CONFUCIANESIMO E TAOISMOa
CAPITOLO I
BASI SOCIOLOGICHE: A) CITTÀ, PRINCIPE, DIO
1. Il sistema monetario.
La Cina, diversamente dal Giappone, era già da tempi per noi preistorici il paese delle grandi città circondate da mura. Solo le città avevano un patrono locale canonizzato con culto proprio. Il principe, di solito, era il signore di una città. La denominazione di «città» per indicare lo stato rimase nei docu menti ufficiali, anche nel caso dei grandi stati «combattenti»1si diceva: «la vostra capitale» o rispettivamente «la mia modesta città». Ancora nelPultimo trentennio delPOttocento la definitiva sottomissione dei Miao (1872) venne suggellata con un sinecismo coattivo, un’installazione collettiva nelle città, proprio come avveniva nell’antichità romana fin verso il 111 secolo. In effetti la politica finanziaria dell’amministrazione cinese era innanzitutto il risultato di misure volte in tutti i modi a favorire gli abitanti della città a spese della campagnab. Del pari la Cina è sempre stata il paese del commercio interno, indispensabile per la copertura del fabbisogno di vasti territori. Tuttavia, fino all’era moderna l’economia monetaria raggiungeva a malapena un livello di sviluppo paragonabile a quello dell’Egitto tolemaico, e ciò in conformità all’importanza determinante che aveva la produzione agraria. Il sistema monetario ne costituisce già di per sé una prova sufficiente, anche se in parte va considerato solo come il prodotto di una decadenza: il rapporto di scambio tra la moneta corrente di rame e i lingotti d’argento (la cui punzonatura era nelle mani delle gilde) cambiava continuamente e per di più variava da un posto all’altroc.
Il sistema monetario cinesedpresenta dei tratti estremamente arcaici uniti ad elementi apparentemente moderni. L’ideogramma che indica la «ricchezza» conserva ancor oggi il vecchio significato di «conchiglia» (pei). Sembra che ancora nel 1587 esistessero dei tributi monetari in conchiglie nello Yunnan (che è una provincia mineraria!). Per indicare la «moneta» esiste un simbolo che significa «guscio di tartaruga»e, «pu pe».
La seta come moneta di scambio deve essere esistita sotto i Chou e le forniture di seta come forma di imposta si trovano nel corso di vari secoli. Le perle, le pietre preziose, lo stagno, figurano anch’essi tra gli antichi mezzi di scambio con funzione monetaria e ancora l’usurpatore Wang Mang2 (a partire dal vii secolo d. C.) tentò - invano - di stabilire una scala monetaria in cui accanto all’oro, all’argento ed al rame anche i gusci di tartaruga e le conchiglie fungevano da mezzo di pagamento, mentre al contrario l’unificatore del regno, il razionalista Shih Huang-ti3 aveva fatto battere solo moneta «tonda» - anche moneta d’oro, oltre a quella di rame (z e chien), secondo una versione che però non è molto attendibile - e aveva proibito (invano) tutti gli altri mezzi di scambio e di pagamento. L’argento sembra essere apparso molto tardi come metallo da conio in genere (sotto Wu-ti4, alla fine del n secolo a. C.) e come imposta (delle province meridionali) lo troviamo solamente a partire dal 1035. Senza dubbio ciò è dovuto in primo luogo a motivi tecnici. L’oro si trovava setacciando il corso dei fiumi, l’estrazione del rame comportava in origine un procedimento tecnico relativamente facile; l’argento al contrario si poteva estrarre solo attraverso una vera e propria industria mineraria. Ma sia la tecnica mineraria che quella del conio sono rimaste ad uno stadio molto primitivo in Cina. Le monete create a partire dal xn secolo a. C., stando a quanto si dice, ma più probabilmente a partire dal ix secolo a. C., erano ottenute per colata e non per impressione. Erano quindi molto facilmente imitabili e di tito lo molto variabile, ancora più di quanto non lo fosse, fino al xvii secolo, il titolo delle monete europee (scarti quasi del 10 nelle corone inglesi). 18 pezzi della stessa emissione dell’xi seco lo oscillavano, secondo la pesatura di Biot5 tra i 2,70 e i 4,08 grammi di rame; 6 pezzi dell’emissione del 620 d. C. oscillavano addirittura tra i 2,50 e i 4,39 grammi. Già per questo motivo tale moneta non costituiva un metro univoco utile per il commercio. Le scorte d’oro ebbero un brusco incremento dovuto essenzialmente al bottino conquistato dai Tartari per poi calare di nuovo rapidamente. In principio quindi non valeva la pena di estrarre l’oro e l’argento: l’argento perché, malgrado le miniere esistenti, comportava un trattamento tecnico complessof.Il rame rimase la moneta corrente nel commercio di tutti i giorni. Il maggior sviluppo del corso dei metalli preziosi in Occidente era ben noto agli annalisti, in particolare quelli del periodi.do Han6. Le grandi carovane della seta alimentate dai contributi in natura (ogni anno ce n’era un gran numero) portavano infatti l’oro occidentale nel paese (sono state rinvenute monete romane). Ma questo cessò con la fine dell’impero romano e so lo il periodo dell’impero mongolo apportò im miglioramento.
La prima svolta fu data dal commercio con l’Occidente nel periodo che seguì l’apertura delle miniere d’argento del Messico e del Perù: buona parte del loro prodotto si riversò in Cina come controvalore in cambio di seta, porcellana e t è. La svalutazione dell’argento in rapporto all’oro (nel 1368 il rapporto era di 4/1, nel 1574 era di 8/1,1635 = 10/1,1737 = 20/1, 1840 = 18/1, 1850 = 14/1, 1882 = 18/1) non impedì che la stima sempre crescente dell’argento - conseguenza di un bisogno sempre crescente di tale metallo in un’economia monetaria - facesse abbassare il prezzo del rame rispetto all’argento. Come le miniere, così pure la zecca costituiva un privilegio del potere politico: già tra i nove magistrati semi-leggendari del Chou-li7 si trova il maestro della zecca. L’industria mineraria era in parte esercitata in proprio dal governo con lo sfruttamento del lavoro servileg, in parte concessa a privati, ma con il monopolio di acquisto del prodotto riservato al governoh; gli alti costi di trasporto per il rame alla zecca di Pechino - che vendeva le eccedenze rispetto ai bisogni monetari dello stato - rendevano considerevolmente più cara la fabbricazione della moneta. Questa aveva già di per sé dei costi alquanto elevati. Nell’viii secolo (752 secondo Ma Tuan-lin8) le 99 zecche allora esistenti producevano ciascuna presumibilmente 3.300. min (da 1000 pezzi l’uno) di monete di rame all’anno. Per questo occorrevano a ciascuna 30 operai e ciascuna impiegava 21.200 chin (550 g. l’uno) di rame, 3.700 di piombo, 500 di stagno. Le spese su mille pezzi di moneta ammontavano a 750, ossia coprivano il 75. A ciò si aggiunge l’esorbitante guadagno monetario rivendicato dalla zecca (di monopolio)i: il 25 nominale, pretesa già vanificata semplicemente dalla lotta ininterrotta nel corso di tutti i secoli contro l’attività estremamente redditizia della coniazione abusiva. I distretti minerari erano minacciati da invasioni nemiche. Non di rado il governo comperava attesterò (Giappone) il rame necessario a battere moneta e confiscava le scorte private di rame per coprire l’alto fabbisogno del conio. In certi periodi l’esercizio privilegiato governativo veniva esteso a tutte le miniere di metallo. Le miniere d’argento pagavano considerevoli royalties (del 20–331/3 nel Kuangtung alla metà del xix secolo; del 55 se in combinazione col piombo) ai mandarini interessati, le cui principali fonti di reddito erano costituite proprio da questi introiti in cambio di una somma globale concordata ceduta al governo. Le miniere d’oro, presenti soprattutto nella provincia dello Yùnnan, venivano concesse, come tutte le altre, a maestri minatori (artigiani), in piccoli lotti che costituivano piccole imprese e pagavano, a seconda del rendimento, fino al 40 di royalties.
Che tutte le miniere fossero tecnicamente mal sfruttate è un fatto che viene ancora riferito nel xvn secolo; il motivo - oltre che nelle difficoltà create dalla geomanziaj da menzioni. narsi più avanti - risiedeva nel generale tradizionalismo, che discuteremo in seguito, inerente alle strutture politiche, economiche e culturali cinesi, che ha sempre fatto naufragare anche ogni serio tentativo di riforma monetaria. La svalutazione della moneta figura già negli annali più antichi (Chuang Wang e Ch’u9) dove si riferisce anche il fallimento dell’imposizione di moneta deteriorata per il commercio. La prima svalutazione della moneta d’oro - che da allora si è ripetuta molto spesso - viene riferita già da Ching Ti10 che narra anche di forti limitazioni del commercio provocate da questo fenomeno. La radice del male, tuttavia, stava evidentemente nelle oscillazioni delle scorte di metallo da coniok; il nord, dove occorreva portare avanti la difesa contro i barbari delle steppe, ne soffriva più del sud, la zona del commercio, da sempre dotata di moneta metallica circolante in misura di gran lunga superiore al nord. Il finanziamento di ogni guerra determinava delle grosse riforme monetarie e l’impiego delle monete di rame per la fabbricazione di armi (come da noi in guerra l’impiego delle monete di nichelio). La restaurazione della pace significava il riversarsi sul paese di ingenti scorte di rame dovute all’utilizzazione arbitraria dei beni dell’esercito da parte dei soldati «smobilitati». Ogni agitazione politica poteva bloccare le miniere; come conseguenza della scarsità e dell’eccedenza di moneta si parla di oscillazioni di prezzi che sono stupefacenti anche con debita deduzione delle probabili esagerazioni. Sorgevano continuamente nuove zecche abusive, perlopiù private, ma senza dubbio tollerate dai pubblici funzionari e anche le singole satrapie continuavano a prendersi gioco del monopolio. Giunti alla disperazione per l’insuccesso di ogni tentativo di portare fino in fondo il monopolio statale della zecca si passò spesso all’estremo opposto (per la prima volta sotto Wen-ti11 175 a. C.): alla libera concessione di battere moneta per ogni privato, secondo determinati modelli. La conseguenza è stata naturalmente un totale scompiglio del sistema monetario. Senza dubbio, dopo il primo di questi esperimenti, Wu-ti riuscì a restaurare abbastanza rapidamente il monopolio della moneta e ad estirpare le zecche private; migliorando la tecnica del conio (monete con bordo fisso) pot è risollevare il prestigio della moneta statale. Ma la necessità di emettere moneta da credito (fatta di pelli di cervo bianco) per finanziare la guerra contro i Hsiung-nu (gli Unni) - il finanziamento di una guerra è sempre in tutti i tempi la causa principale di tutti i disordini monetari - e la facile imitabilità delle sue monete d’argento faceva naufragare alla fine anche questo tentativo. Sotto Yuan-ti12 (circa 40 a. C.) la moneta metallica era più scarsa che mail, in conseguenza dei disordini politici a seguito dei quali l’usurpatore Wang Mang intraprese il suo vano esperimento di una scala monetaria (con 28 tipi di moneta!). Sembra che da allora non si siano più registrate restaurazioni della moneta d’oro e d’argento da parte del governo; questo emerge solo come fenomeno occasionale.
L’emissione intrapresa per la prima volta nell’807 di moneta circolante statalem ad imitazione della moneta circolante bancarian - particolarmente fiorente sotto i Mongoli - viene però seguita solo all’inizio (in seguito sempre di meno) da una copertura bancaria sotto forma di scorte metalliche e la svalutazione degli ordini di pagamento collegata al ricordo del deterioramento delle monete fece sì che dopo di allora la moneta bancaria (lingotti d’argento depositati in unità ta èl a base del servizio di pagamenti del commercio all’ingrosso) venne stabilita in modo definitivo. Al contrario la moneta di rame, malgrado il suo prezzo molto basso, implicava non solo un enorme rincaro del costo della coniazione, ma anche, dati gli alti costi di trasporto del denaro, una forma di moneta molto scomoda sotto tutti i punti di vista per il commercio e lo sviluppo dell’economia monetaria. Un cordone con infilate iooo monete di rame (chien) all’inizio valeva, in base alle tariffe, un’oncia d’argento; più tardi la tariffa fu uguale a 1/2 oncia d’argento. Le oscillazioni delle quantità di rame disponibili rimasero quindi alquanto ampie anche in tempo di pace in seguito al loro impiego industriale e artistico (statue del Buddha); tali oscillazioni erano sensibili nei prezzi e soprattutto nei gravami fiscali. Le fortissime oscillazioni del valore della moneta con le loro conseguenze sui prezzi sono da interpretare anche come i fattori che hanno fatto regolarmente fallire i ripetuti tentativi di elaborare un bilancio unitario sulla base di imposte puramente (o quasi) monetarie; si è dovuto tornare sempre, almeno in parte, all’imposizione in natura, con le sue ovvie conseguenze e la stereotipizzazione dell’economiao.
I rapporti del governo centrale con il sistema monetario erano fortemente influenzati, oltre che dagli immediati bisogni militari e da altri motivi puramente fiscali, anche e soprattutto dalla politica dei prezzi. Le tendenze inflazionistiche - libera concessione del diritto di batter moneta per stimolare la produzione di moneta di rame - si alternavano a misure per combattere gli effetti dell’inflazione, come la chiusura di una parte delle zecchep. Soprattutto il divieto ed il controllo del commercio estero, però, erano determinati da considerazioni di politica monetaria: in parte per il timore di un’emorragia di valuta straniera in seguito alla libera esportazioneq. Anche la persecuzione dei buddhisti e dei taoisti, pur avendo in gran parte carattere politico-religioso, spesso era determinata anche da motivi puramente monetari-fiscali: le statue del Buddha, i vasi, i paramenti e in genere tutta l’utilizzazione artistica, ravvivata dall’arte dei monasteri, della materia prima destinata alla moneta, metteva in continuo pericolo la valuta; le massicce fusioni rendevano ancora più acuti i fenomeni di penuria di denaro, di tesaurizzazione del rame, di cedimento dei prezzi, e come conseguenza riportavano aireconomia naturaler. Si registrarono così saccheggi sistematici dei monasteri da parte del fisco, imposizioni di tariffe agli articoli di rames, ed infinet il tentativo di stabilire un monopolio statale di fabbricazione per gli oggetti di bronzo e di rame, seguito più tardi da un monopolio di fabbricazione per tutti gli oggetti di metallo (per controllare il fenomeno delle falsificazioni private di moneta): due tentativi, questi ultimi, che non furono né l’uno né l’altro di lunga durata. Il divieto di accumulazione di terre, di cui si parlerà più avanti, veniva applicato dai funzionari con rigore variabile e la conseguenza di ciò fu un continuo e considerevole am massarsi di rame nelle mani di questi funzionari; oltre alle altissime imposte sul possesso di denaro liquido, ne derivò il moltiplicarsi dei massimali imposti al possesso di denaro liquidou da motivi fiscali e di politica dei prezzi nei periodi di scarsità di denaro. Il ripetuto tentativo di passaggio alla moneta di ferro, essendo questo esistito per lungo tempo accanto al rame come metallo da conio, non portò nessun miglioramento alla situazione. L’istanza ufficiale presentata sotto Shih-tung (x secolo) che chiedeva la rinuncia al guadagno sulla moneta e la libera utilizzazione del metallo (per evitare i prezzi di monopolio dei prodotti metallici e quindi l’incentivo all’impiego industriale) rimase inattuata.
La politica della carta moneta si presentava sotto analoghi punti di vista. Le emissioni delle banche, che evidentemente all’inizio avevano avuto carattere di certificato - il solito mezzo di assicurazione contro i disordini monetari per il commercio all’ingrosso - e che più tardi avevano assunto il carattere di moneta circolante, in particolare ai fini delle rimesse interlocali, avevano costituito un incentivo alla contraffazione. Le premesse tecniche di questo fenomeno erano la nascita dell’industria della carta importata in Cina a partire dal n secolo d. C. e un adeguato procedimento di stampa xilograficav che si basava in particolare sull’intaglio a rilievo invece che sul primitivo procedimento d’intaglio. Solo all’inizio del ix secolo il fisco cominciò a togliere dalle mani dei commercianti le loro occasioni di profitto basate sul cambio. All’inizio era anche stato adottato il principio dei fondi di rimborso (da 1/4 a 1/3). E anche più tardi si trova più volte l’emissione di banconote basate su un monopolio di depositi bancari del fisco. Ma naturalmene le cose non rimasero così. Le banconote, fabbricate prima mediante l’intaglio di legno, poi l’incisione in rame, si logoravano rapidamente per via della cattiva qualità della carta. Perlomeno diventavano illeggibili, in seguito alla guerra e alla penuria di metallo da conio. Il deprezzamento delle cambiali fino all’infima unità, il rifiuto perlomeno di quei biglietti logorati fino a diventare illeggibili, l’incremento dell’ammontare dei costi di stampa per sostituirli con nuove banconotew, soprattutto però l’eliminazione delle scorte in metallox e le difficoltà poste al rimborso con lo spostamento verso l’interno delle sedi di rimborsoy, o i termini di riscossione dei pagamenti, all’inizio relativamente a breve scadenza, poi dilazionati su periodi sempre più lunghi (22–25 anni)z che però venivano poi effettuati perlopiù in cambio di nuovi biglietti, spesso con una svalutazione dell’ammontare nominale della sommaa1, il ripetuto rifiuto di accettare biglietti, anche solo in parte, come mezzo di pagamento delle imposte, tutto ciò screditava di nuovo ogni volta la carta moneta senza che la situazione venisse minimamente mutata dall’ordinanza spesso ripetuta secondo cui ogni grosso pagamento andava effettuato in determinate proporzioni in moneta di cartab1, o dall’occasionale divieto totale dei pagamenti in moneta metallica. D’altra parte la riscossione completa, ripetuta più volte, di tutti i mezzi di pagamento in carta portava alla penuria di denaro e al cedimento dei prezzi e il tentativo di incrementare sistematicamente la moneta circolante, quale fu fatto più volte, naufragava inevitabilmente contro la tentazione, che subito s’instaurava, di un’inflazione sfrenata, per motivi fiscali. In circostanze normali il rapporto tra moneta di carta e moneta metallica si manteneva più o meno entro gli stessi limiti che in Inghilterra nel xvm secolo (1 a 10 e anche meno). La guerra, la perdita dei distretti minerari conquistati dai barbari e - in misura sostanzialmente inferiore - l’impiego industriale (o più precisamente di arte industriale) del metallo nei periodi di grande accumulazione della proprietà e le donazioni ai monasteri buddhisti portavano all’inflazione; le conseguenze della guerra, poi, portarono ripetutamente al fallimento degli ordini di pagamento. I Mongoli (Qublai Khan13) avevano sperimentato un’emissione di certificati di metallo graduati (?), che notoriamente era stata molto ammirata da Marco Poloc1. Ma seguì un’enorme inflazione di carta moneta. Già nel 1288 ci fu una svalutazione dell’80. Poi il grande afflusso d’argento rimise in circolazione questo metallo. Si tentò allora di stabilire un rapporto fisso tra oro, argento e rame (rapporto oro-argento 10/1, in pratica 10,25/1; l’oncia d’argento = 2005 chien, quindi svalutazione del 50 del rame). Venne proibito il possesso privato di oro e argento: i metalli preziosi dovevano costituire soltanto i fondi di riserva per coprire i certificati. L’industria dei metalli preziosi e quella del rame furono statalizzate, e in genere non si coniò più denaro metallico. In pratica però tutto questo portò ad una valuta esclusivamente cartacea, che venne ripudiata con la caduta della dinastia.
I Ming14, è vero, tornarono alla coniazione graduata di moneta metallica (dove si dimostra l’instabilità del rapporto di prezzo tra i metalli preziosi, poiché il rapporto tra oro e argento doveva essere calcolato in 4 a i); poi però giunsero molto presto a proibire dapprima l’oro e l’argento (1375), poi anche il rame (1450), come moneta, perché la moneta di carta che continuava nel frattempo ad avere corso si svalutava. La valuta esclusivamente cartacea sembrò allora diventare il sistema monetario definitivo. Tuttavia il 1489 è l’ultimo anno in cui gli annali citano la carta moneta e il xvi secolo vide tentativi di un corso forzato del rame, che però fallirono ugualmente. Le prime condizioni favorevoli vennero a crearsi con l’afflusso dell’argento europeo tramite il commercio diretto iniziato nel xvi secolo. Alla fine del secolo divenne d’uso comune la valuta d’argento nominale (argento in lingotti che in realtà è valuta bancaria) per il commercio all’ingrosso, riprese corso la coniazione del rame ed il rapporto tra rame e argento si modificò ancora una volta, in realtà in misura del tutto sfavorevole al ramed1; ma la carta moneta (di ogni sorta), dopo il divieto dei Ming (1620) mantenuta in vigore dai Manciù15, fu soppressa del tutto e le scorte di moneta metallica che da allora avevano conosciuto un incremento lento ma notevole si manifestarono nella struttura del bilancio statale, sempre più improntata ad un’economia monetaria. L’emissione di biglietti di stato durante la seconda ribellione dei T’ai-p’ing16 terminò con una svalutazione analoga a quella degli ordini di pagamento e con un ripudio del sistema.
Il corso dell’argento in lingotti ha sempre implicato gravi difficoltà. Esso doveva in ogni caso essere fatto a pezzi ed era considerato legittimo che i banchieri di provincia si rifacessero dei loro costi maggiori usando bilance diverse da quelle usate nelle città portuali. La finezza doveva essere controllata dai fabbri. Il governo centrale esigeva per i pagamenti parzialmente in argento, che andavano aumentando molto, che ogni lingotto recasse l’indicazione del luogo di provenienza e del luogo di con trollo. L’argento colato in forma di scarpa aveva un titolo diverso in ogni regione.
è chiaro che queste condizioni dovevano portare alla valuta bancaria. Le gilde dei banchieri dei grandi centri commerciali, il cui cambio veniva onorato dappertutto, presero in mano l’introduzione di tale valuta e costrinsero all’accettazione del pagamento di tutti i debiti bancari in valuta bancaria. Senza dubbio anche nel xix secolo non sono mancate raccomandazioni nel senso di una reintroduzione della carta moneta statale (memoriale del 1831)e1. E le motivazioni restavano sempre le stesse, come già all’inizio del xvn secolo e nel Medioevo: l’impiego industriale del rame pregiudicava il corso della moneta e con questo la politica dei prezzi; inoltre la valuta bancaria permetteva ai commercianti di disporre del denaro. Ma allora non si arrivò a ciò. Le retribuzioni dei funzionari - gli interessati più potentierano pagabili essenzialmente in argento: larghi strati di funzionari erano solidali con gli interessi del commercio al non-intervento del governo di Pechino sulla valuta perché le loro possibilità di entrate erano legate al commercio. In ogni caso tutti i funzionari provinciali erano unanimemente interessati in senso contrario ad ogni rafforzamento del potere finanziario e soprattutto del controllo finanziario del governo centrale. Ne parleremo ancora.
Alla massa della popolazione di piccoli borghesi e piccoli contadini, tuttavia, malgrado il forte calo del potere d’acquisto del rame - che nell’ultimo secolo però si era andato stabilizzando - e in parte proprio a causa di questo fenomeno, un cambiamento dello stato di cose esistente interessava poco o niente. Si possono lasciare da parte qui le particolarità tecnicoburocratiche del sistema di pagamenti e di credito cinesi. Va solo notato che il ta èl, l’unità nominale di calcolo, si presentava in tre forme principali ed alcune forme secondarie e che i lingotti colati in forma di scarpa, e muniti di un bollo bancario, non meritavano nessuna fiducia riguardo al titolo della lega. Già da molto tempo non esistevano più tariffe di sorta imposte alla moneta di rame. AH’interno la moneta di rame era l’unica a corso effettivo. D’altra parte le scorte d’argento e soprattutto il ritmo della sua rivalutazione a partire dal 1516 era di importanza determinante.
2.Citta e gilde.
Ci troviamo ora di fronte a due fatti singolari. In primo luogo, il fortissimo incremento del possesso di metalli preziosi, se evidentemente da un lato ha fatto compiere un certo progresso allo sviluppo dell’economia monetaria, in particolare nel campo della finanza pubblica, dall’altro non ha portato ad una rottura con il tradizionalismo ma anzi ha proceduto di pari passo con un suo rafforzamento; né ha portato, da quanto è possibile constatare, a fenomeni capitalistici in qualche modo tangibili. In secondo luogo, un colossale incremento della popolazione (della cui entità si deve ancora parlare), si è verificato senza che alla sua base vi sia stato lo stimolo di una forma di economia capitalistica, o che viceversa tale forma di economia abbia ricevuto impulso da questo fenomeno. Al contrario quest’ultimo si collega a forme stazionarie (a dir poco) deH’economia. Tutto questo impone una spiegazione.
In Occidente le città nell’antichità e nel Medioevo, la curia ed il nascente stato nel Medioevo, erano i portatori della razionalizzazione delle finanze, dell’economia monetaria e del capitalismo politicamente orientato. Abbiamo visto come in Cina i monasteri fossero temuti per gli effetti nocivi del loro ammassare valuta metallica. Non esistevano in Cina delle città come Firenze che avessero creato una moneta standard e indicato la strada alla politica monetaria statale. E lo stato, come abbiamo visto, era fallito non solo nella sua politica monetaria ma anche nel suo tentativo di realizzare un’economia monetaria.
È significativo che fino a tempi recentissimi le prebende dei templi e le altre numerose e svariatef1 venissero misurate, in modo tipico, con compensi in natura. Anche la città cinese, malgrado le numerose analogie, era tuttavia per certi aspetti decisi vi qualcosa di diverso da quella occidentale. L’ideogramma cinese che indica la «città» significa «fortezza». Ora ciò vale anche per la città antica e medioevale dell’Occidente. In Cina la città antica era la residenza del principeg1 e rimane fino ai tempi moderni, inanzitutto la residenza dei viceré e di altri grandi funzionari: un luogo nel quale, come nelle città dell’antichità e forse come a Mosca al tempo della servitù della gleba, venivano soprattutto spese delle rendite, in parte rendite fondiarie, in parte prebende d’uffici ed altri introiti di origine direttamente o indirettamente politica. Inoltre le città erano naturalmente come dappertutto, le sedi del commercio e - seppure in misura assai meno esclusiva che nel Medioevo occidentale - dell’industria. Diritti di mercato esistevano anche nei villaggi, sotto la protezione del tempio del villaggio. Non esisteva un monopolio di mercato urbano garantito tramite un privilegio concesso dallo statoh1
Ma il contrasto fondamentale tra la struttura urbana cinese e orientale in genere da un lato, e la città dell’Occidente dall’altro stava nell’assenza di un particolare carattere politico della prima. Tale città non era una polis nel senso antico e non conosceva un diritto cittadino come nel Medioevo occidentale. Infatti non era un «comune» con delle prerogative politiche proprie. Non aveva una borghesia nel senso di un ceto militare urbano che si equipaggiava da sé, come nell’antichità occidentale. E non sono mai sorte confederazioni militari come la Compagna Communis di Genova o altre coniurationes, ora in lotta contro i signori feudali della città per la loro autonomia, ora scese nuovamente a patti; o forze basate sul potenziale militare autonomo del distretto urbano: consoli, consigli, unio ni di gilde e corporazioni sul tipo della Mercadanzai1. Certamente le ribellioni dei cittadini contro i funzionari, che costringevano questi ultimi alla fuga nella cittadella, sono state in ogni tempo all’ordine del giorno. Sempre però in vista della rimozione di un particolare funzionario o di una particolare disposizione, soprattutto di una qualche nuova imposizione fiscale; mai in vista del conseguimento di un’autonomia politica della città, sia pure relativa, ma solidamente garantita con un documento. Un’autonomia di questo tipo sul modello occidentale era difficile da conseguire innanzitutto perché non erano mai stati rifiutati i vincoli della schiatta. Il cittadino immigrato (soprattutto quello benestante) conservava i rapporti con la sede originaria della sua stirpe, con la terra degli antenati e con il santuario degli antenati della sua schiatta; aveva quindi nel suo villaggio d’origine dei rapporti a carattere personale della massima importanza. La sua posizione era simile a quella del membro del ceto contadino in Russia, il quale, anche quando aveva trovato nella città la sede permanente della sua attività professionale - come operaio, artigiano, commerciante, fabbricante, letterato - conservava tanto il suo diritto di appartenenza al mir17 che quello di cittadinanza (con i diritti ed i doveri ad esso collegati in Russia). La Zεὑς ἑρϰεῖος dei cittadini dell’Attica e, dai tempi di clistene18, il suo demos o lo Hantgemal dei Sassoni rappresentavano in Occidente le forme embrionali di una condizione analogaj1. Ma allora la città era una «comunità», nell’antichità era anche un’unione culturale, nel Medioevo una fratellanza giurata. Di queste forme si trovano in Cina solo gli stadi preliminari, non la loro realizzazione. In Cina il dio della città era solo uno spirito protettore locale ma non il dio di un’unione; di regola era piuttosto il mandarino canonizzato di una cittàk1.
Mancava totalmente - è questo il punto fondamentale - la confederazione politica dei cittadini in armi. In Cina si trovano a tutt’oggi gilde, anse, corporazioni, in alcuni casi anche una «gilda cittadina», esteriormente simile alla «gilda mercatoria» inglese. Vedremo che i funzionari statali inglesi dovevano tenere seriamente in considerazione le diverse unioni cittadine e che in pratica queste unioni tenevano in mano l’organizzazione della vita economica della città in misura eccezionale - molto più intensamente dell’amministrazione imperiale e sotto molti aspetti anche molto più solidamente delle unioni occidentali di media importanza. Sotto molti aspetti le condizioni della città cinese ricordavano apparentemente quelle della città inglese tanto del periodo della firma burgi quanto del periodo dei Tudor. Ma tale somiglianza era puramente esterna ed una importante differenziazione consisteva nel fatto che anche allora una città inglese possedeva la Charter che documentava le sue «libertà». Ora un fatto analogo non esisteva in Cinal1. La situazione, assai diversa da quella dell’Occidente, ma simile a quella indiana, era tale che le città, come piazzeforti imperiali, di fatto godevano sostanzialmente di meno «autonomia»m1 dei villaggi. La città era costituita formalmente da dei «distretti di villaggio» ciascuno sotto un ti-pao (consiglio di anziani) particolare; spesso apparteneva a più distretti amministrativi inferiori (ihsien), in qualche caso anche a vari distretti superiori (fu) con un’amministrazione statale del tutto distintan1, il che tornava a tutto vantaggio dei farabutti. Alle città manca, anche da un punto di vista puramente formale, la possibilità di concludere accordi - nel campo del diritto privato come in campo politico - di istruire processi, di comparire sotto qualsiasi forma corporativa: tutte cose che invece erano possibili per i villaggi, con i mezzi che vedremo in seguito. Il fenomeno occasionale (presente anche in India come in tutto il mondo) del governo di fatto di una città da parte di una potente gilda mercantile non era un sostituto valido.
Alla base di queste differenze c’era la diversa origine delle città in Oriente e in Occidente. La polis dell’antichità - per quanto solidamente potesse essere fondata sulla base della proprietà terriera - era sorta in primo luogo come città del commercio marittimo; in Cina invece prevaleva l’entroterra. Anche se, da un punto di vista puramente nautico, il raggio d’azione effettivo della giunca cinese era occasionalmente piuttosto vasto, e anche se la tecnica nautica (bussola e compasso)o1 era molto sviluppata, l’importanza relativa del commercio marittimo era tuttavia molto esigua se confrontata alla massa di entroterra che aveva a disposizione. La Cina, inoltre, aveva rinunciato da secoli ad avere una propria potenza marittima - che è la base indispensabile del commercio attivo - ed infine, neU’interesse del mantenimento della tradizione, aveva notoriamente limitato i rapporti con l’estero ad un solo porto (Canton) e ad un piccolo numero (tredici) di ditte concessionarie. Non è per un caso che il commercio in Cina ha fatto questa fine. Lo stesso «canale imperiale», come risulta da ogni documento ed anche dai rapporti conservati, era stato costruito soltanto per evitare la via del mare, resa insicura dalla pirateria e soprattutto dai tifoni, ai fini della spedizione del riso dal sud verso il nord; dei rapporti ufficiali, ancora nell’epoca moderna, mostravano come la via del mare comportava tali perdite per il fisco che gli enormi costi per la costruzione del canale costituivano un investimento redditizio.
D’altra parte la specifica città occidentale dell’interno, nel Medioevo, era senza dubbio, come quella della Cina e del Medio Oriente, fondata da principi e signori feudali per sfruttarne le rendite monetarie e le imposte. Ma la città europea, nello stesso tempo, diventò molto presto un’unione altamente privilegiata con solidi diritti che furono sistematicamente allargati e potevano esserlo perché in quell’epoca il signore feudale non possedeva i mezzi tecnici per amministrare la città, e la città era un’unione militare in grado di chiudere con successo le proprie porte ad un esercito di cavalieri. Al contrario le grandi città dell’Asia anteriore, come Babilonia, vennero presto a dipendere, per tutta la loro esistenza, dalla grazia della regia amministrazione burocratica che gestiva la costruzione dei canali. Ciò valeva anche per la città cinese, malgrado il potere molto limitato dell’amministrazione centrale cinese. Anche nel suo caso la prosperità dipendeva molto strettamente non dall’audacia economica e politica dei suoi cittadini ma dal funzionamento dell’amministrazione imperiale, soprattutto l’amministrazione dei corsi d’acquap1. La burocrazia occidentale è giovane e in parte formata alla scuola dell’esperienza pratica delle città-stato autonome. La classe burocratica imperiale cinese era invece molto antica. La città, qui, era prevalentemente un prodotto razionale deiramministrazione, come già dimostrava la sua struttura. In primo luogo c’era la palizzata o il muro; in secondo luogo la popolazione, spesso insufficiente rispetto all’area recintata, che veniva portata eventualmente in modo coercitivoq1; infine, come in Egitto, la capitale stessa od il suo nome cambiava con il cambiare della dinastia. L’ultima residenza permanente, cio è Pechino, fino all’epoca moderna è stata solo in misura limitatissima una città commerciale e industriale d’esportazione.
Come vedremo, la portata alquanto limitata dell’amministrazione imperiale ha fatto sì che, come già accennato, i cinesi nella città come nelle campagne «si amministrassero da sé». Lo stesso ruolo delle schiatte nella campagna - su cui torneremo ancora - era tenuto in città, per coloro che non appartenevano a nessuna schiatta o comunque non ad una schiatta antica e forte, dalle unioni professionali che dominavano in senso assoluto l’intera esistenza dei loro membri. In nessun luogo (eccetto in India, ma in modo diverso) la subordinazione incondizionata dell’individuo alla gilda e alla corporazione (le due cose non erano terminológicamente distinte) era così sviluppata come in Cinar1. Ad eccezione delle poche gilde monopolistiche che da tempo esistevano senza nessuna forma di riconoscimento ufficiale da parte del governo statale, le altre di fatto avevano spesso avocato a sé la giurisdizione assoluta sui propri membris1. Tutto ciò che aveva importanza economica per i membri sottostava al loro controllo: peso e misure, valuta (stampigliatura dei lingotti d’argento)t1, manutenzione delle stradeu1, control lo sulla gestione del credito dei membri e «cartello delle condizioni» come diremmo noiv1: cio è determinazione delle scadenze per le forniturew1, i depositi ed i pagamenti, delle tariffe di assicurazione e dei tassi di interessex1, repressione delle operazioni fittizie e illegali, cura del componimento regolare delle vertenze con i creditori nei trapassi d’impresay1, regolamento del corso dei vari tipi di monetaz1, concessione di anticipi sulla merce giacente per lunghi periodia2; per quanto riguarda gli artigiani in particolare: regolamento e limitazione del numero di apprendistib2 e, eventualmente, protezione del segreto di fabbricazionec2 Le singole gilde disponevano di patrimoni calcolabili in milioni, spesso investiti in una comune proprietà fondiaria; esse prelevavano imposte dai loro membri, riscuotevano tariffe d’ammissione e cauzioni (di buona condotta) dai nuovi arrivati, allestivano spettacoli teatrali e curavano i funerali dei membri poverid2.
Nella maggior parte delle unioni professionali l’ingresso era aperto a chiunque esercitasse il mestiere in questione (normalmente, anzi, tale ingresso nell’unione era obbligatorio). Ma esistevano anche numerosi residui di antichi mestieri familiari o tribalie2, che di fatto venivano esercitati come monopolio ereditario o come un’arte segreta tramandata ereditariamente; non solo, ma accanto a questi c’erano anche dei monopoli di gilda creati dalla politica fiscale o xenofoba dell’amministrazione statalef2. E la copertura liturgica del fabbisogno, che l’amministrazione cinese medioevale ha periodicamente tentato di adottare, giustifica l’ipotesi secondo la quale il passaggio dai mestieri familiari e tribali con suddivisione interetnica e imprese ambulanti all’artigianato sedentario libero e accessibile tramite l’apprendistato per molti mestieri sarebbe avvenuto per fasi intermedie, organizzate coercitivamente dall’alto per sopperire ai bisogni dello stato e si sarebbe realizzato attraverso le unioni artigianali legate alla professione. Di conseguenza, in gran parte delle attività si conservò il carattere dei mestieri familiari e tribali. Sotto gli Han molti lavori artigianali erano ancora severamente custoditi come segreto di famiglia e l’arte della fabbri cazione della lacca di Fuchow, per esempio, morì completamente durante la ribellione dei T’ai-p’ing perché la schiatta che ne custodiva il segreto fu sterminata. Non esisteva in generale il monopolio dei mestieri della città. è vero che si era sviluppato come dappertutto quel tipo di divisione locale del lavoro tra città e campagna da noi designata come «economia urbana» e si trovano anche alcune disposizioni di politica economica urbana. Ma quel tipo di politica urbana sistematica, esercitata dalle corporazioni che nel Medioevo avevano conquistato una posizione dominante - e che per prime avevano tentato di realizzare un’autentica «politica economica urbana» - non è mai giunto a compimento in Cina malgrado le numerose forme embrionali. In particolare le pubbliche autorità, pur ricorrendo continuamente a vincoli di tipo liturgico, non hanno mai creato un sistema di privilegi corporativi come quelli conosciuti nell’alto Medioevo. Proprio la mancanza di queste garanzie giuridiche indusse le unioni professionali in Cina a farsi sempre giustizia da sé, senza alcun riguardo, in una misura rimasta del tutto sconosciuta in Occidente. Fu anche per l’assenza di tali garanzie che in Cina mancarono totalmente quei principi giuridici fissi, pubblicamente riconosciuti, formali e certi che sono alla base di un libero sistema commerciale e industriale organizzato in modo associativo, quei principi che l’Occidente aveva conosciuto e che nell’industria occidentale medioevale favorirono lo sviluppo del piccolo capitalismo. Se in Cina tali princìpi mancavano, ciò era dovuto alla mancanza di un potere politico-militare autonomo nelle città e nelle gilde e questa circostanza si spiega a sua volta con il precoce sviluppo dell’organizzazione burocratica e gerarchica di funzionari ed ufficiali neH’esercito e neiramministrazione.
3. L’amministrazione dei principi e la concezione di Dio: confronto con il Medio Oriente.
Per far sorgere quel potere centrale — con la sua burocrazia patrimoniale — la cui esistenza risale fino a dove arrivano tutte le nostre conoscenze storiche certe, in Cina come in Egitto il fattore decisivo è stato la necessità di regolare i corsi d’acqua come premessa ad ogni economia razionale. Lo mostra molto chiaramente, per esempio, una disposizione contenuta in ciòche si presume essere un’ordinanza di un consorzio di principi feudali, emanata nel vii secolo a. C. e menzionata da Menciog2. Contrariamente all’Egitto e alla Mesopotamia, in genere, perlomeno nella Cina settentrionale, il nucleo politico originario dell’impero, la difesa dalle inondazioni mediante dighe e opere di canalizzazione per il traffico fluviale interno (in particolare per il trasporto di foraggio) erano di primaria importanza; erano invece di importanza secondaria le opere di canalizzazione a scopo di irrigazione, mentre in Mesopotamia la possibilità di coltivare i territori del deserto dipendeva proprio da queste. I funzionari incaricati del regolamento del flusso delle acque, e quella «polizia» di cui si parla già in antichissimi documenti - e che allora costituiva una classe situata in ordine di rango dopo i «produttori agricoli» e prima degli «eunuchi» e dei «facchini» - hanno formato il nucleo della burocrazia patrimoniale pura, preletteraria.
Ci si chiede in che misura queste condizioni abbiano avuto delle conseguenze non solo politiche - il che è fuori dubbio - ma anche di natura religiosa. Il Dio del Medio Oriente era modellato sull’immagine del sovrano terreno. Per i sudditi dell’Egitto e della Mesopotamia, che conoscevano a malapena la pioggia, tutto il bene e il male, e in particolare il raccolto, dipendevano dall’attività del sovrano e della sua amministrazione. Il re (creava» direttamente il raccolto. Una situazione vagamente analoga, seppure priva di un carattere così coercitivo, si verificava in alcune parti della Cina meridionale dove la regolazione delle acque aveva un’importanza predominante su tutto il resto. Il passaggio diretto dalla coltivazione con la zappa alle culture a giardino fu certo condizionato da questo fattore. Al contrario nella Cina settentrionale, malgrado uno sviluppo anche qui considerevole dell’irrigazione, il problema degli eventi naturali, soprattutto della pioggia, aveva importanza preponderante soprattutto per ciò che riguardava il raccolto. Ora nel Medio Oriente l’amministrazione burocratica centralizzata favorì senza dubbio la possibilità di concepire il Dio supremo come un Dio celeste, che ha «creato» dal nulla il mondo e gli uomini e adesso, nella sua qualità di signore etico ultramondano, esige dalla creatura l’adempimento dei suoi doveri e il pagamento dei suoi debiti: una concezione di Dio che in pratica solo qui ha conservato il predominio con tanta forza. Tuttavia va subito aggiunto che il mantenimento di tale predominio non si può far risalire unicamente a quelle condizioni economiche. Anche nel Medio Oriente il sovrano celeste è stato elevato al rango supremo e infine a una posizione di potenza del tutto ultramondana — per la prima volta nel Deuteroisaia, durante l’esilio — proprio in quei luoghi, cio è in Palestina e non nelle regioni desertiche, dove egli mandava a suo piacimento la pioggia e il sole come fonti di fertilitàh2. Evidentemente sono entrati in gioco anche altri fattori nella formazione di tali concezioni opposte della divinità. Questi fattori rientrano in gran parte non nella sfera economica, bensì in quella della politica estera. Su questo punto dobbiamo rifarci un po’ più da lontano.
Il contrasto tra la concezione della divinità nel Medio Oriente e quella nell’Asia orientale non è esistita sempre con il suo attuale rigore. Nell’antichità cinese c’era da un lato, per ogni società locale, un dio rurale bivalente (Shé-chì) nato dalla fusione dello spirito della terra fertile (Shé) con lo spirito del raccolto (Chi) e che aveva già assunto il carattere di una divinità eticamente primitiva, e d’altra parte il tempio degli spiriti degli antenati (T sung-miaó) come oggetto del culto della schiatta. Questi spiriti riuniti (Sh è-chi-tsung-miao) costituivano l’oggetto principale del culto rurale locale, lo spirito protettore del paese natio dapprima concepito ancora in maniera del tutto neutralistica, come una forza ed una sostanza magica semi-m ateriale e la cui posizione corrispondeva all’incirca a quella del dio locale dell’Asia occidentale (anche se questo era stato presto concepito in maniera sostanzialmente personificata). Col crescere del potere dei principi lo spirito del campo arato divenne lo spirito del territorio dei principi. Con lo sviluppo dell’eroismo aristocratico sorse ovviamente anche in Cina, come qua si ovunque, un dio celeste personalizzato, corrispondente in certa misura allo Zeus ellenico, adorato dai fondatori della dinastia dei Chou19 insieme allo spirito locale in un’unione dualistica. Con la nascita del potere imperiale, dapprima come potere feudale sui principi, il sacrificio al cielo, di cui l’imperatore era considerato il «figlio», divenne il monopolio di quest’ultimo;i principi offrivano sacrifici agli spiriti della terra e degli antenati, i capifamiglia agli spiriti degli antenati della stirpe. Il carattere degli spiriti, cangiante in senso animistico-naturalistico, qui come ovunque - soprattutto lo Spirito del Cielo (Shang-tì) che poteva venir rappresentato sia come il cielo stesso che come il re del cielo -, finiva però per orientarsi sempre, in Cina, nel senso dell’impersonalei2, e proprio per i più potenti ed i più universali di questi spiriti; tutto il contrario avveniva nel Medio Oriente dove al di sopra degli spiriti animistici semi-personificati e delle divinità locali si ergeva il creatore personificato ultramondano e reggente sovrano dell’universo. La concezione di Dio dei filosofi cinesi rimase a lungo estremamente contraddittoria. Per Wang Chung20 Dio non andava certo concepito in maniera antropomorfica, tuttavia egli aveva un «corpo)), una specie di fluido, pare. D’altra parte lo stesso filosofo fonda la sua negazione dell’immortalità ancora una volta sulla totale «assenza di forma)) di Dio a cui lo spirito dell’uomo farebbe ritorno dopo la morte, come il ruach israelitico; si tratta di una concezione che ha trovato espressione anche nelle iscrizioni. Sempre con maggiore insistenza, però, si sottolineava la non-personalità propria delle supreme potenze ultraterrene. Nella filosofia confuciana la concezione di un Dio personalizzato, che trovava degli esponenti ancora nell’xi secolo, scomparve a partire dal XII secolo sotto l’influenza del materialista Chu Fu-tzu21 che veniva ancora trattato come un’autorità dall’imperatore K’ang-hsi22 (emanatore del «Sacro Editto»). Spiegheremo più avanti come tale evoluzione verso l’impersonalismoj2 non si è realizzata senza la permanenza durevole di residui della concezione personalistica. Tuttavia è proprio nel culto ufficiale che il primo ha avuto il sopravvento.
Anche nell’Oriente semitico la terra fertile, la terra con l’acqua naturale, era in primo luogo la «terra di Ba‘al», e nello stesso tempo la sua sede, e anche qui il Ba‘al rurale della terra, nel senso del suolo fruttifero, divenne il Dio locale della società politica legata ad una sede fissa, la terra natale. Ma questa terra era considerata semplicemente una «proprietà» del Dio; né sarebbe stato possibile concepire un «cielo» come quello cinese, impersonale e tuttavia dotato di anima, in grado di apparire come il rivale di un signore del cielo. Lo Jahv è israelitico era in primo luogo il Dio delle burrasche e delle catastrofi naturali, residente nelle montagne, che tra nubi e temporali arrivava in soccorso degli eroi in combattimento, il Dio alleato alla confederazione guerriera conquistatrice; la lega del suo popolo era posta sotto la protezione di Jahv è attraverso un patto di cui i suoi sacerdoti erano mediatori. Di conseguenza il suo dominio rimase a lungo la politica estera, a cui erano interessati anche i maggiori dei suoi profeti, questi pubblicisti politici all’epoca della grande paura di fronte al potente stato predatorio mesopotamico. Attraverso questa circostanza Jahv è acquisì la sua configurazione definitiva: la politica estera era il suo teatro d’azione con le peripezie della guerra e del destino dei popoli. Perciò egli fu e rimase innanzitutto il Dio dello straordinario: del destino guerriero del suo popolo. Siccome però questo popolo non poté creare una grande potenza, ma rimase anzi un piccolo stato tra le potenze mondiali e finì per soccombere sotto a queste, ne derivò che Jahv è poteva essere un «Dio universale» soltanto come guida ad un destino ultramondano; ai suoi occhi lo stesso popolo eletto aveva solo un’importanza creaturale e secondo il suo comportamento poteva venire ora benedetto ora rigettato.
Al contrario l’impero cinese, nel corso della sua storia, malgrado tutte le campagne militari rimase sempre una grande potenza pacificata. è vero che gli inizi dello sviluppo culturale cinese erano all’insegna del militarismo puro. Lo Shih, più tardi il funzionario, in origine è l’«eroe». Quello che più tardi fu il «padiglione degli studi» (pi yung kung), in cui, secondo il rituale, l’imperatore spiegava personalmente i classici, sembra essere stato in origine una «casa degli uomini» (àvSpeiov), quale si trovava quasi in tutto il mondo presso popoli specificamente guerrieri e cacciatori, e cio è: il luogo di soggiorno della fratellanza della gioventù investita delle armi attraverso la cerimonia della «vestizione» mantenuta ancora oggi, che seguiva senza dubbio delle prove precedenti e faceva salire l’adolescente di grado d’anzianità nella sua «caserma» staccata dalla famiglia. Con ciò in che misura fosse sviluppato il tipico sistema delle classi d’età rimane incerto. Appare probabile, in seguito a derivazioni etimologiche, che la donna in origine avesse in mano la sola coltivazione dei campi; in ogni caso essa non partecipava ai culti extradomestici. La «casa degli uomini» era evidentemente la casa del capo guerriero (carismatico): qui veni vano negoziate azioni diplomatiche come l’assoggettamento dei nemici, venivano custodite le armi da guerra, venivano portati i trofei (orecchie mozzate); qui la formazione giovanile si esercitava al tiro ritmico, cio è disciplinato: in base ai risultati di tale esercizio il principe si sceglieva il suo seguito ed i suoi funzionari (da cui l’importanza cerimoniale del tiro con l’arco fin dai tempi più remoti). è probabile — seppure non sicuro — che anche gli spiriti degli antenati dispensassero consigli in merito. Se tutto ciò è vero, a questa situazione corrispondono le notizie sull’originaria discendenza matrilinea: infatti, stando all’evidenza attuale, il «diritto matriarcale» appare essere stato dappertutto la conseguenza primaria dell’estraniamento del padre dalla famiglia in seguito all’organizzazione militaristicak2. Storicamente questo fenomeno risale a tempi assai lontani. Il combattimento individuale tra eroi, che anche in Cina, come apparentemente in tutto il mondo (fino in Irlanda), ha avuto il sopravvento con l’utilizzazione del cavallo, all’inizio come animale da tiro per i carri da guerra, ha portato alla decadenza dell’androceo che era orientato alla formazione della fanteria. In primo piano è apparso il singolo eroe altamente addestrato e costosamente equipaggiato. Ma anche questa epoca «omerica» della Cina risale a tempi remoti e sembra che né qui, né in Egitto o in Mesopotamia la tecnica militare cavalleresca abbia mai portato ad una compagine sociale così individualistica come nell’Ellade «omerica» e nel Medioevo. La subordinazione alla regolazione dei corsi d’acqua e quindi al governo personale burocratico del principe ha agito presumibilmente da contrappeso decisivo. Le forniture di carri da guerra e mezzi corazzati furono poste a carico dei singoli distretti, come in India. Per cui, anche alla base dell’esercito cavalleresco non c’era un contratto personale come nella lega feudale dell’Occidente, bensì una sorta di coscrizione obbligatoria a base catastale. Tuttavia l’«uomo nobile», chün-tzu (il gentleman) di Confucio era in origine il cavaliere addestrato alle armi. Ma il peso della realtà statica della vita economica non permise agli d èi guerrieri di ascendere ad un Olimpo: l’imperatore cinese compiva il rito dell’aratura; era diventato un protettore dell’agricoltore e di conseguenza non era più da molto tempo un principe cavalleresco. In realtà i puri mitologemi ctonil2 non hanno conseguito un’importanza predominante. Ma a partire dal dominio dei letterati l’orientamento prevalentemente pacifista dell’ideologia divenne naturale, e viceversa, come vedremo.
Lo spirito del cielo divenne allora nella credenza popolareprincipalmente dopo l’abolizione del feudalesimo - una divinità, come quella egiziana, concepita come una specie di via di ricorso ideale contro i funzionari terreni, dall’imperatore fino all’ultimo funzionario. In Cina, come in Egitto (e in maniera meno marcata in Mesopotamia) questa concezione burocratica generava un particolare timore della maledizione del povero e dell’oppresso (vedremo come ciò ha influito sull’etica del vicino popolo israelitico). Questa concezione soltanto, infatti, offriva ai sudditi una specie di Magna Charta della superstizione, ed un’arma effettivamente molto temuta, contro i funzionari e contro tutti i privilegiati in genere, anche i possidenti: una caratteristica tutta particolare, quindi, di una mentalità burocratica ed insieme pacifista.
Tutte le guerre di origine popolare in Cina risalgono a tempi preistorici. Senza dubbio l’avvento dello stato burocratico non mise fine al periodo di guerre. La Cina portò il suo esercito in Indocina e fino nel cuore del Turkestan. Nelle più antiche fonti documentarie della letteratura vengono esaltati più di tutti gli eroi di guerra. è vero che nella storia, almeno secondo la versione ufficiale, soltanto una volta un generale vittorioso è stato per questo proclamato imperatore dall’esercito (Wang Mang, intorno alla nascita di Cristo). In pratica, naturalmente, lo stesso fatto si è ripetuto molto più spesso, ma nelle forme prescritte dal rituale e attraverso una conquista ritualmente riconosciuta o una ribellione contro un imperatore ritualmente scorretto. Nel periodo compreso tra l’VIII e il III secolo a. C., periodo che diede un’impronta decisiva alla cultura intellettuale, l’impero era un’unione molto labile di varie signorie politiche, che, se riconoscevano tutte insieme formalmente la signoria feudale dell’imperatore diventato politicamente importante, erano però in guerra tra di loro e in particolare si disputavano il posto di maestro di palazzo23. La differenza rispetto al Sacro Romano Impero dell’Occidente stava innanzitutto nel fatto che l’imperatore feudale era simultaneamente e in primo luogo il legittimo gran sacerdote, sul tipo del papa occidentale nella posizione rivendicata da Bonifacio VIII. Tale circostanza fondamentale risale a tempi preistorici. Questa funzione indispensabile determinava il mantenimento dell’imperatore. Tramite questa egli costituiva un elemento essenziale per la coesione culturale degli stati combattenti, sempre mutevoli nella loro estensione e potenza. L’uguaglianza (perlomeno teorica) del rituale costituiva il cemento di tale coesione. Qui come nel Medioevo occidentale questa unità religiosa determinava la libertà di spostamento delle famiglie aristocratiche da uno stato dell’impero all’altro; il nobile statista passava senza ostacoli rituali dal servizio di un principe a quello di un altro.
La fondazione dell’impero unitario a partire dal III secolo a. C., che da allora fu interrotta solo per brevi periodi, pacificò l’impero all’interno, perlomeno in principio e in teoria. Da quel momento non erano più possibili delle guerre «legittime» nel suo interno. Anche la difesa dai barbari e la loro sottomissione era un semplice compito di pubblica sicurezza per il governo. Di conseguenza, il «cielo», qui, non poteva assumere la forma di un dio degli eroi, adorato nella guerra, nella vittoria, nella sconfitta, nell’esilio e nella speranza della patria, un dio che si manifesta nell’irrazionalità dei destini di politica estera del suo popolo. A tale fine questi destini - se si prescinde dal periodo degli assalti dei Mongoli - a partire dall’erezione della Grande Muraglia non erano più, in linea di principio, abbastanza importanti e irrazionali; nel periodo caratterizzato proprio dallo sviluppo pacifico della speculazione religiosa non erano abbastanza tangibili come un fato minaccioso e incombente, come problema dominante dell’intera esisten za, sempre davanti agli occhi; soprattutto non erano un affare che riguardasse i cittadini. In caso di usurpazione del trono o di invasioni per i sudditi cambiava solo il signore, e nei due casi ciò significava esclusivamente un cambiamento nella persona del beneficiario delle tassazioni, non un cambiamento dell’ordinamento socialem2. L’ordinamento interno politico e sociale, fermo senza scosse da millenni, divenne perciò il campo affidato alla vigilanza divina e quello in cui questa si manifestava. Anche il Dio israelitico prendeva nota dei rapporti sociali interni, come motivo di punizione del suo popolo, attraverso l’avversità in guerra, per le deviazioni dall’antico ordine di alleanza da lui stabilito. Queste offese, però, rispetto a quella, ben più grave, dell’idolatria costituivano soltanto una categoria di peccati. Al contrario per il potere celeste cinese gli antichi ordini sociali erano l’uno e il tutto. Il cielo governava come custode della loro stabilità e della loro validità indisturbata e come tutore della quiete garantita dalla vigenza di norme razionali, non come fonte di fatidiche peripezie irrazionali, temute o sperate. Tali peripezie erano sinonimo di disordine e tumulti. Erano quindi di origine nettamente demoniaca. La garanzia della tranquillità e dell’ordine interno veniva fornita nel migliore dei modi da una potenza che nella sua impersonalità e proprio per questa si qualificava come specificamente superiore a tutto ciò che era terreno, e cui la passione, e soprattutto la «collera», il più importante attributo di Jahv è, doveva rimanere estranea.
Queste basi politiche della vita cinese favorirono anche la vittoria di quegli elementi della credenza negli spiriti, che erano senza dubbio preesistenti in ogni fede magica sviluppatasi in culto, ma il cui sviluppo, in Occidente, era stato interrotto dalla comparsa del dio degli eroi e, infine, da un dio redentore del mondo, personificato, etico, ad uso degli strati plebei. In realtà gli autentici culti ctoni con il loro tipico orgiasmo sono stati estirpati anche in Cina dall’aristocrazia cavalleresca e piùtardi da quella letterarian2. Non si incontrano né danze - l’antica danza di guerra era scomparsa - né un orgiasmo sessuale, né un orgiasmo musicale, né altre forme di inebriamento, nemmeno sotto forma di residui; un solo atto rituale sembra aver assunto carattere «sacramentale», ma si trattava per l’appunto di un atto a carattere del tutto non-orgiastico. Il dio del cielo trionfava anche qui: i filosofi motivavano ciò, secondo la biografia di Confucio scritta da Ssu-ma Ch’ien24, con il fatto che gli d èi della montagna e dei corsi d’acqua governavano il mondo perché dalle montagne viene la pioggia. Ma trionfava come Dio dell’ordine celeste, non delle legioni (militari) celesti. Lo specifico orientamento della religiosità cinese, che per altri motivi e in altra maniera è rimasto dominante anche in India, basato sull’inviolabilità e la regolarità del rituale con effetti coercitivi sugli spiriti, e del calendario che è fondamentale per un popolo di agricoltori, riuniva insieme le leggi naturali e le leggi rituali e si collegava a questa unità del taoo2 sicchéelevava l’Eterno e l’Immutabile alla più alta potenza religiosa. Allora, al posto di un dio creatore ultramondano, era un Essere ultradivino, impersonale, sempre uguale a se stesso, eterno nel tempo e insieme valore senza tempo di ordini eterni, che veniva percepito come entità ultima e suprema. Il potere celeste impersonale «non parlava» agli uomini. Esso si manifestava loro attraverso le vicende del governo terreno, cio è nell’ordine stabile della natura e della consuetudine, che era una parte delPordine cosmico e - come dappertutto - attraverso ciò che succedeva all’uomo. Le buone condizioni dei sudditi erano prova della soddisfazione celeste, ossia del retto funzionamento degli ordinamenti. Al contrario tutti gli avvenimenti nefasti erano sintomi di un turbamento della provvidenziale armonia tra cielo e terra per opera di forze magiche. Per la Cina questa concezione fondamentalmente ottimistica della armonia cosmica è cresciuta a poco a poco dalla primitiva credenza negli spiriti. All’originep2, qui come altrove, c’era il dualismo tra spiriti buoni (utili) e cattivi (nocivi), i shen ed i kuei, che riempivano tutto l’universo e si manifestavano negli eventi naturali come nell’agire e nelle sorti degli uomini. Anche l’«animo» dell’uomoconformemente all’accezione diffusa dappertutto di una pluralità di forze animatrici - era considerato come una fusione tra la sostanza shen di origine celeste e la sostanza kuei terrena, che dopo la morte si separavano di nuovo. La dottrina comune a tutte le scuole filosofiche riassumeva quindi i «buoni» spiriti nel prin cipio yang (celeste e maschile), quelli «cattivi» nel principio yin (terreno e femminile), dalla cui unione sarebbe nato il mondo. Ma questo coerente dualismo, qui come quasi ovunque, era ottimisticamente indebolito e rappresentato dall’identificazione del carisma magico dei maghi e degli eroi, carisma portatore di salvezza per gli uomini, con gli spiriti shen redentori che traevano origine dalla forza celeste dispensatrice di benedizioni, lo yang. Poiché solo l’uomo qualificato dal carisma aveva un potere manifesto sui cattivi demoni (i kueì) e restava fermo che il potere celeste era la guida benigna e suprema anche dell’universo sociale, ne conseguiva che gli spiriti shen dovevano essere appoggiati nelle loro funzioni presso gli uomini e nel mondoq2. A questo fine però bastava che i demoniaci spiriti kuei venissero mantenuti tranquilli: allora l’ordinamento protetto dal cielo funzionava rettamente. Infatti i demoni non erano in grado di nuocere senza l’autorizzazione del Cielo. Gli d èi e gli spiriti erano esseri magici. Ma nessun singolo dio come nessun eroe divinizzato o nessuno spirito, per quanto potente, era «onnisciente» od «onnipotente». La sobria saggezza confuciana esperta della vita constatava con imparzialità, quando la sfortuna capitava ad un uomo devoto, che «la volontà di Dio è spesso instabile». Tutti questi esseri sovrumani erano senz’altro più forti dell’uomo ma erano molto al di sotto della suprema impersonale potenza celeste; ed erano anche al di sotto di un pontefice imperiale che si trovasse nella grazia del cielo. In conseguenza di tale concezione solo questa e analoghe forze imperiali venivano prese in considerazione, come oggetto di culto della comunità che trascende l’individuo; e solo queste forze ne determinavano il destinor2. Al contrario il destino del singolo poteva essere determinato dagli spiriti particolari che andavano influenzati con mezzi magici.
Con questi spiriti si trattava in modo del tutto primitivo nei termini del baratto: tante prestazioni rituali per tanti benefici. Se poi appariva che uno spirito protettore non era abbastanza forte per proteggere gli uomini malgrado tutti i sacrifici e le buone azioni, ciò significava che occorreva cambiarlo. Infatti solo lo spirito che si dimostrava realmente potente meritava venerazione. Un tale cambiamento avveniva in pratica spesso e l’imperatore in particolare conferiva agli d èi che avevano fatto buona prova di sé omaggi, titolo e rangos2 che eventualmente poi venivano di nuovo tolti. Solo il carisma provato di uno spirito lo legittimava. Senza dubbio - come vedremo tra poco - l’imperatore era responsabile della cattiva sorte. Ma tornava anche a svantaggio del dio aver dato adito ad un’impresa sbagliata attraverso un oracolo od altre indicazioni. Ancora nel 1455 un imperatore tenne ufficialmente un discorso punitivo allo spirito della montagna Tsai. E in altri casi a questi spiriti venivano negati il culto ed i sacrifici. Il «razionalista», uno dei grandi imperatori e unificatore dell’impero, Shih Huang-ti fece tagliare al piede tutti gli alberi di una montagna, per punizione perché uno spirito si era mostrato renitente e gli aveva reso difficile l’accesso; lo menziona Ssu-ma Ch’ien nella biografia dell’imperatore.
4. Posizione carismatica e pontificale del monarca centrale.
Per l’imperatore stesso, naturalmente, le cose andavano nel lo stesso modo, conformemente al principio carismatico del dominio. Tutta questa costruzione si basava suH’immedesimazione in tale realtà politica. Anche l’imperatore, attraverso le sue qualità carismatiche, doveva dimostrarsi chiamato dal cielo a regnare. Ciò corrispondeva in pieno ai princìpi fondamentali del dominio carismatico, attenuato in senso carismatico-ereditario. Il carisma era dappertutto una forza fuori dal normale (maga, orenda), la cui presenza si manifestava attraverso le virtù magiche ed eroiche, ma che presso i novizi doveva essere accertata tramite prove nell’ascesi magica (o anche, secondo le varianti della concezione, acquisito come «nuova anima»). Ma la qualità carismatica (in origine) si poteva anche perdere: l’eroe o il mago poteva venire «abbandonato» dal suo spirito o dio. Solo finché continuava a dar prova di sé attraverso miracoli o atti eroici sempre rinnovati, o perlomeno finché l’eroe o il mago non esponeva se stesso ed il suo seguito ad un pubblico insuccesso, il possesso del carisma appariva garantito. In origine la forza eroica era considerata una qualità magica alla stessa stregua delle forze «magiche» in senso stretto: poteri magici sulla pioggia, sulle malattie ed arti tecniche fuori dal normalet2.
Una questione, in sostanza, era decisiva ai fini dello sviluppo culturale: sapere, cio è, se il carisma militare del principe guerriero ed il carisma pacifista (di regola meteorologico) dello stregone erano riuniti nella stessa mano o meno. Nel primo caso («cesaro-papismo»), però, si tratta di determinare quale dei due carismi è stato la base primaria dello sviluppo del potere dei principi. Ora in Cina - come si è già ampiamente mostrato prima - delle vicende fondamentali, ma per noi preistoriche, condizionate presumibilmente, tra l’altro, dalla grande importanza della regolazione dei corsi d’acquau2, hanno fatto derivare la dignità imperiale dal carisma magico riunendo nella stessa mano l’autorità mondana e quella spirituale, ma con un fortissimo prevalere di quest’ultima. Il carisma magico dell’imperatore doveva senza dubbio manifestarsi anche attraverso successi militari (o perlomeno con l’assenza di insuccessi clamorosi); ma soprattutto doveva manifestarsi attraverso le condizioni atmosferiche favorevoli al raccolto, e lo stato di tranquillità e di ordine interno. Ma le qualità personali che l’imperatore doveva possedere per essere dotato del carisma, furono mutate dai ritualisti e dai filosofi, in qualità rituali, e più tardi etiche: l’imperatore doveva vivere conformemente alle prescrizioni rituali ed etiche degli antichi scritti classici. Il monarca cinese rimaneva quindi innanzitutto un pontefice, l’antico «fabbricante di pioggia» della religiosità magicav2, tradotto in termini etici. Poiché il «cielo» eticamente razionalizzato proteggeva un ordine eterno, era alle virtù etichew2 del monarca che si collegava il suo carisma. Come tutti gli autentici signori carismatici, era un monarca per grazia di Dio, non nel comodo senso dei regnanti moderni che in base a questo attributo, pretendono di dover rispondere «solo a Dio», e cio è in pratica a nessuno, delle follie commesse, ma nell’antico senso genuino del dominio carismatico. Ciò significa, in base a quanto esposto, che egli doveva legittimarsi come «Figlio del Cielo», come signore approvato dal Cielo, attraverso un solo modo: il benessere del popolo. Se non era in grado di realizzarlo, gli mancava il carisma. Se i fiumi rompevano le dighe, se la pioggia non veniva malgrado tutti i sacrifici, ciò costituiva, secondo l’insegnamento esplicito, una prova del fatto che l’imperatore non possedeva quella qualità carismatica che il Cielo esigeva. Egli faceva allora pubblica penitenza per i suoi peccati, come avveniva ancora negli ultimi decenni. Un simile riconoscimento pubblico dei propri peccati è registrato dagli annali già per i principi dell’epoca feudalex2 e tale usanza si è perpetuata fino all’ultimo: ancora nel 1832 a una simile confessione pubblica dell’imperatore fece tosto seguito la pioggiay2. Se anche ciò non portava rimedio alla situazione, l’imperatore poteva aspettarsi la deposizione, nel passato addirittura l’immolazione. Era esposto al biasimo amministrativo dei censoriz2, come i funzionari. Inoltre un monarca che contravveniva all’antico stabile ordinamento sociale, quella parte del cosmo, che come norma impersonale ed armonia stessa stava al di sopra di tutto il divino - un imperatore che per esempio avesse alterato in qualcosa il diritto naturale, assoluto e divino, sulla venerazione per gli antenatiavrebbe dimostrato con ciò (secondo la teoria che non è tuttavia sempre univoca) di aver perduto il suo carisma e di essere caduto in potere di una forza demoniaca. Poteva venire ucciso, poiché era un semplice privatoa3. Soltanto tale potere non spettava a chiunque, naturalmente, ma ai grandi funzionari (in modo analogo, per Calvino, i ceti avevano il diritto di resistenza)b3. Infatti anche l’elemento portante dell’ordinamento statale, e cio è il corpo dei funzionari, era considerato come partecipe del carismac3; di conseguenza, come il monarca stesso, e nello stesso senso, era un’istituzione di diritto divino, e come il monarca anche il singolo funzionario, personalmente, poteva essere amovibile ad nutum, e questo si è perpetuato fino al tempo presente. Anche l’ideoneità dei funzionari era quindi determinata in senso carismatico: ogni turbamento o disordine di tipo sociale o cosmico-meteorologico nel loro distretto significava che non godevano della grazia degli spiriti. Dovevano quindi ritirarsi dalla carica senza sollevare questioni di merito sulla motivazione del provvedimento.
Questa posizione della burocrazia si era già sviluppata in un’epoca per noi preistorica. L’antico ordinamento semi-leggendario della dinastia Chou, come tramandato nel Chou-li, sta già al punto in cui dal patriarcalismo primitivo si comincia a passare al feudalesimo.
a. Bibliografia
Le grandi opere centrali della letteratura cinese classica, che in seguito non verranno citate per esteso in ogni singolo passo, sono state pubblicate da J. Legge nei Chinese Classics, tradotte e annotate. Alcune sono anche riprese da Max Müller in Sacred Books of the Bast. Un’introduzione alle idee personali (o considerate tali, che per noi è lo stesso) di Confucio e dei suoi discepoli più influenti è data più comodamente dai tre scritti pubblicati in un piccolo volume da Legge (The Life and Teachings of Confucius, London, 1867) con un’introduzione. Si tratta del Lun Yii (tradotto come Confucian Analects), del Ta Hsüeh (The Great Learning) e del Chung Yung (Doctrine of the Mean). A questi si aggiungono i celebri annali di Lu (Ch’un Chiù «Primavera e autunno»). Traduzioni di Mencio si trovano in Sacred Books of th è East e in Faber, The Mind of Mencius. Il Tao-te-ching attribuito a Laotzu è stato tradotto a più riprese, in tedesco (magistralmente) da von Strauss, 1870, in inglese da Carus, 1913. Nel frattempo presso Diedrichs, Jena, è uscita una buona selezione di mistici e filosofi cinesi (pubblicata da Wilhelm). L’interesse per il taoismo, di recente, era quasi diventato una moda. Sulle condizioni dello stato e della società, accanto alla grandiosa opera di Richthofen che pur essendo prevalentemente geografica si occupa anche di questi aspetti, come opera introduttiva rimane ancora sempre utile il lavoro meno recente, divulgativo, di Williams, The Middle Kingdom. Degli schizzi eccellenti (con bibliografìa) si trovano in Otto Franke, Kultur der Gegenwart (II, II, i). Sulla città, cfr. Plath in «Abh. der bayer. Akademie der Wissenschaft», X. Il miglior lavoro sull’economia di una citta cinese (moderna) è stato finora fornito da un allievo di K. Bücher, il dr. Nyok Ching Tsur (Die gewerblichen Betriebsjormen der Stadt Ningpo, supplemento al quaderno 30 di «Zeitschrift f. d. ges. Staatswissenschaft», Tübingen, 1909). Sull’antica religione cinese (il cosiddetto «sinismo») cfr. E. Chavannes in «Revue de l’histoire des Religions», 34, p. 125 segg. Per la religione e l’etica del confucianesimo e del taoismo si raccomandano le due opere di Dvorak in Darstellungen aus dem Gebiet der nichtchristlichen Rel.Geschichte in quanto si rifanno nella misura del possibile a citazioni testuali. Per il resto cfr. i diversi manuali di storia religiosa (il saggio di Wilhelm Grübe edito da Bertholet, Tübingen, 1908, quello di E. Buckley da Chantepie de la Saussaye). Per quanto riguarda la religione ufficiale le grandi opere di de Groot stanno per ora al primo posto. Opera principale è The Religious System of China (che nei volumi apparsi finora tratta del rituale e in particolare del rituale mortuario). Vi è poi un suo esame generale del sistema religioso esistente in Cina in Kultur der Gegenwart. Sulla tolleranza del confucianesimo cfr. il suo vivace scritto polemico Sectarianism and religious persécution in China («Verh. der Kon. Ak. van Wetensch te Amsterdam» Afd. letterk. N. Reeks IV, 1, 2). Sulla storia dei rapporti religiosi cfr. il suo saggio nel vol. VII dell’«Archiv, für Rel.Wissenschaft» (1904). Cfr. in proposito la recensione di Pelliot in «Bulletin de l’Ecole franaise de l’Extrême Orient», III, 1903, p. 105. Sul taoismo cfr. Pelliot, op. cit., p. 317. Sul sacro editto del fondatore della dinastia dei Ming (predecessore del «Sacro Editto» del 1671) cfr. Chavannes, «Bull, de l’Ec. fr. de L’Extr. Or.», III, 1903, pp. 549 segg. Per un’esposizione della dottrina confuciana dal punto di vista del moderno partito di riforma di Kang Yu-wei, cfr. Chen Huan Chang, The economic principles of Con fucius and his school (tesi della New Yorker Columbia University, New York, 1911). Gli effetti dei diversi sistemi religiosi sulle forme di vita si riflettono con molta chiarezza nel bel saggio di Wilhelm Grube, Zur Pekinger Volkskunde in «Veröffentlichunger aus dem Kgl. Mus. für Völkerkunde», Berlin, VII, 1901). Dello stesso autore, cfr. Religion und Kultur der Chinesen. Sulla filosofia cinese, cfr. W. Grube in Kultur der Gegenwart, I, 5. Dello stesso A., Geschichte der chinesichen Literatur(Leipzig, 1902). Per quanto riguarda la letteratura missionaria, è preziosa l’opera di Jos. Edkins, Religion in China (3 ed., 1884) che riproduce numerosi discorsi. Molte cose buone si trovano anche in Douglas, Society in China. Per un’ulteriore bibliografia sono da consultare le grandi e note riviste inglesi, francesi e tedesche, oltre alla «Zeitschrift für vergl. Rechtwissenschaft» e l’«Archiv für Rel.-Wissenschaft». Per una chiara introduzione alle condizioni della Cina moderna cfr. il diario di F. von Richthofen, e le opere di Lauterer, Lyall, Navarra e altri. Per il taoismo cfr. anche cap. VII.
Una moderna storia dello sviluppo della Cina (antica) è riportata da E. Conrady nel vol. Ili della Weltgeschichte (1911) di Pflugk-Harttung. Solo quando il presente volume era già in corso di stampa mi è giunta la nuova opera di de Groot, «Universismus». Die Grundlagen der Religion und Ethik, des Staatswissenschajt und der Wissenschaft Chinas, Berlin, 1918. Tra i brevi saggi introduttivi va citata in particolare la piccola brossura di uno dei migliori specialisti: Frhr. von Rosthorn, Das soziale heben der Chinesen (1919) e per quanto riguarda le pubblicazioni meno recenti: J. Singer, Ueber soziale Verhältnisse in Ostasien (1888).
Istruttiva come la lettura di molti saggi è la raccolta delle disposizioni imperiali indirizzate ai funzionari dell’impero, che in origine era destinata solo all’uso interno e che per decenni è uscita tradotta dagli inglesi ad essa interessati sotto il nome di «Peking Gazette».
La letteratura rimanente e le fonti scritte tradotte vengono citate man mano nel corso dell’esposizione. Per il non-specialista costituisce una grave difficoltà il fatto che le fonti documentarie e monumentali siano state tradotte solo in minima parte. Purtroppo non ho avuto al mio fianco uno specialista sinologo per il controllo. è quindi con gravi esitazioni e grosse riserve che questa parte del lavoro viene qui pubblicata.
b. In ciò si riassume anche l’opinione di H. B. Morse, The Trade and Administration of the Chinese, New York, 1908, p. 74. In pratica l’assenza dell’imposta sui consumi e di ogni imposta su redditi mobili, i dazi molto limitati fino all’epoca moderna, la politica delle granaglie impostata unicamente dal punto di vista del consumo, sono già deglielementi fondamentali che giustificano il verdetto. Ma soprattutto al mercante agiato era possibile ottenere da quella particolare burocrazia praticamente tutto ciò che era nel suo interesse, in cambio di denaro.
c. Il passaggio a questo sistema che corrisponde al nostro sistema di valuta bancaria (e che è stato anche quello adottato dalla Banca d’Amburgo) è stato tuttavia causato dal deterioramento della moneta di conio e dalPemissione di carta moneta da parte dell’imperatore, ed è quindi secondario. Ma lo scompiglio che l’improvvisa penuria di moneta corrente, di rame, poteva suscitare nel luogo dove si verificava, Fincremento dell’emissione di banconote locali che ne seguiva, l’aggiottaggio e la speculazione sui lingotti d’argento che ambedue i fenomeni provocavano - tutto questo ancora in epoca assai recente - e le misure maldestre che il governo adottava in questi casi: tutto ciò è messo in luce, per esempio, dal rapporto pubblicato sulla «Peking Gazette» del 2–6–1896, accanto al decreto imperiale. La migliore esposizione sui rapporti valutari si trova in H. B. Morse, Trade and Administration of th è Chinese Empi- re, New York, 1908, cap. V, pp. 119 segg. Per il resto, cfr. J. Edkins, Banking and prices in China (1905). Nell’ambito della letteratura cinese antica cfr. Ssu-ma Ch’ien, ed. da Chavannes, vol. Ili, cap. XXX.
d. Del resto la denominazione del denaro è huo, «mezzo di scambio» (può huo = «mezzo di scambio prezioso»).
e. Cfr. in proposito, oltre al capitolo sull’argomento di Morse, Trade and Administration of China, e J. Edkins, Chinese Currency, London, 1913, anche il vecchio lavoro, sempre utile, di Biot in «N. Journ. Asiat.»,3a serie, 3, 1873, che si fonda essenzialmente su Ma Tuan-lin. Solo durante la correzione di questo lavoro mi è giunta in visione la tesi fatta a New York da W. P. Wei, The currency problem in China («Stud. in Hist. Ec.», ecc., 59, New York, 1914), il cui primo capitolo contiene qualcosa in proposito.
f. Le superstizioni geomantiche di cui si parlerà più avanti portavano in continuazione (ad ogni terremoto) alla distruzione delle miniere. Tuttavia quando Biot, op. cit., paragona le miniere cinesi a quelle del Potosi, commette un’esagerazione ridicola. Sin da Richthofen i dati in proposito sono definitivamente accertati. Le miniere dello Yünnan, dal 1811 al 1890, avranno fruttato solo circa 13 milioni di taci di utili (malgrado le royaltics relativamente basse, solo del 15). Già nel xvi secolo (1556) succedeva che una miniera d’argento venisse aperta con un costo di 30.000 ta èl e poi fruttava in tutto utili per 28.500 taci. I ripetuti divieti di estrazione del piombo ostacolavano lo sfruttamento dell’argento come prodotto complementare. Solo durante il dominio cinese sull’Indocina (Cambogia, Annam) dove la Birmania in particolare era un paese ricco d’argento, l’approvvigionamento (regolare) di questo metallo conobbe un forte incremento, a parte quello dovuto al commercio con l’Occidente attraverso Buchara, in particolare nel xm secolo, come valore di scambio con la seta, e in seguito, a partire dal xvi secolo, ottenuto tramite il commercio estero con gli europei. Per concludere, riferendoci agli annalisti, la maggior fonte d’insicurezza stava, oltre che nella tecnica scadente, nel carattere perlopiù scarsamente redditizio delle miniere d’argento, motivo principale della loro insicurezza.
g. Il lavoro servile obbligatorio su scala gigantesca per lo sfruttamento delle miniere d’oro figura nella storia dell’imperatore Ch’ien Lung della dinastia Ming (Yu tsiuan tung kian kang mu, trad. da Delamarre, Paris, 1865, p. 362) come ancora esistente nell’anno 1474: vi sarebbero stati costretti 550.000 uomini.
h. Il rapporto sfavorevole tra prezzo d’acquisto e costi basta a spiegare il carattere del tutto insufficiente dei proventi.
i. Secondo Weil, op. cit., p. 17, il guadagno sulla moneta sarebbe stato sconosciuto dall’antica politica monetaria cinese. Ma ciò non appare credibile perché altrimenti la coniazione abusiva che avveniva notoriamente su scala gigantesca non sarebbe stata redditizia. Anche gli annali del resto riferiscono esplicitamente il contrario (vedi più avanti).
j. Su questi effetti del feng shui, cfr. «Varietés Sinologiques», n. 2 (H. Havret, La province de Ngan Hei, 1893), p. 39.
k. Secondo una notizia riportata da Biot («N. J. As.», III Serie, 6, 1838, p. 278) dal Wen hian tong kao, le scorte di moneta di tutto il paese sotto Yiian-ti (48–30 a. C.) sarebbero state stimate ammontare a 730.000 wan di 10.000 chien (monete di rame) l’uno, di cui 330.000 in possesso della finanza pubblica, il che secondo Ma Tuan-lin è una scorta bassa.
l. Secondo gli annali (Ma Tuan-lin) il rame, a peso, sarebbe valso 1840 volte più dei cereali (altre fonti parlano di 507 volte tanto) mentre sotto gli Han il rame sarebbe stato in rapporto di 1 a 8 rispetto al riso (anche a Roma, nell’ultimo secolo della Repubblica, c’era un rapporto sorprendente con il frumento).
m. La carta moneta, pien-shen, del x secolo fu rimborsata dalle casse statali.
n. La pesante moneta di ferro nel Szechwan aveva già prodotto, nel l secolo, dei certificati (shao-tzu) della Gilda dei Sedici per il traffico commerciale, ovvero moneta bancaria che più tardi diventava irrimborsabile per insolvenza.
o. Così si presentava, secondo gli annali (Ma Tuan-lin) una lista degli introiti dello stato cinese neirantichità:
997 a. C. | 1021 d.C. | |
Cereali | 21.707.000 shih | 22.782.000shih |
Monete di rame | 4.656.000 kuan (da 1000 chieri) | 7.364.000kuan |
Stoffa di seta pesante | 1.625.000 p’i (pezzi) | 1.615.000p’i |
Stoffa di seta fine | 273.000 p’i | 182.000 p’i |
Filato di seta | 410.000 once | 905.000 once |
Garza (seta finissima) | 5.170.000 once | 3.995.000 once |
T è | 490.000 libbre | 1.668.000 libbre |
Fieno, fresco e secco | 30.000.000 shih | 28.995.000shih |
Legna da ardere | 280.000 shou | ? |
Carbone («lignite») | 530.000 sheng | 26.000 sheng |
Ferro | 300.000 libbre | - |
Inoltre nel 997: partite di legno da frecce, penne d’oca (per le frecce) e vegetali;
nel 1021: partite di cuoio (816.000 sheng), di canapa (370.000 libbre), sale (577.000 shih), carta (123.000 sheng);
nel 1077 (con la riforma del sistema monetario e dei monopoli commerciali, di cui si parlerà più avanti):
Argento | 60.137 once |
Rame | 5.586.819 kuan |
Cereali | 18.202.287 shih |
Stoffa di seta pesante | 2.672.323 p’i |
Filato di seta e stoffa leggera | 5.847.358 once |
Fieno | 16.714.844 shou |
Vi sono inoltre indicazioni confuse di partite di tè, sale, formaggio, cera, olio, carta, carbone, zafferano, cuoio, canapa, ecc. che l’annalista riporta assurdamente con il peso complessivo (3.200.253 libbre). Per quanto riguarda la quantità di cereali si calcolava, come si dice altrove, il fabbisogno mensile di una persona nella misura di 1/2 shih (tuttavia l’ammontare dello shih variava considerevolmente). L’entrata d’argento dell’ultimo conto, che manca nei primi due, si spiega o con il monopolio del commercio, o con l’introduzione della conversione della moneta corrente di rame in argento da parte di chi elabora l’imposta, sistema che esiste ancora oggi, o infine col fatto che l’ultimo calcolo rappresenta un bilancio reale, mentre i due primi sono bilanci di previsione (?).
Il primo conteggio della dinastia Ming del 1360 presenta d’altra parte solo 3 voci:
Cereali | 29–433–350 shih |
Denaro (moneta di rame e di carta) | 450.000 once |
Stoffa di seta | 288.546 pezzi |
Vi è quindi un notevole progresso nelle entrate d’argento e un calo dei numerosi specifici introiti in natura che a quell’epoca comparivano evidentemente solo nei bilanci dei distretti dove venivano adoperati. Tuttavia malgrado ciò non è molto da ricavare dalle cifre perché non si sa con sicurezza cosa è stato detratto precedentemente.
Nel periodo tra il 1795 e il 1810 affluirono al governo centrale 4,21 milioni di shih di cereali (da 120 libbre cinesi l’uno), contro un fortissimo incremento, relativo ed assoluto, delle entrate d’argento, reso possibile dalla bilancia dei pagamenti cinese fortemente attiva nel commercio estero con l’Occidente dopo l’afflusso dell’argento americano (lo sviluppo più recente non presenta qui nulla che ci interessi).
Secondo gli annali, nell’antichità l’usanza era di far fornire ai distretti vicini alla capitale i prodotti naturali di minor valore e di prendere dai distretti più lontani i beni più preziosi, aumentando il valore del tributo in misura proporzionale alla distanza. Sulle imposte ed i loro effetti vedi più avanti.
p. Così nel 689 d. C., secondo Ma Tuan-lin.
q. Così nel 683 d. C. la vendita di cereali al Giappone (dove dominava allora la coniazione del rame).
r. Così nel 702 secondo gli annali.
s. Per la prima volta nel 780 d. C.
t. Nell’vni secolo i maestri coniatori sostenevano che 1000 unità di rame trasformato in opere d’arte (vasi) e quindi rivalutate valevano quanto 3600 unità e che quindi l’utilizzazione industriale del rame era più utile di quella monetaria.
u. Nell’817, e spesso da allora: non più di 5.000 kuan (da 1.000 chien). Secondo la misura del possesso di denaro di rame venivano fissate scadenze di ampiezza variabile per la sua alienazione.
v. Sembra che siano stati utilizzati alPinizio per i sigilli ufficiali dei funzionari; dall’epoca di Shih Huang-ti marcarono esteriormente il passaggio dal feudalesimo allo stato patrimoniale.
w. Così nel 1155: 1,5 per il dominatore tartaro della Cina settentrionale.
x. Così ancora nel no7. I biglietti si svalutarono come ordini di pagamento (fino a 1/100).
y. Così nel mi, quando venne emessa carta moneta per finanziare la guerra dei confini.
z. Questa era la forma regolare, raccomandata anche dagli interessati al commercio. Pertanto queste banconote avevano valore di beni di scambio.
a1. Delle emissioni vecchie e logorate venivano talvolta rimborsate con una quantità variabile soltanto da 1/10 a 1/3 del loro valore.
b1. Ancora nel 1107, m seguito alla guerra contro i Tartari, ogni pagamento superiore ai 10.000 chien andava effettuato per metà in carta moneta. Lo stesso è avvenuto anche altre volte.
c1. La sua descrizione è inaccettabile. Lo sconto del 3 praticato per il rimborso di banconote usate (tramite nuove banconote!), mentre d’altra parte viene concesso su richiesta il cambio della valuta in «oro» e «argento» a chiunque ne abbia bisogno, non è possibile, anche interpretando Marco Polo nel senso che dovesse sussistere uno scopo industriale per tale operazione (il che sarebbe perlomeno possibile in senso testuale). Marco Polo parla anche di vendita forzata di metalli preziosi contro banconote.
d1. Presumibilmente da 500 a x fino a 1.100 a 1 alla metà del xix secolo.
e1. J. Edkins, Chinese Currency, 1890, p. 4.
f1. Le prebende dei funzionari delle dinastie Ch’in e Han (in Chavannes, vol. II, app. I della sua edizione tradotta da Ssu-ma Ch’ien) erano graduate in 16 classi di tributi calcolate in parte in denaro, in parte in riso. Segno di sfavore dell’imperatore - in cui incorse per esempio Confucio secondo la biografia di Ssu-ma Ch’ien - era il rifiuto della quota in natura di carne da sacrificio che gli spettava. Tuttavia si trovano in quello che era allora il Turkestan cinese dei documenti con calcoli puramente in denaro, di cui si parlerà più avanti.
g1. Solo nel iv secolo a. C. le costruzioni in legno furono sostituite da quelle in pietra. Fino allora le residenze protette con palizzate cambiavano spesso e facilmente.
h1. Non molto ricco per la conoscenza del fenomeno urbano in Cina è il lavoro di L. Gaillard S. J. su Nanchino, «Var. Sinol.», 23 (Shanghai, 1903).
i1. Sull’enorme importanza delle gilde in Cina si parlerà più avanti. Verranno allora messe in luce anche le differenze fondamentali con l’Occidente. Il loro significato apparirà ancora più palese: si vedrà come il potere sociale delle gilde in Cina rispetto all’individuo e anche l’ambito della loro efficacia economica erano molto più grandi di quanto non lo siano mai stati in Occidente.
j1. Anche in Cina, naturalmente non tutti quelli che abitano in città avevano mantenuto un rapporto con il santuario degli antenati nel loro luogo d’origine.
k1. Nel pantheon ufficiale il dio universale della città era il dio della ricchezza.
l1. Sulla città cinese cfr. Eug. Simon, La cité chinoise (Paris, 1885), poco preciso.
m1. Infatti il funzionario onorario (designato in inglese col termine headborough, cfr. H. A. Giles, China and the Chinese, New York, 1912, p. 77) era responsabile innanzitutto della tranquillità del luogo di fronte al governo centrale; per il resto, sostanzialmente, aveva solo la funzione d’inoltrare petizioni e di occuparsi di certi atti notarili. Aveva un sigillo (di legno) ma non era considerato un funzionario ed era di rango inferiore all’ultimo mandarino del luogo. Nelle città non esistevano nemmeno particolari imposte municipali, ma solo contributi, prescritti dal governo, per le scuole, i poveri, l’acqua, ecc.
n1. Pechino era composta da 5 distretti amministrativi.
o1. Usati essenzialmente, a dir vero, per il traffico interno.
p1. Come in Egitto il faraone teneva in mano la frusta come segno del «governo», così pure l’ideogramma cinese che sta per «governo» (chetig) identifica questo con il maneggiare la sferza; nell’antica terminologia il concetto era identificato con il «regolamento delle acque» mentre al concetto di «legge» (fa) corrispondeva il «deflusso delle acque» (cfr. Plath, China vor 4000 Jahren, München, 1869, p. 125).
q1. Secondo la tradizione Shih Huang-ti, per esempio, avrebbe decretato il trasferimento congiunto delle 120.000 (?) più ricche famiglie del paese nella sua capitale. Di tale sinecismo di gente ricca a Pechino nel 1403 parla la cronaca dell’imperatore Ch’ien Lung della dinastia Ming (Yu tsiuan tung kian kang mu, trad. da Delamarre, Paris, 1865, p. 150).
r1. Cfr. in proposito un’opera recente: H. B. Morse, The Guilds of China, London, 1909. Nella letteratura meno recente: Macgowan, Chínese Guilds («J. of the N. China Br. of th è R. As. Soc.», 1888/9) e Hunter, Cantón before treaty days 1821–44, London, 1882.
s1. Ciò valeva in modo particolare per le gilde hui-kuan, che erano gilde di mercanti (e funzionari) provenienti da altre province (corrispondevano alle nostre «anse»). Erano sorte probabilmente sin dall’vm seco lo (comunque esistevano sicuramente nel xiv secolo) con lo scopo di proteggere i commercianti venuti da fuori dall’ostilità di quelli locali (come si legge nello statuto). Esercitavano di fatto la coercizione sulle adesioni (chi voleva occuparsi di commercio doveva aderire sotto pena di pericolo per la sua vita), possedevano circoli, prelevavano imposte basate sullo stipendio per i funzionari e sul giro d’affari per i commercianti, punivano qualsiasi ricorso in tribunale tra membri della gilda, si occupavano delle sepolture in uno speciale cimitero che sostituiva la terra natale, si assumevano i costi processuali in caso di vertenza con estranei, e provvedevano ai ricorsi all’amministrazione centrale (e naturalmente alla distribuzione delle mance necessarie) contro le autorità locali (così, per esempio, nel 1809 fecero le loro rimostranze contro il divieto locale di esportazione del riso). Oltre alle corporazioni di funzionari e commercianti di origine extra locale c’erano anche quelle di artigiani provenienti da fuori: fabbricanti di aghi provenienti dal Kiang-su e da Taichow a Wenchow; gilde di laminatori composte esclusivamente da gente di Ningpo sempre a Wenchow. Queste organizzazioni rappresentano i rudimenti di un’organizzazione industriale tribale. In tutti questi casi il potere assoluto della gilda era dato dalla posizione continuamente minacciata dei membri dell’ansa in un ambiente straniero; come avveniva per la disciplina rigida, ma comunque sempre molto meno rigorosa delle anse a Londra e Novgorod. Ma anche le gilde e le corporazioni di membri locali (kung so) esercitavano mediante l’espulsione, il boicottaggio ed il linciaggio un dominio quasi assoluto sui singoli membri (nel xix secolo un membro di una corporazione venne morso a morte per aver trasgredito le prescrizioni sul numero massimo degli apprendisti!).
t1. Per esempio attraverso la grande «gilda generale» di Newchwang.
u1. Ibid.
v1. Particolarmente diffuso presso le gilde hui kuan («anse»).
w1. La gilda dell’oppio di Wuchow decideva del momento di immissione dell’oppio sul mercato.
x1. Così le gilde di banchieri a Ningpo, Shanghai e altri luoghi stabilivano il tasso di interesse, le gilde del t è a Shanghai stabilivano le tariffe di deposito e di assicurazione.
y1. Così le gilde di droghieri a Wenchow.
z1. Le gilde di banchieri.
a2. Così le gilde dell’oppio, in seguito alla regolamentazione, cui si è accennato prima, della stagione di vendita.
b2. Anche se membri della stessa famiglia.
c2. La gilda dei laminatori di Ningpo a Wenchow proibiva ogni assunzione di membri locali nella corporazione e ogni insegnamento della propria arte ad essi. L’origine di ciò dalla divisione interetnica del lavoro, artigianale-tribale, appare qui particolarmente chiara.
d2. Al contrario il carattere assistenziale come quello religioso (culto comune) era molto meno sviluppato di quanto si potrebbe pensare rifacendosi alle analoghe strutture occidentali. Se le quote d’ammissione venivano talvolta versate ad un dio (casse del tempio) era sicuramente (in origine) per sottrarle all’intromissione del potere politico. Se un tempio serviva come luogo di riunione, lo era di norma solo per le corporazioni povere che non potevano allestire un proprio circolo. Gli spettacoli teatrali allestiti erano profani (non mysteria come in Occidente). Le confraternite religiose (hui) sviluppavano interessi religiosi di limitata intensità.
e2. Così nel caso citato di Ningpo, di cui vi sono numerosi paralleli.
f2. Così soprattutto per la gilda Ko-hung di Canton, le cui 13 ditte monopolizzavano, fino alla pace di Nanchino, tutto il commercio estero: si trattava di una delle poche gilde che si basavano su privilegi formali concessi dal governo.
g2. La regolamentazione dei corsi d’acqua si era già perfezionata all’epoca dello sviluppo della scrittura (e forse quest’ultimo era in relazione con l’amministrazione condizionata da quella tecnica). «Governare» (cheng) significa maneggiare il bastone, l’antica espressione per «legge» (fa) è in relazione con il far defluire le acque (Plath, China vor 4000 Jahren, München, 1869, p. 125).
h2. Proprio questo, come vedremo, era rinfacciato da Jahv è agli Israeliti.
i2. Presumibilmente (vedi più avanti) sotto la dinastia dei Chou il dio del cielo personalizzato, accanto al quale stavano i «6 venerandi» sarebbe stato sostituito nel culto dall’espressione impersonale «cielo e terra» (così pure secondo Legge, Shu ching, Proleg., p. 193 segg.). Lo spirito dell’imperatore e quello dei suoi vassalli andavano in cielo se avevano tenuto una buona condotta (e dal cielo potevano anche apparire a scopo ammonitore, Legge, p. 238). Un inferno non esisteva.
j2. Quanto incerto fosse questo sviluppo lo dimostra ad esempio un’iscrizione di maledizioni rivolte nell’anno 312 dal re di Chin al re nemico di Ch’u perché quest’ultimo avrebbe «offeso le regole del decoro» e rotto un patto. Come testimoni e vindici vengono invocati, l’uno accanto all’altro: 1. il Cielo; 2. il «Signore di Lassù» (ossia un dio celeste personificato); 3. lo spirito di un fiume (presso il quale probabilmente era stato concluso il patto).
Cfr. l’iscrizione in App. III, vol. II dell’edizione di Ssu-ma Chien pubblicata da Chavannes. Cfr. anche Chavannes, «Journal Asiatique», maggio-giugno 1893, p. 473 e segg.
k2. Per una migliore comprensione cfr. l’ultima dissertazione (a Leipzig) di M. Quistorp (allievo di Conrady): Männergesellschaft und Altersklassen im alten China (1913). Se, come suppone Conrady, il totemismo sia sempre prevalso in Cina, è un problema su cui solo uno specialista può pronunciarsi.
l2. Quistorp, op. cit., ne trova dei residui in certi mitologemi presenti in forma rudimentale in Lao-tzu.
m2. Di conseguenza, come O. Franke sottolinea con insistenza, il dominio manciù non era percepito come «dominio straniero». Tuttavia aveva bisogno in certi periodi di contenere le spinte rivoluzionarie: i proclami dei T’ai-p’ing ne sono una testimonianza vivente.
n2. Col nome di «genio della terra» venne definito Hou-tu, uno dei sei ministri dell’imperatore Huang-ti. Cfr. nota 215, p. LII del Schih Luh Kuoh Kiang Yuh Tashi (Histoire géographique des XVI royau- mes), Paris 1891, pubblicata, tradotta e annotata da Michels. In base a ciò, già allora poteva difficilmente esistere un culto ctonio, poiché un tale titolo sarebbe stato considerato blasfemo.
o2. Infatti in ciò, in questa fusione, sta evidentemente la fonte «universismo» della concezione del tao la quale (in modo essenzialmente più spirituale dei concetti che a Babilonia venivano tratti dall’esame delle viscere degli animali, o anche delle concezioni «metafisiche» dell’antico Egitto) è stata quindi elaborata in un sistema cosmico delle «corrispondenze». Ogni maggiore precisione suH’interpretazione filosofica - per la parte che ci interesserà ancora nel capitolo VII - va cercata nel bel volume di de Groot sull’«universismo», già citato (il cui approccio, puramente sistematico, non discute la questione dell’origine). è chiaro tuttavia che l’interpretazione cronomantica della stesura del calendario, come pure il calendario stesso e l’assoluta stereotipizzazione del rituale, nonché la filosofia razionale del tao, che deriva dalla mistica di cui si parlerà più avanti ed è connessa a questi due fenomeni, erano solo elementi secondari. Il più antico calendario (hsia hsiao ching, «piccolo regolatore») non sembra affatto gravato da questi teologumeni il cui sviluppo è subentrato chiaramente soltanto dopo la riforma del calendario di Shih Huang-ti. Più tardi il governo, mentre da un lato reprimeva severamente ogni fabbricazione abusiva di calendari da parte dei privati, dall’altra ha prodotto il libro fondiario cronomantico Shih hsien shu, libro popolare più volte ristampato in tiratura massiccia, che fornisce la materia ai «maestri dei giorni» (cronomanti professionisti). L’antichissima autorità in materia di calendario dei La shih («alti scrittori») è stata storicamente all’origine sia dei magistrati astronomi (del calendario) che dei magistrati astrologhi (dei portento), come pure degli annali di corte, elaborati in modo puramente esemplare e paradigmatico, e la cui stesura in origine era affidata alla stessa persona che compilava gli almanacchi. Cfr. più avanti.
p2. Per quanto segue, cfr. specialmente de Groot, Rei. of the Ch., in particolare pp. 33 e segg., 35 e segg.
q2. Con tale motivazione sorgeva ogni tanto un’opposizione contro le favorite (concubine) deH’imperatore divenute troppo potenti: il dominio delle donne significava la prevalenza dello yin sullo yang.
r2. Nel culto dello stato (cfr. il saggio molto chiaro e preciso nelYUnwersismus di de Groot) apparivano, accanto ai tre culti principali: i. del «Cielo», che tuttavia (secondo de Groot) nelle grandi cerimonie sacrificali figurava come prìmus inter pares tra gli spiriti degli antenati delPimperatore; 2. della terra (l’«imperatrice Terra»); 3. degli antenati dell’imperatore - anche i seguenti culti: 4. del She Chi: spirito protettore del suolo e dei frutti dei campi; 5. del sole e della luna; 6. del Shen-nung, archegeta dell’arte agricola; 7. dell’archegeta (femminile) della sericoltura (sacrificante l’imperatrice); 8. dei maggiori imperatori (dal 1722: di tutti) delle dinastie precedenti (eccetto quelli morti per morte violenta o rovesciati da rivolte coronate da successo, segni di mancanza di carisma); 9. di Confucio e alcuni corifei della sua scuola. Tutti questi (in principio) ricevevano un culto dall’imperatore in persona. A questi poi si aggiungevano: io. gli dèi della pioggia e del vento (T’ien sherì) e gli dèi della montagna, dei mari e dei fiumi (Ti Ké)k 11. Giove come dio del calendario (spirito del grande anno detto anno di Giove); 12. l’archegeto della medicina insieme al dio della primavera (forse un sintomo di un passato rituale orgiastico ctonio come fonte di una terapeutica magica); 13. il dio della guerra (il generale canonizzato Kuan-ti, ii-in secolo d. C.); 14. il dio degli studi classici (dio protettore contro l’eresia); 15. lo spirito del Polo Nord (canonizzato nel 1651); 16.ildio del fuoco Huo Shen; 17. gli dèi dei cannoni; 18. gli dèi delle fortezze; 19. «la Sacra Montagna dell’ Oriente»; 20. gli dèi-draghi e gli dèi delle acque; o gli dèi delle costruzioni, delle fornaci e dei granai; 21. i funzionari provinciali canonizzati. Questi (normalmente) dovevano essere tutti serviti da coloro che ricoprivano gli incarichi pertinenti. Si può vedere come in definitiva era quasi tutta l’organizzazione formale dello stato con i suoi spiriti ad essere canonizzata. Ma i maggiori sacrifici venivano offerti evidentemente a spiriti impersonali.
s2. La «Peking Gazette» brulica di proposte da parte dei funzionari per tali canonizzazioni che erano analoghe alla corrispondente procedura cattolica, anche per il fatto che l’avanzamento era graduale e ogni stadio faceva seguito alla prova di ulteriori miracoli. Così nel 1873 in seguito al rapporto del governatore in carica sul comportamento di un presiditig spirit of th è Yellow River in occasione dell’incombere di un’inondazione, venne ratificata la sua ammissione al culto, ma fu lasciata in sospeso la proposta di conferimento del titolo onorifico finché un rapporto riferisse se lo spirito si era guadagnato ulteriori meriti. Quando nel 1874 («Peking Gazette» del 17 dicembre) fu riferito che la presenza della sua immagine aveva fermato un ulteriore rigurgito dei flutti minacciosi, lo spirito in questione ottenne il corrispondente titolo. Il 13 luglio 1874 («Peking Gazette» d.D.) venne proposto il riconoscimento dei poteri magici di un tempio del dio-drago nell’Honan. Il 23 maggio 1878 venne approvato il nuovo titolo dello «spirito-drago» («Peking Gazette» d.D.). Ancora per esempio nel 1883 («Peking Gazette», 26 aprile) i funzionari competenti proposero di concedere una elevazione di rango ad un mandarino del territorio fluviale, morto e già canonizzato, in quanto il suo spirito sarebbe stato visto planare sulle acque e adoprarsi al loro acchetamento in un momento di sommo pericolo. Analoghe proposte da parte di funzionari molto noti in Europa si riscontrano molto spesso (Li Hung-chang, «Peking Gazette», 2 dicembre 1878 et al.). Il 31 novembre 1883 un censore, nel ruolo di advocatus diaboli, protestò contro la canonizzazione di un mandarino in quanto la sua amministrazione non sarebbe stata eccelsa («Peking Gazette» d.D.).
t2. Una rigorosa separazione tra ciò che era «magico» e ciò che non lo era è del tutto impossibile per quanto riguarda il mondo delle rappresentazioni preanimistiche ed animistiche. Anche l’aratura e ogni attività quotidiana volta ad un risultato era un «incantesimo» nel senso del ricorso a specifiche «forze» e - più tardi - a specifici «spiriti». Si può fare qui solo una distinzione sociologica: il possesso di qualità fuori dal normale distingueva lo stato di estasi dallo stato quotidiano ed il mago professionista dagli uomini normali. Il «fuori dal mondo» si mutava quindi, razionalisticamente, in «soprannaturale». L’artista artigiano che preparava i paramenti per il tempio di Jahv è era posseduto dalla forza che lo abilitava a compiere la sua attività.
u2. Tuttavia tali vicende non si spiegano solo con questo fenomeno. Altrimenti lo stesso sviluppo si sarebbe dovuto verificare in Mesopotamia. Bisogna accontentarsi di questa spiegazione (come già G. Jellinek ha occasionalmente osservato): questo sviluppo d’importanza fondamentale dei rapporti tra imperium e sacerdotium riposa spesso su vicende «fortuite», per noi dimenticate.
v2. La mancanza di pioggia (o di neve) provocava quindi delle agitatissime discussioni e proposte nell’ambito della corte e dei funzionari rituali, e la «Peking Gazette» in questi casi brulicava di suggerimenti per l’adozione di rimedi magici. Così per esempio nel corso della pericolosa siccità del 1878 (cfr. in particolare la «Peking Gazette» dell’II e del 24 giugno 1878). Lo ya-men (comitato) degli astronomi di stato, riferendosi alle classiche autorità astrologiche, diede indicazioni sulla colorazione del sole e della luna. Dopodiché la relazione di un membro dell’accademia Han-lin, richiamando l’attenzione sulle inquietudini provocate da questa perizia, chiese che i risultati del consulto venissero sì resi di pubblico dominio, ma che l’imperatore ancora minorenne venisse protetto dalle chiacchiere di eunuchi sui cattivi presagi e il palazzo venisse custodito; inoltre le imperatrici reggenti potevano continuare ad adempiere i loro compiti tradizionali, ché la pioggia non sarebbe mancata. Questa relazione venne pubblicata con dichiarazioni rassicuranti circa il tipo di vita condotta dalle grandi dame e con il richiamo d’attenzione sulla pioggia che nel frattempo era già arrivata.
Nel corso dello stesso anno una «fanciulla-angelo» (un’anacoreta morta nel 1469) era stata precedentemente proposta per la canonizzazione («Peking Gazette», 14 gennaio 1878) per i grandi aiuti prestati nel corso di una carestia e molte promozioni analoghe erano state progettate.
w2. Questa proposizione fondamentale dell’ortodossia confuciana viene continuamente sottolineata in numerosi editti imperiali nonché nelle perizie e nelle proposte dell’accademia Han-lin. Così, nel parere del «professore» dell’Han-lin, citato nella nota precedente e che verrà ripreso ancora varie volte più avanti, si legge: «It is th è practice of virtue alone that can influence th è power of Heaven…» (cfr. anche la nota seguente).
x2. Tschepe, op. cit., p. 53.
y2. Nel 1899 («Peking Gazette» del 6 ottobre) si trova un decreto dell’imperatore (posto dal colpo di stato sotto la tutela dell’imperatrice vedova), nel quale egli deplora i suoi peccati come motivo probabile di una sopravvenuta siccità e aggiunge soltanto che anche i principi ed i ministri, attraverso una condotta di vita scorretta, hanno avuto la loro parte di colpa in ciò.
Nella stessa situazione, nel 1877, le due imperatrici reggenti promisero di conformarsi all’esortazione di un censore di perseverare nella loro «reverential attitude», poiché questo loro comportamento aveva già contribuito ad allontanare la siccità.
z2. Cfr. nota precedente, in ultimo. Quando nel 1894 un censore criticò come sconveniente l’ingerenza dell’imperatrice vedova negli affari di stato (cfr. la relazione nella «Peking Gazette» del 28 dicembre 1894), venne sì deposto ed esiliato a lavorare nelle strade postali della Mongolia, ma non perché tale critica in sé fosse illegittima, ma perché si basava «solo sul sentito dire» e non su prove. Nel 1882, le intenzioni di questa donna energica erano state comprese meglio da quel membro dell’accademia che («Peking Gazette», 19 agosto 1882) espresse il desiderio che l’imperatrice madre potesse occuparsi anche di più degli affari di governo, in quanto l’imperatore era ancora giovane e delicato; lavorare per membri della dinastia era la cosa migliore e si doveva incominciare a criticare le persone che circondavano l’imperatrice e non il suo governo.
a3. Del resto queste teorie sulla responsabilità del monarca si opponevano ad altre, che consideravano illegittima la «vendetta» contro l’imperatore (vi secolo a. C.) e promettevano le più gravi disgrazie (magiche) a chiunque toccasse una testa coronata (E. H. Parker, Ancient China sim- plified, London 1908, p. 308). In realtà poi sia questa teoria che tutta la posizione dell’imperatore, a carattere prevalentemente pontificio, non è sempre stata immutabile. Il caso di un imperatore proclamato tale solo da un esercito si riscontra, come monarca legittimo, solo una volta, per quanto ne sappiamo. Ma l’acclamazione delle «cento famiglie», e cio è dei grandi feudatari, in origine era senza dubbio, accanto alla designazione, una condizione legale per la successione al trono.
b3. Tutta questa concezione carismatica del principe è penetrata dappertutto dove la cultura cinese ha preso piede in qualche periodo. Dopo che il principe Nan-chao ebbe rigettato il dominio cinese, si dice di lui in un’iscrizione pubblicata da Chavannes («Journ. As.», 9 Ser. 16, 1900, p. 435), che il re possiede «una forza che porta in sé l’equilibrio e l’armonia» (preso dal Chung-yung), ha la capacità di «coprire e nutrire» (come il cielo). Come segni della sua virtù vengono citate «opere meritevoli» (alleanza con il Tibet). Seguendo il modello dell’imperatore cinese, aveva cercato le «vecchie famiglie» e si era circondato di loro (p. 443), fatto che si può rapportare allo Shu-ching.
c3. Cfr. la penultima nota. Più avanti si dirà come i mandarini erano considerati portatori di forze magiche.
1. «Stati combattenti» è il termine con cui si indica il periodo che va dal 450 al 221 a. C., caratterizzato da lotte feroci tra gli stati rimasti indipendenti dall’impero feudale dei Chou.
2. Wang Mang, 33 a. C. - 23 d. C., noto come «l’Usurpatore», nipote della consorte dell’imperatore Yüan Ti della dinastia Han, fu sospettato di aver avvelenato l’imperatore P’ing Ti prendendone in seguito il posto. Fu ucciso nel corso di una rivolta delle proprie truppe.
3. Shih Huang-ti, ovvero il «Primo Imperatore», salì al trono del regno di Ch’in nel 246 a. C. Dopo numerose guerre con gli altri stati diventò nel 221 a. C. sovrano di fatto dell’intera Cina. è ricordato come un gran riformatore (pesi e misure, strade, ecc.), nonché come il costruttore della Grande Muraglia; ma anche come l’autore del rogo dei libri e del massacro dei letterati.
4. Wu-ti (o Wu) imperatore della dinastia Han anteriore, salito al trono nel 141 a. C. Autore di grandi conquiste, è noto per la sua dedizione alla magia taostica.
5. Edouard-Constant Biot, 1803–1850, sinologo francese, autore di numerosi articoli e saggi.
6. Il «periodo Han» prende il nome dalla dinastìa Han fondata nel 206 a. C. da Liu Pang, dopo alcuni anni di lotta contro il secondo imperatore Ch’in, e durata 231 anni (Han occidentali o anteriori). La dinastia prosegue, dopo la sconfitta dell’usurpatore Wang Mang, sotto il nome di Han posteriori o orientali (25–214 d. C.). La dinastia Han è in pratica la prima dinastia nazionale cinese. Durò in tutto oltre 400 anni e fu un periodo di grandi glorie.
7. Chou-li o «Riti dei Chou», antica opera che si fa risalire agli inizi del periodo Chou (1122 a. C.); riporta le funzioni ufficiali di tutti i dignitari della corte Chou. è stata tradotta in francese da E. Biot.
8. Ma Tuan-lin: figlio di un funzionario, e quindi tale lui stesso, nato nello Shansi nel xm secolo. Ritiratosi a vita privata alla caduta della dinastia Sung, si dedicò all’insegnamento. è famoso come autore del Wén hsien t’ung k’aoy una poderosa enciclopedia d’informazione generale.
9. Ch’u, uno degli «stati combattenti» del periodo feudale.
10. Ching Ti, imperatore degli Han occidentali salito al trono nel 156 a. C.
11. Wen-ti, imperatore della dinastia Han anteriore, salito al trono nel 179 a. C. Grande protettore della letteratura, è anche noto per le modifiche apportate al sistema penale.
12. Yuan-ti, imperatore della dinastia Han anteriore.
13. Qublai Khan, 1215–1294, nipote di Gengis Khan, completò la conquista delle province cinesi (caduta dell’impero Sung) e stabilì il titolo Yuan per la sua dinastia. Ardente buddhista, tollerava tutte le religioni eccetto il taoismo. Marco Polo raggiunse la sua corte nel 1274.
14. Ming, dinastia cinese, 1368–1644, fondata da un monaco buddhista. Sotto di essa si sviluppò il commercio con gli Europei; fiorirono la letteratura e l’arte (porcellana).
15. Manciù, nome di un clan tartaro, vivente nell’attuale Manciuria, che nel 1644 conquistò Pechino, sconfisse l’ultimo imperatore Ming.
16. T’ai-P’ing, setta religiosa cinese, capeggiata da Hsiung Hsin Chùen, un mistico visionario, si ribellò nel 1850 contro la dinastia regnante. La rivolta non fu domata fino al 1864; investì undici province e causò milioni di vittime.
17. Mir, termine russo che indica una forma di organizzazione sociale e politica autonoma, propria alla Russia antica ma giunta sino all’epoca moderna. Era in origine un’associazione di famiglie sotto un solo capo, fondata sulla proprietà comune della terra.
18. distene, legislatore ateniese, nato nel 565 a. C. Mise in atto una riforma (508 a. C.) che avviò Atene a un’effettiva democrazia spezzando il predominio delle consorterie gentilizie.
19. Chou, terza dinastia cinese, 1122–255 a. C., la più lunga e una delle più importanti. Alla seconda metà del periodo Chou appartengono i tre grandi saggi della Cina: Lao-tzu, Confucio e Mencio.
20. Wang Chung, 27–97, filosofo cinese «eterodosso», derideva le superstizioni correnti della sua epoca, negava l’immortalità dell’anima e criticava non solo l’insegnamento ma anche quello di Confucio e di Mencio.
21. Chu Fu-tzu, 1130–1200, famoso commentatore dei classici confuciani. Le sue opere sono state per secoli il metro dell’ortodossia. Modificò notevolmente l’insegnamento confuciano più antico.
22. K’ang-hsi, 1655–1723, secondo sovrano della dinastia Ch’ing. Pacificò l’impero, attuò grandi riforme per il benessere dei sudditi e la prosperità del regno, protesse la letteratura. Grande studioso e libero pensatore, lasciò varie traduzioni dal cinese in tartaro. Sotto il suo regno fu compilato tra l’altro il famoso lessico dei segni della lingua cinese che porta il suo nome.
23. In tedesco Hausmeier direttore della corte e dei demani reali e spesso reggente per un re minorenne (nel Medioevo, presso i Franchi, i Burgundi, gli Ostrogoti). Analogo al francese maire du palais.
24. Ssu-ma Ch’ien, 154 a. C. - 86/74 a. C. circa, importante storico cinese del periodo Han, autore di una delle maggiori «storie dinastiche» cinesi, lo Shih-chi (Memorie di storici), storia dinastica universale che rappresenta un’importante novità storiografica.