CAPITOLO II

BASI SOCIOLOGICHE: B) LO STATO FEUDALE
E PREBENDARIO

I. Il carattere carismatico-eredìtario del feudalesimo.

Da quanto ci risulta, il regime politico feudale in Cina non era collegato in modo primario alla proprietà terriera (in senso occidentale) come tale. Come in India, invece, ambedue erano sorti dallo «stato delle famiglie», dopo che le schiatte dei capi si erano sottratte agli antichi vincoli della «casa degli uomini» e dei suoi derivati. Secondo una notizia storica, era la schiatta, in origine, che forniva i carri da guerra ed era anche l’elemento portante dell’antica articolazione per ceti. La prima costituzione politica vera e propria che, al vaglio delle notizie storiche sicure, appare in qualche modo dettagliata chiaramente, altro non era se non il proseguimento lineare e graduale di quella struttura amministrativa presente in origine in tutti gli stati di conquista, propria ancora dei grandi stati negri del xix secolo. Al Celeste Impero («Impero Centrale»), cioè il territorio «interno», intorno alla sede del re, amministrato direttamente dal signore vincitore sotto forma di potere domestico, attraverso i suoi funzionari (clienti personali e ministeriali), venivano annessi in misura crescente dei territori «esterni», governati da principi tributari; l’imperatore, cioè il signore del Celeste Impero, interveniva nell’amministrazione di questi ultimi solo nella misura necessaria al mantenimento del suo potere e degli interessi fiscali ad esso collegati, e nella misura in cui era in grado di farlo. Quindi, naturalmente, a misura che si allontanava dal territorio del potere domestico, scemava la costanza e l’intensità dell’intervento. I problemi politici di allora: se i signori dei territori esterni potevano, nella pratica, essere deposti, e se costituivano delle dinastie ereditarie; in che misura il diritto di ricorso dei loro sudditi presso l’imperatore, riconosciuto nella teoria del Chou-li, era operativo e portava ad interventi dell’amministrazione imperiale; se i funzionari che stavano accanto o sotto di loro dovevano essere nominati e rimossi dai funzionari dell’imperatore, come voleva la teoria, e se in pratica dipendevano da loro; se quindi l’amministrazione centrale dei tre grandi e dei tre piccoli consigli (kung e ku) poteva in pratica scavalcare il potere domestico; se il potenziale militare degli stati esterni era in pratica a disposizione del signore feudale, erano problemi risolti in modo alquanto instabile.

La feudalizzazione politica sviluppatasi da questo stato di cose prese qui la stessa direzione che ritroveremo in India portata alle sue estreme e più coerenti conseguenze. Solo le schiatte di chi deteneva già un potere politico di comando, ed il loro seguitò, ed in primo luogo la stessa famiglia imperiale potevano rivendicare ed ottenere le posizioni subordinate che andavano dai principi tributari ai funzionari provinciali o di corte. Lo stesso valeva per le famiglie di quei principi che si erano tempestivamente sottomessi all’imperatore ed avevano conservato in tutto o in parte il possesso dei loro dominia. Ed infine per le famiglie di tutti coloro che si erano mostrati degli eroi o degli uomini fidati. In ogni caso il carisma da molto tempo non era più strettamente collegato ad un singolo individuo ma - seguendo un modello che vedremo più da vicino nell’esame delle condizioni indiane - alla sua schiatta. Non era il possesso di un feudo ottenuto attraverso la libera commissione del vassallaggio e dell’investitura che creava il ceto, ma al contrario - perlomeno in linea di principio - era l’appartenenza ad un nobile casato che rendeva la persona, in base al rango della famiglia, qualificata per un determinato ufficio. Nel Medioevo feudale cinese troviamo posti di ministro e anche determinati posti di ambasciatore tenuti stabilmente da determinate famiglie; anche Confucio era aristocratico perché proveniva da una famiglia di nobili. Le «grandi famiglie» che appaiono anche nelle iscrizioni di epoche posteriori erano queste casate carismatiche che sostenevano la loro posizione prevalentemente su basi economiche, con redditi di origine politica ed anche con possessi fondiari tramandati in blocco ereditariamente.

Il contrasto con l’Occidente, naturalmente, sotto molti punti di vista era solo relativo; tuttavia la sua importanza non era trascurabile. In Occidente l’ereditarietà del feudo è stata solo il prodotto di uno sviluppo successivo. Tanto le distinzioni di status tra detentori di feudi, che sussistevano a seconda che questi avessero conservato o meno un potere giudiziario, quanto le distinzioni dei beneficia, che dipendevano dai servizi resi, quanto infine le distinzioni di status tra il ceto cavalleresco e gli altri - tra i quali ultimo quello del patriziato urbano - sono venute ad esplicarsi in seno ad una società già fortemente stratificata attraverso l’appropriazione del suolo e (in ampia misura) di tutte le possibili occasioni di guadagno commerciale. I rapporti esistenti in Cina corrisponderebbero piuttosto alla posizione carismatica ereditaria dei «dinasti» (in molti casi ancora alquanto ipotetici) nell’alto Medioevo tedesco. Ma nel nucleo territoriale del feudalesimo occidentale, a causa dello sconvolgimento portato nel tradizionale ordine di rango dalle conquiste e le migrazioni, la rigida struttura sociale per casate si era evidentemente molto allentata, e le necessità belliche costringevano imperiosamente ad assumere, nell’ordine cavalleresco, ogni uomo valente e militarmente addestrato, ad ammettere, quindi, alla dignità cavalleresca ogni persona facente vita da cavaliere. Solo l’ulteriore sviluppo portò in seguito al carisma ereditario e infine alla «prova dei quarti».

In Cina, al contrario, il carisma ereditario della schiatta - in epoca per noi accessibile - era sempre l’elemento primario (perlomeno in teoriab, perché in realtà ci sono sempre stati degli arrivisti di successo). Quello che contava non era (come più tardi in Occidente) l’ereditarietà del feudo concreto - che era considerato piuttosto un grossolano abuso - ma il diritto conferito dal rango ereditario del casato ad un feudo di determinato rango. La voce secondo cui la dinastia dei Chou avrebbe «regolato» i cinque gradi di nobiltà e poi introdotto il principio dell’assegnazione dei feudi in base al rango di nobiltà, senza dubbio è solo una leggenda; è credibile invece che i grandi vassalli di allora (chou-hou, i «principi») venissero scelti solo tra i discendenti degli antichi signoric. Ciò corrispondeva alle condizioni primitive del Giappone e costituiva lo «stato delle famiglie». Quando i Wei1 (dopo la caduta della dinastia Han) trasferirono la loro capitale a Lo-yang, portarono con sé, secondo gli annali, l’«aristocrazia». Questa era costituita dal loro proprio casato e da antiche schiatte ereditariamente carismatiche. Si trattava, naturalmente, in origine, delle famiglie di capi-tribù. A queste però si aggiunsero presto i discendenti dei detentori di uffici e prebende burocratiche. Questi ora condividevano - già allora ! - il «rango» (e, in corrispondenza, la pretesa alle prebende) conforme aH’ufficio che uno degli antenati della famiglia aveva occupato (è lo stesso principio della nobiltà romana e del méstnichestvo2 russo)d. Proprio come nel periodo degli stati combattenti, i più alti uffici si trovavano solidamente in mano a determinate schiatte (di alto rango carismatico ereditario)e.

La nascita di un’autentica «nobiltà di corte» apparve solo all’epoca di Shih Huang-ti (dal 221 a. C. in poi) contemporaneamente alla caduta del feudalesimo: solo allora si parla per la prima volta negli annali del conferimento di un rangof. E poiché nello stesso tempo le necessità finanziarie costringevano per la prima volta alla cessione degli uffici - ossia alla scelta dei funzionari in base alle loro risorse economiche - il carisma ereditario decadde, malgrado una conservazione di principio delle differenze di rango. Ancora nel 1399 S1 trova menzionata la degradazione a «plebeo» (min)g, indubbiamente per esprimere dei rapporti molto diversi, e in tutt’altro sensoh. Nel periodo feudale ai diversi gradi di rango carismatico ereditario corrispondeva un ordine dei feudi, che dopo la rimozione dell’infeudamento ed il passaggio all’amministrazione burocratica fu sostituito da un ordine delle prebende, che presto si trovarono rigorosamente classificate - sotto i Chin3 e, seguendo il loro modello, gli Han - in 16 classi di rendite in denaro e in riso rigorosamente graduatei. Ciò implicava già di per sé l’eliminazione completa del feudalesimo. Tale transizione portò ad una nuova situazionea in cui gli uffici erano divisi secondo il rango in due distinte categorie: kuan nei hou, cioè prebende fondiarie, e lieh-hou, prebende in rendite assegnate sui tributi di determinate località. Le prime erano i successori degli antichi feudi dell’epoca feudale vera e propria. Tali prebende naturalmente comportavano in pratica dei diritti signorili molto più estesi sui contadini. Continuarono ad esistere fintantoché l’esercito dei cavalieri non fu sostituito dall’esercito del principe e più tardi da quello imperiale, reclutato tra i contadini e ben disciplinato.

Esisteva anche, in larga misura, una somiglianza esterna dell’antico feudalesimo con quello occidentale, malgrado le differenze interne. In particolare gli individui inadatti (economicamente o militarmente) al servizio militare erano naturalmente privi da sempre di ogni diritto politico, in Cina come ovunque. E ciò si verificava sicuramente già prima dell’epoca feudale. Se, come si suppone, nel periodo Chou il principe consultava il «popolo» sulle questioni di guerre e di pene capitali, per popolo s’intendevano le famiglie atte alla guerra, e la situazione era quella che si ritrova ovunque esista un potere giurisdizionale dell’esercito. Presumibilmente con l’avvento dei carri da guerra l’antica struttura dell’esercito si sfasciò o divenne obsoleta e nacque dapprima il feudalesimo carismatico ereditario che poi si estese agli uffici politici. Il più antico documento sull’organizzazione amministrativa, il già citato Chou-lij mostra già una compagine statale fortemente strutturata e schematizzatak, diretta in modo molto razionale dai funzionari, ma che tuttavia si basa sempre suH’irrigazione controllata dalla burocrazia,che controlla anche le culture speciali (seta), le liste di reclutamento, le statistiche, i magazzini. La realtà di questo stato doveva in verità apparire molto problematica, poiché questa razionalizzazione dell’amministrazione si presentava per un altro aspetto, secondo gli annali, come un mero prodotto della concorrenza degli stati combattenti feudalil. Tuttavia si potrebbe credere che il periodo feudale sia stato preceduto da un’epoca patriarcale del tipo dell’«Antico Regno» in Egittom. Infatti qui come là non sono possibili dubbi circa le origini molto remote della burocrazia dell’acqua e delle costruzioni, sviluppatasi dalla clientela del re. L’esistenza di questa burocrazia attenuò sin dall’inizio il carattere feudale del periodo degli stati combattenti e - come vedremo - ricondusse sempre l’attività intellettuale del ceto letterato sui binari del burocratismo tecnico-amministrativo e utilitario. Ma in ogni caso per più di mezzo millennio ha regnato il feudalesimo politico.

Un periodo di stati feudali praticamente indipendenti colma l’arco di tempo dal IX al III secolo a. C. Circa le condizioni di quest’epoca, cui si è già brevemente accennato, gli annalindanno un’immagine nel complesso abbastanza chiara. L’imperatore era il signore feudale supremo; davanti a lui i vassalli scendevano dal carro; qualunque titolo di possesso politico «legittimo» poteva farsi risalire in ultima analisi solo ad una sua concessione. Riceveva dai principi vassalli dei doni; essendo questi a carattere spontaneo l’imperatore, man mano che aumentava la sua impotenza, veniva a trovarsi in una situazione di penosa dipendenza. Conferiva il rango principesco secondo una certa gradazione. I vassalli inferiori non avevano alcun rapporto diretto con luio. La nascita del feudo dalla consegna di un castello prima affidato in custodia e poi concesso come feudo viene riferita più volte (così per la nascita dello stato feudale di Chin). In teoria, in caso di eredità, andavarichiesto il rinnovo del feudo, e al re spettava il diritto di conferirlo dopo aver valutato gli eredi qualificati; tuttavia in caso di conflitto tra l’opinione del padre e quella del re sulla persona dell’erede era, secondo gli annali, il re che cedeva. Le dimensioni dei feudi nobiliari variavano molto. Negli annali si trovap la notizia

che feudi dai 10.000 ai 50.000 mou (pari l’uno a 5,26 are, quindi dai 526 ai 2630 ettari) dovevano abbracciare dai 100 ai 500 uomini. In altri luoghi viene considerata normale la disposizione di un carro da guerra per 1000 uominiq; secondo altri (594 a. C.) 4 unità di centri abitati (di grandezza non determinata)r erano calcolate pari a 144 guerrieri; altri ancora (più tardi) calcolano determinati tributi in carri da guerra, unità corazzate, cavalli e provvigioni (bestiame) su determinate unitàs, più tardi in genere molto grandi. Tutto il successivo modo di ripartizione delle imposte, delle corvées e del reclutamento si ricollega chiaramente a queste tradizioni dell’epoca feudale; anche queste prestazioni, nei tempi andati, derivavano dalla messa a disposizione di carri e cavalieri e più tardi di reclute per l’esercito, dalle prestazioni di corvées e dalle forniture prima in natura, poi in denaro: lo si vedrà più avanti.

Esisteva il feudo totale, ossia l’eredità comune4 sotto la guida del figlio maggioret. Anche nella casa imperiale il diritto di primogenitura coesisteva con la designazione del successore, tra i figli ed i parenti, da parte del signore o dei più alti funzionari. Talvolta i vassalli prendevano l’esclusione del figlio maggiore o del figlio della moglie principale a favore di un figlio più giovane o del figlio di una concubina come occasione di ribellione contro l’imperatore. Più tardi e fino all’ultimo periodo della monarchia prevalse, per motivi rituali connessi con il sacrificio agli antenati, la regola secondo la quale il successore doveva venir scelto nella generazione di un grado più giovane rispetto al signore defuntou. Dal punto di vista politico i diritti del signore feudale supremo si erano ridotti quasi a nulla. Ciò era la conseguenza del fatto che solo i vassalli di frontiera, i margravi, facevano la guerra e costituivano delle potenze militari mentre l’imperatore - proprio per questo - diventava sempre più un gerarca pacifista.

L’imperatore era sommo pontefice con privilegi rituali: il diritto di offrire i più alti sacrifici gli era riservato. Una guerra mossa contro di lui da parte di un vassallo era considerata in teoria ritualmente riprovevole e apportatrice di nocivi eventi magici, il che non impediva che in determinati casi tale guerra venisse intrapresa. Come nell’impero romano il vescovo di Roma rivendicava la presidenza dei concili, così l’imperatore dal canto suo rivendicava per sé e per i suoi delegati la presidenza delle assemblee dei principi che, stando alle menzioni negli annali, devono essere avvenute più volte. Tuttavia nel periodo del potere del maestro di palazzo (protettore), alcuni grandi vassalli non tennero conto di tale rivendicazione (il che, agli occhi della teoria letteraria, era senza dubbio un’offesa rituale). Tali concili di principi avvenivano spesso: uno di questi, per esempio, nel 650 a. C., condannò la spoliazione del vero erede, l’ereditarietà degli uffici, l’accumulazione delle cariche, la pena di morte per gli alti funzionari, la politica «degli imbrogli», le limitazioni poste alla vendita dei cereali, e si pronunciò per la devozione, la venerazione degli antenati e il rispetto per il talento.

Non è in queste assemblee occasionali di principi, ma nella «unità culturale» che l’unione dell’impero ebbe la sua espressione pratica. E come nel Medioevo occidentale anche qui quell’unità culturale era rappresentata da tre elementi: 1. l’unità del costume cavalleresco; 2. l’unità religiosa, che significa l’unità rituale; 3. l’unità della classe letterata. L’unità rituale e l’unità di ceto dei vassalli cavalieri combattenti sui carri, dei detentori di castelli feudali, si manifestava in forme analoghe a quelle occidentali. Come laggiù «barbaro» e «pagano» erano identici, così in Cina il tratto distintivo del barbaro o semi-barbaro era innanzitutto la scorrettezza rituale; perché offriva i sacrifici in modo errato, il principe di Chin fu considerato per lungo tempo un semi-barbaro. Una guerra mossa ad un principe ritualmente scorretto era considerata opera meritoria. Anche più tardi ciascuna delle numerose dinastie di conquistatori tartari in Cina venne considerata come «legittima» dai portatori della tradizione rituale non appena si fu adattata in maniera corretta alle regole rituali (e con queste al potere della casta dei letterati). Di origine in parte rituale, in parte propria dei ceti cavallereschi, erano anche quelle rivendicazioni di «diritto internazionale» che la teoria, perlomeno, come espressione deirunità culturale, opponeva alla condotta dei principi. Si riscontra il tentativo di fissare delle leggi di tregua alle lotte tra principi. Secondo la teoria era ritualmente scorretto muovere guerra ad un principe vicino in lutto o in situazione di necessità, in particolare se minacciato dalla carestia; in questi casi la teoria sanciva il dovere della solidarietà fraterna come opera gradita agli spiriti. Chi causava del male al proprio signore feudale o lo affrontava con le armi per una causa ingiusta non meritava un posto in cielo e nel tempio degli antenatia. La comunicazione dell’ora e del luogo della battaglia faceva parte dell’usanza cavalleresca. Il combattimento doveva essere portato a termine in qualche modo: «si deve sapere chi è il vincitore e chi è il vinto»v, perché il combattimento era un giudizio di Dio.

In pratica, a dire il vero, la politica dei principi si presentava di regola in modo sostanzialmente diverso. C’era una lotta spietata dei grandi e piccoli vassalli per rendersi autonomi, i grandi principi aspettavano esclusivamente l’opportunità per aggredire i loro vicini e l’intera epoca - stando agli annali - fu un periodo di guerre incredibilmente sanguinose. Nondimeno la teoria non era priva di significato, ma anzi era importante come espressione dell’unità culturale. I suoi esponenti erano i letterati, cioè coloro che sapevano scrivere, dei quali i principi si servivano ai fini della razionalizzazione della loro amministrazione, nell’interesse del loro potere, nello stesso modo in cui i principi indiani si servivano dei brahmani ed i principi occidentali dei chierici cristiani. Ancora le odi del VII secolo non cantano i saggi ed i letterati ma i guerrieri. L’orgoglioso stoicismo dell’antica Cina ed il rifiuto totale degli interessi dell’aldilà erano un’eredità di quest’epoca militaristica. Ma per il 753 viene menzionata la nomina di un annalista ufficiale di corte (e ciò significa anche di un astronomo di corte) nello stato di Chin. I «libri» - libri rituali e annali (raccolta di precedenti) - dei principi cominciarono a giocare un ruolo anche come oggetto di bottinow e l’importanza dei letterati crebbe palesemente. Questi tenevano i conti e la corrispondenza diplomatica dei principi, di cui gli annali hanno conservato numerosi esempi (forse redatti come paradigmi); fornivano i mezzi, perlopiù alquanto «machiavellici», per sopraffare i principi vicini attraverso le vie militari e diplomatiche, forgiavano le alleanze e si occupavano dei preparativi bellici, soprattutto tramite l’organizzazione razionale dell’esercito, la politica dei magazzini e delle imposte: evidentemente erano abilitati a questi compiti in qualità di contabili del rex. I principi cercavano di esercitare l’uno contro l’altro la loro influenza nella scelta dei letterati,di portarseli via a vicenda, mentre i letterati dal canto loro erano in corrispondenza reciproca, sceglievano dove prestare servizio, spesso conducevano una specie di vita errantey da una corte all’altra più o meno come i chierici occidentali e gli intellettuali laici della fine del Medioevo. Come questi ultimi, i letterati cinesi si sentivano un ceto unitario.

La concorrenza degli stati combattenti per il potere politico portò alla razionalizzazione deH’economia politica dei principiz. Questa fu l’opera dello strato di letterati di cui si è parlato. Un letterato, Yung, è considerato il creatore deH’amministrazione interna razionale, un altro, Wei Yang, passa per l’artefice dell’organizzazione razionale dell’esercito, proprio in quello degli stati combattenti che più tardi si impose su tutti gli altri. Una popolazione numerosa e soprattutto la ricchezzadel principe come dei sudditi - divennero qui come in Occidente dei mezzi di potere per fini politicia1. Come in Occidente, anche qui i principi ed i loro consiglieri letterari-rituali dovevano condurre innanzitutto la lotta contro i propri sottovassalli la cui renitenza li minacciava della stessa sorte che i principi a loro volta avevano riservato al loro signore feudale. Le coalizioni di principi contro i subinfeudamenti, la dichiarazione, da parte dei letterati, del principio secondo cui l’ereditarietà di un ufficio pubblico sarebbe ritualmente scandalosa e la negligenza nell’adempimento dei doveri d’ufficio comporterebbe un pregiudizio magico (morte precoce)b1 sono fatti che caratterizzano la scomparsa graduale dell’antica amministrazione, in mano ai vassalli e quindi alle grandi famiglie carismaticamente qualificate, a favore di un’amministrazione burocratica di funzionari. La creazione di una guardia del corpo del principec1, di un esercito equipaggiato e vettovagliato del principe e al comando di ufficiali, al posto dei contingenti forniti dai vassalli, furono gli elementi che, insieme alla politica dei magazzini e delle imposte, portarono ad un analogo mutamento in campo militare. Il contrasto di status delle grandi famiglie con qualificazione carismatica - quelle che sui loro carri da guerra con il loro sèguito accompagnavano il principe sul campo di battaglia - rispetto al popolo comune viene presentato come ovvio in tutti gli annali. Esistevano degli ordini vestimentari fissid1; le «grandi famiglie» cercavano, attraverso una politica matrimonialee1, di consolidare la propria posizione e anche gli ordinamenti razionali degli stati combattenti, per esempio l’ordinamento introdotto da Yung nello stato di Chin, conservavano rigorosamente le divisioni di status. «Nobili» e popolo erano sempre distinti, dal che appare chiaramente come per «popolo» s’intendevano le famiglie plebee libere, escluse solo dalla gerarchia feudale, dai combattimenti e dalla formazione dei cavalieri, ma non i servi della gleba. Troviamo una presa di posizione politica del «popolo» che diverge da quella dei nobilif1. Tuttavia, come vedremo più avanti, la posizione della massa dei contadini era precaria e solo lo sviluppo degli stati patrimoniali portò, qui come dappertutto, ad un’alleanza dei principi con gli strati meno privilegiati contro la nobiltà.

2. La restaurazione dello stato unitario burocratico.

La lotta tra gli stati combattenti restrinse sempre più il loro numero a pochi stati unitari con amministrazione razionale. Infine neH’anno 221 il principe di Chin, dopo aver eliminato la dinastia nominale e tutti gli altri vassalli riuscì, come «primo imperatore» a incorporare tutta la Cina al «Celeste Impero», patrimonio del dominatore, e cioè a mettere tutto il paese sotto l’amministrazione dei propri funzionari. Al posto del vecchio ordinamento teocratico-feudale subentrò una autentica «autocrazia», con l’eliminazione deH’antico consiglio feudale della corona, con due gran visir (sul tipo dei praejecti praetorio), con la distinzione tra governatori militari e civili (sul tipo delle istituzioni tardo-romane), ambedue controllati da funzionari di vigilanza del principe (sul modello persiano), da cui più tardi si svilupparono i «censori» itineranti (missi dominici), e con un rigido ordinamento burocratico basato sull’avanzamento in base al merito e alla grazia e sul libero accesso agli uffici. A favore di questa «democratizzazione» della burocrazia operò non solo l’alleanza naturale, concretizzatasi ovunque, tra l’autocrate e gli strati plebei contro i ceti nobili, ma anche un fattore finanziario. Non è un caso, come già osservato, che gli annali attribuiscano a questo «primo imperatore» (Shih Huang-ti) l’innovazione della pratica della vendita degli uffici. Ciò doveva avere la conseguenza di far accedere alle prebende di stato i plebei abbienti. Tuttavia la lotta contro il feudalesimo era il problema principale. Venne proibito qualsiasi infeudamento comportante poteri politici, anche in seno alle famiglie dell’imperatore. Senza dubbio l’articolazione dei ceti sociali non era stata intaccatag1. Ma con la fondazione di una solida gerarchia burocratica, di cui si erano già create le prime basi in alcuni degli stati combattenti, crebbero le possibilità di ascesa per i funzionari di basse origini. In realtà il nuovo potere imperiale riuscì ad imporsi contro i vari poteri feudali con l’aiuto delle forze plebee. Fino allora l’ascesa a posti d’influenza politica, per la gente di origine plebea, era stata possibile solo in seno allo strato dei letterati e in particolari circostanze. Sin dall’inizio della razionalizzazione dell’amministrazione negli annali degli stati combattenti si trovano esempi di uomini di fiducia dell’imperatore, di famiglia povera e plebea, che dovevano la loro posizione soltanto alla loro scienzah1; i letterati, in virtù di questa loro capacità e della loro padronanza dei riti, rivendicavano il diritto di essere preferiti, per le più alte cariche, anche ai più prossimi parenti dell’imperatorei1. Tale posizione, però, non solo era tutt’altro che incontrastata da parte dei vassalli, ma di regola il letterato si trovava anche in una posizione non ufficiale, come una specie di ministro senza portafoglio o, se si vuole, di «padre confessore» del principe, in conflitto con la nobiltà feudale che qui come in Occidente, osteggiava la chiamata di estranei ad occupare gli uffici che lei stessa aspirava a monopolizzare. Nei primi anni di Shih Huang-ti - nel 237, prima ancora dell’unificazione dell’impero - si trova anche una relazione sull’espulsione dei letterati (e mercanti) stranieri. Ma gli interessi di potere del principe lo portarono quanto prima a revocare questo provvedimentoj1 ed il suo primo ministro rimase allora un letterato che indicava se stesso come un parvenu di basse origini.

Ma dopo l’unificazione dell’impero l’assolutismo razionale dell’autocrate ostile alle tradizioni - quale appare chiaramente anche nelle sue iscrizionik1 -, si rivolse con violenza anche contro il potere sociale dell’aristocrazia colta dei letterati. L’antichità non doveva dominare il presente ed i suoi interpreti non dovevano dominare il monarca: «l’imperatore è più dell’antichità»l1. Nel corso di alcune violente catastrofi egli tentò - se possiamo credere a quanto ci è stato tramandato - di annientare l’intera letteratura classica ed il ceto stesso dei letterati.

I libri sacri furono bruciati e presumibilmente 460 letterati furono sepolti vivi. L’avvento, così inaugurato, dell’assolutismo puro - fondato sui favoriti personali e senza riguardo per la nascita o l’educazione - fu caratterizzato dalla nomina di un eunuco a gran maestro della casa imperialem1 e precettore del figlio minore che l’eunuco, dopo la morte dell’imperatore, mise sul trono con la complicità del letterato parvenu a scapito del figlio maggiore e contro la volontà del comandante dell’esercito. Il governo dei favoriti, proprio del puro sultanismo orientale, combattuto con successi alterni dall’aristocrazia colta dei letterati durante tutti i secoli del Medioevo, con il livellamento dei ceti e l’autocrazia assoluta che comportava, parve ora irrompere in Cina. L’imperatore, come espressione della posizione che rivendicava, aveva eliminato l’antica espressione di «popo lo» (min) per gli uomini liberi comuni, e la aveva sostituita con il nome di eli in shou, «teste nere», che sicuramente era l’equivalente di «sudditi». L’impiego colossale di lavoro servilen1 per le costruzioni imperiali esigeva la disponibilità illimitata e senza riguardo delle forze lavorative e delle capacità contributiveo1 del paese, sul modello del regno dei faraoni. D’altra parte viene riferito esplicitamente che l’eunuco di palazzo, onnipotente sotto il successore di Shih Huang-ti, avrebbe raccomandato al signore di allearsi al «popolo» e di conferire gli uffici senza riguardo al ceto e all’educazionep1; era ora che regnasse la sciabola, e non le belle maniere; ciò corrispondeva perfettamente al tipico patrimonialismo orientale. L’imperatore d’altra parte si difese dal tentativo dei maghiq1 - con il pretesto della crescita del suo prestigio - di renderlo «invisibile», cioè di internarlo come il Dalai Lama5 e di mettere tutta l’amministrazione nelle mani dei funzionari; al contrario si riservò l’esercizio del potere autocratico nel senso più effettivo.

La violenta reazione contro questo rude sultanismo venne simultaneamente in parte dalle vecchie famiglie, in parte dal ceto dei letterati, in parte dall’esercito esasperato dai lavori di trincea e dalle famiglie contadine gravate dal reclutamento, dalle corvées e dalle imposte, sotto la guida di uomini di umili originir1. Non furono però gli strati nobili, bensì un parvenu che conseguì la vittoria, rovesciò la dinastia e, mentre l’impero in un primo momento si dissolveva nuovamente in stati combattenti, fondò il potere della nuova dinastia che riunificò l’impero. Ma il successo definitivo toccò ancora una volta ai letterati, la cui politica razionale in campo economico e amministrativo fu decisiva anche questa volta per la restaurazione del potere imperiale, ed era allora tecnicamente superiore all’amministrazione dei favoriti e degli eunuchi, che i letterati avevano sempre combattuto. Fu soprattutto però il grande prestigio delle loro conoscenze in fatto di rituale e di precedenti e la loro capacità di scrivere - che a quell’epoca costituiva ancora una specie di arte segreta - ad operare in modo decisivo in questa direzione.

Shih Huang-ti aveva unificato, o perlomeno tentato di unificare la scrittura, le unità di peso e misura, le leggi ed i regolamenti amministrativi. Egli si gloriava di aver abolito la guerras1e di aver consolidato la pace e l’ordine interno, il tutto «lavorando giorno e notte»t1. Delle uniformità esterne instaurate non tutte sono state conservate. Ma la più importante fu l’abolizione del sistema feudale e l’attuazione di un governo di funzionari qualificati in base alle capacità personali. Maledette dai letterati come un oltraggio al vecchio ordine teocratico, queste innovazioni vennero tuttavia mantenute con la restaurazione della dinastia Han e in definitiva tornarono ad esclusivo vantaggio dei letterati.

Ritorni al feudalesimo ce ne sono stati anche molto più tardi. All’epoca di Ssu-ma Ch’ien (n secolo a. C.), sotto gli imperatori Chu-fu Yen e Wu6 fu necessario sconfiggere un’altra volta il risorto feudalesimo nato dall’infeudamento negli uffici di principi imperiali. In primo luogo vennero mandati alle corti di vassalli dei ministri-residenti imperiali; poi la nomina di tutti i funzionari fu avocata dalla corte imperiale; quindi (nel 127 a. C.) venne decretata l’assegnazione della legittimità a tutti gli eredi di un feudo onde indebolire il potere dei vassalli; infine (sotto Wu) vennero conferiti a persone di basso rango (tra cui un ex guardiano di porci) le cariche di corte fino allora rivendicate dalla nobiltà. Contro quest’ultima misura la nobiltà si oppose con veemenza, ma furono i letterati ad ottenere che le più alte cariche restassero loro riservate. Vedremo più avanti come, in questa lotta dagli effetti decisivi per la struttura politica e culturale della Cina, si è inserito il dissidio dei letterati confuciani con il taoismo - allora legato all’aristocrazia, più tardi agli eunuchi - ostile ai letterati e avverso all’educazione del popolo nell’interesse della magia. Anche allora la lotta non ebbe una conclusione definitiva. Nell’etica di ceto del confucianesimo continuavano ad operare forti reminiscenze feudali. Si poteva attribuire allo stesso Confucio la premessa, tacita ma ovvia, che la formazione classica, che egli esigeva come presupposto decisivo per l’appartenenza al ceto signorile, di fatto - perlomeno di regola - era limitata allo strato dominante delle «vecchie famiglie» tradizionali. Anche l’espressione chün-tzu, «uomo superiore», per indicare la persona colta di formazione confuciana - il termine in origine indicava gli eroi ma già allȁepoca di Confucio stesso significava «persona colta» - deriva dal periodo del dominio di ceto da parte di quelle casate qualificate dal carisma ereditario per l’esercizio del potere politico. Tuttavia non fu possibile tornare a disconoscere completamente il nuovo principio del patrimonialismo illuminato» secondo cui il merito personale, e solo questo, sarebbe qualificante per tutte le cariche, ivi compresa la carica stessa del governou1. Gli elementi feudali dell’ordinamento sociale cedettero sempre più e in tutti i punti essenziali fu il patrimonialismov1, come vedremo, a costituire la struttura fondamentale per lo spirito del confucianesimo.

3. Governo centrale e funzioni locali.

Come sempre avviene nelle vaste formazioni statali a struttura patrimoniale quando la tecnica delle comunicazioni non èancora sviluppata, anche qui il grado di centralizzazione dell’amministrazione rimase strettamente limitato. Anche dopo l’attuazione dello stato burocratico, non solo continuò a sussistere il contrasto tra i funzionari «interni» e cioè quelli preposti all’antico patrimonio imperiale, e quelli «esterni», cioè i funzionari provinciali, insieme alle differenze di rango tra i due, ma rimase anche il clientelismo degli uffici - eccetto per un certo numero delle più alte cariche in ogni provincia - e soprattutto, dopo rinnovati e sempre nuovi tentativi di centralizzazione, in definitiva l’economia finanziaria fu lasciata quasi per intero alle singole province. È vero che intorno a questo punto si è sempre riaccesa la lotta in tutti i grandi periodi di riforma finanziaria. Wang An-shih7 (xi secolo) e altri riformatori si fecero promotori dell’attuazione concreta dell’unità finanziaria: cioè della consegna di tutti i proventi fiscali, dedotti i costi di esazione, onde farli confluire in un bilancio unico dell’impero. Ogni volta però le enormi difficoltà dei trasporti e gli interessi dei funzionari provinciali buttavano acqua sul fuoco per evitare la realizzazione di questi progetti. Eccetto che sotto dei governatori straordinariamente energici, i funzionaricome già risulta dalle cifre dei catasti pubblicati - come regola generale, facevano dichiarazioni inferiori circa del 40 alla realtà, sia per quanto riguardava le aree tassabili sia per il numero degli individui censitia. Inoltre le spese locali e provinciali andavano naturalmente detratte in precedenza. Di conseguenza però ne derivava per la finanza centrale un gettito netto estremamente variabile. Finalmente il fisco capitolò: ai governatori, dall’inizio del xvm secolo fino ai giorni nostri, venne assegnato un tributo, in modo analogo - perlomeno di fatto - ai satrapi persiani; tale tributo era fissato in normali importi forfettari, variabili solo teoricamente secondo il fabbisogno. Di queste parleremo ancora. Questo contingentamento delle imposte ha avuto delle conseguenze di rilievo per la posizione di potere dei governatori provinciali in tutti i camp.

Questi ultimi presentavano la maggior parte dei funzionari della circoscrizione per l’attribuzione dell’impiego, la quale a sua volta avveniva attraverso il potere centrale. Ma già il numero ristretto dei funzionari ufficialiw1 porta alla conclusione che

era impossibile che essi stessi fossero in grado di dirigere l’amministrazione dei loro immensi distretti. Dato il numero di doveri del funzionario cinese - praticamente tutti quelli possibili - una circoscrizione delle dimensioni di un circondario prussiano, a cui era preposto un singolo funzionario, non avrebbe potuto essere amministrata in modo adeguato nemmeno da cento di tali funzionari. L’impero assomigliava a una confederazione di satrapi con in testa un pontefice. Il potere stava formalmente - solo formalmente - nelle mani dei grandi funzionari provinciali. Gli imperatori, però, dal canto loro, dopo l’unificazione dell’impero, si servirono in modo ingegnoso dei mezzi propri del patrimonialismo per conservare il loro potere personale. Tali mezzi erano: cariche a breve termine, ufficialmente tre anni, decorsi i quali il funzionario doveva essere trasferito in un’altra provinciax1; divieto di collocare un funzionario nella sua provincia d’origine; divieto di collocare parenti nello stesso distretto; ed infine un’organizzazione sistematica di spionaggio sotto forma dei cosiddetti «censori». Tutto questo, però, senza stabilire concretamente una precisa uniformità in senso all’amministrazione, per motivi di cui parleremo tra poco. Il principio secondo il quale negli organi centrali giurisdizionali a formazione collegiale il presidente di uno ya-men poteva simultaneamente, come membro di un altro collegio, essere sottoposto ad altri, ostacolava la precisione dell’amministrazione senza realmente promuovere l’unità. Questa falliva soprattutto rispetto alle province. Abbiamo visto come i singoli grandi distretti amministrativi locali facevano fronte alle loro spese locali rimaneggiando le imposte e creando dati cata stali fittizi, con occasionali interruzioni sotto il governo di uomini più energici. Se le province erano finanziariamente «passive» - come stazioni di truppe e di arsenali - esisteva un complesso sistema per l’assegnazione degli incassi delle eccedenze di altre province; del resto non vi era uno stato finanziario certo, né per l’amministrazione centrale né per le province, ma solo delle forme tradizionali di appropriazione. All’amministrazione centrale mancava una conoscenza più precisa delle finanze delle province, con quale risultato vedremo poi. Fino a questi ultimi decenni erano i governatori delle province a concludere tutti i patti con le potenze straniere e non il governo centrale, che non possedeva un organo apposito a questo fine. Quasi tutte le disposizioni amministrative realmente importanti formalmente partivano dai governatori delle province, ma in realtà, come vedremo, dai loro funzionari subordinati e cioè non ufficiali. Di conseguenze, fino ai nostri giorni, le disposizioni del potere centrale venivano trattate dalle autorità subordinate più come autorevoli proposte sul piano etico, o come desideri, che come comandi; ciò era conforme alla natura pontificale, carismatica, del potere imperiale. Del resto, come appare a prima vista, i decreti imperiali si presentavano, per il loro contenuto, più come delle critiche alla condotta dell’amministrazione che come delle effettive disposizioni. Senza dubbio il singolo funzionario, personalmente, poteva venire liberamente deposto in qualsiasi momento. Ma il potere reale dell’amministrazione centrale non traeva da ciò alcun vantaggio. Infatti il principio secondo cui nessun funzionario poteva venire assegnato alla sua provincia d’origine e il prescritto trasferimento da una provincia all’altra e da un ufficio all’altro ogni tre anni riusciva senza dubbio ad impedire che questi funzionari si ergessero come potere autonomo contro il potere centrale, alla maniera dei vassalli feudali, e in questo modo veniva anche conservata l’unità esterna deH’impero. Ma il prezzo di ciò stava nel fatto che questi funzionari ufficiali non mettevano mai radici nel distretto sotto la loro amministrazione. Il mandarino che, accompagnato da tutta una schiera di parenti, amici e clienti personali prendeva servizio in una provincia a lui sconosciuta, della quale di regola non capiva il dialetto, doveva innanzitutto ricorrere, anche solo per parlare, ai servizi di un interprete. Inoltre non conosceva il diritto locale, che riposava su numerosi precedenti giuridici che egli non poteva senza pericolo azzardarsi ad infrangere perché erano l’espressione di una tradizione sacra. Dipendeva quindi totalmente dall’ammaestramento di un consigliere non ufficiale, un letterato come lui, ma che in virtù della sua origine locale aveva la massima familiarità con le usanze del luogo; si trattava insomma di una specie di «confessore» che il mandarino straniero indicava come il suo «maestro», trattandolo con rispetto e spesso con devozione. In secondo luogo dipendeva dai suoi funzionari: non quelli ufficiali, pagati dallo stato, soggetti alla regola dell’origine estranea alla provincia, bensì quelli appartenenti al gruppo dei suoi collaboratori non ufficiali, che egli doveva pagare di tasca sua. Questi ultimi venivano scelti naturalmente tra gli aspiranti funzionari nativi della provincia, qualificati per il servizio di stato ma non ancora incaricati di un ufficio, alla cui competenza in materia di cose e persone locali egli non solo poteva ma doveva rimettersi, in mancanza di qualsiasi orientamento proprio. Ed infine, quando assumeva il posto di governatore in una nuova provincia, dipendeva dalla dotta competenza e dalla conoscenza del luogo dei capi delle normali sezioni amministrativey1 di ogni provincia i quali comunque erano sempre in vantaggio di alcuni anni rispetto a lui nella conoscenza delle condizioni locali. È chiaro quali dovevano essere le conseguenze di questo stato di fatto: il potere reale era nelle mani di quei funzionari subordinati, non ufficiali, nativi del luogo. I funzionari ufficiali non erano assolutamente in grado di controllare e di correggere la loro amministrazione e lo erano tanto meno quanto più alto era il loro rango. L’orientamento dei funzionari, locali e centrali, nominati dall’amministrazione centrale era quindi troppo incerto, in materia di condizioni locali, perché fossero in grado di procedere in maniera razionale e coerente.

Il metodo, celebre in tutto il mondo ed estremamente efficace, del patrimonialismo cinese per impedire un’emancipazione a carattere feudale e di ceto dei funzionari dal suo potere consisteva nell’introduzione degli esami e nella concessione degli uffici in base alla qualifica data dall’istruzione e dalla formazione, invece della qualifica della nascita e del rango ereditato. Tale metodo ha avuto senza dubbio un’importanza estremamente rilevante per il carattere dell’amministrazione e della cultura cinese, come vedremo più avanti. Ma date queste condizioni, non era possibile instaurare, per tale mezzo, un meccanismo dal funzionamento preciso nelle mani dell’autorità centrale. Vedremo però, quando parleremo più dettagliatamente dell’educazione dei burocrati, come a ciò si opponessero anche degli ostacoli profondamenti radicati nella natura particolare dell’etica di ceto della burocrazia (in parte determinata da fattori religiosi). Certamente la burocrazia patrimoniale costituiva, in Cina come in Occidente, il nucleo stabile al cui sviluppo si collegava la formazione del grande stato. La comparsa di autorità collegiali e lo sviluppo dei «dicasteri» costituivano, qui come là, dei fenomeni tipici di questo processo. Ma lo «spirito» del lavoro burocratico era - come vedremo - completamente diverso da un luogo all’altro.

4- Oneri pubblici: corvées e imposte.

Questo contrasto di «spirito», nella misura in cui si fondava su fattori puramente sociologici, era connesso al sistema degli oneri pubblici quale si era sviluppato in Cina in collegamento con le oscillazioni dell’economia monetaria.

Lo stato originario, qui come altrove, era il seguente: una parcella di terreno (kung-tien, corrispondente al réyLzvoq omerico) veniva tolta al capo o al principe e coltivata in comune dai cittadiniz1. In ciò sta l’origine dell’obbligo generale della corvée, che venne rinforzato dall’imperiosa necessità di costruire le opere d’irrigazione. Questa «produzione» della terra mediante l’amministrazione delle opere di irrigazione suggeriva anche il concetto - che sempre riemerge e ancora oggi viene conservato nella terminologia (come in Inghilterra) - del diritto di regalia dell’imperatore sul suolo. Tuttavia tale concetto, qui come in Egitto, non ha impedito che si formasse la distinzione tra terre demaniali concesse in appalto e terre private soggette a imposta. D’altra parte le imposte - secondo alcuni residui rintracciabili nella terminologia - sembrano essersi sviluppate in parte dai tradizionali doni, in parte dagli obblighi tributari dei popoli assoggettati, in parte dai diritti accampati sulle regalie fondiarie. Demanio statale, onere tributario, corvée sono stati a lungo in relazioni mutevoli tra loro. Tra questi sistemi, quello di volta in volta prevalente era determinato in parte dal livello in cui si trovava in quel momento l’economia monetaria dello stato - che, come abbiamo visto, era estremamente labile per motivi di oscillazione di valuta - in parte dal grado di pacificazione, in parte infine dal grado di fidatezza dell’apparato burocratico.

L’origine primitiva della burocrazia patrimoniale nei lavori per lo scolo e la canalizzazione delle acque e nell’edilizia in generale, l’origine della posizione di potere del monarca nella cor- vée dei sudditi indispensabile soprattutto ai fini della regolazione dei corsi d’acqua (come in Egitto e nell’Asia anteriore), l’ori gine dell’impero unitario negli interessi che intorno ad esso venivano sempre più consolidandosi ai fini di una regolazione unitaria dei corsi d’acqua in territori sempre più vasti, insieme alla necessità di una garanzia politica delle terre coltivate contro le incursioni di nomadi - queste origini si manifestano con evidenza nella leggenda secondo cui il «santo» (leggendario) imperatore Yu8 avrebbe regolato le opere di scolo e la costruzione dei canali, mentre il primo autentico signore burocratico, il «Shih Huang-ti», viene considerato il più grande committente di costruzioni in fatto di canali, strade e fortificazioni, e soprattutto come il costruttore della Grande Muraglia (che in verità fu portata da lui solo fino ad un certo termine). Queste opere servivano simultaneamente, oltre che all’irrigazione, a scopi fiscali, militari e di approvvigionamento; il celebre canale imperiale dal Yangtze all’Huangho per esempio serviva al trasporto del tributo di riso dal sud alla nuova capitale (Pechino) del khan mongoloa2. Secondo una relazione d’ufficio 50.000 lavoratori di corvée erano occupati, in un determinato periodo, alla costruzione di una diga su un fiume e i tempi di costruzione coprivano vari secoli di compimenti parziali. Per Mencio9 la vera forma ideale per coprire i bisogni pubblici era ancora la corvée e non l’imposta. Come nel Medio Oriente l’imperatore imponeva ai sudditi dei trasferimenti di massa, malgrado la loro resistenza, quando l’oracolo divinatorio gli aveva indicato il luogo appropriato per una nuova capitale. La manodopera era fornita in parte da deportati condannati penalmente, in parte da soldati procurati tramite il reclutamento forzato; questi sorvegliavano le dighe e le chiuse e fornivano una parte della forza lavoro per le costruzioni e i lavori di bonifica. Passo per passo, nelle province occidentali di frontiera, si guadagnava terreno sul deserto con il lavoro prestato dall’esercitob2. Malinconici lamenti sul terribile peso di questo destino monotono, in particolare per i lavoratori della Grande Muraglia, si trovano nei poemi che sono stati conservatic2 La dottrina classica dovette opporsi con la massima energia allo spreco delle prestazioni di lavoro dei sudditi ai fini delle costruzioni private dei principi alla maniera egiziana, che anche qui costituiva un fenomeno concomitante con lo sviluppo di un’organizzazione burocratica dei lavori pubblici. D’altra parte, non appena decadde il sistema della corvée, non solo incominciò nei territori centro-asiatici l’avanzata del deserto sulle terre coltivate che gli erano state strappate e che oggi sono totalmente insabbiated2, ma vacillò anche tutta l’efficienza politica dell’impero. Negli annali si lamenta la coltivazione difettosa della terra della corona da parte dei contadini. Solo alcune personalità d’eccezione furono in grado di organizzare e dirigere in maniera unitaria lo stato fondato sulla corvée.

Tuttavia la corvée rimase la forma classica per coprire il fabbisogno dello stato. In quale rapporto stessero in pratica reciprocamente i due sistemi di copertura del fabbisogno dello stato - quello dell’economia naturale fondato sulla corvée e quel lo dell’economia monetaria fondato sull’appalto - viene messo in luce (per il xvn secolo) da un dibattito in presenza dell’imperatore su quale dei due sistemi andava seguito per effettuare certe riparazioni sul canale imperiale. Si decise di concedere in appalto la costruzione contro il pagamento in denaro perché altrimenti i lavori di riparazione avrebbero richiesto dieci annie2. In tempo di pace si tentava continuamente di alleggerire gli oneri delle popolazioni civili adibendo l’esercito al lavoro di corvéef2.

Accanto alla coscrizione militare, alle corvées ed alle liturgie, in tempi però più remoti, si trovano già le imposte. La corvée sulle terre della corona sembra essere stata abolita particolarmente presto (nel vi secolo a. C.) nello stato combattente di Chin, il cui signore più tardi (nel ni secolo a. C.) divenne il «primo imperatore» dell’impero unitario. I tributi naturalmente erano già esistiti in tempi assai più remoti. I bisogni della corte imperiale erano, come quasi ovunque, ripartiti tra i singoli territori sotto forma di specifici tributi in naturag2 e i residui di questo sistema sono stati mantenuti fino ad oggi. Il sistema dei tributi in natura era strettamente collegato alla costituzione dell’esercito e della burocrazia patrimoniali. Ambedue infatti, qui come altrove, ricevevano il loro sostentamento dai magazzini del principe e si svilupparono quindi prebende fisse in natura. Tuttavia per alcuni aspetti anche l’economia monetaria dello stato, all’inizio della nostra cronolo già, era alquanto progredita, perlomeno sotto la dinastia Han, come mostrano le fontih2. E questa giustapposizione di occasionali corvées (solo per le opere di costruzione e per il servizio dei corrieri e dei trasporti), di tributi in natura e in denaro, di tasse, e di un’economia domestica del principe per la fornitura di certi prodotti di lusso per la cortei2, è continuata in generale fino al giorno d’oggi malgrado i crescenti spostamenti in direzione dell’economia monetaria.

Questo spostamento verso l’imposta in denaro si è esteso anche e soprattutto a quel tipo particolare di imposta che fino ai tempi più recenti è stata di gran lunga la più importante: l’imposta fondiaria, di cui non riporteremo qui in dettaglio la storia, peraltro molto interessantej2. Vi ritorneremo più avanti, nella misura necessaria, quando parleremo del sistema agrario. Per ora basti dire che anche qui, come negli stati patrimoniali dell’Occidente, il sistema fiscale, talvolta più fortemente differenziato, si orientò sempre più verso l’unificazione delle imposte mediante la trasformazione di tutti gli altri tributi in una maggiorazione dell’imposta fondiaria; questo perché i beni che non erano investiti in immobili o terreni restavano a invisibili» per la tecnica fiscale di un’amministrazione estensiva come quella imperiale. Questa tendenza di tutta la proprietà non «visibile» a volatilizzarsi ha forse codeterminato il tentativo sempre rinnovato di far fronte al fabbisogno dello stato per quanto possibile con i mezzi dell’eeonomia naturale: la corvée e le liturgie. Accanto a ciò, però, e a dire il vero in primo piano, giocavano i rapporti di valuta. Per l’imposta fondiaria stessa tuttavia si sono avute due tendenze di sviluppo parimenti diffuse in tutti gli stati patrimoniali con amministrazione estensiva. Una volta c’era la tendenza a commutare l’imposta fondiaria in un tributo monetario in cui venivano compresi anche tutti gli altri oneri, in particolare la corvée e le altre liturgie. Più avanti però si tese a trasformarla in un’imposta distributiva, e infine in un tributo a contingente fisso ripartito tra le province secondo quote fisse. A questa innovazione particolarmente importante si era già arrivati una volta, per un breve periodo. La pacificazione dell’impero sotto la dinastia Manciù permise alla corte di rinunciare alle entrate mobili e portò al celebre editto del 1713, lodato come fonte della nuova fioritura conosciuta dalla Cina nel xvm secolo, in cui - secondo l’intenzione - gli obblighi fiscali fondiari delle province venivano commutati in tributi fissi. Parleremo di ciò tra poco. Accanto all’imposta fondiaria, negli introiti deH’amministrazione centrale avevano un ruolo particolare le gabelle del sale, le miniere e soprattutto i dazi. Anche per questi però l’importo da versare a Pechino divenne di fatto tradizionalmente fisso. Solo la guerra con le potenze europee e la crisi finanziaria seguita alla rivolta dei T’ai-p’ing (1850–1864) fecero passare i dazi li-chin in primo piano nelle finanze dell’impero, sotto la brillante amministrazione finanziaria di Sir Robert Hart10

La pacificazione dell’impero, con il contingentamento delle imposte ad essa collegato, e le sue altre conseguenze - la superfluità e la soppressione dell’uso della corvée, deH’obbligo del passaporto e di tutte le barriere poste alla libera circolazione, oltre che di qualsiasi controllo sulla scelta della professione, sulle condizioni dei proprietari di immobili e sugli orientamen ti della produzione - ha portato ad un forte aumento della popolazione. Stando alle cifre dei catasti (in parte, a dire il vero, estremamente incerte) sembra che la densità della popolazione in Cina, soggetta a forti oscillazioni, non fosse molto più alta all’inizio del regno manciù che sotto Shih Huang-ti, quasi 1900 anni prima; comunque la cifra presunta della popolazione oscillò per secoli tra i 50 e i 60 milioni di abitanti. Dalla metà del xvii secolo, invece, e fino alla fine del xix secolo, tale cifra crebbe da 60 milioni fino a 350–400 milioni circak2; si sviluppò la proverbiale laboriosità cinese su piccola e grande scala, e furono accumulate anche notevoli fortune private. Ora il fatto che deve apparirci più sorprendente, riguardo a quest’epoca, è il seguente: malgrado questo prodigioso sviluppo demografico della popolazione e le sue condizioni materiali, non so lo le caratteristiche culturali della Cina rimasero del tutto stabili anche in tale periodo, ma anche in campo economico, malgrado delle condizioni apparentemente così favorevoli, non si trova il minimo accenno ad uno sviluppo moderno di tipo capitalistico. Stupisce inoltre che il commercio in proprio della Cina con l’estero, una volta tanto importante, non abbia conosciuto nessun rinnovamento e sussistesse solo un commercio passivo in alcuni porti aperti agli europei (come Canton) sotto rigido controllo; e che non si abbia nemmeno notizia di alcuno sforzo dairinterno, scaturito dagli interessi capitalistici propri della po- polazione, per infrangere tali barriere (si è a conoscenza esclusi vamente di sforzi in direzione opposta). E che in campo tecnico, economico ed amministrativo non si sia inserito neppure il minimo sviluppo «progressivo» in senso europeo; e soprattutto che la capacità contributiva dell’impero, almeno stando alle apparenze, non abbia ricevuta una seria spinta in avanti, benché le necessità della politica estera lo richiedessero imperiosamente. Come si spiega tutto questo rispetto a quel fortissimo incremento della popolazione, del tutto inusuale, e che nessun esame critico finora ha messo in dubbio? Questo è il nostro problema centrale.

Le cause sono sia economiche che culturali. Le prime, delle quali parleremo ora in primo luogo, erano di natura prettamente determinata dall’economia dello stato, e quindi politiche, ma avevano in comune con le cause «culturali» la loro derivazione dal carattere particolare dello strato dominante in Cina: il ceto dei burocrati e degli aspiranti alle cariche (i «mandarini»). Di questi si dovrà ora parlare, e in primo luogo delle loro condizioni materiali.

In origine, come abbiamo visto, il burocrate cinese non aveva altra risorsa che le prebende in natura provenienti dai magazzini regi. Più tardi queste furono sostituite in misura crescente da retribuzioni in denaro. E così rimase. Formalmente quindi il governo pagava uno stipendio ai burocrati. Ma da un lato esso pagava uno stipendio con i propri mezzi solo ad una piccola frazione delle forze realmente attive nell’amministrazione, e dall’altro questo stipendio costituiva solo una piccola, spesso infima parte del loro reddito. Il burocrate non avrebbe praticamente potuto vivere con tale stipendio, né tantomeno avrebbe potuto sopperire alle spese di amministrazione inerenti alla sua carica. La situazione in realtà era piuttosto questa: il funzionario, come un signore feudale o un satrapo, garantiva al governo centrale (o il funzionario subordinato al governo provinciale) la consegna di un determinato ammontare di tributi, ma dal canto suo copriva praticamente tutti i costi della sua amministrazione con i tributi realmente percepiti - tasse e imposte - e teneva per sé le eccedenze. Se questo procedimento, perlomeno in tutte le sue conseguenze, esulava totalmente dal diritto legalmente riconosciuto, cionondimeno esso si verificava infallibilmente nella pratica, e assunse anzi carattere defi nitivo in seguito alla situazione venuta a crearsi dopo il contingentamento del prelievo governativo.

5. La burocrazia e il sistema dell’imposta forfettaria.

La cosiddetta determinazione dell’imposta fondiaria nel 1713 era in pratica una capitolazione della corona sul piano politicofinanziario di fronte ai prebendari degli uffici. In realtà infatti l’obbligo fiscale sul pezzo di terreno non fu trasformato in una rendita fondiaria fissa (come per esempio in Inghilterra); venne semplicemente determinato l’importo che veniva messo in conto ai funzionari provinciali dal governo centrale come provento fiscale della loro circoscrizione; l’importo, cioè, del quale i funzionari dovevano consegnare una quota globale fissa come tributo alla corona. Sicché considerando gli effetti, veniva ad essere fissato definitivamente soltanto l’ammontare dell’imposta prelevata sulle prebende di questi satrapi dairamministrazione centralel2. Conformemente all’autentico carattere di ogni amministrazione specificamente patrimoniale, le entrate che il funzionario traeva dairamministrazione della sua circoscrizione venivano considerate come sue prebende, non realmente distinte dai suoi introiti privatim2. I titolari delle prebende d’ufficio dal canto loro erano ben lontani dal trattare l’imposta fondiaria (o qualsiasi altro onere tributario dei contribuenti) come un prelievo fiscale il cui ammontare globale fosse determinato a forfait. E in pratica non è nemmeno ipotizzabile che il governo imperiale abbia potuto prendere seriamente in considerazione una tale misura. Con gli introiti a sua disposizione il titolare di una carica, sempre conformemente al principio patrimoniale, doveva provvedere non solo a tutti i bisogni materiali dell’amministrazione civile e giudiziaria della sua circoscrizione, ma anche, e soprattutto, al suo gruppo di collaboratori non ufficiali, che secondo le stime degli esperti oscillava anche per la più piccola unità amministrativa (hsien), tra i 30 e i 300 membri, spesso reclutati tra i reietti della popolazione, e senza i quali, come abbiamo visto, egli non era in grado di condurre l’amministrazione della provincia a lui estranea. Le sue spese personali non erano distinte da quelle amministrative. L’amministrazione centrale non aveva quindi nessun quadro generale dell’introito lordo effettivo delle singole province, il governatore provinciale ignorava quelle dei prefetti, e così avanti. D’altro canto, da parte dei contribuenti, restava fermo un solo principio: quello di opporsi, nella misura del possibile, al prelievo di imposte non stabilite tradizionalmente; vedremo come e perché erano in grado di esercitare tale opposizione con successo entro ampi limiti.

Nondimeno, anche prescindendo dalla natura precaria, sostanzialmente dipendente dai rapporti di forza, di questa opposizione contro i tentativi - malgrado tutto sempre rinnovati - di un aumento di prelievi, i funzionari avevano due mezzi per incrementare gli introiti. Da un lato il prelievo di un supplemento per i costi di esazione (pari perlomeno al 10) e per ogni inosservanza del termine, che questo fosse stato voluto o meno dal debitore o addirittura (come accadeva abbastanza spesso) causato intenzionalmente dai funzionari. D’altra parte - e questo era il mezzo principale - la conversione dell’imposta in natura in denaro; l’imposta in denaro a sua volta veniva espressa prima in argento, poi convertita in rame, poi ancora una volta in argento il percettore dell’imposta si riservava la determinazione del corso che era sempre variabilen2 Ma soprattutto va tenuto presente che ogni servizio amministrativo di un funzionario doveva essere compensato con dei «doni» secondo i princìpi patrimoniali, e che non esistevano diritti erariali fissati per legge. Il reddito globale lordo del funzionario, inclusi questi guadagni extra, era destinato in primo luogo a coprire le spese materiali del suo ufficio, e le incombenze amministrative di sua competenza. Ma la porzione di queste effettive spese «statali» che andava all’amministrazione interna era perlopiù molto limitata. In secondo luogo però, e più specificamente, questo reddito lordo del funzionario ultimo in grado, in contatto immediato con la fonte stessa delle imposte, costituiva anche il fondo dal quale i funzionari suoi superiori attingevano le loro entrate. Il burocrate subordinato infatti non doveva soltanto versare ai suoi superiori l’importo, perlopiù relativamente basso, che secondo il catasto tradizionale era di sua competenza fornire. Egli doveva inoltre, ed era questa la cosa più importante, fare dei «doni», quando entrava in carica e in seguito, a intervalli regolari; doni più grossi possibile, per conservare la benevolenza di chi aveva un’influenza decisiva sulla sua sorteo2. E doveva anche fornire di generose mance i consiglieri e i funzionari subalterni non ufficiali del proprio supcriore, nella misura in cui questi potevano influenzare il suo destino (fino all’ultimo usciere, quando desiderava avere un’udienza). Questo stato di cose era comune a tutti i gradi della scala gerarchica, fino all’eunuco di palazzo che riceveva il suo tributo anche dai più alti funzionari. Il rapporto tra il gettito ufficiale reso noto e quello realmente percepito per la sola imposta fondiaria viene stimato da buoni espertip2 nella misura di 4 a 1. Il compromesso del 1712–13 tra il governo centrale ed i funzionari provinciali corrispondeva più o meno, nel sistema dell’economia monetaria, alla determinazione degli oneri feudali in Occidente in un sistema di economia naturale. Ma con una differenza essenziale: in Cina, come in tutti gli stati specificamente patrimoniali, non si trattava di feudi ma di prebende; né d’altra parte v’erano prestazioni militari di cavalieri autoequipaggiati di cui il principe aveva bisogno affinché prestassero servizio nel suo esercito, bensì tributi in natura e soprattutto in denaro, riscossi da quei detentori di prebende in tasse e imposte che sono figure tipiche dello stato patrimoniale e alle cui prestazioni amministrative il governo centrale era costretto a fare ricorso. E c’era un’altra differenza ancora più importante rispetto all’Occidente. Anche là esistevano prebende, e anche prebende sotto forma di riscossione di tasse e imposte. Primitivamente si trovavano in campo ecclesiastico, più tardi, sul modello della Chiesa, anche negli stati patrimoniali. Ma in tal caso la prebenda o era vitalizia (salvo destituzione motivata da un procedimento legale) o era addirittura ereditaria, come il feudo, o anche trasferibile mediante compravendita. E le tasse, i dazi, le imposte su cui la prebenda era fondata, erano fissati tramite privilegio o usanze immutabili. In Cina, come abbiamo visto, proprio il funzionario «di ruolo» era liberamente amovibile e trasferibile, anzi doveva essere trasferito a distanza di brevi periodi. Ciò avveniva in parte (e soprattutto) neH’interesse del mantenimento del potere politico del governo centrale; ma in parte anche - come appare occasionalmente - per dare anche ad altri aspiranti la possibilitàdi avere il loro turnoq2. Alla burocrazia nel suo insieme era assicurato il godimento dei grossi introiti forniti dalle prebende, ma il singolo funzionario, al contrario, era in posizione del tutto precaria, e poiché l’acquisizione dell’ufficio (tra studi, acquisti, doni e «diritti») gli aveva fatto sostenere grosse spese, spesso indebitandolo, egli si trovava costretto, nel breve periodo della sua carica, a trarre il massimo utile possibile dal suo ufficio. Che poi l’ufficio servisse a mettere insieme un patrimonio era cosa che andava da sé, e solo gli eccessi erano considerati riprovevolir2.

Ma vi erano anche altre e più profonde cause all’origine di questo stato di cose. In primo luogo, la posizione di potere dell’amministrazione centrale sulla persona del funzionario era assicurata nella maniera più efficace dal sistema dei trasferimenti. Ogni funzionario, in seguito a questa rotazione continua ed al continuo mutamento delle sue opportunità, era in concorrenza con tutti gli altri per le prebende. Di conseguenza la posizione dei funzionari, per questa impossibilità di unificare i loro interessi personali, era del tutto precaria nei rapporti con l’alto e a questo si collegano i vincoli interni, estremamente autoritari, di tale burocrazia. È vero che tra i funzionari esistevano dei «partiti». Questi erano dapprima basati su associazioni di compaesani, poi sulle varie scuole in cui si erano formati. Negli ultimi decenni la scuola «conservatrice» delle province settentrionali si opponeva a quella «progressista» delle province centrali e a quella «radicale» della provincia di Canton; a quell’epoca gli editti imperiali parlano ancora del contrasto, in seno ad uno stesso ya-men, tra i fautori dell’educazione secondo il metodo dei Sung11 e rispettivamente il metodo degli Han. Tuttavia, vigendo il principio che i funzionari dovevano essere oriundi d’altra provincia, e quello del trasferimento continuo da una provincia all’altra, e poiché inoltre le autorità preposte al collocamento avevano cura di mescolare in una stessa circoscrizione amministrativa e nella stessa composizione gerarchica delle cariche il maggior numero possibile di scuole e associazioni di compaesani rivali, non poteva svilupparsi, perlomeno su queste basi, un particolarismo regionale che avrebbe potuto mettere in pericolo l’unità dell’impero; tale particolarismo infatti riposava su tutt’altre cause cui faremo accenno tra poco. D’altra parte però la debolezza dei funzionari verso l’alto era pagata, come si è visto, con la loro uguale debolezza verso il basso. E una conseguenza ancora più importante della struttura di questo sistema di prebende era l’estremo tradizionalismo amministrativo e politico-economico che esso comportava. Parleremo più oltre della misura in cui tale tradizionalismo si fondava su fattori sentimentali; bisogna ricordare però che alla sua base vi erano anche motivi altamente «razionali».

Ogni intervento di qualsiasi tipo sulle forme tradizionali di economia e di amministrazione toccava un numero imprevedibile di interessi legati a diritti e prebende dello strato dominante. E poiché ogni funzionario poteva trovarsi una volta o l’altra in una posizione minacciata di decurtazione delle opportunità di guadagno, tutta la burocrazia in tali casi si trovava compatta e si opponeva con energia perlomeno pari a quella dei contribuenti al tentativo di attuare delle modifiche al sistema dei diritti, dei dazi o delle imposte. Il sistema occidentale di appropriazione permanente dei diritti riscossi su dazi, scorte, ponti, pedaggi, depositi, passaggi obbligati ed altre fonti di entrate rendeva al contrario perfettamente calcolabili gli interessi in gioco e permetteva di regola a determinati gruppi di interessi di unirsi e di vincere con la forza o con il compromesso o con il privilegio le singole resistenze opposte alla loro azione. Ma era escluso che ciò accadesse in Cina. Laggiù queste fonti di entrate, per quanto concerneva gli interessi dello strato burocratico superiore, dominante, non erano oggetto di appropriazione individuale ma appartenevano al ceto di questi funzionari intercambiabili, inteso come un tutto inscindibile. Di conseguenza tale ceto si opponeva compatto ad ogni intervento e perseguitava unito, con odio mortale, quei singoli ideologi razionalisti che reclamavano le «riforme)). Solo una rivoluzione violenta, dal basso o dalFalto che fosse, avrebbe potuto attuare qui un mutamento. Tutte le innovazioni, come ciascuna in particolare, potevano mettere in pericolo gli interessi per determinati diritti di ciascun individuo, che si trattasse di interessi attuali o possibili solo in futuro. Ciò valeva per l’abolizione del trasporto dei tributi sul Canale Imperiale per mezzo di chiatte a favore del trasporto via mare su piroscafi a vapore, molto più economico; per il cambiamento del sistema tradizionale di esazione dei dazi; per il trasporto di viaggiatori; per la risoluzione delle petizioni e dei processi. Se si dà un’occhiata alla serie di progetti di riforma dell’imperatore nel 1898 e ci si rende conto degli immensi sconvolgimenti che una loro attuazione anche solo parziale avrebbe provocato negli introiti dei burocrati, si può calcolare quali enormi interessi concreti fossero in lotta contro tali riforme. Appare chiaro che simili progetti erano votati all’insuccesso in mancanza di un organo autonomo preposto alla loro attuazione e che fosse sganciato dagli interessati. Da questo tradizionalismo aveva origine anche il «particolarismo)> delle province. Si trattava innanzitutto di un particolarismo finanziario determinato dal fatto che le prebende dei funzionari provinciali e del loro seguito non ufficiale venivano a trovarsi seriamente minacciate da ogni forma di centralizzazione dell’amministrazione. Qui stava l’ostacolo assoluto ad una razionalizzazione deH’amministrazione dell’impero dal centro all’esterno, oltre che ad una politica economica unitaria.

Ma inoltre - ed è particolarmente importante riconoscere questo fatto - era destino comune ad ogni forma di stato schiettamente patrimoniale, come lo erano la maggior parte degli stati orientali, che proprio l’introduzione dell’economia monetaria rafforzasse il tradizionalismo invece di indebolirlo, come ci si potrebbe aspettare. Proprio questa forma di economia infatti, attraverso le sue prebende, creava per lo strato dominan te quelle opportunità di guadagno che non solo rafforzavano lo «spirito del rentier» in generes2 ma facevano delt2 mantenimento delleu2 condizioni economichev2 esistenti - determinanti per i profitti ricavabili dalle prebende - l’interesse supremo dello strato che vi partecipava. Proprio con i progressi dell’economia monetaria insieme alla crescente prebendizzazione delle entrate dello stato, assistiamo quindi in Egitto, negli stati islamici e in Cina, all’apparizione di quel fenomeno che si suole definire «congelamento», dopo brevi periodi intermedi che duravano solo fintanto che l’appropriazione delle prebende non era stata ancora del tutto attuata. La conseguenza generale del patrimonialismo orientale con le sue prebende in denaro era quindi che di regola solo delle conquiste militari del paese o delle rivoluzioni militari o religiose coronate da successo potevano sfondare la solida gabbia degli interessi delle prebende e creare una distribuzione del potere completamente nuova, e quindi anche delle nuove condizioni economiche, mentre ogni tentativo di riforma dall’interno naufragava contro le resistenze di cui si è parlato. La grande eccezione storica è costituita, come si è detto, dall’Occidente moderno. In primo luogo perché non ha conosciuto la pacificazione in un impero unitario. Va ricordato che quello strato di prebendari statali, che nell’ambito del grande impero ostacolavano la razionalizzazione dell’amministrazione, era quello stesso che negli stati combattenti ne era stato il fautore più potente. Ma l’incentivo era venuto a mancare. Come la concorrenza sul mercato aveva costretto alla razionalizzazione le imprese economiche private, così da noi e nella Cina degli stati combattenti la concorrenza per il potere politico aveva portato alla razionalizzazione dell’economia e della politica economica dello stato. E viceversa, nello stesso modo in cui ogni formazione di cartelli indebolisce il calcolo razionale, che è l’anima dell’economia capitalistica, così il cessare della concorrenza tra gli stati per il potere politico fece crollare la razionalizzazione dell’attività amministrativa, dell’e conomia finanziaria e della politica economica. Per l’impero non esisteva più l’incentivo alla razionalizzazione quale cera una volta, quando gli stati combattenti erano in concorrenza tra di loro. Ma questo non era l’unico motivo. Anche all’epoca della concorrenza tra gli stati il processo di razionalizzazione in Cina era rimasto confinato entro limiti più ristretti che non in Occidente. Questo perché in Occidente - a prescindere dalle differenze già menzionate nell’ambito dell’appropriazione - esistevano delle grosse forze, solidamente impiantate su basi autonome. Di conseguenza, o il potere dei principi si alleava a tali forze, arrivando così ad infrangere le barriere tradizionali, oppure queste forze, in circostanze molto particolari, si trovavano in grado di liberarsi dai vincoli del potere patrimoniale ricorrendo al proprio potenziale militare, come nel caso delle cinque grandi rivoluzioni che sono state decisive per il destino dell’Occidente: quelle italiane del xii e xm secolo, quella inglese del xvn secolo, quella americana e quella francese del xvm secolo.

Non esistevano dunque forze analoghe in Cina?

a. A causa del potere degli spiriti degli antenati delle schiatte carismatiche, sembra che spesso non si sia osato derubare le famiglie dei capi assoggettati di tutta la loro terra (E. H. Parker, Ancient China Simplified, London, 1908, p. 87). Viceversa però il fatto che le opportunità di ottenere fondi e prebende siano condizionate dal carisma familiare spiega a sua volta l’importante posizione degli spiriti degli antenati, se non ne è addirittura l’unica origine.

b. «Una famiglia si stima in base alla sua antichità, un utensile in base alla sua novità» dice un proverbio nello Shu-ching.

c. Per i dati, cfr. Fr. Hirth, The ancient History of China, New York, 1908. Traduzioni degli annali di «bambù», ad opera di Biot, si trovano in «Journ. Asiat.», 3a serie, vol. XII, p. 537 e segg.; vol. XIII, p. 381 e segg. Per le iscrizioni sui vasi di bronzo e le odi dello Shu-ching come fonti del periodo che va dal xvm al xn secolo a. C., cfr. Frank H. Chalfant, Early chinese Writings, Mem. of thè Carnegie Museum (Pittsburgh, 4 settembre 1906).

d. Cfr. Chavannes, «Journ. As.», ser. 14, X, 1909, p. 33, nota 2.

e. Cfr. Kuo-yù, «Discours des Royaumes», trad. da de Harlez, Louvain, 1895, PV. no.

f. Cfr. la bibliografia di Shih Huang-ti, scritta da Ssu-ma Ch’ien, ed. Chavannes (1897), P.139.

g. Yu tsiuan tung kian kong mu (Annali Ming), dell’imperatore Ch’ien Lung, trad. di Delamarre, Paris, 1865.

h. Ciò significava, all’epoca, la degradazione da persone di rango, e cioè esenti da corvées e da pene corporali, a persone tributarie di lavoro servile.

i. Cfr. l’edizione di Chavannes di Ssu-ma Ch’ien, serie II, app. I, p. 526, nota 1.

j. Cfr. la biografia di Shih Huang-ti, scritta da Ssu-ma Ch’ien, ed. Chavannes, p. 149, nota.

k. Le Tscheou-li, ou rites des Tscheou, trad. di Biot, vol. II, Paris, 1851. Presumibilmente le sue origini risalgono al governo di Ch’eng Wang, dal 1115 al 1079 a. C. Solo il nucleo centrale è considerato autentico.

l. Le denominazioni del maestro di palazzo, del ministro dell’agricoltura, del cerimoniale, della guerra, della giustizia, del lavoro, i quali sono chiamati rispettivamente ministro del cielo, della terra, della primavera, dell’estate, dell’autunno e dell’inverno, sono senza dubbio un prodotto letterario. Anche il supposto «bilancio» fissato dal mandarino del cielo non corrisponde sicuramente alla realtà storica.

m. Ssu-ma Ch’ien ci ha tramandato l’effettiva organizzazione amministrativa dei Ch’in e degli Han (cfr. vol. II, app. II, dell’edizione di Ssu-ma Ch’ien curata da Chavannes). Secondo la sua versione c’erano (fino all’imperatore Wu) due visir accanto ai quali stavano: il t’ai wei come capo militare dei generali; lo tsung sheng come cancelliere e principale dei missi dominici e dei funzionari provinciali; il feng cheng, per il culto sacrificale, simultaneamente Grande Astrologo, Grande Augure, Grande Medico e - in modo caratteristico - responsabile per le dighe e i canali; poi i po shih (letterati); il lang ching ling, intendente di palazzo; il wei wei, capo delle guardie di palazzo; il fai p’u, capo dell’armeria; il t’ing wei, capo della giustizia; il tien k’o, capo dei vassalli e dei principi barbarici; il tsung sheng, custode della famiglia imperiale; il chi su nei shih, sorvegliante dei magazzini (e quindi ministro per l’agricoltura e il commercio); lo shao fu, responsabile dell’economia domestica imperiale (e sotto di lui lo shang shu, un eunuco); lo shung wei, capo della polizia della capitale; il chiang cho shao fu, intendente ai lavori pubblici; il chung shih, rettore della casa dell’imperatrice e dell’erede al trono; il nei shih, prefetto della capitale; il chu chiieh chung wei, più tardi riunito con il tien k’ o(vedi sopra), controllore dei vassalli. Come si vede, questa lista - al contrario della razionalissima e quindi storicamente poco credibile costruzione del Chou-li - presenta tutte le irrazionalità di una burocrazia patrimoniale nata da un’amministrazione domestica, rituale e militare e sviluppatasi con l’aggiunta di interessi giuridici, economici (irrigazione) e puramente politici.

n. «Patriarcale», ma naturalmente non in senso sultanistico, ma nel senso del patriarcalismo carismatico ereditario della schiatta, con il potere predominante di un pontefice rituale dapprima forse designato volta per volta (come anche i libri classici lo danno all’inizio), poi tramandato per carisma ereditario.

o. Sono accessibili innanzitutto attraverso traduzioni (parziali) gli annali di Ssu-ma Ch’ien (i secolo a. C., pubblicati da Chavannes). Una sintesi, dedotta dagli annali, dello sviluppo politico degli stati feudali di Chin, Han, Wei, Chao e Wu è data da P. Tschepe (op. cit., p. y), che si può utilizzare malgrado le inevitabili osservazioni cristiane, spesso inserite in modo abbastanza ingenuo. Quando si cita Tschepe senza altra aggiunta, si intendono gli annali di Chin. A questi si aggiunge il più volte citato Discours des Royaumes.

p. Questo principio politico estremamente importante per i fu yung (sottovassalli) si spiega nel modo più semplice con la derivazione di molti vassalli politici da principi dapprima autonomi, poi divenuti tributari. I doni dei vassalli stessi all’imperatore erano considerati - al di fuori del doveroso aiuto militare - come spontanei e l’imperatore aveva il dovere di ricambiarli con altri doni (cfr. su questi rapporti E. H. Parker, Ancient China simplified, London, 1908, p. 144 e segg.).

q. Citato in P. Alb. Tschepe (S. J.), Histoire du Royaume de Tsin, 777–207.

r. In particolare su 1.000 consumatori di sale nello stato di Chin che per primo fu razionalizzato (secondo l’interpretazione di HIRTH, Ancient History of China, New York, 1908 di un passo di Kuan-tzu).

s. Le asserzioni di E. H. Parker, op. cit., p. 83, non sembrano accettabili.

t. Se ne parlerà ancora a proposito deH’imposizione sul suolo.

u. La posizione rituale dei figli minori rispetto al maggiore era di inferiorità. Non avevano rango di «vassalli» ma di funzionari (ministeriali) e non offrivano sacrifici sul grande e antico altare degli antenati della famiglia ma su di un altare laterale (cfr. il trattato di Ssu-ma Ch’ien, «Riti», vol. III dell’edizione di Chavannes).

v. La conseguenza di ciò fu che negli ultimi decenni della monarchia i minorenni si susseguirono l’uno alPaltro come imperatore ed erano ora un parente (il principe Kung) ora le imperatrici vedove a dirigere il governo.

w. TSCHEPE, op. cit., p. 54.

x. TSCHEPE, op. cit., p. 66.

y. Resta ancora da vedere quale fosse la qualità tecnica di questi antichi «libri». La carta fu introdotta solo molto più tardi, e come prodotto d’importazione. Ma la scrittura e il calcolo esistevano da molto prima ed erano senza dubbio ben anteriori a Confucio. L’asserzione di Rosthorn, cui si farà cenno più avanti, secondo cui la «letteratura» rituale veniva tramandata oralmente e che quindi «l’incendio dei libri» sarebbe una leggenda, non sembra accettata da de Groot che nella sua ultima opera presenta ancora questo incendio come un fatto reale.

z. Gli annali (TSCHEPE, op. cit., p. 133) conservano il computo delle forze militari dei singoli stati combattenti in occasione di un progetto di alleanza. In base a tale computo, un’area, per esempio di 1.000 li quadrati (1 li = 537 metri) era in grado di fornire 600 carri da guerra, 5.000 cavalli, 50.000 uomini (di cui 10.000 destinati ai carriaggi, il resto combattenti). Una (supposta) riforma degli oneri, del xn secolo a. C. (presumibilmente - secondo le analogie del Medio Oriente - di alcuni secoli posteriore all’epoca dell’introduzione dei carri da guerra) esigeva dalla stessa area 10.000 carri da guerra.

a1. Cfr. TSCHEPE, op. cit., p. 67.

b1. Il periodo degli stati combattenti fu un’epoca di fortissimo patriottismo, in particolare negli stati di frontiera contro i barbari (soprattutto lo stato di Chin). Quando il re di Chin fu fatto prigioniero, «2.500» famiglie fornirono, con una sottoscrizione, i mezzi per proseguire la guerra. Il tentativo di un imperatore Han, nel 112 d. C., in occasione di una grave situazione finanziaria, di far ricorso ad un analogo «prestito dei cavalieri» - come è avvenuto notoriamente ancora nell’Austria leopoldina del xvii secolo - sembra al contrario aver avuto scarso successo.

c1. TSCHEPE, op. cit. y p. 142.

d1. Ambedue nell’interpretazione di un letterato, riportata da TSCHEPE, op. cit., p. 77.

e1. Tschepe, op. cit., p. 61.

f1. Tschepe,op. cit., p. 59.

g1. Tschepe, op. cit., p. 14.

h1. TSCHEPE, op. cit., p. 38.

i1. «I nobili e il popolo si mantengono entro i confini del loro rango» dice l’imperatore in un’iscrizione tramandata negli annali (TSCHEPE, op. citp. 261). In un’altra «nobili, funzionari e popolo» vengono distinti.

j1. b. Cfr. il passo, da illustrare più avanti, TSCHEPE, Histoire du Royaume de Han, «Var. Sinol.», 31, p. 43 (per il principato Wei del 407 a. C.).

k1. Op. cit. (nota precedente).

l1. La tradizione vuole che il letterato Li-ssu, il ministro da quel momento onnipotente, abbia esposto l’importanza dei letterati (e degli stranieri e anche dei mercanti in genere) per il potere del principe in un memoriale (TSCHEPE, op. cit., p. 231).

m1. Per esempio nell’iscrizione conservata da Ssu-ma Ch’ien nella sua biografia (ed. Chavannes, vol. V, p. 116) si legge che ogni agire contro la ragione è riprovevole. Numerose altre iscrizioni (sempre riportate nell’opera citata) glorificano l’ordine razionale che l’imperatore avrebbe stabilito nel regno. Questo «razionalismo» però non gli impediva di far compiere ricerche sull’elisir dell’immortalità.

n1. Proverbio di Shih Huang-ti tramandato nella sua biografia da Ssuma Ch’ien (ed. Chavannes, vol. II, p. 162). Del resto - come si vedrà più avanti - l’opinione dei ministri letterati negli stati combattenti e perfino ancora l’opinione di Wang An-shih (xi secolo d. C.) fondamentalmente non era sempre avversa ad una simile concezione.

o1. Un governo di eunuchi si trova, sembra, per la prima volta nell’vin secolo a. C.

p1. Il numero di coloro che prestarono lavoro per la Grande Muraglia viene calcolato sui 300.000 (?) e troviamo cifre ancora più alte per le prestazioni di lavoro obbligatorio nel totale. È vero che la Grande Muraglia è sorta nel corso di lunghissimi periodi di tempo (poiché secondo il calcolo di Elisée Reclus essa comprende perlomeno 160 milioni di metri cubi di massa murata, si può ben stimare la mole di lavoro richiesta).

q1. Si faceva ricorso a queste in particolare per l’approvvigionamento necessario per i soldati ed i detenuti che prestavano la loro opera. Negli annali si calcola (TSCHEPE, op. cit., p. 275) che il 18.200 dei costi si formava nel corso del trasporto fino al luogo di consumo (per ogni 182 approdi previsti, solo uno, in seguito al consumo fatto per strada, avveniva al luogo di destinazione: questo dato naturalmente è forse valido solo per un singolo caso).

r1. TSCHEPE,op. cit., p. 363 e seg. L’eunuco stesso era di famiglia nobile ma che era stata antecedentemente punita.

s1. Su questo tentativo qualcosa viene riferito negli annali, in particolare da Ssu-ma Ch’ien nella sua biografia di Shih Huang-ti (ed. Chavannes, vol. II, p. 178). «Maestro Lu», un taoista, cui l’imperatore aveva affidato la ricerca della pianta dell’immortalità, sembra essere stato l’autore del piano. Il «vero uomo» diceva «si nasconde e non si fa vedere» (un uso particolare di certi princìpi di Lao-tzu di cui si parlerà più avanti). Ma Shih Huang-ti reagì in pratica da solo e fu lamentela comune ai «saggi» di tutte le tendenze che l’imperatore non li avesse consultati prima com’era doveroso (ibid., p. 179). Solo il suo successore, Erh Shih Huang-ti, visse come chen, «nascosto», sotto la custodia dei suoi favoriti; di conseguenza però non concedeva udienza, anche dal canto suo, ai funzionari (ibid., p. 266) e ciò costituiva la lamentela tipica dei confuciani quando i taoisti e gli eunuchi (perlopiù alleati, come si vedrà più avanti) erano al potere. La caduta di Erh Shih Huang-ti, riportò presto al governo, sotto il fondatore della dinastia Han, il «seguito», cioè i signori feudali, benché l’intera burocrazia di Shih Huang-ti rimanesse in piedi e soprattutto l’influenza dei letterati venisse restaurata.

t1. Chen Chu, il capo della rivolta dell’esercito, era un operaio, Liu Pang, il capo dei contadini e fondatore della dinastia Han, era guardiano dei campi in un villaggio. Un’alleanza della sua famiglia con altre famiglie contadine costituì il nucleo del suo potere.

u1. Tschepe, op. cit., p.259 e segg. (presunta iscrizione).

v1. Tschepe, op. cit., p. 267 e segg.

w1. È vero che tale principio si impose con estrema lentezza e continui passi indietro, anche sul piano puramente teorico. Di come stavano le cose in pratica si parlerà più avanti.

x1. Appare chiaramente negli annali (cfr. TSCHEPE, op. cit., p. 67, e spesso anche nei passi citati in precedenza) il dissidio con i vassalli ed il loro odio e disprezzo per gli scolari erranti da una corte aH’altra. Cfr. la discussione di Yung con i grandi della corte del principe Hsiao Kung in TSCHEPE, op. cit., p. 118.

y1. Caratteristiche di questo fenomeno sono in particolare le cifre riportate da Ma Tuan-lin riguardo agli introiti globali delle casse deH’amministrazione centrale; le enormi differenze tra queste cifre (in particolare nel xvi secolo), del tutto immotivate, vengono attribuite proprio a questo motivo dagli autori cinesi (cfr. BIOT, «N. J. Asiat.», 3, Ser. 5, 1838 e Id., 6, 1838, p. 329). Del resto le cifre parlano chiaro: nel 1370 erano stati registrati sul catasto 8,4 milioni di ching (-48 milioni di ettari) di terra tassabile; nel 1502 sono 4,2 milioni, nel 1542 sono 4,3 milioni, nel 1582 però sono di nuovo 7 milioni di ching (pari a 39,5 milioni di ettari). Nel 1745 - 30 anni dopo il contingentamento delle imposte - devono essere stati calcolati 161,9 milioni di ettari.

z1. Alla fine dell’annata del 1879 della «Peking Gazette» si trova un computo della cifra approssimativa degli aspiranti funzionari viventi in quel momento promossi al secondo grado dell’amministrazione civile e quindi totalmente abilitati agli uffici ordinari. La cifra è data in base all’età media dei promossi - il cui contingente massimo è fisso per ognuno dei due gradi - e alle probabilità di vita; troppo alta, in quanto il numero dei funzionari da promuovere in età avanzata era tutt’altro che ristretto; troppo bassa perché vi si aggiungevano gli aspiranti provenienti dalla carriera militare - in particolare i manciù - che in seguito all’acquisto della qualifica si trovavano a disposizione. Ma anche ammettendo che il numero dei funzionari viventi in quel momento ammontasse a circa 30.000 invece del dato preciso di 21.200, ciò significava che, assumendo una popolazione di 350 milioni di abitanti, vi era uno solo di tali aspiranti ogni 11.000–12.000 abitanti. Ma nelle 18 province, compresa la Manciuria, c’erano solo 1.470 circoscrizioni amministrative corrispondenti all’ultima frazione dello stato, ognuna facente capo ad un funzionario statale autonomo (lo chih-hsien) sicché (sempre accettando gli stessi dati) vi era uno di questi funzionari ogni 248.000 abitanti circa. Se si includono le più alte cariche autonome previste dall’organico si arriverebbe circa ad un ufficio superiore ogni 200.000 abitanti. Perfino calcolando oltre a questi anche una parte dei funzionari non autonomi e avventizi, si ottiene un rapporto per il quale in Germania, per esempio, dovrebbero esservi in tutto solo circa 1.000 funzionari amministrativi e giudiziari con rango di assessore. Si ottengono invece cifre completamente diverse prendendo per base i censimenti cinesi di polizia delle famiglie e degli abitanti. Le cifre che in base a questo materiale sono state messe a disposizione di Sacharov («Arbeiten der Kaiserl. Russ. Gesandtschaft» - una missione religiosa - tradotti da Abel e Meckenberg, Berlin, 1858) danno come domiciliati (e non quindi collocati in servizio) nella sola cir-coscrizione di Pechino e in due altre circoscrizioni un numero di funzionari militari e civili pari a 26.500 in tutto nel 1845; nel 1846 erano addirittura 15.866 di ruolo e 23.700 a disposizione (due cifre difficilmente conciliabili). Evidentemente però sono inclusi qui non solo i funzionari promossi al secondo grado, ma anche quelli in aspettativa e tutti gli ufficiali manciù.

a2. Per alcuni dei più alti funzionari tale principio veniva frequentemente infranto per motivi di forza maggiore: Li Hung-chang, per esempio, rimase per vari decenni il più alto capo amministrativo del Chihli. Ma per il resto, a prescindere dalla concessione accordabile per una volta sola di una proroga di altri tre anni, il principio ha avuto un’attuazione abbastanza rigorosa fino ai tempi più recenti.

b2. Spesso arrivavano fino al numero di 6. Ma le personalità ufficiali veramente importanti, sotto il «viceré», erano solo il governatore, il giudice provinciale e il tesoriere provinciale. Tra questi il tesoriere era colui che in origine era l’unico e massimo funzionario amministrativo, il governatore era un missus dominicus diventato residente fisso (in precedenza era spesso un eunuco). Questi due funzionari - per le finanze e la giustizia - erano gli unici previsti dalla legge; tutti gli altri «dicasteri» erano non ufficiali. Anche l’ultimo funzionario (hsien) il cui nome ufficiale significa «pastore», aveva due segretari: per la giustizia e per le finanze. Il prefetto (il fu) che stava sopra di lui aveva ancora tuttavia delle funzioni precise perfino concretamente enunciabili (vie fluviali, economia rurale, allevamento di cavalli, trasporto del grano, alloggiamento dei soldati, amministrazione generale nel senso delle funzioni di polizia) ma era considerato essenzialmente come un organo di control lo e un intermediario per la corrispondenza con le autorità superiori. Le funzioni del burocrate di grado inferiore al contrario erano praticamente enciclopediche: era messo lì semplicemente per tutto ed era responsabile di tutto. Speciali taotai erano impiegati presso le autorità provinciali per le gabelle del sale, la costruzione delle strade, ecc. Funzionarispeciali con incarichi e competenze ad hoc esistevano qui come in tutti gli stati patrimoniali. Sul concetto di «giurista» in Cina (conoscitore dei precedenti) e sull’avvocatura cfr. ALABASTER, Notes and Commentaries on Chinese Criminal Law (che non mi è stato finora accessibile).

c2. Da ciò deriva anche il «sistema del pozzo» con il suo campo dello stato al centro circondato da 8 quadrati.

d2. Si chiamava ufficialmente: «canale del trasporto dei tributi», cfr. P. DOM. GANDAR S. J., Le canal impérial, «Var. Sinol.», Quaderno 4, Shanghai, 1894.

e2. Le annotazioni e le quietanze in proposito sono in parte conservati nei documenti raccolti da Aurei Stein nel Turkestan (che risalgono a periodi intorno alla nascita di Cristo). La messa a cultura delle terre desertiche progrediva talvolta di 3 passi al giorno (CHAVANNES, Les documents découverts par Aurei Stein dans le sable du Turkestan orientai, Oxford, W3)-

f2. CHAVANNES, op. cit., p. XI e seg. Spesso il servizio dura quasi per tutto il corso della vita: le mogli sono prive del coniuge ed è meglio se non allevano figli per niente.

g2. È del tutto incerto se, come si presume generalmente, delle mutazioni climatiche abbiano giocato in questo. Di per sé il declino del sistema della corvée bastava. Infatti in queste regioni la terra poteva essere mantenuta atta alla cultura soltanto a patto che non emergesse mai la questione dei costi. Un lavoratore non avrebbe mai potuto trovare di che soddisfare le esigenze di tutta la sua esistenza, ma solo il mero nutrimento e forse anche questo solo per determinate culture. Il terreno evidentemente veniva mantenuto in stato coltivabile, malgrado le sovvenzioni certamente pesanti, solo nell’interesse dell’approvvigionamento delle guarnigioni e delle legazioni con beni difficilmente trasportabili.

h2. a. P. DOM. GANDAR S. J., Le canal impérial («Var. Sinol.», 4, Shanghai, 1894, pp. 35)-

i2. Così sotto i Ming, fino al 1471, era prescritto che al trasporto dei cereali alla capitale doveva provvedere per metà l’esercito e per metà la popolazione civile. In quell’anno fu decretato che l’esercito da solo avrebbe dovuto provvedere a questo servizio (Yu tsiuan tung kian kang mu, storia della dinastia Ming dell’imperatore Ch’ien Lung, trad. di Delamarre, Paris, 1865, p. 351).

j2. Cfr. capitolo I, nota 15, il conto delle entrate del governo centrale per i secoli x, xi e xiv. Nell’insieme, secondo gli annali, i tributi in natura venivano scalati in base alla distanza dalla capitale, in modo tale che la prima zona, per esempio, forniva cereali e paglia, la seconda solo cereali e così via; ogni zona più lontana mandava beni di valore specificamente maggiore e quindi richiedenti un lavoro più intensivo. Ciò è del tutto probabile e concorda perfettamente con altre notizie.

k2. Cfr. i documenti ritrovati da A. Stein del periodo 98–137 d. C. pubblicati da Chavannes, op. cit. Il soldo degli ufficiali - forse anche quello dei soldati - veniva pagato in denaro (n. 62); le divise per questi ultimi venivano almeno in parte acquistate per denaro (n. 42). Inoltre (anche se alquanto più tardi) il libro delle spese di un tempio buddhista (n. 969) presenta un’economia totalmente monetaria: erano pagati in denaro gli artigiani addetti al lavoro salariato, come pure tutte le altre spese. Rispetto a questo stato di cose vi fu più tardi una forte involuzione.

l2. Le forniture di seta e porcellana delle manifatture imperiali presso la corte ammontavano nel solo 1883 («Peking Gazette» dei giorni 23, 24, 27, 30 gennaio, 13 e 14 giugno) a 405.000 tael (di costi di produzione!). A queste si aggiungevano poi le forniture in natura delle province che in parte almeno erano destinate all’uso di corte (seta, carte di lusso), e in parte a fini politici (ferro, zolfo). La provincia dello Shansi nel 1883(«Peking Gazette» del 15 dicembre) fece invano una petizione per essere tassata in denaro, poiché per fornire i prodotti naturali (eccetto il ferro) doveva comperarli prima lei stessa.

m2. Cfr. in proposito il lavoro, ancora utilizzabile in molti punti, di BIOT, in «Nouv. Journ. Asiat.», 3, Ser. 6, 1838.

n2. Queste cifre in generale sono estremamente poco attendibili. C’è da pensare infatti che i funzionari del periodo anteriore al compromesso fiscale del 1713 avessero interesse a diminuire o a mantenere stabile il numero delle unità imponibili (esisteva allora l’imposta prò capite/) nei loro rapporti; dopo la determinazione della quota d’imposta tale interesse venne meno (vedi più avanti). Da quel momento al contrario fu nell’interesse dei funzionari vantarsi di una popolazione molto numerosa. Infatti a partire da quel momento le cifre della popolazione interessavano ancora soltanto gli dèi stessi, cui venivano comunicate, e provavano quindi, quando erano alte, il carisma del funzionario competente. Ancora molte cifre del xix secolo (per esempio l’incremento abnorme della popolazione della provincia del Szechwan) sono altamente sospette. Tuttavia Dudgeon (Population of China, «J. of thè Peking Orientai Society», III, 3, 1893) ha calcolato il numero degli abitanti di 14 province per il 1880 pari a 325 milioni.

o2. Che questo fosse il senso del provvedimento, lo si deduce già dalla formulazione, altrimenti del tutto assurda, secondo cui d’ora in poi un determinato numero di unità nella provincia in questione sarebbero state «soggette a imposta», e tutte le altre «esenti da imposta»; ed efTettivamente nei censimenti periodici la popolazione veniva presentata così suddivisa. Naturalmente il numero corrispondente di abitanti non era realmente esente da imposte: semplicemente questi non venivano calcolati dal funzionario come contribuenti. Tant’è che la distinzione tra le due categorie fu presto abbandonata dall’imperatore - nel 1735 - come del tutto inutile.

p2. Tutti i progetti d’imposizione diretta degli ultimi 30 anni naufragarono sin dall’inizio per il fatto che avrebbero dovuto essere innanzitutto delle imposte sulle prebende dei mandarini. La concezione patrimoniale del reddito dei funzionari appare chiaramente e con particolare evidenza nei riti del lutto per un funzionario. Conformemente al senso antichissimo del lutto, come è stato conservato in Cina, in modo particolarmente inequivocabile, nelle famiglie dei funzionari, il rito dei morti serviva ad allontanare l’ira e l’invidia dello spirito del defunto contro coloro che dopo la sua morte si sono appropriati dei suoi beni come suoi eredi. A prescindere dal fatto che in origine una grossa porzione della sua proprietà gli veniva data da portare nell’Ade (ivi compresi i sacrifici di vedove e altri sacrifici umani), gli eredi per lungo tempo dovevano evitare la casa del defunto e l’uso dei suoi beni, e vivere poveramente vestiti in un altro casolare e astenersi anche dal godimento della loro proprietà. Ora l’ufficio era talmente considerato una mera ’ prebenda» e la prebenda come mera proprietà privata del prebendario che un caso di morte richiedente il lutto aveva come conseguenza necessaria le dimissioni dalla carica. Le continue vacanze di numerosi uffici, la temporanea inservibilità di numerosi funzionari, il rigurgito dei candidati rimasti senza ufficio in seguito al lutto, costituiva, soprattutto in caso di epidemia, una calamità politica estremamente gravosa. Periodicamente gli imperatori proibivano, nell’interesse dello stato, l’eccessiva durata del lutto, poi la rimettevano in vigore per timore degli spiriti, appoggiando l’uno e l’altro provvedimento con pene corporali. Ancora Li Hung-chang, alla morte di sua madre, fu ammonito con severità dall’imperatrice, ma invano, di prendere solo una licenza invece di dare le dimissioni («Peking Gazette», i maggio 1882).

q2. Per questo motivo le persone influenti chiedevano e riuscivano ad ottenere di far sempre il pagamento in natura.

r2. Ciò ricorda in certa misura la tassazione dei funzionari nominati dal capo eletto del partito vincitore negli Stati Uniti, a beneficio deibosses e delle casse del partito; solo che questa nell’insieme era ben definita.

s2. Jamieson, Parker. Cfr. i calcoli e le stime di quest’ultimo in Trade and Administration of thè Chínese Empire, p. 85 e segg.

t2. Questa concezione si manifesta con particolare chiarezza nel decreto riportato dalla «Peking Gazette» delPii gennaio 1895. Viene deplorato che alcuni funzionari (subordinati) conservino le loro prebende per più di tre anni in modo che altri aspiranti non possano «avere il loro turno».

u2. Ciò appare in molti decreti. Così per esempio nella «Peking Gazet-

v2. Su questo cfr. per esempio E. H. PARKER, China, her history, diplomacy and commerce, London, 1901. «È un uomo da 1.000 quintali (di riso)» - indicante una rendita annua di un importo di questo valore - era la classifica usuale per un uomo benestante.

1. Wei, dinastia tartara, una delle dinastie parziali del nord dell’Epoca della divisione. Sorta nel 386 d. C., trasferì la capitale a Lo-yang sotto Hsiao Wen Ti (471–499) e si divise nel 535 tra Wei orientali e occidentali, presto sconfitti dai Ch’i e Chou del nord.

2. Méstnichestvo, nell’antica Russia, sistema che regolava la posizione negli uffici dei membri dell’alta aristocrazia organizzati secondo una scala gerarchica.

3. Chin, dinastia cinese (255–206 a. C.); distrusse il sistema feudale e unificò la Cina sotto Shih Huang-ti (nel 221 a. C.).

4. Ganerbschajt, antico istituto giuridico in base al quale l’eredità non viene spartita tra gli eredi che continuano a vivere in comunità sulla proprietà della famiglia. Analogo per qualche verso al «maso chiuso» dell’Alto Adige.

5. Dalai Lama, capo supremo del buddhismo tibetano e, in passato, anche reggitore temporale del Tibet.

6. Wu-ti o Wu (il «bellicoso»), imperatore Han (141–87 a. C.).

7. Wang An-shih, 1021–1086, celebre economista e riformatore, ricoprì per diciotto anni l’ufficio di cancelliere presso l’imperatore Shen-tsung, attuando vari interventi nel campo fiscale e commerciale e nel sistema degli esami per funzionari.

8. Yu, Ta Yii o «il grande Yii», fondatore della dinastia Hsia. Incaricato dall’imperatore Shun di drenare le grandi alluvioni dell’impero, vi riuscì dopo nove anni di lavoro incessante e succedette aShun nel 2205 a. C.

9. Mencio o Meng-tzu, «maestro Meng», 371–289 a. C., filosofo cinese, si dedicò all’insegnamento e alla vita errante presso varie corti principesche. La sua opera, esposta dai suoi discepoli in sette libri, sviluppa i concetti dell’eguaglianza degli uomini e della loro bontà innata.

10. Sir Robert Hart, 1835–1911, uomo politico, ricoprì nel servizio coloniale in Cina la carica d’ispettore generale alle dogane e quella alle poste cinesi sotto controllo internazionale, a garanzia dei debiti. Fu sostituito da un direttore indigeno e rimpatriò dopo i moti dei Boxers.

11. Sung, importante dinastia fondata nel 960 d. C. e durata 320 anni con venti sovrani. A partire dal 1127 prende il nome di dinastia Sung meridionale (fino al 1279). L’epoca dei Sung è caratterizzata da una grande fioritura della letteratura, della filosofia e dell’arte. Il suo primo periodo è illustre per i nomi di Ssu-ma Kuang e di Wang An-shih. te» del 23 marzo 1882: un funzionario a Canton aveva messo insieme in pochi mesi 100.000 ta’èl in più del normale (!). Uno scrivano stipendiato del Fukien poteva acquistare il posto di prefetto a Kiangsu. I funzionari doganali avevano redditi di 100–150.000 ta’èl all’anno.