoranza, hanno dimostrato una speciale tendenza al razionalismo economico, che nei Cattolici non si può osservare né nell’una né nell’altra situazionek.
La causa di questa diversa condotta deve esser ricercata dun que nelle qualità spirituali permanenti e non nella situazione contingente delle rispettive confessionil.
Si giungerebbe perciò ad indagare quali elementi, di quelli che costituiscono la particolare essenza delle singole confessioni, hanno agito ed in parte ancora agiscono, nel senso su descritto. Ora si potrebbe esser tentati, con un’osservazione superficiale e dietro talune impressioni moderne, di formulare così il contrasto: il maggiore «distacco dal mondo» del Cattolicesimo, i tratti ascetici, che si trovano nei suoi più alti ideali, debbono educare chi lo confessa a una maggiore indifferenza di fronte ai beni di questo mondo. Questa motivazione corrisponde al solito schema popolare che si usa nel giudicare le due confessioni. Da parte dei Protestanti si sfrutta questa concezione per criticare quegli ideali ascetici (veri o presunti) della condotta cattolica nella vita; da parte cattolica si risponde col rimproverare «il materialismo» che sarebbe la conseguenza della secolarizzazione da parte del Protestantesimo di tutti i fini della vita. Anche uno scrittore moderno credette di formulare il contrasto che si manifesta nella condotta delle due confessioni di fronte alla vita economica, nella seguente maniera:
«Il cattolico è più tranquillo; dotato di un minore impulso per l’attività industriale; egli apprezza più una carriera che sia il più possibile sicura, anche se con minor rendita, che una vita rischiosa, intensa, ma che sia apportatrice di ricchezze e onori. Il dettato popolare dice scherzosamente “ o mangiar bene o dormire tranquilli ”. Nel nostro caso il Protestante preferisce mangiar bene, mentre il Cattolico vuol dormire tranquillom».
Nella realtà col «voler mangiar bene» si può ben caratterizzare la ragione dell’atteggiamento della parte religiosamente più indifferente dei Protestanti in Germania e nel presente, in maniera incompleta ma in parte esatta. Non soltanto nel passato le cose andarono alquanto diversamente; per i Puritani inglesi, olandesi ed americani, fu tratto caratteristico, e precisamente, come vedremo, uno dei loro tratti caratteristici per noi più importanti, proprio il contrario della mondanità; ed anche il Protestantesimo francese ha conservato a lungo ed in una certa misura fino ad oggi il carattere che durante le lotte di religione fu impresso in generale alle Chiese calvinistiche e in particolare a quelle che furono «sotto la Croce». Esso è stato tuttavia–oppure, così fra breve ci dovremo domandare, proprio per questo–uno dei principali fattori dello sviluppo industriale e capitalistico della Francia, e lo è rimasto nella piccola misura, a cui lo hanno ridotto le persecuzioni. Se questa serietà e il forte predominio degli interessi religiosi si vogliono chiamare «distacco dal mondo», allora i Calvinisti francesi furono e sono per lo meno tanto distaccati dal mondo quanto, per es., i Cattolici tedeschi del Nord, per cui il Cattolicesimo è una questione di sentimento, come per nessun altro popolo della terra.
E gli uni e gli altri differiscono nel medesimo senso dalla parte religiosamente preminente; dai Cattolici di Francia, nei loro ceti più bassi, amanti della vita, nei ceti più alti addirittura avversi alla religione, dai Protestanti di Germania tutti occupati nella vita economica, e nei ceti più alti indifferenti in materia di religionen. Nessun altro esempio all’infuori di que sto mostra così chiaramente, che su concetti così vaghi come quello del presunto distacco dal mondo dei Cattolici e della presunta mondanità dei Protestanti, non c’è da fondare nulla, poiché sotto tale generalizzazione essi non sono appropriati, in parte neppur oggi; e certamente non lo sono per il passato. Se si volesse lavorare con essi, allora alle osservazioni già fatte dovremmo aggiungere altre che si presentano subito; anzi, il dubbio che essi ci inspirano è che tutto il contrasto tra distacco dal mondo, ascetismo, religiosità da una parte, partecipazione alla vita industriale capitalistica dall’altra, sia invece da convertirsi in una intima affinità.
Nella realtà ci colpisce–per cominciare con alcuni punti esteriori–quanto grande sia stato il numero dei rappresentanti delle forme più spirituali della pietà cristiana, che ebbero origine da ceti mercantili. Si potrebbe pensare ad un effetto del contrasto del «Mammonismo» su nature mistiche ed inadatte alla professione del commerciante; e certamente il processo della conversione, come nel caso di Francesco d’Assisi, così anche in quello di molti pietisti, spesso si è presentato soggettivamente in questo modo al convertito. E similmente si potrebbe cercare di spiegare come una reazione contro una educazione giovanile ascetica il fenomeno, che ci colpisce con eguale frequenza, fino giù a Ceeil Rhodes4, che da case di pastori escono imprenditori capitalistici di grande stile. Ma questa spiegazione viene meno là dove un abilissimo senso capitalistico degli affari coincide, nelle medesime persone e nei medesimi gruppi, colle più intense forme di una religiosità che penetra e regola la vita intera. E questi casi non sono isolati ma costituiscono anzi il tratto caratteristico di interi gruppi tra le Chiese e le sette più importanti nella storia del Protestantesimo. Specialmente il Calvinismo mostra, dovunque è apparsoo, tale combinazione.
Per quanto all’epoca in cui si diffuse la Riforma esso non fosse legato, in nessun paese, ad una determinata classe, come in generale nessuna delle confessioni protestanti, tuttavia è caratteristico e in un certo senso «tipico» il fatto che tra i proseliti delle Chiese ugonotte francesi erano particolarmente numerosi monaci ed industriali (mercanti, artigiani) e lo rimasero, specialmente nel tempo delle persecuzionip.
Già gli Spagnoli sapevano che «l’eresia» (cioè il Calvinismo degli Olandesi) «promoveva lo spirito commerciale» e questo corrisponde perfettamente ai concetti, che Sir W. Petty espone nella sua trattazione sulle cause dello sviluppo capitalistico dei Paesi Bassi. Il Gotheinq definisce a ragione la diaspora calvinistica «il semenzaio dell’economia capitalistica»r. Si po trebbe qui considerare come decisiva la superiorità della civiltà economica francese ed olandese, da cui trasse principalmente origine questa diaspora, oppure la forte influenza deiresilio e del violento strappo da tutte le condizioni di vita tradizionalis.
Ma anche in Francia le cose stavano così, nel secolo xvn, come è noto per le lotte di Colbert5 Perfino l’Austria–per tacere di altri paesi–ha direttamente importato, richiedendolo l’occasione, industriali protestanti. Ma non tutte le denominazioni protestanti sembrano agire nel medesimo senso. Il Calvinismo ebbe un’azione simile anche in Germania; la confessione riformatat nel Wuppertal ed altrove, sembra–in confronto con altre confessioni–esser stata in particolar modo favorevole allo sviluppo dello spirito capitalistico. Più favorevole, per esem pio, del Luteranesimo, come insegna il confronto, in generale ed in casi particolari, specialmente nel Wuppertalu. Per la Scozia Buckle6 e tra i poeti inglesi in particolar modo Keats7 hanno notato questi rapportiv.
Ancor più appariscente è il nesso, che non ha quasi bisogno di esser ricordato, di una regolamentazione religiosa della vita con uno sviluppo intenso del senso degli affari presso un gran numero di quelle sette, il cui distacco dal mondo è divenuto proverbiale al pari della loro ricchezza; specialmente i Quaccheri e i Mennoniti. La parte che i primi hanno avuto in Inghilterra e nelTAmerica settentrionale è analoga a quella dei Mennoniti nei Paesi Bassi e in Germania. Che nella Prussia orientale persino Federico Guglielmo I lasciasse indisturbati, come fattori indispensabili deH’industria, i Mennoniti, nonostante il loro assoluto rifiuto di prestar servizio militare, è uno solo dei tanti fatti ben noti, ma in ogni modo, a causa del carattere di questo re, uno dei più forti, che illustrino la cosa. Ed infine è abbastanza noto che anche presso i Pietisti esisteva la combinazione di una religiosità intensa con un senso ed un successo negli affari altamente sviluppatiw; basta ricordarsi di cose e fatti renani e di Calw; in questa esposizione del tutto provvisoria gli esempi non possono venire più oltre accumulati. Ma questi pochi dimostrano tutti una cosa sola: che lo «spirito del lavoro», o, come viene anche chiamato, del progresso, il cui risveglio si è inclini ad attribuire al Protestantesimo, non deve essere inteso, come oggi spesso avviene, nel senso di mondanità, o con qualsiasi altro significato illuministico. Il vecchio protestantesimo di un Lutero, di un Calvino, di un Knox10, di un Voet11, aveva ben poco da spartire con tutto ciò che oggi si chiama progresso. Se si deve dunque trovare una intima affinità di certe espressioni dell’antico spirito protestante e della moderna civiltà capitalistica, noi dobbiamo, piaccia o non piaccia, cercarla non nella sua presunta mondanità materialistica o per lo meno antiascetica, ma piuttosto nei suoi tratti religiosi. Montesquieu dice degli Inglesi (Esprit des Lois, Libro XX, cap. 7) che essi in tre cose importantissime hanno prodotto di più di tutti gli altri popoli del mondo: nella religiosità, nel commercio e nella libertà. La loro superiorità nel campo economico, e, quel che appartiene ad un’altra connessione di cause, la loro capacità alle libere istituzioni politiche, forse si connetterebbe con quel record nella religiosità che Montesquieu riconosce loro?
Una grande quantità di possibili rapporti emergono dinanzi a noi confusamente presentiti, quando poniamo così la questione. Il nostro compito dunque dovrà essere quello di formulare quel che adesso confusamente ondeggia dinanzi a noi, con tanta chiarezza quanta ne consente l’inesauribile varietà, che è riposta in ogni fenomeno storico. Ma per poterlo fare si deve necessariamente abbandonare il terreno delle vaghe concezioni generali, sul quale abbiamo finora operato, e si deve tentare di penetrare nei caratteri particolari e nelle differenze di quei vasti mondi del pensiero religioso, che ci sono dati storicamente nelle diverse espressioni della religione cristiana.
Ma prima si richiedono ancora alcune osservazioni; innanzitutto sul particolare carattere dell’oggetto, della cui spiegazione storica qui si tratta; e poi sul senso, in cui è possibile, nel quadro di queste indagini, una tale spiegazione.
a. I casi di deviazione – non sempre ma spesso – si spiegano col fatto che naturalmente la confessione delle maestranze di un’industria dipende in prima linea dalla confessione del luogo della sua sede, o da quella dei distretti di reclutamento dei suoi operai. Questa circostanza altera spesso di primo acchito il quadro che presentano alcune statistiche professionali, soprattutto nelle province renane. Oltre a ciò i numeri sono conclusivi solo se si specifichino e si calcolino esattamente le singole professioni. Se no, grandi imprenditori vengono confusi, nella categoria di «capi azienda», con maestri artigiani che lavorano da soli. Ma soprattutto l’odierno grande capitalismo è divenuto, di fatto, indipendente da quelle influenze che la confessione poteva avere nel passato, specialmente rispetto ai larghi strati inferiori delle sue maestranze. Ma su ciò, più oltre.
b. Cfr. per es. SCHELL, Der Katholizismus als Prinzip des Fortschrittes, Wurzburg 1897, P. 3*5 oN Hertling, Das Prinzip des Katholizismus und die Wissenschajt, Freiburg 1899, P. 58
c. Uno dei miei scolari ha elaborato il materiale statistico più preciso che noi possediamo sull’argomento: la statistica delle confessioni nel
Baden. Cfr. MARTIN OFFENBACHER, Konfession und soziale Schichtung, Eine Studie über die wirtschaftlische Lage der Katholiken und Protestanten in Baden, Tübingen und Leipzig, 1901, vol. IV, fascicolo 5 delle «Volkswirtschaftliche Abhandlungen der badischen Hochschulen». I fatti e le cifre che vengono addotti più oltre per documentazione provengono tutti da questo lavoro.
d. Nell’anno 1895 Per es. nel Baden vi era: su ogni 1000 Evangelici un capitale imponibile agli effetti dell’imposta sul reddito di 954.000 Marchi.
Su ogni 1000 Cattolici un capitale imponibile agli effetti dell’imposta sul reddito di 589.000 Marchi.
Gli Israeliti con oltre 4 milioni su mille sono di gran lunga in cima a tutti (le cifre secondo Offenbacher, op. cit.).
e. V., su ciò, il complesso dei risultati del lavoro dell’Offenbacher.
f. Anche per questo un’esposizione più dettagliata per il Baden si trova nei due primi capitoli del lavoro dell’Offenbacher.
g. Nella popolazione del Baden la percentuale delle confessioni nel 1895 era seguente: 37,0 Protestanti, 61,3 Cattolici, 1,5 Israeliti. Ma la confessionalità degli scolari nelle scuole di grado superiore alle elementari non obbligatorie, dal 1885 al 1891 si presentava alla maniera seguente (OFFENBACHER, op. cit., p. 16):
Gli stessi fenomeni si hanno in Prussia, Baviera, Württemberg, nell’Alsazia-Lorena e in Ungheria. (V. le cifre presso OFFENBACHER, op. cit., p. 188 e segg.)2.
h. Cfr. le cifre nella nota precedente, dove la frequenza dei Cattolici nelle scuole medie, di un terzo inferiore alla percentuale cattolica nella popolazione, risale un poco solo nei Ginnasi (evidentemente per la preparazione agli studi teologici). Si rilevi come cosa caratteristica, riguardo anche a quanto diremo in seguito, che in Ungheria i Riformati presentano fenomeni tipici analoghi a quelli protestanti nella frequenza delle scuole medie, in una misura ancora maggiore.
i. V. la riprova in OFFENBACHER, op. cit., p. 54 e le tabelle alla fine del lavoro.
j. V. in particolare gli scritti di Sir W. Petty3, che citeremo più volte nei singoli punti.
k. L’esemplificazione di Petty per l’Irlanda si spiega semplicemente con il fatto che il ceto protestante colà era rappresentato solo da proprietari terrieri (landlords) assenteistici.
Se essa volesse affermare qualche cosa di più sarebbe manifestamente errata, come dimostra la posizione degli «Scotch Irish». Il rapporto tipico fra Protestantesimo e capitalismo esiste in Irlanda come altrove. (Sugli «Scotch Irish» in Irlanda, vedi C. A. ANNA, The Scotch Irish, 2 vol., New York, Putnam).
l. Naturalmente ciò non esclude che anche questa abbia avuto conseguenze importantissime e non contraddice a ciò che diremo più oltre; all’esser stato, cioè, di grande importanza per tutta l’atmosfera morale in cui vissero alcune sette protestanti ed all’avere avuto influenza anche sulla loro partecipazione alla vita economica il fatto che esse rappresentassero minoranze piccole e perciò omogenee, quale fu il caso dei Calvinisti più rigorosi, anche là dove dominarono politicamente, all’infuori di Ginevra e della Nuova Inghilterra.
Che emigranti di tutte le confessioni del mondo: indiani, arabi, siriaci, fenici, greci, lombardi, quali rappresentanti della pratica mercantile di paesi altamente progrediti, emigrassero in altri, fu fenomeno universale e non ha niente a che vedere col nostro problema. (BRENTANO nel saggio che più volte citeremo Die Anfänge des modernen Kapitalismus, accenna alla propria famiglia. Ma banchieri di provenienza straniera, quali specifici rappresentanti di esperienze e di relazioni commerciali, ve ne sono stati in tutti i paesi e in tutti i tempi. Non sono una specialità del capitalismo moderno e furono considerati dai Protestanti con diffidenza, nei riguardi morali. Diverso fu il caso delle famiglie protestanti locarnesi emigrate a Zurigo, i Muralt, i Pestalozzi, ecc., che ben presto divennero colà rappresentanti di uno sviluppo capitalistico industriale specificamente moderno).
m. Dr. OFFENBACHER, op. cit., p. 68.
n. Osservazioni straordinariamente fini sul carattere peculiare delle confessioni in Francia e in Germania, e l’incrocio di questi contrasti cogli altri elementi culturali nella lotta delle nazionalità in Alsazia si trovano nell’ottimo libro di W. WITTICH, Deutsche und französische Kultur im Elsass (nella «Illustrierte Elsàssische Rundschau», 1900, pubblicato anche separatamente).
o. Ciò, naturalmente, vuol dire «dà dove c’era la possibilità di uno sviluppo capitalistico».
p. Cfr. su ciò p. es. Dupin de St. Andre, U ancienne église réformée de Tours. Les membres de Véglise (nel «Bull, de la Soc. pour l’hist. du Protest.», IV s., t. io). Anche qui–e questo pensiero potrebbe correre facilmente alla mente soprattutto di cattolici–si potrebbe considerare come motivo determinante la brama di emanciparsi dal controllo monastico o, in genere, ecclesiastico. Ma a ciò si oppone il giudizio di avversari contemporanei (ivi compreso Rabelais); non solo; ma anche, per es., gli scrupoli di coscienza delle prime sinodi nazionali ugonotte (per es. l° Sinodo, C. partic., qu. io in AYMON, Synod-Nat. p. io) sulla questione se un banchiere possa diventare anziano di una chiesa e la discussione–sempre ricorrente nelle sinodi nazionali, nonostante la inequivocabile posizione di Calvino–sulla ammissibilità del dare ad interesse, sulla quale chiedevano il parere membri della comunità dubitosi, dimostrano, da un lato, la forte partecipazione delle categorie di persone che vi erano interessate; ma dimostrano anche, da un altro lato, che il desiderio di poter esercitare la usuraria pravitas senza il controllo della confessione, non può essere stato decisivo. Lo stesso vale per l’Olanda (v. oltre). Il divieto canonico dell’interesse non ha, in queste ricerche–sia detto espressamente–parte alcuna.
q. W. G. des Schwarzwalds, I, 67.
r. Connesse con questo le brevi osservazioni del SOMBART, Der moderne Kapitalismus, ia ed., p. 380. Purtroppo più tardi il Sombart ha propugnato una tesi del tutto errata, su cui dovremo ritornare presentandosene l’occasione, in quella delle sue opere più vaste (Der Bourgeois, Monaco 1913) che in questi argomenti è di gran lunga più debole delle altre e che è sotto l’influenza di uno scritto di F. KELLER (Unternehmung und Mehrwert, «Schriften der Gòrres-Sesellschaft», fase. 12), il quale del pari, nonostante molte osservazioni buone, ma non nuove sotto questo rispetto, resta molto al disotto di altri moderni lavori cattolici apologetici.
s. Poiché è ormai assodato che l’emigrazione pura e semplice è uno dei mezzi più efficaci per intensificare il lavoro. Quella stessa ragazza polacca che in patria non poteva essere strappata alla sua pigrizia tradizionale da nessuna opportunità di guadagno, per quanto favorevole fosse, sembra cambiare interamente la sua natura, ed è capace di un lavoro enorme, quando all’estero lavora come bracciante rurale occasionale. Negli operai italiani emigrati si riscontrò lo stesso fenomeno. Che in tal caso non sia fattore decisivo l’ingresso in un ambiente dal tenor di vita più elevato–per quando anche esso naturalmente vi influisca–lo dimostra l’apparire del medesimo fenomeno anche là dove–come nell’agricoltura–la specie di lavoro è la stessa che in patria, e l’alloggio in caserme per emigranti ecc., implica lo scendere temporaneo del tenore di vita ad un livello tale, che non sarebbe mai tollerato in patria. Il solo fatto del lavorare in regioni diverse delle solite rompe il tradizionalismo e costituisce l’elemento educati- vo. Non c’è quasi bisogno di rilevare quanta parte dello sviluppo economico americano riposi su tali effetti dell’espatrio. Nell’antichità l’importanza, del tutto simile, dell’esilio babilonese per gli Ebrei si può, per così dire, cogliere colle mani nelle iscrizioni e la stessa cosa vale per i Parsi. Ma per i Protestanti l’influenza dei loro particolari caratteri religiosi ha una sua parte come fattore autonomo–come avviene nell’India per i Jaina–e lo dimostra l’evidente differenza delle colonie puritane della Nuova Inghilterra di fronte al cattolico Maryland, al Sud episcopalistico, ed all’interconfessionale Rhode Island.
t. Essa è, come è noto, nella maggior parte delle sue forme, un Calvinismo o uno Zwinglianismo più o meno temperato.
u. Nella quasi interamente luterana Amburgo l’unico patrimonio che risale fino al XVII secolo è quello di una nota famiglia di confessione riformata. (Notizia favoritami cortesemente dal prof. A. Wahl).
v. Non è cosa nuova dunque che qui venga affermato questo nesso, sul quale hanno già scritto, fra gli altri, Laveleye8, Matthew Arnold9 e altri; ma si tratta di un’opinione per niente motivata. è necessario spiegarla.
w. Ciò naturalmente non esclude che il Pietismo ufficiale, come altri indirizzi religiosi, si sia, in seguito, opposto per concezioni patriarcalistiche, a certi «progressi» della costituzione economica capitalistica, come per es. al passaggio dalla industria familiare al sistema industriale della fabbrica. è necessario distinguere nettamente, come spesso vedremo, l’ideale a cui aspira un indirizzo religioso dalla sua influenza elettiva sui propri seguaci. (Sulla capacità di lavoro caratteristica delle maestranze pietiste si trovano esempi da me constatati in una fabbrica della Westfalia nel saggio Zur Psychophiysik der gewerblichen Arbeit, in «Archiv. £. Soz.», vol. XXVIII, p. 263 ed oltre).
1. Thomas Carlyle, 1795–1881, saggista e storico scozzese, autore di numerose opere in cui affronta di volta in volta temi storici, politici, economici, biografici e religiosi. Vi spiccano in particolare le influenze calviniste in lui fortemente presenti e sentite, sia pure in forma secolarizzata.
2. Dei cinque tipi di scuole qui citati, il primo corrisponde al nostro Ginnasio Liceo; gli altri, grosso modo, rispettivamente, al Liceo scientifico, all’Istituto tecnico superiore e inferiore e alle Scuole d’avviamento.
3. Sir William Petty, 1623–1687, economista politico e statistico inglese, uno dei fondatori del pensiero economico e della statistica economica e demografica.
4. Cedi Rhodes, 1853–1902, statista e finanziere inglese, uno dei grandi costruttori dell’impero britannico, ha dato il suo nome ai territori della Rhodesia ed è stato quello che più ha contribuito a portare la vasta zona sudafricana sotto il dominio britannico.
5. Jean-Baptiste Colbert, 1619–1683, statista francese e ministro delle finanze sotto Luigi XIV. I suoi sforzi per il progresso economico del paese lo facevano ostile alle misure contro i Protestanti (impegnati nell’industria e nel commercio) e diffidente invece nei confronti dei monaci e anche del clero secolare.
6. Henry Thomas Buckle, 1821–1862, storico inglese, autore di una Hìstory of Civilisation in England che suscitò molte critiche.
7. John Keats, 1795–1821, uno dei tre grandi poeti inglesi, con Shelley e Byron, della seconda generazione del Romanticismo inglese.
8. Emile-Louis-Victor barone di Laveleye, 1822–1892, professore di economia politica all’università di Liegi, autore di saggi di economia, politica, storia, uno dei cosiddetti «socialisti della cattedra» avvicinatosi con gli anni all’economia liberale.
9. Matthew Arnold, 1822–1888, poeta e critico inglese, uno dei principali dell’epoca vittoriana.
10. John Knox, 1514–1572, capo e storico della riforma protestante in Scozia, uno dei fondatori del presbiterianesimo.
11. Gijsbert Voet, 1589–1676, rettore dell’università di Utrecht, acerrimo nemico di Cartesio contro il quale lanciò il sospetto di ateismo ottenendone la condanna dai magistrati olandesi.
CAPITOLO II
LO SPIRITO DEL CAPITALISMO
Nel titolo di questo studio appare il concetto, che suona un po’ pretenzioso, di «spirito del capitalismo». Che cosa si deve intendere sotto questa espressione?
Nel tentativo di darne una definizione, si palesano subito talune difficoltà che sono inerenti allo scopo stesso della nostra indagine.
Se si può trovare un oggetto, per cui l’impiego di quella espressione abbia un senso qualsiasi, esso può essere soltanto un’individualità storica; cioè un complesso di relazioni nella realtà storica, che noi dal punto di vista della sua importanza per la storia e per la civiltà, riuniamo in un unico concetto.
Ma un tale concetto storico, poiché per il suo contenuto si riferisce ad un fenomeno importantissimo nel suo carattere individuale, non può essere definito e limitato secondo lo schema, genus proximum, differentia specifica, ma deve essere costruito a poco a poco dalle parti che lo compongono e che vanno tolte dalla realtà storica. La perfetta definizione concettuale non può perciò stare al principio ma deve esser posta alla fine dell’indagine; si paleserà perciò nel corso della trattazione e ne costituirà l’importante risultato, come debba formularsi nel miglior modo, più adeguato ai punti di vista che qui ci interessano, ciò che noi comprendiamo come «spirito del capitalismo». Tali punti di vista–di cui dovremo parlare ancora–non sono gli unici dai quali possano essere analizzati quei fenomeni storici che qui consideriamo. Altri punti di vista darebbero come risultato, in questo come in ogni fenomeno storico, aspetti diversi da quelli per noi essenziali; dal che senz’altro segue, che per «spirito del capitalismo» non si può né si deve necessariamente comprendere soltanto quel che apparirà essenziale per la nostra concezione. Ciò è inerente all’essenza stessa della formazione dei concetti storici la quale, ai fini del suo metodo, non cerca di incasellare la realtà in astratti concetti di genere, ma bensì di inserirla in concreti nessi generici di colore specificamente individuale.
Se si deve dunque determinare l’oggetto, che si vuole analizzare e spiegare storicamente, non si potrà avere una definizione concettuale; ma dapprima soltanto un’illustrazione provvisoria di quel che si intende per spirito del capitalismo. Un tale sguardo d’insieme è infatti indispensabile per intenderci circa la materia della nostra indagine, e per raggiungere questo scopo ci atteniamo a un documento di quello «spirito» che contiene, in una purezza quasi classica, quel che per ora ci interessa, ed offre al tempo stesso il vantaggio di esser libero da ogni rapporto diretto con argomenti religiosi, di esser dunque, per il nostro tema, libero da preconcetti:
«Ricordati che il tempo è denaro. Chi potrebbe guadagnare col suo lavoro dieci scellini al giorno, e va a passeggio mezza giornata, o fa il poltrone nella sua stanza, se anche spende solo sei pence per i suoi piaceri, non deve contare solo questi; oltre a questi egli ha speso, anzi buttato via, anche cinque scellini.
Ricordati che il credito e denaro. Se uno lascia presso di me il suo denaro esigibile, mi regala gli interessi, o quanto io in questo tempo posso prenderne. Ciò ammonta ad una somma considerevole se un uomo ha molto e buon credito, e ne fa buon uso.
Ricordati che il denaro è di sua natura fecondo e produttivo. Il denaro può produrre denaro, ed i frutti possono ancora produrne e così via. Cinque scellini impiegati diventano sei, e di nuovo impiegati sette scellini e tre pence e così via finché diventano cento lire sterline. Quanto più denaro è disponibile, tanto più se ne produce nell’impiego, così che l’utile sale sempre più alto. Chi uccide una scrofa, uccide tutta la sua discen denza fino al millesimo maialino. Chi getta via un pezzo da cinque scellini, uccide (!) tutto quel che si sarebbe potuto produrre con esso: intere colonne di lire sterline.
Ricordati che–come dice il proverbio–chi paga puntualmente è il padrone della borsa di ciascuno. Colui di cui si sa che paga puntualmente alla data promessa, può in ogni tempo prendere a prestito tutto il denaro, di cui i suoi amici non hanno bisogno.
Ciò è di grande utilità. Insieme colla diligenza e colla sobrietà, niente aiuta un giovane a farsi la sua strada nel mondo, quanto la puntualità e l’esattezza in tutti i suoi affari. Perciò non tener mai il denaro preso a prestito un’ora di più di quel che tu hai promesso, acciocché il risentimento del tuo amico per il ritardo, non ti chiuda per sempre la sua borsa.
Le azioni più insignificanti, che hanno influenza sul credito di un uomo, debbono esser da lui tenute in considerazione. Il colpo del tuo martello, che il tuo creditore sente alle cinque del mattino od alle otto di sera, lo rende tranquillo per sei mesi; se ti vede al bigliardo o ode la tua voce all’osteria, quando dovresti essere al lavoro, la mattina seguente ti cita per il pagamento ed esige il suo denaro prima che tu l’abbia disponibile.
Inoltre ciò mostra che tu hai memoria per i tuoi debiti; ti fa figurare come uomo non solo preciso, ma anche d’onore, e ciò aumenta il tuo credito. Guardati dal ritenere per tua proprietà tutto quel che possiedi e dal vivere secondo tale idea. Su tale illusione cadono molte persone, che hanno credito. Per evitar ciò, tieni calcolo esatto delle tue spese e della tua rendita. Se ti prendi una volta la pena di osservare i piccoli dettagli, ciò darà il seguente buon risultato: scoprirai quali piccolissime spese salgano a poco a poco a grandi somme e noterai quel che si sarebbe potuto risparmiare e quel che si potrà risparmiare in avvenire.
Per sei sterline all’anno puoi aver l’uso di 100 sterline, ammesso che tu sia un uomo di nota avvedutezza ed onestà. Chi spende inutilmente un grosso al giorno, spende inutilmente sei sterline all’anno, e questa somma è il prezzo per l’uso di 100 sterline. Chi perde ogni giorno una parte del proprio tempo per il valore di un grosso, e possono essere solo due minuti, perde, un giorno dietro l’altro, il privilegio di usare di 100 sterline per un anno. Chi spreca tempo per il valore di 5 scellini, perde cinque scellini, e potrebbe del pari gettare cinque scellini in mare. Chi perde cinque scellini, non perde soltanto questa somma, ma tutto quello che si sarebbe potuto guadagnare con essa impiegandola nell’industria, il che, se si tratti di un giovane che raggiunga poi un’età avanzata, ammonta ad una somma assai considerevole».
è Benjamin Franklina colui che ci predica questi aforismi, gli stessi che Ferdinand Kurnberger1 prende in giro come professione di fede degli Yankees nei suoi Quadri della civiltà americanab, sprizzanti spirito e veleno. Nessuno vorrà porre in dubbio che da essi parli lo spirito del capitalismo, anche se non si debba ritenere che vi sia contenuto tutto quello che si può intendere con tale espressione. Se noi indugiamo su questo passo, la cui filosofia lo «Stanco d’America» di Kurnberger riassume così: dei manzi si fa sego, e degli uomini denaro, ci colpisce come caratteristico di questa «filosofia dell’avarizia» l’ideale dell’uomo d’onore degno di credito, e soprattutto il pensiero del dovere del singolo di fronte all’interesse–posto come fine a se stesso–dell’aumento del suo capitale. In realtà è essenziale alla nostra materia il fatto che qui venga predicata, non una tecnica di vita, ma una particolare etica, la cui violazione vien trattata non come pazzia, ma come una specie di negligenza dei propri doveri. Questo è il punto della questione. Non è soltanto abilità negli affari quel che si insegna consigli del genere si trovano molto spesso anche altrove,–è un ethos che vi si manifesta, ed appunto in questa sua qualità presenta interesse per noi.
Quando Jakob Fugger di fronte ad un compagno di affari, che si è ritirato per riposare e lo consiglia a fare lo stesso, poiché ormai ha guadagnato abbastanza e può lasciar guadagnare un poco anche gli altri, rifiuta il consiglio come «pusillanime» e risponde «che egli ha tutt’altra intenzione, vuol guadagnare fin tanto che può»c, lo «spirito» di una tale espressione differisce evidentemente da quello di Franklin; quel che là viene espresso come un’esuberanza di ardimento commerciale, e di una tendenza personale, moralmente indifferented, qui prende il carattere di una massima, di colore etico, per la condotta della vita.
In questo senso specifico viene qui impiegato il concetto di «spirito del capitalismo», naturalmente del capitalismo moderno ye. Che qui si tratta soltanto del capitalismo europeo occiden tale ed americano si comprende dall’impostazione stessa del problema. Un capitalismo è esistito in Cina, in India, a Babilonia, nell’antichità e nel Medioevo. Ma, come vedremo, gli mancava quel particolare ethos.
In ogni caso tutti i precetti di Franklin hanno un senso utilitario: l’onestà è utile perché dà credito, e la puntualità, la diligenza, la regolatezza del pari, e perciò esse sono virtù: dal che parrebbe seguire, che ove l’apparenza dell’onestà renda lo stesso servizio, questa dovrebbe bastare, ed un eccesso non necessario di tal virtù dovrebbe apparire agli occhi di Franklin riprovevole quale spreco improduttivo. Ed in realtà chi nella sua autobiografia legge il racconto della sua «conversione» a quelle virtùf, le considerazioni sull’utilità, che reca per la conquista della stima universaleg il mantenere l’apparenza della modestia, il cosciente deprezzamento dei propri meriti, deve necessariamente giungere alla conclusione che quelle virtù sono tali per Franklin solo in quanto in concreto sono utili all’individuo e che il surrogarle colla semplice apparenza è sufficiente, là dove rende lo stesso servigio; conseguenza che, alla stregua dell’utilitarismo puro, è inevitabile. Sembra di cogliere qui in flagrante ciò che i Tedeschi sentono come ipocrisia nelle virtù dell’americanismo.
Ma la cosa in realtà non è così semplice. Non soltanto il carattere di Benjamin Franklin, quale viene in luce nella rara onestà della sua autobiografia, ed il fatto che egli consideri l’esserglisi manifestata l’utilità della virtù come rivelazione di Dio, che voleva con ciò chiamarlo alla pratica di essa, dimostrano che qui noi abbiamo qualche cosa di diverso da un posticcio esornativo di massime puramente egoistiche. Ma soprattutto il summum bonum di quest’etica, il guadagno di denaro e di sempre più denaro, che si accompagna al rigoroso scansamento di tutti i piaceri spensierati, è così spoglio di ogni fine eudemonistico o semplicemente edonistico, è pensato in tanta purezza come scopo a se stesso, che di fronte alla felicità ed all’utilità del singolo individuo appare come qualche cosa di interamente trascendente e perfino di irrazionaleh.
Il guadagno è considerato come scopo della vita dell’uomo, e non più come mezzo per soddisfare i suoi bisogni materiali. Questa inversione del rapporto che noi chiameremmo naturale, che è addirittura priva di senso per il modo di sentire comune, è manifestamente un motivo fondamentale del capitalismo così come è estranea all’uomo non tocco dal suo soffio. Ma essa contiene al tempo stesso una serie di sentimenti, che sono in stretta connessione con talune concezioni religiose. Se infatti si domanda perché gli uomini devono far denaro, Benjamin Franklin nella sua autobiografia risponde, benché egli fosse un deista aconfessionale, con un versetto della Bibbia, e ricorda che il padre suo, severamente calvinista, da giovane gli aveva sempre impresso: «Se vedi un uomo prestante nella sua professione, è segno che egli può apparire dinanzi ai re»i. Il guadagno di denaro, nel moderno ordinamento economico, costituisce–in quanto avvenga in modo lecito–il risultato e l’espressione della abilità nella professione, e tale abilità costituisce, così ora ci è dato facilmente di riconoscere, l’alpha e l’omega della morale di Franklin come appare nel passo citato ed in tutti gli altri suoi scritti senza eccezionej.
Il concetto infatti del dovere professionale, a noi oggi così ovvio ed in realtà di per se stesso così poco comprensibile; il concetto di un’obbligazione morale, che il singolo deve sentire e sente di fronte all’oggetto della sua attività professionale, qualunque essa sia, ed indipendentemente dal fatto che al modo di sentire comune essa appaia una semplice valorizzazione della propria capacità di lavoro o del proprio capitale, questo concetto è caratteristico dell ‘etica sociale della civiltà capitalistica, anzi in un certo senso è per essa di un’importanza fondamentale. Non che esso si sia sviluppato solo sul terreno del capitalismo; noi cercheremo anzi più oltre di rintracciarlo nel passato. E tanto meno si deve ritenere che sia condizione perché continui ad esistere il capitalismo odierno che i singoli suoi fattori, quali gli imprenditori o gli operai delle industrie capitalistiche moderne, facciano proprie tali massime etiche. L’odierno ordinamento capitalistico è un enorme cosmo, in cui il singolo viene immesso nascendo, e che è a lui dato, per lo meno in quanto singolo, come un ambiente praticamente non mutabile, nel quale è costretto a vivere. Esso impone a ciascuno, in quanto è costretto dalla connessione del mercato, le norme della sua azione economica. Il fabbricante, che costantemente contravviene a queste norme, viene senza fallo eliminato economicamente così come l’operaio, che non può o non vuole ad esse adattarsi, viene gettato in istrada come disoccupato.
Il capitalismo odierno, giunto all’egemonia nella vita economica, si crea e educa, per via della selezione economica, i soggetti economici, imprenditori ed operai, di cui abbisogna. Ma qui si possono proprio toccar con mano i limiti del concetto di «selezione» quale mezzo per spiegare i fenomeni storici. Perché potesse esser preferita attraverso la selezione, cioè potesse riportare vittoria su di altre quella condotta nella vita e nella professione, che si adattava ai caratteri del capitalismo, essa dovette prima sorgere e non in alcuni individui isolati, ma come una concezione, che venisse condivisa da interi gruppi di uomini. Questo suo sorgere è dunque quel che va spiegato. Parleremo più avanti in dettaglio della concezione del materialismo storico ingenuo che tali idee vengano alla luce come «riflessi» o «sovrastrutture» di situazioni economiche. A questo punto basta per il nostro scopo di accennare che nel paese natale di Benjamin Franklin (nel Massachusetts) lo spirito capitalistico (nel senso da noi qui accettato) esisteva prima dello sviluppo capitalistico (già nel 1632 si hanno lamentele per fenomeni specifici di spirito di calcolo e di brama di profitto nella Nuova Inghilterra, in contrapposto ad altri territori deH’America), e che per es. nelle colonie vicine, gli odierni Stati Meridionali dell’Unione, questo spirito era di gran lunga meno sviluppato, e ciò nonostante che queste ultime colonie avessero avuto vita ad opera di grandi capitalisti con fini di sfruttamento economico, e quelle della Nuova Inghilterra per opera di predicatori e graduates3 in unione a piccoli borghesi, artigiani e yeomen4, per motivi religiosi. In tal caso dunque il nesso causale è inverso a quello che si postulerebbe da un punto di vista materialistico. Ma la giovinezza di tali idee è ben più ricca di spine di quel che non ritengano i teorici delle «sovrastrutture», ed il loro crescere non si svolge come quello di un fiore. Lo spirito capitalistico, nel significato che noi sin qui siamo venuti acquistando a tale concetto, ha dovuto affermarsi in una dura lotta contro un mondo intero di forze nemiche. Un sentimento cosciente come quello che trovò espressione nelle citate considerazioni del Franklin, e che riscosse l’approvazione di un popolo intero, sarebbe stato, tanto nell’antichità quanto nel Medioevok proscritto come espressione della più sordida avarizia e di una coscienza senza dignità, come ancor oggi regolarmente avviene da parte di quei gruppi sociali, che meno si sono inseriti nella moderna economia capitalistica, o che ad essa sono meno adatti. Non perché l’impulso al guadagno nelle epoche precapitalistiche fosse qualche cosa di sconosciuto o di poco svilup pato–come pure spesso si è detto–o perché la aurì sacra fames, la bramosia di denaro, allora come oggi, fosse minore al di fuori del capitalismo borghese, di quel che non sia dentro alla sfera specifica del capitalismo, come l’illusione di romantici moderni ama immaginare. Non in questo consiste la differen za di spirito capitalistico e «precapitalistico»: l’avidità del mandarino cinese, dell’aristocratico dell’antica Roma, dell’agrario moderno regge ad ogni confronto. E la auri sacra fames del cocchiere o del barcaiolo napoletano o dell’asiatico esercente analoghi mestieri, come anche dell’artigianato di paesi sud-europei od asiatici si manifesta, come ciascuno può esperimentare, straordinariamente più penetrante, e in particolare più esente da scrupoli di quella di un inglese nello stesso casol. L’assoluta mancanza di scrupoli nel far valere il proprio interesse nel guadagnar denaro era una caratteristica specifica di quei paesi, il cui sviluppo borghese-capitalistico, valutato sul metro dell’evoluzione occidentale, era rimasto «arretrato». Come sa ogni fab bricante, la deficiente «coscienziosità» dei lavoranti di tali paesi, per esempio dell’Italiam in contrapposto alla Germania, è stato, e in certa misura è ognora, uno dei principali ostacoli al loro sviluppo capitalistico
Il capitalismo non può utilizzare come operaio l’indisciplinato rappresentante del «libero arbitrio», così come non può servirsi–come già apprendemmo dal Franklin–dell’uomo d’afiari privo di scrupoli nella sua condotta esteriore. La differenza non consiste dunque nel diverso grado di sviluppo della brama di denaro. La auri sacra fames è antica come la storia dell’umanità a noi conosciuta; ma noi vedremo che coloro che si abbandonarono senza ritegno al suo impulsocome quel capitano olandese, che per il guadagno avrebbe navigato attraverso l’inferno, anche se avesse dovuto abbruciacchiare la vela–non furono affatto i rappresentanti di quella coscienza, da cui uscì il moderno spirito capitalistico come fenomeno di masse, ché questo è il punto. Guadagno senza scrupoli, non frenato da alcuna norma interiore, ce n’è stato in tutti i tempi dove e quando ce ne fu la possibilità. Come la guerra e la pirateria, così anche il commercio, non legato da norme, nelle relazioni cogli stranieri era libero da ogni vincolo; la morale esterna permetteva ciò che tra fratelli era proibito.
E come, esteriormente considerato, fu abituale il guadagno capitalistico in quanto «avventura» in tutte le costituzioni economiche, che conoscevano oggetti patrimoniali a carattere monetario ed offrivano opportunità di impiegarli traendone un profitto–tramite la commenda, l’appalto di imposte, i prestiti di Stato, il finanziamento di guerre, di corti principesche, di impieghi–così si ebbe dappertutto quella coscienza da av venturieri, che irride ai limiti dell’etica. L’assoluta e cosciente mancanza di scrupoli nella bramosia di guadagno coesistette spesso col più stretto e rigoroso attaccamento alla tradizione. E col rompersi della tradizione, e colla penetrazione più o meno forte del commercio libero anche nell’interno delle organizzazioni sociali, tal novità non venne eticamente affermata ed espressa, ma solo di fatto tollerata, e trattata o come eticamente indifferente, od anche come spiacevole, ma purtroppo inevitabile. Questa non soltanto fu la posizione di tutte le dottrine etiche, ma anche–ciò che per ora maggiormente ci interessa–quella della condotta pratica dell’uomo medio dell’epoca precapitalistica; ed intendiamo qui per precapitalistica quella in cui la valorizzazione razionale del capitale nell’industria e la razionale organizzazione del lavoro non erano ancora divenute forze prevalenti neH’orientamento dell’economia. Ma questa condotta appunto fu uno degli ostacoli interiori più forti, contro i quali urtò dappertutto l’adattamento degli uomini ai presupposti di una economia borghese-capitalistica bene ordinata.
L’avversario, col quale ebbe a lottare in prima linea lo «spirito» del capitalismo nel senso di un determinato stile di vita, legato a certe norme, che si presenti col carattere di un’«etica», fu quel modo di sentire e di condursi, che si può indicare colla parola «tradizionalismo». Anche qui ogni tentativo di una definizione «conclusiva» deve esser sospeso; ma chiariremo con un caso specifico–ed anche ciò provvisoriamente–quel che si intende con quella parola; e cominciando dal basso, cioè dagli operai.
Uno dei mezzi tecnici che l’imprenditore moderno cerca di impiegare per ottenere dai suoi operai un massimo di produzione, e per aumentare l’intensità del lavoro, è il cottimo. Nell’agricoltura per es. un caso che suole richiedere il massimo dell’intensità di lavoro è la raccolta, poiché se il tempo è incerto, dalla maggiore o minore celerità con cui essa viene eseguita dipendono grandissime opportunità di guadagno o di perdita. Perciò si suole qui impiegare il sistema del cottimo. E poiché coll’aumento dei profitti e dell’intensità del commercio l’interesse dell’imprenditore ad affrettare la raccolta si fa generalmente più grande, così si è sempre di nuovo tentato di cointeressare i lavoratori ad una maggiore celerità ed intensità di lavoro aumentando le percentuali dei loro cottimi, e porgendo loro così la possibilità di ottenere in breve tempo un guadagno per essi straordinariamente alto. Ma qui si manifestarono difficoltà caratteristiche: l’aumento dei cottimi ebbe per risultato che nello stesso spazio di tempo si raggiungesse non una maggiore, ma sibbene una minore produzione, poiché i lavoratori risposero all’aumento dei cottimi non con un aumento, ma con una diminuzione del loro lavoro giornaliero. Il mietitore, uomo che per es. per un marco per jugero aveva fino allora mietuto due jugeri e mezzo al giorno, dopo l’aumento del cottimo di 25 pfennig allo auguro, non mietè, come si sperava, data la possibilità di un alto guadagno circa 3 jugeri al giorno per guadagnare così M. 3,75, come pur sarebbe stato possibile; ma due jugeri soltanto, poiché guadagnava del pari M. 21/2 come fino allora, e, secondo la parola della Bibbia, si contentava del poco. Il maggior guadagno lo attirava meno del minor lavoro, non si chiedeva «quanto posso io guadagnare se do un massimo di lavoro», ma sibbene «quanto debbo lavorare per guadagnare quel salario–M. 2,50–che io ho percepito finora e che copre i miei bisogni tradizionali». Questo è un esempio di quella condotta che deve essere definita «tradizionalismo»: l’uomo «per natura» non vuole guadagnare denaro e sempre più denaro, ma semplicemente vivere, vivere secondo le sue abitudini e guadagnare quel tanto che è a ciò necessario.
Dappertutto là dove il capitalismo moderno iniziò la sua opera di aumento della produttività del lavoro umano mercé l’aumento della sua intensità, urtò nella resistenza indicibilmente ostinata di questo motivo fondamentale del lavoro economico precapitalistico, e vi urta ancor oggi tanto più, quanto più «arretrata» (da un punto di vista capitalistico) è la classe lavoratrice a cui si rivolge. Era dunque ovvio–per tornare al nostro esempio–poiché era fallito l’appello al desiderio di guadagno per mezzo di percentuali più alte, che lo si tentasse per la via inversa; costringendo cioè gli operai, mercé l’abbassamento delle tariffe dei cottimi, a produrre di più per mantenere intatto il loro guadagno. Appare senz’altro ed appare ancor oggi all’osservatore spregiudicato che un basso salario ed un alto profitto stiano in correlazione e che tutto ciò che si paga di più per salari debba significare una corrispondente diminuzione del profitto. Il capitalismo ha percorso più e più volte fin dal suo inizio tale strada e per secoli ebbe valore di articolo di fede la proposizione che i bassi salari fossero produttivi, cioè che aumentassero la produttività del lavoro; e già Pieter de la Cour6 aveva detto–pensando in questo, come vedremo, secondo lo spirito del vecchio Calvinismo–che il popolo lavora soltanto perché è povero e fino a tanto che è povero.
Ma l’efficacia di questo mezzo apparentemente così provato ha i suoi limitin. Certamente il capitalismo esige per il suo svolgimento la presenza di un eccesso di popolazione, che esso possa assoldare sul mercato del lavoro a basso prezzo. Ma un «esercito di riserva» eccessivo favorisce bensì in certe circostanze il suo estendersi quantitativo, ma impedisce il suo sviluppo qualitativo, e soprattutto il passaggio a forme industriali, che sfruttano l’intensità del lavoro. Il basso salario non è affatto identico col lavoro a buon mercato. Anche considerandola solo quantitativamente la prestazione di lavoro decresce con un salario fisiologicamente insufficiente, il quale, alla lunga, porta con sé una selezione dei «meno adatti». L’odierno Slesiano medio miete con sforzo poco più di due terzi di quel che mietono nello stesso tempo i lavoratori meglio pagati e nutriti della Pomerania e del Meclemburgo; il Polacco dà una prestazione materiale tanto minore di quella del Tedesco quanto più si vada verso l’Oriente. Ed anche sul piano puramente affaristico il basso salario, come puntello per lo sviluppo capitalistico, fallisce al suo scopo sempre là dove si tratti di preparare prodotti, che richiedono lavoro qualificato o il servizio di macchine costose e facilmente danneggiabili o, in misura assai notevole, forte attenzione ed iniziativa. Il basso salario in tal caso non rende e riesce all’effetto contrario di quello voluto. Poiché qui non soltanto è indispensabile un senso di responsabilità assai sviluppato; ma anche una coscienza, che per lo meno durante il lavoro si liberi dal continuo problema di come si possa guadagnare il salario abituale con un massimo di comodità ed un minimo di lavoro, e che consideri il lavoro come «assoluto scopo a se stesso» e cioè come «professione» (Beruf). Ma una tale coscienza non è qualche cosa che si trovi in natura. E non può essere il prodotto immediato di alti o bassi salari, ma sibbene il risultato di un lungo processo educativo. Oggi al capitalismo trionfante il reclutamento dei suoi operai in tutti gli stati industriali e neH’interno delle zone industriali dei singoli stati, riesce relativamente facile. Nel passato esso fu, in singoli casi, un problema straordinariamente difficileo. Ed anche oggi non sempre raggiunge il suo scopo, senza l’aiuto di un potente alleato che, come vedremo più avanti, già gli fu vicino nel periodo del suo divenire. Anche qui un altro esempio renderà chiaro il nostro pensiero. Molto spesso le operaie, in ispecie quelle nubili, ci danno un esempio di una forma di lavoro arretrata, tradizionalistica. In ispecie la loro mancanza di capacità e di volontà di abbandonare modi di lavoro tradizionalmente appresi per altri più pratici, di adattarsi a nuove forme di lavoro, di im parare e di concentrare l’intelligenza o soltanto di adoperarla, forma oggetto di lamenti quasi generali da parte di imprenditori che danno lavoro a delle ragazze, in particolare a delle ragazze tedesche. Spiegazioni sulla possibilità di rendersi il lavoro più facile e soprattutto più redditizio, si imbattono in esse, generalmente, in una completa incomprensione; l’aumento dei cottimi urta contro il muro dell’abitudine.
Le cose sogliono andare diversamente, ed è questo un punto assai importante per le nostre considerazioni, solo con ragazze che abbiano ricevuto una speciale educazione religiosa, soprattutto con quelle di provenienza pietistica. Si sente dire frequentemente–e lo confermano occasionali controlli statisticip–che in tale categoria si presentano le probabilità di gran lunga più favorevoli di ottenere un’educazione economica. La capacità di concentrazione del pensiero, come l’atteggiamento assolutamente essenziale di chi si sente obbligato di fronte al proprio lavoro, si trovano qui in particolar modo di frequente unite con una stretta economicità, che calcola il guadagno ed il suo grado, e con un severo dominio di sé ed una morigeratezza, che aumentano straordinariamente la capacità di lavoro.
è questo il terreno più propizio per quella concezione del lavoro come scopo a se stesso, come vocazione, quale la richiede il capitalismo; qui si ha la massima probabilità di vincere, mercé l’educazione religiosa, il tran tran tradizionalistico. Già questa osservazione sul capitalismo attualeq ci mostra che in ogni caso vale la pena di porci la domanda come tali nessi della capacità di adattamento al capitalismo con motivi religiosi si siano potuti formare nel tempo del primo sviluppo capita listico. Poiché si può concludere da molti fenomeni singoli che questi nessi esistettero anche allora in simil modo. L’avversione e la persecuzione che, per es., gli operai metodisti ebbero a subire da parte dei loro compagni di lavoro nel xvm secolo, non ebbe alcuna relazione, od almeno non ebbe prevalentemente relazione colle loro eccentricità religiose–l’Inghilterra ne aveva viste ben altre–ma colla laboriosità che era loro specifica, come dimostra l’accenno, che spesso ritorna nelle notizie pervenuteci, alla distruzione dei loro strumenti di lavoro.
Ma ritorniamo al presente, ed in particolare agli imprenditori, per renderci conto anche qui dell’importanza del tradizionalismo.
Il Sombart nelle sue dissertazioni sulla genesi del capitalismor ha distinto la «soddisfazione dei bisogni» e il «guadagno» come i due grandi motivi fondamentali, sui quali si è intessuta la storia dell’economia, secondo l’importanza che assumono nel determinare il genere e l’indirizzo della attività economica, la misura del bisogno individuale, o, indipendentemente dai limiti di quello, la tendenza al guadagno e la possibilità del suo conseguimento. Ciò che egli designa come «sistema economico di copertura del fabbisogno» sembra a prima vista coincidere con ciò che abbiamo qui definito «tradizionalismo economico». E tale è il caso in realtà quando si ponga l’identità del concetto di bisogno con quello di «bisogno tradizionale». Ma se non si intende questo, numerosissimi sistemi economici, che secondo la forma della loro organizzazione vanno considerati capitalistici, anche nel senso di una definizione del capitale che il Sombart dà in un altro passo della sua operas, vanno esclusi dall’ambito dei sistemi economici «acquisitivi» e passano in quello dei «sistemi economici di copertura del fabbisogno». Anche imprese che vengono condotte da imprenditori privati sotto la forma di una trasformazione di capitale (denaro o beni valutabili a denaro) per scopi di lucro mercé l’acquisto di mezzi di produzione e la vendita dei prodotti, che sono pertanto senza alcun dubbio «imprese capitalistiche» possono tuttavia avere un carattere tradizionalistico. Così sono andate le cose non eccezio nalmente, ma regolarmente–pur con sempre rinnovate interruzioni e con sempre più nuove e più violente apparizioni dello spirito capitalistico–anche nella più recente storia dell’economia. La forma «capitalistica» di una impresa e lo spirito con cui essa viene condotta, generalmente si adeguano reciprocamente; ma non dipendono luna dall’altra secondo una legge fissa. E se, nonostante ciò, noi adopriamo qui provvisoriamente l’espressione «spirito del capitalismo moderno»t, per quella coscienza, che tende professionalmente ad un guadagno sistematico e razionalmente legittimo in quella maniera, che venne spiegata colPesempio di Benjamin Franklin, lo facciamo per la ragione storica che quella tendenza ha trovato nell’impresa capitalistica moderna la sua forma più adatta, e dall’altra parte l’impresa capitalistica ha avuto in essa l’impulso spirituale più adeguato.
Ma per se stesse le due cose possono andar benissimo disgiunte. Benjamin Franklin era pieno di spirito capitalistico in un tempo in cui la sua azienda tipografica per la forma non si distingueva in nulla da una azienda artigiana tradizionale. E noi vedremo che proprio al principio dell’epoca moderna gli imprenditori capitalistici del patriziato commerciale non furono da soli e neppure prevalentemente i rappresentanti di quello spirito che noi abbiamo definito come spirito del capitalismo, ma lo furono molto più gli elementi attivi del medio ceto industrialeu.Anche nel xix secolo non sono suoi rappresentanti classici i distinti gentiluomini di Liverpool o di Amburgo, con i loro capitali commerciali da lungo tempo ereditati, ma i parve- nus di Manchester, del Reno e della Vestfalia, spesso usciti da modestissime condizioni. E qualche cosa di simile accadeva nel secolo xvi; il centro di gravità delle industrie che allora sorgevano era per lo più nelle mani di par venusv.
L’attività di una banca, o del gran commercio di esportazione, o di una grande vendita al dettaglio, o infine di una grande impresa di distribuzione di merci date a produrre all’industria domestica sono certamente possibili solo nella forma dell’impresa capitalistica. Ciononostante possono esser tutte condotte con spirito strettamente tradizionalista; gli affari delle grandi banche d’emissione non possono esser condotti diversamente; il commercio marittimo di intere epoche si è basato su monopoli e regolamenti di carattere strettamente tradizionale; nel commercio al dettaglio -e non si tratta qui dei piccoli perdigiorno privi di capitale che oggi gridano per ottenere aiuti statali–la rivoluzione che pone fine al vecchio tradizionalismo, è ancor oggi in pieno sviluppo e rappresenta lo stesso mutamento che ha mandato all’aria i vecchi sistemi di impresa, coi quali il moderno lavoro domestico ha solo affinità di forma. Come proceda questa rivoluzione e ciò che essa significhi, per quanto tali cose siano note, si può mettere in luce anche qui soltanto attraverso un caso specifico.
Fin verso la metà del secolo scorso la vita di un imprenditore7 per lo meno in alcuni rami dell’industria tessile continentale, era assai comoda, almeno per il nostro modo di vedere di oggiw. Ci si può immaginare il suo corso presso a poco così. I contadini venivano coi loro tessuti, la cui materia prima (se si trattava di lino) era prevalentemente od interamente di loro produzione, alla città in cui abitavano gli imprenditori, e, dopo un esame accurato e spesso ufficiale della qualità della merce, ne riscuotevano il prezzo corrente. Clienti degli imprenditori per lo smercio nei paesi più lontani, erano per lo più degli intermediari, che venivano pure in viaggio d’affari, e per lo più non compravano secondo i campionari, ma secondo le qualità tradizionali, dal magazzino, oppure facevano ordinazioni, in tal caso con grande anticipo, e queste venivano eventualmente trasmesse ai contadini. Viaggi degli imprenditori presso la clientela, se realmente avvenivano, avevano luogo raramente in lunghi periodi di tempo; del resto bastava la corrispondenza e l’invio di campionari che prendeva piede a poco a poco. La durata deH’orario di ufficio era moderata: di forse cinque o sei ore al giorno, talvolta considerevolmente minore, maggiore nell’eventuale stagione degli affari più intensi; discreto il guadagno e sufficiente per un tenor di vita decoroso e, nei tempi buoni, per metter da parte un piccolo capitale; nel complesso una relativa tolleranza dei concorrenti fra di loro, mercé un grande accordo nei princìpi fondamentali degli affari, visita giornaliera e redditizia al circolo, e poi, secondo i casi, un buon boccale la sera, il circolo familiare e soprattutto un calmo ritmo di vita.
Era una forma di organizzazione sotto ogni rispetto capitalistica8 tanto se si consideri il carattere puramente commerciale ed affaristico che avevano gli imprenditori, quanto se si abbia riguardo al fatto dell’intervento indispensabile di capitali, che venivano investiti nell’impresa, come se, infine, si guardi il lato obiettivo del processo economico o della tenuta dei libri. Ma era economia «tradizionalistica» se si guardi allo spirito che animava gli imprenditori; la condotta tradizionale della vita, l’altezza tradizionale del profitto, la misura tradizionale di lavoro, gli usi tradizionali nella condotta degli affari e nelle relazioni sia cogli operai sia colla tradizionale cerchia di clienti, nella maniera di procurarsi clienti e sbocchi, dominavano l’esercizio dell’azienda, ed erano a fondamento–si può dire–dcWethos di questa cerchia di imprenditori.
Ma ad un certo momento questo benessere venne improvvisamente disturbato e proprio senza che fosse intervenuto un mutamento fondamentale nella forma deirorganizzazione, passaggio aH’impianto industriale chiuso o al telaio meccanico o simili. Accadde piuttosto unicamente quanto segue: che un giovane di una delle famiglie di imprenditori si recò dalla città in campagna, scelse accuratamente i tessitori per il suo bisogno, aumentò a poco a poco la loro dipendenza ed il controllo su di essi, li trasformò così da contadini in operai, e d’altra parte si incaricò personalmente dello smercio avvicinando, per quanto gli era possibile, direttamente fin l’ultimo acquirente; si occupò egli stesso degli affari al minuto, acquistò con contatti personali i clienti, facendo ogni anno un viaggio d’affari, ma soprattutto seppe adeguare la qualità dei prodotti ai loro bisogni e ai loro desideri, seppe renderla «di moda» e al tempo stesso cominciò ad attuare il principio fondamentale del prezzo basso e del grande smercio. Si ripete subito il fenomeno, che in tutti i paesi e in tutti i tempi è la conseguenza di un tal processo di «razionalizzazione»: chi non salì dovette scendere. L’idillio svanì nell’aspra lotta di concorrenza iniziata, si guadagnarono considerevoli patrimoni e non si misero a frutto, ma si tornò via via ad investirli nell’industria; all’antica esistenza comoda e calma succedette una dura moderatezza, sia in quelli che si mettevano in pari ed avevano successo, perché non volevano consumare, ma guadagnare; sia in quelli, che rimanevano fedeli alle antiche tradizioni, perché si dovevano limitarex.
E, quel che più importa, non fu di regola in tali casi un afflusso di denaro che provocò tale rivoluzione–in certi casi a me noti fu messo in moto tutto il processo di rivoluzione con poche migliaia di marchi di capitale, prestati da parenti–ma la provocò il nuovo spirito appunto del a capitalismo moderno» che si era introdotto. La ricerca delle forze che dettero impulso alFespansione del capitalismo moderno non è, principalmente almeno, la ricerca della provenienza delle riserve di denaro da valorizzarsi come capitali, ma soprattutto la ricerca dello sviluppo dello spirito capitalistico. Dove questo si sveglia e cerca di realizzarsi, si procura i capitali come mezzi per la sua azione; ma non viceversay.
Ma la sua apparizione non fu di solito pacifica. Un’ondata di diffidenza, talvolta di odio, ma soprattutto di indignazione morale si opponeva generalmente al primo innovatore; spesso–e a me sono noti diversi casi del genere–si formava una leggenda su ombre misteriose nella sua vita precedente. Non è facile che taluno sia così imparziale e scevro di pregiudizi da osservare che solo un carattere straordinariamente saldo poteva salvare un tale imprenditore «di nuovo stile» dalla perdita del dominio su se stesso e dal naufragio morale ed economico; che, insieme colla chiarezza di visione e coll’energia, furono soprattutto qualità etiche specialissime e molto forti quelle che gli acquistarono la fiducia, indispensabile in tali innovazioni, dei clienti e degli operai, e gli conservarono l’energia necessaria per superare le resistenze non calcolate, ma soprattutto gli resero possibile quel lavoro infinitamente più intenso che allora si esigeva dall’imprenditore e che non si concilia col pacifico godimento della vita; ma furono appunto qualità etiche di tutt’altro genere di quelle inerenti al tradizionalismo del passato. E del pari non furono, di regola, speculatori temerari e senza scrupoli, nature di avventurieri economici, quali se ne incontrano in tutte le epoche della storia dell’economia, o semplicemente gente molto danarosa, coloro che crearono questa trasformazione esternamente invisibile, ma decisiva per raffermarsi del nuovo spirito nella vita economica; ma sibbene uomini formati nella dura scuola della vita, calcolatori e audaci al tempo stesso, ma soprattutto riservati e costanti, completamente dedicati al l’oggetto della loro attività, con opinioni e princìpi severamente borghesi.
Si sarà inclini a pensare che queste qualità etiche personali non abbiano di per sé niente in comune con qualsiasi massima etica o con concetti religiosi, e che qualche cosa di negativo, la capacità di sottrarsi alle tradizioni ricevute, e per ciò tutt’al più un «illuminismo» liberale, sia il fondamento adeguato di una tal condotta. Ed in realtà le cose oggi procedono generalmente così. Non solo manca di regola un rapporto della condotta di vita con determinati punti di partenza religiosi, ma quando un rapporto c’è, esso suole essere per lo meno in Germania, di carattere negativo. Tali nature piene di spirito capitalistico sogliono essere, se non proprio ostili alla religione, per lo meno indifferenti. Il pensiero della pia noia del Paradiso ha scarse attrattive per la loro natura che si rallegra nell’azione, la religione appare loro come un mezzo per distrarre gli uomini dal lavorare quaggiù su questa terra. Se si domandasse loro il senso del loro affaticarsi senza posa, che non si accontenta mai di quel che già possiede, e che perciò proprio in un orientamento della vita in puro senso terreno deve apparire più che mai insensato, essi risponderebbero talvolta, qualora sapessero dare una risposta qualsiasi: «il pensiero per i figli e per i nipoti», ma più spesso e con maggiore esattezza, poiché il detto motivo non è loro particolare, ma agì anche sull’uomo «tradizionalistico», risponderebbero che gli affari col continuo lavoro che comportano sono diventati indispensabili alla loro vita. Questa è infatti l’unica motivazione esatta, che esprime ciò che, dal punto di vista della felicità personale, appare irrazionale in tale condotta di vita, nella quale l’uomo è fatto per la sua azienda e non viceversa.
Naturalmente il sentimento della potenza e della considerazione che procura il semplice fatto del possedere, ha in tutto ciò la sua parte; là dove la fantasia di un intero popolo è indirizzata solo verso le grandezze puramente quantitative, come negli Stati Uniti, questo «romanticismo delle cifre» agisce con un fascino irresistibile su quei commercianti che sono, a modo loro, poeti. Ma del resto non si lasciano prendere da esso gli imprenditori che siano alla testa del movimento economico e che alla lunga abbiano un successo duraturo. Ed infine–sorte comune delle famiglie dei parvenus del capitalismo tedesco l’approdare nel porto del possesso fidecommissario e della nobiltà delle patenti sovrane attraverso i figli, la cui educazione nelle università o nelle scuole militari cercava di far dimenticare l’origine, rappresenta un prodotto di epigoni decadenti. Il «tipo ideale»z dell’imprenditore capitalistico quale era rappresentato anche presso di noi da alcuni esempi preminenti, non ha nulla in comune con tali vanità più o meno fini o più o meno grossolane. Egli rifugge dall’ostentazione inutile come dal godimento cosciente della sua potenza, e il ricevere i segni esteriori della considerazione sociale di cui gode, gli è assai penoso. La sua condotta di vita ha spesso un carattere ascetico, quale si manifesta chiaramente nella «predica» già citata di Benjamin Franklin; e noi dovremo approfondire il significato storico di questo fenomeno per noi così importante. Non di rado infatti si può trovare in lui una fredda modestia, che è sostanzialmente più sincera di quella riservatezza, che Benjamin Franklin raccomanda con tanta accortezza. Dalla sua ricchezza non ricava nulla per se stesso; tranne l’irrazionale sentimento del compimento del suo dovere professionale.
Ma questo è appunto quel che all’uomo precapitalistico appare così incomprensibile ed enigmatico, così sordido e spregevole. Che uno possa proporsi a scopo del lavoro di tutta la sua vita unicamente il pensiero di scendere nella tomba carico del massimo peso possibile di denaro e di beni, gli appare spiegabile solo come un prodotto di impulsi perversi, della aurì sacra fames.
Nel presente, colle nostre istituzioni politiche, di diritto privato e di scambio, colle forme d’impresa e colla struttura, che è propria della nostra economia, questo «spirito» del capitalismo si potrebbe comprendere come un puro fenomeno di adattamento. L’ordinamento economico capitalistico abbisogna di questo sacrificio alla «vocazione» del guadagno; esso non è che un modo di comportarsi coi beni esteriori, così congiunto alle condizioni della vittoria nella lotta economica per la vita, che non si può parlare oggi nei fatti, di un nesso necessario di quella condotta di vita «crematistica» con una qualsiasi concezione unitaria del mondo. Non le è infatti più necessario di farsi sorreggere dall’approvazione di una forza religiosa, e sente come un ostacolo l’influsso di norme ecclesiastiche sulla vita economica, in quanto si faccia ancor oggi sentire, al pari della regolamentazione statale. Il punto di vista degli interessi politico-commerciali e politico-sociali suole invece determinare la W eltanschauung. Chi non si adatta nella condotta della sua vita alle condizioni del successo capitalistico, decade o per lo meno non riesce.
Ma sono, questi, fenomeni di un’epoca in cui il capitalismo moderno, raggiunta la vittoria, si è liberato dagli antichi sostegni. Come esso una volta, solo mercé l’alleanza colla forza del lo stato moderno in formazione, spezzò le vecchie forme della regolamentazione medioevale della vita economica, così potrebbe essere accaduto–diciamo qui in via provvisoria–nelle sue relazioni colle forze religiose. Noi dobbiamo qui appunto indagare se ed in quale senso ciò sia accaduto. Non ha bisogno di esser dimostrata l’affermazione che il concetto del guadagno come scopo a se stesso, come dovere per l’uomo, come «vocazione» infine, fu in contraddizione col sentimento morale di intere epoche. Nella sentenza «Deo piacere vix potest», passata nel diritto canonico e allora ritenuta autentica (al pari del passo del Vangelo sull’interesse)a1, che veniva applicata all’atti vita del mercante, nonché nella definizione di S. Tommaso dell’aspirazione al guadagno come turpitudo (che comprendeva perfino il guadagno inevitabile e quindi eticamente ammesso), vi era già–rispetto alle vedute radicalmente anticrematistiche di circoli abbastanza estesi–un alto grado di concessione, da parte della dottrina cattolica, agli interessi del potere finanziario delle città italiane, così strettamente legato, sul piano politi co, alla Chiesab1. Ed anche là dove la dottrina era ancor più accomodante, come per es. in S. Antonino da Firenze9 non spariva tuttavia del tutto la sensazione che l’attività diretta al guadagno come fine a se stesso era in sé qualche cosa di vergognoso, che si era costretti a tollerare soltanto dalle circostanze attua li della vita. Alcuni moralisti di quei tempi, soprattutto della scuola nominalistica, accettarono le forme capitalistiche allora incipienti come dati di fatto e cercarono non senza contraddizione di legittimarle come tali, e soprattutto il commercio come necessario, e di ammettere come fonte lecita di guadagno e come moralmente indifferente l’«industria», l’attività in esso esercitata; ma la dottrina dominante ripudiò lo «spirito» del guadagno capitalistico come turpitudo o per lo meno non potè eticamente valorizzarlo. Una concezione morale come quella di Benjamin Franklin sarebbe stata assolutamente impensabile.
Tale era soprattutto la concezione dei ceti capitalistici stessi; il lavoro della loro vita, se essi rimanevano sul terreno della tradizione ecclesiastica, era, nel caso più favorevole, una cosa moralmente indifferente, tollerata, ed a causa del costante rischio di urtare nel divieto religioso dell’usura, pericolosa per la salute deiranima; somme assai considerevoli, come ci mostrano i documenti, in occasione della morte di gente ricca passavano ad istituzioni religiose come «legati di coscienza» ed in talune circostanze ritornavano agli antichi debitori come «usure» ingiustamente loro estorte. Diversa era, astrazion fatta dagli indirizzi eretici o comunque sospetti, la sola posizione dei ceti patrizi internamente già liberatisi dalla tradizione. Ma anche uomini di indole scettica ed irreligiosa solevano conciliarsi la Chiesa per ogni caso con offerte a forfaitc1, poiché così era meglio, per assicurarsi contro l’incertezza dell’oltretomba, e perché–per lo meno secondo la concezione meno rigida assai diffusa–la sommissione esterna ai precetti della Chiesa bastava alla salvezza.
Proprio qui appare manifestamente l’amoralità o addirittura l’immoralità che, secondo la concezione degli stessi interessati, era inerente alla loro attività. Da questo che era, nel caso più favorevole, un affare moralmente tollerato, come è sorta una «vocazione» nel senso di Benjamin Franklin ? Come si può spiegare storicamente che nel centro dello sviluppo capitalistico del mondo d’allora, nella Firenze dei secoli xiv e xv, mercato dei denaro e dei capitali di tutte le grandi potenze politiche, fosse considerata cosa moralmente sospetta o tutt’al più tollerabile, ciò che nelle condizioni di economia forestale e piccoloborghese della Pennsylvania del secolo xvm, dove l’economia minacciava di cadere nello scambio naturale per pura mancanza di denaro, dove non si trovava traccia di grandi imprese industriali e le banche erano appena ai primi inizi, potè valere come contenuto di una condotta moralmente lodevole, anzi imposta? Il voler parlare qui di un riflesso delle condizioni materiali nella sovrastruttura ideale sarebbe pura stoltezza. Da quale indirizzo di pensiero ebbe dunque origine la classificazione di un’attività, che esternamente è indirizzata soltanto al guadagno, sotto la categoria della «vocazione» a cui il singolo si sentiva obbligato? Poiché tale pensiero fu quello che assicurò all’imprenditore di «nuovo stile» la base e la sicurezza etica.
Il razionalismo economico è stato designato, specialmente dal Sombart, in trattazioni spesso felici ed efficaci, quale motivo fondamentale della economia moderna. E ciò con diritto non dubbio, se si intende indicare con esso quell’aumento della produttività del lavoro, mercé l’organizzazione del processo di produzione da un punto di vista scientifico, che ha abolito il legame di tal processo coi limiti fisiologici, dati dalla natura, della persona umana. Questo processo di razionalizzazione sul terreno della tecnica e dell’economia, condiziona senza dubbio anche una parte importante degli «ideali di vita» della moderna società borghese; il lavoro a servizio di un ordinamento razionale deH’approvvigionamento dei beni materiali necessari all’umanità è indubbiamente sempre apparso ai rappresentanti dello «spirito capitalistico» come uno degli scopi che imprimevano un indirizzo al lavoro della loro vita. E basta leggere, per esempio, la descrizione che fa Benjamin Franklin dei suoi sforzi al servizio di miglioramenti comunali a Filadelfia per toccare con mano questa verità ben comprensibile. E la gioia e l’orgoglio per aver dato lavoro a molti uomini, per aver cooperato alla prosperità economica della città, nel senso che a tale parola dà il capitalismo, di un aumento misurato statisticamente della popolazione e dei commercianti, tutto ciò appartiene naturalmente alla gioia di vivere specifica e senza dubbio idealisticamente sentita degli imprenditori moderni. Ed è del pari una delle finalità fondamentali dell’economia privata capitalistica il fatto che essa è razionalizzata sulla base di un calcolo strettamene aritmetico ed indirizzata secondo un prudente disegno all’ambito successo economico, in contrasto colla vita alla giornata del contadino, col tran tran tradizionale e privilegiato dell’artigianato corporativo, e col «capitalismo d’avventura» che era orientato secondo opportunità politiche e verso una speculazione irrazionale.
Sembrerebbe così, che lo sviluppo dello «spirito capitalistico» si possa più semplicemente comprendere come fenomeno particolare nello sviluppo totale del razionalismo, e che si possa dedurre dalla posizione teorica di questo di fronte ai più alti problemi della vita. Allora il Protestantesimo dovrebbe venir preso in considerazione dallo storico, solo in quanto avrebbe avuto la sua parte come avant-goût di concezioni della vita puramente razionalistiche. Ma quando si fa seriamente tale tentativo, si palesa che una impostazione così semplice del problema non è possibile, già per il fatto che la storia del razionalismo non ci mostra affatto uno sviluppo parallelo nei diversi campi della vita. La razionalizzazione del diritto privato, per esempio, che, se si concepisce come semplificazione concettuale ed organizzazione della materia giuridica, raggiunse la sua forma più avanzata, fino ad oggi, nel diritto romano della tarda antichità; ma è rimasta più arretrata che altrove in alcuni dei paesi, in cui la razionalizzazione economica ha raggiunto un più alto grado, cioè in Inghilterra, dove il rinascimento del diritto romano fallì per la resistenza delle grandi corporazioni dei giuristi, mentre il suo predominio è continuato nei paesi cattolici dell’Europa meridionale. La filosofia puramente terrena del secolo xvm non ha trovato il suo posto soltanto e neppure principalmente nei paesi capitalisticamente più sviluppati. Il volterianesimo è ancor oggi patrimonio comune di larghi strati superiori e–ciò che praticamente più importa–medi, proprio nei paesi romano-cattolici. Se infine si comprende sotto il concetto di «razionalismo pratico» quella specie di condotta di vita, che pone coscientemente il mondo in relazione soltanto cogli interessi materiali del singolo io, e giudica da questo punto di vista; questo stile di vita era ed è ancor oggi la tipica caratteristica dei popoli del «libero arbitrio», e sono i Francesi e gli Italiani che la portano nel sangue; ma noi ci potemmo or ora convincere che questo non è affatto il terreno su cui si è sviluppato più facilmente quel rapporto deiruomo di fronte alla propria vocazione professionale come di fronte a un dovere, di cui il capitalismo ha bisogno. Si può infatti render razionale la vita sotto punti di vista diversissimi e con indirizzi molto diversi; e questa semplice proposizione, che troppo spesso si dimentica, dovrebbe esser posta sulla testata di ogni studio, che si occupi di «razionalismo». Il razionalismo è un concetto storico che racchiude in sé un mondo di contraddizioni, e noi dovremo appunto indagare di quale spirito fosse figlio quel modo concreto di pensare e di vivere razionalmente, da cui si è svolta quell’idea di «vocazione professionale» e quella dedizione al lavoro professionale, che fu ed è tuttora uno degli elementi più caratteristici della nostra civiltà capitalistica, e che, come dicemmo, appare così irrazionale dal punto di vista degli interessi puramente eudemonistici.
A noi interessa qui appunto l’origine di quell’elemento irrazionale, che è contenuto in questo come in ogni altro concetto di «vocazione».
a. Il passo finale da Necessary hints to those that would be rich scritto nel 1736), il resto da: Advice to a young tradesman (1748), in Works ed. SPARKS, vol. II, p. 87.
b. Der Amerikamüde (Francoforte 1855), notoriamente una parafrasi poetica delle impressioni americane di Lenau. Diffìcilmente si potrebbe gustare oggi il libro come opera d’arte; ma rimane tuttavia insuperato come documento dei contrasti (oggi da tempo attenuati) tra il modo di sentire americano e quello tedesco; si potrebbe anche dire di quella vita interiore, che dalla mistica medioevale tedesca in poi, è rimasta comune, nonostante tutto, ai Cattolici e ai Protestanti tedeschi, di fronte all’energia puritanacapitalistica.
c. SOMBART ha messo come motto questa citazione alla parte sulla Genesi del Capitalismo (Der moderne Kapitalismus, ia ed., vol. I, p. 193; e anche p. 390).
d. Ciò naturalmente, non significa che Jakob Fugger2 sia stato un uomo indifferente in materia di morale o di religione, né che l’etica di Benjamin Franklin si esaurisca tutta in quegli aforismi. Non ci sarebbe stato bisogno delle citazioni di BRENTANO (Die Anfänge des modernen Kapitalismus, Monaco 1916, p. 156 sg.) per proteggere questo ben noto filantropo dal pericolo di un tal disconoscimento, quale egli sembra attribuirmi. Il problema invece si inverte proprio così: come potè un tal filantropo esporre tali aforismi–che Brentano ha omesso di riprodurre nella loro caratteristica formulazione–in uno stile da moralista?
e. Su ciò si basa la differenza nella impostazione del problema nel libro del Sombart e in questo mio studio. La rilevantissima importanza pratica di questa differenza verrà in luce più tardi. Si noti fin da ora che il Sombart non ha affatto tralasciato di osservare questo aspetto morale dell’imprenditore capitalista. Ma nel suo pensiero esso appare causato dal capitalismo stesso; mentre per i nostri fini dobbiamo considerare l’ipotesi inversa. Solo alla conclusione dell’indagine si potrà prendere una posizione definitiva. Per la concezione del Sombart cfr. op. cit., pp. 357, 380, ecc. Il processo del suo pensiero si ricollega ai brillanti quadri della Philosophie dcs Gcldes di Simmel (ultimo capitolo).
f. [Nella traduzione italiana di G. Fornelli (Sansoni, Firenze 1925, p. 79)]: «Mi convinsi che la verità, la sincerità e l’integrità nei rapporti tra individuo e individuo siano di enorme importanza nella felicità umana; ed io per iscritto presi delle risoluzioni che sono ancor lì, nel mio diario, con il proposito di attuarle sinché vivessi. Della Rivelazione non mi curava molto: ma ero d’opinione, che quantunque certe azioni non siano cattive perché proibite, o buone perché comandate, tuttavia esse sono forse proibite appunto perché cattive, comandate perché di beneficio per noi, considerando tutte le circostanze».
g. «Mi tirai indietro quando potei e detti la cosa–cioè la istituzione da lui promossa, di una biblioteca–come un’iniziativa di un “ certo numero di amici ” i quali mi avrebbero incaricato di andare in giro a proporla a quelle persone che essi stimavano amici della lettura.
«In questo modo l’affare procedette più facilmente, e dopo di ciò in simili occasioni mi servii sempre di tale procedimento, che per i successi frequentemente raggiunti posso sinceramente raccomandare. Il piccolo sacrificio momentaneo d’amor proprio che esso esige viene poi largamente compensato. Se per un certo tempo si continua ad ignorare a chi spetti il merito, taluno che sia più vanitoso del vero autore sarà tentato di rivendicare tale merito a se stesso, ed allora l’invidia stessa sarà portata a render giustizia al primo, in quanto che strapperà al vanitoso le penne non sue e le restituirà al loro legittimo proprietario».
h. Il Brentano (op. cit., p. 125, n. 1) coglie questa osservazione per criticare le mie ulteriori considerazioni sulla razionalizzazione e disciplinamento che Tascesi intramondana ha imposto agli uomini: si tratterebbe cioè della razionalizzazione di una condotta di vita irrazionale. Ma in realtà si tratta proprio di questo. Una cosa non è irrazionale in se stessa, ma da un dato punto di vista razionale.Per l’irreligioso è irrazionale ogni condotta religiosa della vita, per l’edonista lo è ogni condotta ascetica, anche se, misurate secondo il loro fine ultimo, costituiscano una razionalizzazione.
Questo studio vorrebbe, se non altro, contribuire a scoprire la molteplice varietà che si cela nel concetto solo apparentemente univoco di «razionalità».
i. Proverbi di Salomone, c. 22, v. 29. Lutero traduce «in seinem Geschäft», le più antiche traduzioni inglesi della Bibbia: «business». V. su ciò p. 138, n. 2.
j. Di fronte alla lunga, ma alquanto imprecisa apologia che il BRENTANO (op. cit., p. 150 e seg.) fa di Benjamin Franklin, le cui qualità morali io avrei disconosciuto, rimando a questa osservazione, che–a mio parere–avrebbe dovuto bastare a rendere inutile quella apologia.
k. Approfitto di questa occasione per inserire qui fin da ora alcune osservazioni «anticritiche».
è afiermazione insostenibile che fa occasionalmente il Sombart (Der Bourgeois, Monaco e Lipsia 1913): che questa etica di Franklin non sia che la ripetizione, parola per parola, di considerazioni di un genio universale del Rinascimento: di Leon Battista Alberti5, il quale oltre a scritti teorici di matematica, di plastica, di pittura e principalmente di architettura, scrisse anche sulPamore (personalmente era misogino) e compose quattro libri sull’amministrazione domestica (Della famiglia). Di essi, mentre scrivo, non ho purtroppo dinanzi a me l’edizione del Mancini, ma quella più vecchia del Bonucci. Il passo del Franklin è riprodotto testualmente più sopra; dove mai si trovano passi analoghi nelle opere dell’Alberti e in specie la massima che è posta in cima a quello, «Il tempo è denaro», cogli ammonimenti relativi?
L’unico passo che abbia–a mio parere–una lontanissima analogia con quello del Franklin è quello, verso la fine del libro I (ed. Bonucci, vol. II, p. 353) dove, molto in generale, si parla del denaro, come del nervus rerum dell’economia domestica, e che perciò deve essere amministrato particolarmente bene,–proprio come nel De re rustica di Catone.
è fondamentalmente errato il considerare l’Alberti, che sottolinea frequentemente la sua discendenza da una delle più nobili famiglie di cavalieri di Firenze («nobilissimi cavalieri»), Della famiglia, pp. 213, 228, 247, ed. Bonucci, come un uomo dal sangue «misto» e pieno di risentimento contro le famiglie gentilizie, perché borghese escluso da esse, a causa della sua nascita illegittima (che in realtà non abbassava affatto socialmente).
Per l’Alberti sono certamente caratteristici la raccomandazione che fa dei grandi affari, che soli sarebbero degni di una «nobile e onesta famiglia» e di un «libero e nobile animo» e che costano minor lavoro (cfr. Del governo della famiglia, IV, p. 55, e parimenti, nell’edizione per i Pandolfini, p. 116; per questo motivo è meglio di tutto il commercio della seta e della lana), e poi il consiglio di una amministrazione domestica ordinata e severa; di misurare cioè le spese sulle entrate.
l. Purtroppo anche il Brentano, nell’opera citata, ha fuso insieme ogni specie di tendenza al guadagno di denaro (senza riguardo al fatto che fosse bellicosa o pacifica), e poi, ha posto come carattere specifico della tendenza capitalistica (in contrapposto a quella feudale) solo l’essere indirizzata al denaro (invece che alla terra), e non solo ha rifiutato ogni ulteriore distinzione–che soltanto poteva condurre a concetti chiari–ma anche ha manifestato l’opinione (p. 131), per me incomprensibile, che il concetto di spirito del capitalismo moderno, qui formato per gli scopi di questa indagine, dia per presupposto ciò che si dovrebbe dimostrare.
m. Cfr. a questo riguardo le precise osservazioni del SOMBART, Die deutsche Volkswirtschaft im neunzehnten ]ahrhundert (p. 123). Non ho bisogno di richiamare in particolar modo su quanto questi studi, che pure derivano i loro punti di vista più importanti da lavori più antichi, debbano nella loro formulazione al semplice fatto di esser stati preceduti dalle grandi opere del Sombart, colle loro acute esposizioni, anche quando, anzi precisamente quando battono cammini diversi.
Anche chi si senta spinto a contraddire sempre più recisamente le opinioni del Sombart, e ne rifiuti energicamente alcune tesi, ha il dovere di riconoscere tal debito.
n. Noi non tocchiamo il problema dove siano questi limiti, come non prendiamo posizione contro la nota teoria, da prima affermata dal Brassey, formulata teoricamente dal Brentano, storicamente e costruttivamente dallo Schulze-Gävernitz della relazione tra gli alti salari e l’alto reddito del lavoro. La discussione fu riaperta dai penetranti studi dello Hasbach («Schmollers Jahrbuch», 1903, pp. 385–91 e 417 e segg.) e non è definitivamente conclusa. Per noi basta il fatto non controverso che bassi salari ed alti profitti, bassi salari e possibilità favorevoli di sviluppo industriale non coincidono semplicemente, che meccaniche operazioni sul denaro non producono affatto l’educazione necessaria per la civiltà capitalistica e con ciò la possibilità di un’economia capitalistica. Tutti gli esempi arrecati hanno un valore puramente illustrativo.
o. Pertanto lo stabilirsi in un paese di industrie capitalistiche non è stato possibile senza larghi movimenti di immigrazione da territori di più antica civiltà. Per quanto le osservazioni del Sombart sul contrasto tra le capacità ed i segreti professionali legati alla persona deirartigiano e la moderna tecnica, scientificamente obiettiva, siano giuste; tuttavia tale differenza non esisteva in sul sorgere del capitalismo; poiché ie qualità, per così dire, etiche del lavoratore di un’impresa capitalistica (ed in un certo grado anche dell’imprenditore) avevano un «valore di rarità» spesso più alto delle capacità dell’artigiano irrigidite nel tradizionalismo. Ed anche l’odierna industria non è del tutto indipendente nella scelta delle sue sedi da tali qualità acquistate dalla popolazione attraverso una lunga tradizione ed educazione. Secondo le idee oggi prevalenti nelle scienze sociali, quando si osservi una tale dipendenza, si suole ricondurla a qualità ereditarie della razza, con una derivazione a mio avviso assai dubbia.
p. V. il lavoro citato alla nota c di p. 34.
q. Le osservazioni precedenti possono essere fraintese. La tendenza di un certo tipo di uomini d’affari ad appropriarsi il detto «che bisogna lasciare la religione al popolo» e l’indirizzo, nel passato non raro, di larghi strati del clero in ispecie luterano, per simpatia verso l’autorità, di porsi alle sue dipendenze come polizia nera e alPoccasione di bollare lo sciopero come peccato, le associazioni operaie come promotrici di «avidità» ecc.; sono fatti che non hanno nulla a che fare coi fenomeni dei quali parliamo. Nei motivi di cui si parla nel testo non si tratta di fenomeni isolati, ma di fatti molto frequenti, e, come vedremo, che ritornano in maniera tipica.
r. Der moderne Kapitalismus, vol. I, ia ed., p. 62.
s. Op. cit., p. 195.
t. Si tratta naturalmente dell’attività industriale moderna che è specifica deirOccidente, non del capitalismo degli strozzini, fornitori di guerra, appaltatori di uffici e di imposte, grandi imprenditori di commercio e magnati della finanza, che da tre millenni a. C. si è diffuso nel mondo, in Cina, in India, a Babilonia, nelFEllade, a Roma, a Firenze, fino ai tempi nostri. V. l’Osservazione preliminare.
u. Non va accettata affatto a priori l’opinione–e questo soltanto va qui rilevato–che tanto la tecnica dell’impresa capitalistica quanto la coscienza del lavoro professionale, che dà al capitalismo la sua energia espansiva, abbiano trovato il loro terreno originario nei medesimi ceti sociali. Lo stesso vale per i rapporti sociali tra diverse credenze religiose. Il Calvinismo fu uno dei fattori storici della educazione allo spirito capitalistico. Ma proprio i grandi finanzieri, in Olanda per es.? per motivi che tratteremo più oltre, non furono prevalentemente seguaci dello stretto Calvinismo, ma Arminiani. I piccoli e i medi borghesi che si innalzavano a imprenditori furono qui ed altrove rappresentanti tipici dell’etica capitalistica e della religione calvinista. Ma appunto questo concorda con quel che abbiamo detto: di grossi finanzieri e commercianti ve ne furono in ogni tempo. Una organizzazione razionale capitalistica del lavoro industriale borghese è cominciata soltanto coll’evoluzione dal Medioevo all’età moderna.
v. V. su di ciò la buona dissertazione zurighese di J. Maliniak (1913).
w. Il quadro che si dà qui è stato compilato su un tipo ideale tratto dalle condizioni di diversi singoli rami dell’industria in località diverse; per lo scopo illustrativo a cui esso serve è naturalmente indifierente, che in nessuno degli esempi le cose siano procedute proprio nella maniera qui descritta.
x. E non è un caso che questo periodo di incipiente razionalismo economico, come per es. nei primi passi deirindustria tedesca, si accompagna colla generale decadenza dello stile degli oggetti d’uso della vita quotidiana.
y. Con ciò non si deve considerare come economicamente indifferente il movimento delle quantità dei metalli preziosi.
z. Ciò significa soltanto: quel tipo di imprenditore, che noi qui facciamo oggetto delle nostre osservazioni, non una qualsiasi media empirica. (Sul concetto di tipo ideale, v. il mio studio in «Archiv fùr Sozialwissenschaft», XIX, fase. i).
a1. è forse il luogo appropriato di discutere brevemente, per quanto ci concernono, le osservazioni contenute nel già citato scritto di F. Keller (fase. 12 delle «Schriften der Gòrres-Gesellschaft») e quelle che ad esse si collegano, del Sombart nel suo Bourgeois. Che uno scrittore critichi una trattazione in cui il divieto canonico dell’usura non viene ricordato tranne che in una osservazione occasionale e senza alcuna relazione colla dimostrazione principale, partendo dal presupposto che proprio tal divieto–che pure trova paralleli in quasi tutte le etiche religiose della terra–venga preso come il segno che differenzia la morale cattolica da quella protestante, è veramente grossa; si debbono criticare solo i lavori, che si siano realmente letti, o dei quali non si siano dimenticate le affermazioni, qualora si siano letti.
La lotta contro la usuraria pravitas si estende per tutta la storia religiosa del secolo xvi, tanto nella Chiesa ugonotta che in quella dei Paesi Bassi.
I «Lombardi», cioè banchieri, furono spesso, in tale loro qualità, esclusi dal banchetto eucaristico. La concezione più libera di Calvino (la quale del resto non impedì che nel primo progetto delle «Ordinanze» fossero ancora previste disposizioni contro l’usura) arrivò a vincere solo attraverso Salmasio. Insomma il contrasto non sta qui; tutt’altro. Ma ancor peggio cadono le altre argomentazioni dell’autore, le quali colpiscono penosamente per la loro superficialità, se si mettono a confronto con gli scritti, che per lo più, dopo essersene servito, egli si astiene dal citare, del Funck e di altri scrittori cattolici e con le indagini dell’Endemann, in alcuni punti oggi antiquate, ma sempre fondamentali. Certamente il Keller si è tenuto lontano dagli eccessi cui è giunto il Sombart, nelle sue osservazioni, quando attribuisce a quei «pii uomini», intendendo con questa espressione S. Bernardino da Siena e S. Antonino di Firenze, l’intenzione «di stimolare in ogni modo lo spirito di intrapresa» poiché essi interpretavano il divieto dell’usura–a somiglianza di quel che è sempre accaduto della proibizione degli interessi–in modo da lasciare intatto quel che nella nostra terminologia si chiama investimento produttivo del capitale. Sia notato qui di passaggio, come un sintomo del fatto che abbiamo in quest’opera del Sombart un libro a tesi nel peggior senso della parola, che per l’autore da una parte i Romani appartengono ai «popoli eroici» e dall’altra, con una contraddizione per lui insolubile, il razionalismo economico già in Catone sarebbe stato sviluppato «fino alle ultime conseguenze». Ma egli ha compietamente trasformato il significato e l’importanza del divieto degli interessi, che noi non possiamo qui esporre nei suoi particolari, e che fu da prima sopravalutato, poi eccessivamente svalutato, ed oggi infine, in un’epoca in cui non mancano multimilionari anche cattolici, è stato capovolto per scopi apologistici. (Esso divieto infatti fu abolito, nonostante il suo fondamento biblico, nel secolo scorso mediante un’istruzione della Congregazione del S. Uffizio e solo temporum ratione habita ed indirettamente, cioè mercé la proibizione di angustiare i penitenti con indagini ulteriori sulla usuraria pravitas, qualora ci si potesse assicurare la loro obbedienza anche per il caso di un ritorno in vigore di detto divieto). Chi infatti abbia fatto studi assai profondi sulla storia molto intricata delle dottrine della Chiesa sull’usura, tenendo conto delle interminabili controversie sulla liceità dell’acquisto di rendita, dello sconto cambiario, e di altri contratti diversissimi, e soprattutto tenendo conto del fatto che la su citata disposizione della Congregazione del S. Uffizio fu presa in occasione di un prestito cittadino, non può ritenere che il divieto di interessi usurari riguardasse soltanto il credito d’urgenza, e che si proponesse come scopo la conservazione dei patrimoni, e che sia stato favorevole all’impresa capitalistica. La verità è che la Chiesa solo assai tardi mutò parere circa il divieto degli interessi e, quando ciò accadde, le usuali forme, puramente commerciali, di investimento di capitale non erano prestiti ad interesse fisso; ma, come il foenus nauticum, la «commenda», la societas maris e il dare ad prò ficuum de mari erano prestiti che, secondo tariffa proporzionata al rischio, partecipavano al profitto od alla perdita, col carattere di prestiti all’imprenditore, e non erano colpiti dal divieto, o lo erano tutt’al più secondo alcuni canonisti rigorosi; ma quando si fecero possibili ed usuali, tanto impieghi di capitale produttivi di interesse fisso, quanto sconti, allora sorsero per questi notevoli difficoltà a causa del divieto di interessi, difficoltà che condussero a misure severissime (liste nere) da parte delle gilde di mercanti.
Ed è vero altresì che la trattazione del divieto di usura da parte dei canonisti fu fatta di regola da un punto di vista meramente giuridico-formale; e in ogni caso senza quella tendenza a proteggere il capitale che il Keller le suppone; ed infine nel prender posizione da parte della Chiesa di fronte al capitalismo, agirono da un lato un’avversione tradizionalistica, per lo più oscuramente sentita, contro la potenza del capitale, invadente ed impersonale, e per ciò stesso difficilmente assoggettabile ad un processo di moralizzazione (avversione che ha un riflesso anche nelle affermazioni di Lutero sui Fugger e sul commercio del denaro) e dall’altro la necessità di un compromesso. Ma tutto ciò non ha pertinenza colla nostra trattazione, poiché, come abbiamo detto, il divieto di usura e la sua storia hanno per noi tutt’al più un’importanza sintomatica, ed anche questa solo entro certi limiti.
L’etica economica dei teologi scotistici ed in particolar modo di taluni mendicanti quattrocentisti, ma sopra a tutto di S. Bernardino da Siena e di S. Antonino da Firenze, cioè di scrittori con indirizzo specificamente ascetico-razionale, merita senza dubbio una speciale trattazione e non può essere esaurita a lato del nostro argomento. Ma io dovevo d’altra parte prevenire la critica esponendo ciò che io ho da dire circa l’etica economica cattolica nei suoi rapporti positivi col capitalismo.
Questi scrittori cercano–e sono in questo precursori di alcuni gesuiti–di giustificare il guadagno del commerciante, in quanto imprenditore, come lecito compenso per la sua industria. Il concetto e la valutazione della «industria» vengono presi naturalmente dall’ascesi monastica, al pari del concetto di masserizia, che secondo una indicazione dello stesso Alberti, posta in bocca a Giannozzo, era stato trasportato dalla terminologia ecclesiastica in quella dell’autore.
Dell’etica monacale come di precorritrice delPascesi intramondana di certe denominazioni del Protestantesimo, noi dovremo parlare più oltre con maggiori particolari. NelPantichità si trovano indizi di analoghe concezioni presso i Cinici, in iscrizioni del tardo Ellenismo, e, partendo da tutt’altri presupposti, anche nell’Egitto. Ma tanto nei teologi nominati quanto nell’Alberti manca la concezione per noi fondamentale: quella della conservazione della salute spirituale, la certitudo salutis nella vocazione professionale, caratteristica del protestantesimo ascetico; la ricompensa psicologica cioè, che questa religiosità riponeva nella industria e che necessariamente doveva mancare al Cattolicesimo, poiché i suoi mezzi di salvezza erano diversi. Dal punto di vista degli effetti si tratta in tali scrittori di una dottrina etica, non di impulsi pratici individuali, condizionati dalPinteresse alla salvazione, ed oltre a ciò, come si può facilmente vedere, di un accomodamento, e non come nell’ascesi intramondana, di argomentazioni dedotte da determinate posizioni religiose. (Le dottrine di S. Antonino e di S. Bernardino hanno avuto da un pezzo rielaborazioni molto migliori di quella del Keller). Ed anche questi accomodamenti furono fino al presente combattuti. Tuttavia l’importanza di queste concezioni etiche monacali, come sintomo, deve essere stimata considerevole. Ma i reali inizi di un’etica religiosa che andasse a sfociare nel concetto moderno di vocazione professionale, si trovano nelle sette e nell’eterodossia, soprattutto in Wyclif, la cui importanza è stata però di gran lunga sopravalutata dal Brodnitz (Englische Wirtschaftsgeschichte), il quale opina che la sua influenza abbia agito così fortemente che il Puritanesimo non abbia trovato più nulla da fare. Ma tutto questo non può né deve essere qui esaminato. Poiché qui non si può fare, a lato della nostra trattazione, l’indagine su quanto l’etica cristiana del Medioevo abbia effettivamente cooperato alle condizioni che hanno preparato l’avvento dello spirito capitalistico.
b1. Le parole jrqSèv à7teX7u’£ovTe; (Luca, 6, 35) e la traduzione della Vulgata «nihil inde sperantes » sono probabilmente (secondo A. Merx) un’alterazione di piYjSéva á7re>jr££ovT£; (neminem desperantes), e contenevano dunque il comando di prestare ad ogni fratello, anche se povero, senza far parola degli interessi. Alla sentenza Deo piacere vix potest viene oggi attribuita origine ariana (ciò che in sostanza per noi è indifferente).
c1. Come si trovava un compromesso col divieto d’usura lo mostra per es. il Libro I, cap. 65, dello Statuto dell’Arte di Calimala (Emiliani-Giudici, Storia dei Comuni Italiani, III, p. 246): «Procurino i consoli con quelli frati, che parrà loro, che perdono si faccia o come fare si possa il meglio per l’amore di ciascuno, del dono, merito, o guiderdone ovvero interesse per l’anno presente e secondo che altra volta fatto fue». La Corporazione si incaricava dunque di procurare, d’ufficio e in via d’aggiudicazione, l’indulgenza ai suoi membri.
Il carattere immorale, secondo l’etica di allora, del profitto capitalistico emerge anche dalle altre istruzioni, quale per esempio l’ordine che immediatamente precede quello citato, di registrare tutti gli interessi e profitti come «regali».
Alle odierne liste nere della Borsa contro coloro che sollevano il pretesto di differenza, corrispondeva la frequente proscrizione contro coloro che adivano tribunali ecclesiastici colla exceptio usurariae pravitatis.
1. Ferdinand Kiirnberger, 1821–1879, scrittore austriaco, si dedicò alla pubblicistica politica criticando la situazione dell’Austria. Autore di saggi politici e letterari, drammi, novelle, romanzi (tra questi Der Amerikamudè).
2. Jakob II Fugger, 1459–1525, nipote del fondatore e uno dei principali artefici della ricchezza e dell’espansione dei Fugger, famiglia tedesca di mercanti e banchieri preminente in tutta Europa nel corso del xv e xvi secolo. Era anche noto come uomo profondamente religioso e interessato ai problemi sociali; lasciò numerose fondazioni e istituzioni benefiche.
Parlerò più oltre della sua polemica contro di me che si trova nel suo Bourgeois. A questo punto del mio studio mi è necessario rinviare a più tardi ogni discussione particolareggiata.
3. Graduates, laureati delle università inglesi.
4. Yeomen, piccoli proprietari terrieri che possedendo una rendita annua di 40 scellini godevano di determinati diritti quali la partecipazione alle giurie, l’elezione del rappresentante della contea, ecc.
5. Leon Battista Alberti, 1404–1472, umanista italiano, architetto, fu uno dei principali fondatori della teoria artistica del Rinascimento. I suoi vasti interessi (arte, politica, etica ed economia domestica, matematica, diritto…) e la sua raffinata cultura ne fanno un prototipo dell’uomo rinascimentale.
Le cose stanno dunque in questi termini: la «santa masserizia» come rappresentante della quale parla Giannozzo è, in prima linea, un principio della amministrazione della casa, non un principio del guadagno (come appunto il Sombart avrebbe potuto ben riconoscere), precisamente come nella discussione sull’essenza del denaro si tratta principalmente di un investimento patrimoniale (denaro o «possessioni») non di una valorizzazione del capitale.
Viene raccomandato altresì, come difesa contro la instabilità della «fortuna», l’abituarsi fin da giovani ad un’attività continua «in cose magnifiche e ampie» (p. 192), la quale soltanto, mantiene sani (Della famiglia, pp. 73–74), e l’evitare di andare oziosamente in giro, il che è pericoloso per il mantenimento della propria dignità e posizione, ed inoltre l’apprendere con preveggenza una professione conveniente al proprio stato, per il caso di un rovescio di fortuna. Ma ogni «opera mercenaria» è sconveniente (Della famiglia, lib. I, p. 209). Il suo ideale della «tranquillità dell’animo», e la sua forte tendenza all’epicureo Xa 3iox7a; (vivere a se stesso. Op. cit., p. 262), in ispecie l’avversione ad ogni ufficio come a fonte di agitazione, di inimicizie, di implicazione in afTari poco puliti, l’ideale della vita nella villa campestre, il pensiero degli antenati, di cui egli nutre il suo amor proprio, e il considerare l’onore della famiglia (la quale perciò deve, secondo la tradizione fiorentina, conservare e non dividere il suo patrimonio) come criterio e scopo decisivo, tutto questo sarebbe parso agli occhi di ogni puritano quale una peccaminosa divinizzazione della creatura, e a quelli di Benjamin Franklin come un pathos aristocratico a lui ignoto. Si osservi ancora l’alta stima della letteratura e dei letterati; poiché l’industria è indirizzata soprattutto al lavoro letterario e scientifico, essa è l’unica cosa degna di un uomo ed è importante che solo l’illetterato Giannozzo è messo a parlare della «masserizia»–nel senso di razionale economia domestica quale un mezzo cioè di vivere indipendenti e di non cadere in miseria–come di una cosa di ugual valore, ed in tale occasione attribuisce tal concetto, che ha origine dall’etica monacale (v. oltre), ad un vecchio prete (p. 249).
Si confronti tutto questo coll’etica e la condotta pratica di Benjamin Franklin e dei suoi antenati puritani: si confrontino gli scritti dei letterati del Rinascimento, che si rivolgevano al patriziato umanistico con quelli di Franklin indirizzati alle masse delle media borghesia–secondo la sua espressione, dei commis–e con essi i trattati e le prediche dei Puritani, per misurare la profondità della differenza. Il razionalismo economico dell’Alberti, che si appoggia sempre a citazioni di antichi scrittori è, nella sua sostanza, somigliantissimo alla trattazione di materie economiche negli scritti di Senofonte (che non conosceva), di Catone, di Varrone e di Columella (che egli cita); ma solo che in Catone ed in Varrone in particolar modo, è in primo piano il guadagno in quanto tale, ben diversamente da quel che avviene nell’Alberti. Inoltre le osservazioni puramente occasionali delPAlberti sull’impiego dei fattori di campagna, sulla divisione del loro lavoro e sulla loro disciplina, sulla poca fidatezza dei contadini, ecc., fanno in realtà l’effetto della saggezza pratica di un Catone trasportata dal terreno dell’economia rurale della schiavitù su quello dell’industria domestica e dell’agricoltura parziaria.
Quando il Sombart (il cui riferimento all’etica della Stoa è compietamente errato) trova che il razionalismo economico è già sviluppato in Catone fino all’estrema conseguenza, egli non ha del tutto torto. Si potrebbe infatti porre sotto la stessa categoria il diligens pater familias dei Romani e l’ideale del massaio dell’Alberti. Ed è soprattutto caratteristico in Catone che la proprietà agraria viene giudicata ed apprezzata come oggetto di investimento patrimoniale. Ma il concetto di «industria», nell’Alberti, è colorato diversamente in seguito ad influenze cristiane. E qui si palesa la differenza. Nella concezione della «industria» che trae origine dalla ascesi monastica, e che fu svolta da monaci scrittori, è racchiuso il germe di un ethos che si sviluppò completamente nell’ascesi, esclusivamente intramondana, del Protestantesimo. (V. oltre).
Di qui, come noteremo spesso ancora più oltre, l’affinità di queste concezioni, che è maggiore con quella dei moralisti degli Ordini mendicanti senesi e fiorentini che colla dottrina ufficiale tomistica della Chiesa. In Catone e nell’esposizione dell’Alberti manca questo ethosk si tratta nell’uno e nell’altro di saggezza pratica, non di etica. Anche nel Franklin si tratta di utilitarismo; ma il pathos etico della predica ai giovani commercianti è riconoscibile di lontano e ne costituisce–qui è il punto–il lato caratteristico. La negligenza del denaro significa per lui che, per così dire, si uccidono embrioni di capitale ed è perciò anche un difetto etico.
Un’affinità dei due (dell’Alberti e del Franklin) si riscontra unicamente nel fatto che il Franklin non mette più in relazione concezioni religiose coi consigli dell’economicità, mentre non ancora istituisce tale relazione l’Alberti–che il Sombart chiama «pio» e che in realtà, come tanti altri umanisti, ebbe bensì gli ordini ed una prebenda romana, ma non adoprò affatto, se si astragga da due passi del tutto incolori, motivi religiosi come punti di orientamento nella condotta di vita da lui raccomandata. L’utilitarismo–e, nella raccomandazione di Alberti per l’impresa di smercio della lana e della seta, anche l’utilitarismo sociale mercantilista (che «si dia lavoro a molte persone», op. cit., p. 292)–è in questo campo, almeno formalmente, l’unico ispiratore. Le considerazioni dell’Alberti qui riprodotte sono un paradigma molto appropriato per quella specie di razionalismo economico per così dire immanente, quale si è manifestato come «riflesso» di condizioni economiche in scrittori che si interessavano esclusivamente all’argomento per se stesso, in tutti i paesi e in tutti i tempi, nel classicismo cinese e in quello greco-romano, non meno che nel Rinascimento e neirilluminismo.
Certamente come nell’antichità in Catone, Varrone e Columella, così qui nell’Alberti e nei suoi contemporanei viene svolto, specialmente nella dottrina della «industria», un razionalismo economico. Ma come si può credere che una tale dottrina da letterati potesse sviluppare una forza capace di rivolgere il mondo al pari di una credenza religiosa, che attribuisce ricompense di salvezza ad una determinata (in questo caso metodico-razionale) condotta di vita? Quale appaia nel confronto una «razionalizzazione» della vita (e con essa eventualmente anche della produzione economica) orientata secondo fini religiosi, si può riconoscere, oltre che nei Puritani di tutte le denominazioni, in sensi tra loro molto diversi, negli esempi dei Jaina, degli Ebrei, di certe sette ascetiche del Medioevo, di Wyclif, dei Fratelli Boemi (una ripercussione del movimento Ussita), degli Scopzi e degli Stundisti in Russia e di numerosi ordini monastici. Il punto decisivo di tale differenza (per anticipare un po’ le nostre conclusioni) è che un’etica fondata su motivi religiosi promette per la condotta che essa richiede, ricompense psicologiche (cioè non di carattere economico) ben determinate, e finché la credenza religiosa rimane in vita, efficacissime, quali non ha a sua disposizione una semplice dottrina pratica della vita, come quella dell’Alberti. Quell’etica raggiunge una propria influenza sulla condotta di vita e quindi sulPeconomia solo in quanto tali ricompense agiscono psicologicamente e soprattutto–questo è il punto decisivo–nel senso in cui esse agiscono, e che spesso si allontana di molto dalla dottrina dei teologi, che è, anch’essa, soltanto una «dottrina». Tale è, per dirlo chiaramente, il punto culminante di tutto questo saggio, e non mi sarei atteso che esso non venisse affatto rilevato.
Verrò a parlare in altro luogo degli etici teologici del tardo Medioevo (S. Antonino da Firenze e S. Bernardino da Siena), relativamente favorevoli al capitale e che il Sombart non ha del pari capito. In ogni caso L. B. Alberti non appartenne affatto a tal cerchia. Solo il concetto della «indù stria» egli aveva tolto–sebbene di seconda o terza mano–dal pensiero monastico. L’Alberti, il Pandolfini, ed altri, sono rappresentanti di quel pensiero già ulteriormente emancipato, nonostante l’ossequio esteriore, dalle tradizioni della Chiesa, ed orientato in senso classico e pagano, nonostante i legami coiretica cristiana prevalente; quel pensiero la cui importanza per lo sviluppo della dottrina e della politica economica moderna, secondo quanto pensa il Brentano, io avrei completamente ignorato.
è verissimo il fatto che io non contempli tal serie di cause; esse infatti non entrano in una trattazione sull’«Etica protestante e lo spirito del capitalismo)). Ben lungi dal negare–come si vedrà in altra occasione–la loro importanza, io ero e sono deH’opinione, che si fonda su buoni motivi, che la sfera e la direzione della loro azione furono ben diverse da quelle dell’etica protestante, i cui precursori pratici, tutt’altro che trascurabili, furono le sette e l’etica dello Wyclif e dello Huss.
Il pensiero degli umanisti non ha influenzato la condotta della borghesia nascente, ma la politica degli uomini di Stato e dei prìncipi, e queste due serie causali, che in parte, ma non sempre convergono, devono esser tenute per ora ben distinte. Per quel che riguarda Benjamin Franklin, i suoi trattati di economia privata, impiegati in America come libri di lettura nelle scuole, appartengono a questa categoria importantissima per la vita pratica, al contrario della ampia opera dell’Alberti, quasi sconosciuta all’infuori della cerchia degli studiosi.
Ma il Franklin è stato espressamente da me citato, come un uomo che aveva superato la regolamentazione puritana della vita nel frattempo attenuatasi, proprio come l’Illuminismo inglese, i cui rapporti col Puritanesimo vennero esposti più volte.
6. Pieter der la Court, 1618–1685, mercante ed economista olandese. Sostenne l’utilità di lasciar sviluppare liberamente industrie e commerci.
7. «Imprenditore», Verleger nel testo. Quello che si descrive qui è appunto il tipo d’imprenditore nel senso chiarito a p. 99 n. 1.
8. Per Marx, nel Capitale, il Verleger è un tipo di imprenditore precapitalista in quanto acquista solo il prodotto, non il lavoro dei lavoranti. Per Weber invece la differenza sta nello «spirito» dell’imprenditore.
9. Antonio Pierozzi o de’ Porciglioni, 1389–1459, arcivescovo di Firenze, teologo ed economista, considerato uno dei fondatori della moderna teologia morale e dell’etica sociale cristiana.
Weber lo cita ripetutamente insieme a S. Bernardino da Siena, 1380–1444, teologo e predicatore francescano, strenuo sostenitore del prestigio del papato e della legittimità dei governanti e fautore di una devozione personalizzata al nome di Gesù.