CAPITOLO V

IL CETO DEI LETTERATI

1. L’orientamento ritualistico e tecnico-amministrativo dell’umanesimo cinese. ha svolta verso il pacifismo.

In Cina, da dodici secoli a questa parte, molto più della proprietà, è sempre stata la qualifica alle cariche, stabilita dalla cultura e in particolare dagli esami, a determinare il rango sociale. La Cina è stato il paese che, nel modo più esclusivo, ancora più esclusivo dell’Europa umanistica o — per ultima — della Germania, ha fatto della cultura letteraria il metro della valutazione sociale. Già all’epoca degli «stati combattenti» lo strato letterariamente preparato — che significava semplicemente, all’inizio, preparato mediante la conoscenza della scrittura — degli aspiranti alle cariche ufficiali, come portatore del progresso verso un’amministrazione razionale e di ogni «intellettualità», si estendeva attraverso tutte le strutture statali parziali. Esso costituiva — come il ceto dei brahmani in India — l’espressione decisiva dell’unità della cultura cinese. Quei territori (anche enclave) che non erano amministrati sul modello deH’idea ortodossa di stato da funzionari di educazione letteraria erano considerati dalla teoria dello stato come barbarici ed eterodossi, proprio come nell’ambito territoriale deH’induismo questo giudizio si applicava ai territori tribali non regolati da brahmani o per gli Elleni alle regioni non organizzate in polis. Questa struttura sempre più burocratica dell’organizzazione politica e dei suoi portatori ha anche marcato il carattere di tutta la tradizione letteraria.

Lo strato che — con interruzioni e spesso con lotte violente - è tuttavia riemerso sempre, e sempre in misura crescente, come strato dominante in Cina, è stato ed è, in maniera definitiva da oltre due millenni, quello dei letterati. A loro, e solo a loro, per la prima volta nel 1496 l’imperatore, secondo gli annali, si è rivolto chiamandoli «miei signori»a. Ora, è stato d’importanza enorme per il tipo di sviluppo che la cultura cinese ha conosciuto il fatto che questo strato preminente di intellettuali non abbia mai avuto il carattere dei chierici del cristianesimo o dell’islam, né quello dei rabbini ebraici, né quello dei brahmani indiani o dei sacerdoti dell’antico Egitto o degli scrivani egiziani o indiani. Perché se è vero che esso è emerso da una preparazione rituale, tuttavia è sorto sulla base di un’aristocratica educazione laica. I «letterati» dell’epoca feudale, allora chiamati ufficialmente po shih, «biblioteca vivente», erano senza dubbio innanzitutto dei conoscitori del rituale. Ma contrariamente a quelli indiani non provenivano né da una stirpe di nobiltà sacerdotale (come le schiatte Rsi del Rgveda) né da una corporazione di stregoni (come, probabilmente, i brahmani dell’Atharva—Veda) ma, almeno per la maggior parte, erano discendenti, perlopiù figli minori, di famiglie feudali che si erano appropriate della cultura letteraria, innanzitutto dell’arte dello scrivere, e la cui posizione sociale si basava su questa conoscenza della scrittura e delle lettere. Anche un plebeo poteva appropriarsi della scienza dello scrivere, seppure con difficoltà, dato il sistema di scrittura cinese; egli diveniva allora partecipe del prestigio della classe degli scribi: già nell’epoca feudale lo strato dei letterati non era un ceto ereditario né esclusivo, contrariamente alla cultura vedica che si basava sulla tradizione orale fin dai più remoti tempi storici e, come ogni arte corporativa di stregoni professionisti, aborriva caso mai l’idea di fissare per iscritto le tradizioni; in Cina invece la trascrizione dei libri rituali, dei calendari e degli annali risale a tempi preistoricib. Già la tradizione più lontana considerava gli antichi scritti come og—getti magiciac coloro che possedevano la capacità di scrivere come portatori di un carisma magico. E le cose sono rimaste così, come vedremo. Il prestigio dei letterati, però, non era dato dal carisma di un’arte magica, bensì dalla conoscenza della scrittura e della letteratura come tali e accanto a ciò, in origine, forse anche dalle conoscenze astrologiche. Non spettava loro — come ai maghi — aiutare i privati con incantesimi, o guarire i malati, per esempio. Per queste cose c’erano, come si vedrà avanti, delle professioni distinte. L’importanza della magia era senza dubbio una premessa naturale, qui come ovunque. Ma nella misura in cui entravano in gioco anche gli interessi della comunità, l’esercizio d’influenza sugli spiriti era nelle mani dei rappresentanti della comunità: per la comunità politica l’imperatore, in qualità di pontefice supremo, ed i principi; per la famiglia il caposchiatta ed il capofamiglia. Ma l’influenza sul destino della comunità, in particolare sul raccolto, era anche conseguita, da tempi assai remoti, tramite mezzi razionali quali la regolazione delle acque; di conseguenza il retto «ordinamento» dell’am ministrazione è sempre stato il mezzo fondamentale per influenzare il mondo degli spiriti. Accanto alla scienza dello scrivere come mezzo per la conoscenza della tradizione, era necessaria anche la scienza del calendario e delle stelle per scoprire la volontà celeste, soprattutto i dies fasti e nefasti; e sembra che la posizione dei letterati si sia sviluppata comunque anche sulla base della carica di astrologi di corted. Conoscere questo ordine importante per il rituale (e in origine anche per la previsione del futuro) e consigliare su questa base le autorità politiche competenti era quanto i letterati e solo loro erano in grado di fare. Un aneddoto tratto dagli annalie ne illustra bene le conseguenze. Nello stato feudale dei Wei un generale affermato (Wu—chi, il presunto autore del manuale di strategia ritualmente corretta, opera influente ancora oggi) e un letterato concorrono per la carica di primo ministro. Dopo che è stato nominato quest’ultimo, tra i due insorge una polemica violenta. Il letterato ammette volentieri che per quanto lo riguarda non è in grado né di condurre una guerra né di venire a capo di analoghi compiti politici come può fare il generale; al generale che a proposito si dichiara il più qualificato fa però notare che una rivoluzione minaccia la dinastia, al che il generale ammette immediatamente che a prevenire tale minaccia il più adatto non è lui ma il letterato. Per il retto ordinamento interno dell’amministrazione e per la condotta di vita carismaticamente giusta del principe — sul piano rituale e politico — l’esperto letterato dell’antica tradizione era, del pari, l’unico competente. In totale antitesi ai profeti ebraici, sostanzialmente interessati alla politica estera, i politici—letterati cinesi ritualmente formati erano quindi orientati soprattutto verso i problemi dell’amministrazione interna, anche se questi — come abbiamo visto prima — dal punto di vista dei principi erano fondamentalmente al servizio della politica di potenza, e anche se i letterati stessi, come incaricati della corrispondenza e cancellieri dei principi, erano profondamente implicati nella condotta degli affari diplomatici.

Questo costante orientamento verso i problemi della «corretta» amministrazione statale ha determinato un avanzato razionalismo pratico—politico dello strato intellettuale dell’epoca feudale. In contrasto con il rigido tradizionalismo dell’epoca posteriore gli annali ci mostrano occasionalmente i letterati come degli arditi innovatori politicif. Illimitato era il loro orgoglio per la propria culturag e vastissima — almeno secondo la presentazione degli annali — la deferenza dei principih. Per la configurazione assunta dallo strato di letterati è stato decisivo il loro intimo rapporto di servizio presso i principi patrimoniali. Questo risale fin dove arrivano le nostre notizie storiche. L’origine del ceto letterato rimane per noi immersa nell’ombra. Apparentemente essi erano degli auguri cinesi e l’elemento decisi vo per la loro posizione è consistito nel carattere pontificale, ce— saro—papista del potere imperiale e nel carattere della letteratura che ne è derivata: annali ufficiali, canti bellici e sacrificali di provata efficacia magica, almanacchi, libri rituali e cerimoniali. Essi appoggiavano con la loro scienza quel carattere d’istituzione ecclesiastica dello stato e ne derivano come necessaria premessa. Crearono nella loro letteratura il concetto di «ufficio)), e soprattutto l’etica del «dovere d’ufficio» e del «bene pubblico»i. Sono stati sin dall’inizio, se si può prestar fede agli annali, gli avversari del feudalesimo ed i fautori dell’organizzazione istituzionale burocratica dello stato. Ciò è perfettamente comprensibile perché dal punto di vista dei loro interessi l’amministrazione doveva essere affidata solo ad individui personalmente qualificati (attraverso la cultura letteraria)j. D’altra parte rivendicavano per sé il merito di aver indicato ai principi la via dell’autarchia - fabbricazione d’armi in proprio e costruzione di fortificazioni - come mezzo per diventare «signori delle loro terre»k.

Questi stretti rapporti di servizio con i principi, sorti nel corso della lotta tra il principe ed il potere feudale, distinguono lo strato letterario cinese dall’antica cultura laica sia ellenica che indiana (kshatriya) e lo avvicina ai brahmani, da cui però si differenzia fortemente da un lato per la sua subordinazione rituale al pontefice cesaro—papista e dall’altra per la mancanza che ne deriva — e che è anche strettamente collegata alla cultura letteraria — di un’articolazione in caste. è vero che il tipo di rapporto con Vufficio vero e proprio è cambiato. All’epoca degli stati feudali le varie corti erano in concorrenza tra di loro per i servizi dei letterati e questi inseguivano il potere e — va ricordato — il profittol là dove l’occasione era più favorevole. Si formò tutto uno strato di «sofisti» erranti (diesile), comparabili ai cavalieri erranti e agli eruditi del Medioevo in Occidente. E c’erano anche — come vedremo — dei letterati che si mantenevano liberi dalle cariche per principio. Questo ceto di letterati libero nei suoi movimenti era a quell’epoca il portatore della cultura scolastica filosofica e dei dissensi filosofici, come in India, nell’antichità ellenica e presso i monaci e gli studiosi del Medioevo. Tuttavia il ceto dei letterati in quanto tale si sentiva unitario sia nel proprio onore di statusm che come unico portatore della cultura unitaria cinese. E il rapporto di servizio con i prìncipi come fonte normale o perlomeno normalmente perseguita di profitto e come opportunità di partecipazione attiva è sempre rimasto ciò che ha distinto questo ceto nel suo insieme dai filosofi dell’antichità e perlomeno dalla cultura laica dell’India (i cui centri di cultura laica erano esterni all’ambito delle cariche ufficiali). Confucio come Lao— tzu1 erano funzionari, prima di vivere senza impiego come maestri e scrittori e vedremo come questo rapporto con l’ufficio statale («ecclesiastico—statale») è rimasto di fondamentale importanza per il tipo di spiritualità di questo ceto. E soprattutto come tale orientamento è diventato sempre più importante ed esclusivo. Nello stato unitario vennero a cessare le possibilità dei principi di contendersi i letterati. Adesso al contrario erano questi ultimi con i loro allievi a concorrere alle cariche esistenti ed era inevitabile che ciò portasse, come sua conseguenza, allo sviluppo di una dottrina unitaria, ortodossa, adattata alla situazione. Questa divenne il confucianesimo. E con la crescente pre— bendizzazione nella struttura dello stato cinese venne a cessare nello strato dei letterati quel movimento intellettuale originaria mente così libero. Questo sviluppo, all’epoca, era già in pieno corso quando comparvero gli annali e la maggior parte degli scritti sistematici dei letterati e quando furono «ritrovati»n i libri sacri eliminati da Shih Huang—ti, che allora, rivisti, ritoccati e commentati dai letterati, acquisirono un valore canonico.

Appare chiaramente dagli annali come il corso globale di questo sviluppo sia andato di pari passo con la pacificazione dell’impero o meglio abbia subito lo spirito delle sue conseguenze. Dappertutto la guerra è stata una cosa che riguardava i giovani e l’espressione «sexagenarios de ponte» era una parola d’ordine da guerrieri diretta contro il «senato». Ma i letterati erano gli «anziani» o li rappresentavano. Negli annali è stata tramandatao come pubblica confessione paradigmatica del principe Mu Kung (di Chin) la dichiarazione secondo cui egli avrebbe peccato dando retta ai «giovani» (i guerrieri) e non agli «anziani» che non hanno, è vero, la forza m98a possiedono l’esperienza. Di fatto questo era il punto decisivo nella svolta verso il pacifismo e — con ciò — verso il tradizionalismo: al posto del carisma subentrava la tradizione.

2. Confucio.

Gli scritti classici collegati al nome di K’ung—tzu, Confucio, morto nel 478 a. C., come redattore, permettono di conoscere, nelle loro parti più antiche, le condizioni che si riferiscono ai re guerrieri carismatici. I canti degli eroi del libro dei canti (Shih—ching) celebrano, come le epopee elleniche e indiane, dei re combattenti su carri. Ma nel loro carattere globale, non sono già più, come le epopee americane o germaniche, celebra— tori di un eroismo individuale o comunque puramente umano. Già all’epoca in cui fu redatta la versione attuale dello Shih— ching, l’esercito dei re non aveva più nulla del romanticismo dell’armata dei seguaci 0 delle avventure omeriche, ma aveva già il carattere di un’armata burocratizzata con la sua discipli—na e soprattutto con i suoi «ufficiali». E — fatto decisivo per lo spirito che caratterizza l’epoca — già nello Shih—ching i re non vincono perché sono i più grandi eroi ma perché si trovano moralmente nel giusto di fronte allo Spirito del Cielo e perché le loro virtù carismatiche sono superiori, mentre i nemici sono dei malfattori miscredenti che hanno peccato contro il benessere dei loro sudditi opprimendoli e infrangendo le antiche usanze e hanno perso così il loro carisma. La vittoria dà adito assai di più ad osservazioni moralizzanti che ad un giubilo eroico. Inoltre, contrariamente alle sacre scritture di quasi tutte le altre etiche, colpisce immediatamente l’assenza di qualsiasi dichiarazione «scabrosa», di qualsiasi immagine anche solo possibilmente «sconveniente». Qui evidentemente ha avuto luogo tutta una epurazione sistematica ed è molto probabile che questa sia stata l’opera specifica di Confucio. Il carattere paradigmatico dell’antica tradizione degli annali, come l’hanno prodotta la storiografia ufficiale ed i letterati, superava palesemente il carattere paradigmatico sacerdotale dell’Antico Testamento, in particolare del Libro dei Giudici. La cronaca, la cui redazione viene attribuita in modo particolarmente esplicito a Confucio stesso, contiene le enumerazioni più aride e piatte che si possano immaginare di campagne militari e punizioni di ribelli, comparabili da questo punto di vista ai protocolli assiri di scrittura cuneiforme. Se Confucio ha realmente espresso l’opinione che il suo essere verrà compreso con particolare chiarezza attraverso quest’opera — come dice la tradizione — allora bisognerebbe aderire all’opinione di quegli studiosi (europei e cinesi) secondo i quali l’interpretazione è che l’elemento caratteristico sta proprio in questa correzione sistematica pragmatica dei fatti dal punto di vista del «decoro» (come deve essere apparsa ai suoi contemporanei: infatti per noi il senso pragmatico è perlopiù diventato opaco)p. Nei classici i principi ed i ministri parlano ed agiscono come paradigmi il cui compor tamento viene ricompensato dal cielo. Oggetto di trasfigurazione è la burocrazia ed il suo avanzamento basato sul merito. è vero che vigeva ancora l’ereditarietà del rango principesco e in parte anche delle cariche locali sotto forma di feudi, ma perlomeno per quanto riguarda quest’ultimo sistema era considerato con scetticismo da parte dei classici e ritenuto, in definitiva, come meramente provvisorio. E la teoria, in realtà, estendeva questo giudizio anche al carattere ereditario della stessa dignità imperiale. Gli imperatori ideali della leggenda (Yao2 e Shun3) designano i loro successori (Shun e Yii) nella cerchia dei loro ministri, senza tener conto della discendenza e passando sulla testa dei propri figli, basandosi esclusivamente sul loro carisma personale, attestato dai più alti funzionari di corte, e nello stesso modo designano tutti i loro ministri, e solo il terzo, Yu, non designa il suo primo ministro (Y) ma suo figlio (Chi).

È inutile cercare autentici sentimenti eroici nella maggior parte degli scritti classici (contrariamente agli antichi documenti autentici ed ai monumenti). L’opinione di Confucio tramandata in proposito asserisce che la prudenza è la migliore componente del valore e che non si addice al saggio di esporre la propria vita in maniera inopportuna. Tanto più che la profonda pacificazione del paese a partire dal dominio mongolo aveva fortemente potenziato questo stato d’animo. L’impero divenne allora un impero pacifico; secondo Mencio non vi erano pratica— mente più guerre «giuste» entro i suoi confini, poiché adesso aveva assunto un aspetto unitario. L’esercito, in rapporto all’e— stensione del paese, era addirittura ridotto a proporzioni minime. Se gli imperatori, dopo che la cultura letteraria si fu staccata da quella cavalleresca, continuarono a mantenere accanto alle prebende statali per letterati anche concorsi sportivi e letterari per i diplomi militariq — il cui conseguimento, del re sto, da molto tempo non aveva quasi più nessun rapporto con l’autentica carriera militarer —, questo non cambiò la situazione: il ceto militare rimase altrettanto disprezzato quanto lo è in Inghilterra da due secoli e un letterato colto non aveva rapporti paritetici con gli ufficialis.

3. Sviluppo del sistema degli esami.

Il ceto dei mandarini, nel cui ambito venivano reclutate tutte le classi di funzionari civili cinesi, era diventato all’epoca della monarchia unitaria uno strato di diplomati candidati alle prebende, la cui qualifica per le cariche ed il cui rango si basavano sul numero degli esami superati. Questi esami si dividevano in tre gradi principalit che tuttavia, tra esami intermedi, esami di ripetizione ed esami preliminari oltre alle numerose condizioni particolari, venivano moltiplicati in misura vastissima: c’erano ben dieci tipi di candidati solo per il primo grado. «Quanti esami ha superato ?» era la domanda che si usava porre ad un estraneo di cui non si conosceva il rango. Non era quindi il numero degli antenati a determinare il rango sociale, malgrado il culto degli antenati. Avveniva invece proprio il contrario: dal rango personale nelle cariche ufficiali dipendeva il diritto di possedere un tempio degli antenati (o solo una tavola degli antenati, come gli illetterati) e il numero degli antenati che vi si potevano menzionareu. Perfino il rango di un dio della città nel pantheon dipendeva dal rango del mandarino della città.

Nell’epoca confuciana (vi—v secolo a. C.) questa possibilità di ascesa alle cariche ufficiali e in particolare il sistema degli esami erano ancora sconosciuti. Negli stati feudali, a quanto pare, almeno di regola le «grandi famiglie» detenevano il potere. Fu solo la dinastia Han — essa stessa fondata da un parvenu — a introdurre il principio del conferimento delle cariche in base alle capacità. E fu la dinastia T’ang a creare per la prima volta (690 d. C.) il regolamento per gli esami del più alto grado. Come si è già detto, si può ritenere estremamente probabile che la cultura letteraria, a prescindere forse da singole eccezioni, fosse innanzitutto, di fatto e forse anche di diritto, monopolio delle «grandi famiglie», come la cultura vedica in India. Di ciò sono rimasti dei residui fino all’ultimo. La famiglia imperiale, pur non essendo esonerata da tutti gli esami, lo era da quelli di primo grado. Ed i mallevadori che ogni candidato agli esami doveva presentare dovevano anche testimoniare, fino a questi ultimi tempi, la sua provenienza da una «buona fami glia» (il che nell’epoca moderna significava solo l’esclusione di discendenti di barbieri, sbirri, musicisti, domestici, facchini, ecc.). Ma accanto a ciò esisteva l’istituzione dei «candidati al mandarinato»: i rampolli dei mandarini godevano nel contingentamento del numero massimo di candidati per provincia di una posizione speciale e privilegiata. Le liste di promozione impiegavano la forma ufficiale «da una famiglia di mandarini e dal popolo». I figli dei funzionari benemeriti avevano il grado inferiore a titolo onorifico: tutti residui di condizioni più antiche.

Realizzato nella sua effettiva pienezza a partire dalla fine del vii secolo, il sistema degli esami era uno dei mezzi attraverso il quale il signore patrimoniale era in grado di ostacolare la formazione di un ceto chiuso a lui contrapposto, che avrebbe monopolizzato il diritto alle prebende d’ufficio alla maniera dei feudatari e dei ministeriali. Le prime tracce sembrano trovarsi nello stato confederato di Chin, più tardi divenuto egemonico, all’incirca all’epoca di Confucio (o di Huang Kung): la selezione si basava essenzialmente sul valore militare. Tuttavia già il Li Chi4 e il Chou-liva esigevano, molto razionalmente, che i capi delle circoscrizioni sottoponessero periodicamente ad un esame la moralità dei loro funzionari inferiori onde proporli poi su questa base all’imperatore per la promozione. Nello stato unitario degli Han il pacifismo incominciò a determinare la tendenza della selezione. Il potere del ceto dei letterati si consolidò in maniera considerevole dopo che questi erano riusciti (nel 21 d. C.) a mettere e a mantenere sul trono il corretto Kuang—wu al posto del popolare «usurpatore» Wang Mang. Nel corso delle furibonde lotte per le prebende del periodo successivo, di cui si parlerà più avanti, i letterati si fusero in gruppo di status.

Dopo che la dinastia T’ang — ancora oggi circondata dal lustro di essere stata l’autentica creatrice della grandezza e del la cultura cinese — ebbe regolato per la prima volta la posizione dei letterati creando inoltre dei collegi per la loro formazione (vii secolo) e fondando la Han—lin yiian, la cosiddetta «accademia», originariamente destinata alla redazione degli annali per la raccolta dei precedenti giuridici e che nelle loro mani divenne strumento di controllo della correttezza dell’imperatore, gli statuti sostanzialmente definitivi furono emanati dalla dinastia nazionale dei Ming nel xiv secolo, dopo le invasioni mongolew. In ogni villaggio si doveva fondare una scuola per ogni 25 famiglie. Siccome queste non erano sovvenzionate, abbiamo visto prima quali forze si impadronivano della scuola. Nel 1382 vennero destinate a questi «studenti» delle prebende sul raccolto del riso, nel 1393 fu determinato il loro numero. A partire dal 1376 solo coloro che avevano superato gli esami avevano diritto ad una carica. Immediatamente si scatenò la lotta tra le regioni, in particolare tra regioni del nord e del sud. Il sud forniva già allora dei candidati più colti agli esami, perché provenienti da un ambiente più aperto; ma il nord era militarmente la pietra angolare dell’impero. L’imperatore di conseguenza intervenne e punì (!) degli esaminatori che avevano piazzato «primo» un candidato proveniente dal sud. Nacquero liste separate per il nord e per il sud. Ma immediatamente sorse anche la lotta per la clientela delle cariche. Già nel 1387 furono concessi degli esami speciali per i figli degli ufficiali. Gli ufficiali ed i funzionari andarono però ancora più oltre e rivendicarono la facoltà di designare il loro successore (vale a dire la rifeudalizzazione). Nel 1393 questa richiesta venne accolta ma in definitiva solo in forma attenuata: i presentati avrebbero avuto la preferenza nell’assunzione nei collegi e sarebbero state riservate loro delle prebende: nel 1465 per tre figli, nel 1842 per un figlio. L’acquisto di posti nei collegi (1453) e negli uffici (1454) fece la sua comparsa nel xv secolo, allorché occorreva come sempre denaro per le imprese militari; fu però abolito nel 1492 poi ripristinato nel 1529. Del pari esisteva la lotta tra i dicasteri. Il dicastero dei riti faceva gli esami (sin dal 736) ma

quello della pubblica amministrazione assegnava le cariche. Non era raro il boicottaggio degli esaminati da parte di quest’ultimo e lo sciopero degli esami come risposta da parte del primo. In definitiva, l’uomo più potente in Cina era formalmente il ministro dei riti, sostanzialmente il ministro della pubblica amministrazione (maestro di palazzo). Accedevano ora agli uffici anche i commercianti, dei quali si sperava — a torto, naturalmente — che sarebbero stati meno «avidi»x. I Manciù favorirono le vecchie tradizioni e con esse i letterati e - nei limiti del possibile — l’«integrità» della classe che ricopriva le cariche amministrative. Ma sia prima che dopo hanno continuato a coesistere le tre vie: i. le concessioni imperiali per i figli delle famiglie di «prìncipi» (esenzione degli esami); 2. esami facilitati (ufficialmente ogni 3–6 anni) per i funzionari inferiori tramite i funzionari superiori, con la protezione di questi, esami in cui si rinnovavano quindi sempre inevitabilmente anche le promozioni alle più alte posizioni; 3. esami effettivi riguardanti la qualificazione vera e propria, l’unica via legale.

La funzione destinata dall’imperatore al sistema degli esami è stata puntualmente realizzata per quanto riguarda l’essenziale. Il suggerimento avanzato occasionalmente (1372) all’imperatore — ci si chiede da che parte — in coerenza con il carisma ortodosso della virtù, che si abolissero cioè gli esami poiché solo la virtù qualifica e legittima, venne presto abbandonato. Ciò è perfettamente comprensibile in quanto ambedue le parti — l’imperatore e gli accademici — vi trovavano in definitiva — o credevano di trovarvi — il proprio tornaconto. Dal punto di vista dell’imperatore l’esame si conformava perfettamente al ruolo che il méstnichestvo del dispotismo russo — un mezzo del resto tecnicamente eterogeneo — aveva svolto per la nobiltà russa. Attraverso le lotte e le rivalità dei cacciatori di prebende per ottenere le cariche, che escludevano qualsiasi unione in una nobiltà di toga a carattere feudale, e mantenendo aperto l’accesso al ceto dei candidati prebendari a chiunque desse prova di avere la qualifica culturale richiesta, questo mezzo, di fatto, ha pienamente raggiunto il suo scopo.

4. La posizione dell’educazione confuciana nella tipologia sociologica dell’educazione.

Ci interessa ora la posizione di questo tipo di formazione in rapporto ai tipi principali di educazione. Beninteso non si può dare qui, concisamente, una tipologia degli scopi e dei mezzi pedagogici. Tuttavia alcune osservazioni in proposito sono forse opportune.

Storicamente i due poli estremi, opposti, nel campo degli scopi dell’educazione sono da un lato il risveglio del carisma magico (qualità eroiche o doni magici), dall’altro l’impartizio— ne di un addestramento professionale specialistico. Il primo tipo corrisponde alla struttura carismatica del potere, il secondo a quella razionale—burocratica (moderna). Ambedue non sono privi di rapporti o di forme intermedie tra di loro. Anche l’eroe guerriero o lo stregone avevano bisogno di un addestramento professionale. Ed anche al burocrate specializzato non si soleva insegnare soltanto la scienza. Tuttavia sono poli opposti. Tra queste due forme radicalmente contrarie si situano tutti quei tipi di educazione che vogliono inculcare nell’allievo un tipo determinato di condotta di vita, sia essa mondana o spirituale, ma in ogni caso di status.

La disciplina carismatica dell’antica ascesi magica e le prove eroiche cui i maghi e gli eroi guerrieri sottoponevano il ragazzo, volevano aiutare il novizio ad ottenere una «nuova anima» in senso animistico, ossia una rinascita; che tradotto nel nostro linguaggio significa solamente risvegliare e mettere alla prova una capacità considerata come un dono, una grazia, puramente personale. Infatti un carisma non si può insegnare o inculcare. Il suo seme è presente o viene infuso da un miracolo magico di rinascita, altrimenti è irraggiungibile. L’educazione professione invece vuole addestrare l’allievo ad una abilità pratica a fini amministrativi, nell’ambito di una magistratura, di un ufficio, di una fabbrica, di un laboratorio scientifico o industriale, di un esercito disciplinato. Questo si può ottenere, in linea di massima, con chiunque, sia pure a livelli diversi. La pedagogia, infine, che mira a coltivare l’uomo, educherà un «uomo di cultura», e con ciò s’intende qui un uomo con una determinata condotta di vita interiore ed esteriore, diversa a seconda dell’ideale culturale dello strato dominante. Anche questo, in linea di principio, può verificarsi per chiunque. Solo la mèta è diversa. Se il ceto dominante è uno strato guerriero si studierà di fare dell’allievo un cavaliere di stile cortigiano che disprezzerà le cianfrusaglie pennaiuole, come il samurai giapponese, e sarà di stampo molto diverso nei singoli casi; se lo strato dominante è uno strato sacerdotale, l’educazione mirerà a fare delPallievo uno scriba od un intellettuale, anche qui di tipo molto diverso caso per caso. Le numerose combinazioni e articolazioni intermedie — poiché in realtà nessuno di questi tipi appare mai in forma pura — non possono essere esaminate in questo contesto. Qui ci interessa la posizione dell’educazione cinese rispetto a queste diverse forme. I resti della primitiva educazione carismatica alla rinascita, ossia il nome d’infanzia, la consacrazione degli adolescenti (di cui si è brevemente parlato in precedenza), il cambiamento di nome dello sposo, ecc., erano diventati da molto tempo delle formule (come la nostra cresima) accanto all’esame di qualificazione monopolizzato dal potere politico. Tuttavia si trattava, se si tiene conto dei mezzi formativi, di una qualificazione «culturale» nel senso di una formazione generale, di tipo simile, benché più specifico, alla formazione tradizionale umanistica dell’Occidente che da noi, in modo quasi esclusivo fino a pochissimo tempo fa, procurava l’accesso alla carriera in quegli uffici dotati di potere di comando nell’ammi— nistrazione civile e militare e che quindi nello stesso tempo marcava gli allievi da tirar su con il crisma dell’appartenenza anche sociale al ceto delle persone colte. Da noi, però — e questo stabilisce un’importantissima differenziazione tra l’Occidente e la Cina —, accanto, e in parte al posto di questa qualificazione culturale di status è subentrato il razionale addestramento specialistico.

Gli esami cinesi non accertavano, come i moderni sistemi razionali di esami burocratici dei nostri giuristi, medici, tecnici, ecc., una qualificazione specialistica. D’altra parte, però, non accertavano nemmeno il possesso di un carisma, come le tipiche prove dei maghi e delle associazioni maschili. è vero che vedremo presto le limitazioni che bisogna dare a questa affermazione, che tuttavia vale perlomeno per la tecnica degli esami. Questi accertavano il possesso di un’approfondita cultura letteraria con il relativo schema di pensiero tipico dell’uomo nobile. Tale cultura veniva acquisita in misura più specifica di quanto non avvenga oggi nei nostri licei umanistici i cui scopi vengono perlopiù giustificati, sul piano pratico, facendo riferimento all’educazione formale alle cose dell’antichità. A giudicare dai compiti assegnati in sede d’esame agli studenti, questi avevano, nei gradi inferioriy, il carattere di componimenti analoghi a quelli assegnati nell’ultimo biennio di un liceo tedesco o forse, ancora più precisamente, nella classe scelta di una scuola femminile superiore tedesca. Tutti i gradi dovevano costituire altrettante prove dell’arte dello scrivere, della stilistica, della padronanza delle lettere classichez; in definitiva però — un po’ come da noi nell’insegnamento della religione, della storia e del tedesco — dovevano essere prove volte ad accertare un modo di pensare in certo qual modo conforme alla regolaa1. Inoltre il carattere di questa cultura, da un lato puramente mondano, dall’altro però strettamente legato alle norme fisse dell’interpretazione ortodossa dei classici, un carattere esclusivamente letterario, libresco, nel modo più assoluto, costituisce un elemento decisivo nel nostro contesto.

In India, nelle civiltà ebraica, cristiana ed islamica, il carattere letterario della cultura era una conseguenza del fatto che la cultura era completamente in mano ai brahmani ed ai rabbini letterariamente colti o dei religiosi e dei monaci addestrati professionalmente alle lettere e che erano esponenti delle religioni fondate sulle scritture. Al contrario il tipo ellenico della persona colta e distinta era e rimase in primo luogo l’efebo e l’oplita, fintanto che la cultura fu ellenica, e non «ellenistica». Con quell’effetto, che in nessun luogo appare con altrettanta chiarezza che nel dialogo del Simposio: il fatto che il suo Socrate non abbia mai «fatto un grinza», per usare la nostra terminologia studentesca, quando si trovava sul campo, è palesemente altrettanto se non più importante per Platone di tutto ciò che egli fa dire ad Alcibiade. Nel Medioevo la cultura da salotto, dapprima cavalleresco-militare, poi rinascimentale e signorile, fornì un contrappeso del tutto analogo, diverso solo nella composizione sociale, alla cultura libresca, mediata da monaci e sacerdoti, mentre nel giudaismo e in Cina un tale contrappeso è mancato del tutto o quasi del tutto. Inni, racconti epici, casistiche rituali e cerimoniali costituivano in India come in Cina il contenuto effettivo del mezzo di cultura letteraria. In India però tale contenuto era consolidato dalle speculazioni cosmogoniche e filosofico-religiose, il cui equivalente, pur non mancando del tutto nei classici cinesi e nelle opere di commento riconosciute come valide, in definitiva però svolgeva palesemente sin dai tempi remoti solo un ruolo molto secondario. Al posto di queste speculazioni gli autori cinesi avevano sviluppato un sistema razionale etico-sociale. E lo strato colto cinese, per l’appunto, non ha mai costituito un ceto autonomo di studiosi, come i brahmani, bensì uno strato di burocrati e di aspiranti funzionari.

La cultura superiore cinese non ha avuto sempre il suo carattere odierno. Gli istituti scolastici pubblici (pan kung) dei prìncipi feudali, oltre ad impartire la conoscenza dei riti e della letteratura insegnavano l’arte della danza e delle armi. Solo la pacificazione dell’impero in uno stato patrimoniale unitario trasformò quel tipo di educazione, sostanzialmente vicina all’antica educazione ellenica, in quella che sussiste ancora in questo secolo.

L’educazione medioevale, come viene rappresentata anche dall’autorevole ed ortodosso Hsiao—hsiieh («Educazione della gioventù») dava ancora un peso considerevole alla danza e alla musica. è vero che sembravano sussistere solo dei residui dell’antica danza guerriera, ma i fanciulli imparavano anche determinate danze a seconda della loro età. Queste si prefiggevano

lo scopo di domare le cattive passioni: se un fanciullo si mostrava difficile da educare, bisognava farlo danzare e canta re. La musica migliora gli uomini, i riti e la musica sono le basi della padronanza di séb1. Il significato magico della musica aveva quindi un’importanza primaria: la musica giusta — e cioè quella impiegata secondo le antiche regole e seguendo rigorosamente gli antichi canoni — «tiene a freno gli spiriti»c1. Il tiro coll’arco e la guida dei carri costituivano ancor a nel Medioevo materie di educazione generale dei fanciulli nobilid1. Ma questo in sostanza era ancora solamente teoria. Un attento esame dell’educazione della gioventù mostra che l’educazione domestica — rigorosamente separata per sesso a partire dal settimo anno di età — consisteva essenzialmente neH’inculcare un cerimoniale che va ben oltre tutte le concezioni occidentali, specialmente per quanto riguarda la pietà filiale e la reverenza per i genitori e per tutti i superiori e le persone più anziane in generale, e per il resto offriva quasi esclusivamente le regole della padronanza di sé.

Accanto a questa educazione domestica subentrava poi quella scolastica, per la quale doveva esserci una scuola elementare in ogni hsien. Per accedere alla cultura superiore era necessario aver superato il primo esame di ammissione.

Questa parte (superiore) della cultura cinese rimase quindi caratteristica soprattutto per due aspetti. In primo luogo perché, come tutte le altre culture create da un ceto sacerdotale, era del tutto non—militare e puramente letteraria. In secondo luogo perché questo carattere letterario, testualmente il carattere «che riguarda la scrittura», venne portato qui alla sua forma estrema. Questo sembra essere stato in parte una conseguenza della peculiarità della scrittura cinese e dell’arte letteraria sviluppatasi in questa scritturae1. Perseverando la scrittura nel suo carattere figurativo, e non essendo stata razionalizzata in una scrittura alfabetica come quelle create dai popoli mercantili del Medi terraneo, il prodotto letterario si rivolgeva sia all’occhio che all’orecchio e al primo sostanzialmente più che al secondo. Ogni «lettura» (ad alta voce) delle scritture classiche era già di per sé una traduzione dell’immagine scritta nella parola (non scritta), poiché il carattere visivo, in particolare della scrittura antica, era per sua natura ben lontano da quello parlato. Il linguaggio monosillabico, che ricorre non solo ai suoni ma anche alle tonalità, presenta nella sua sobria concisione e nella sua indispensabile logica sintattica il più acuto contrasto con il carattere puramente visivo della scrittura. Ma malgrado o forse, in parte, proprio per via di queste caratteristiche — come dimostra acutamente Grube5 — non avrebbe potuto rendere né alla poesia, né al pensiero sistematico, né allo sviluppo dell’arte oratoria quei servizi che sono stati offerti, ciascuno in modo diverso, dalla struttura della lingua ellenica, latina, francese, tedesca e russa. Il patrimonio ideografico rimase molto più ricco del patrimonio lessicale sillabico, che inevitabilmente era stretta— mente limitato; di conseguenza, data la logica di quest’ultimo, povero e stereotipato, tutta la fantasia e tutto lo slancio rifluirono nella silenziosa bellezza del primo, cioè del linguaggio ideografico. Il linguaggio letterario usuale era considerato fondamentalmente inferiore rispetto alla scrittura; non il parlare, ma lo scrivere e il leggere come ricezione dei prodotti artistici della scrittura erano considerati la vera attività di valore artistico e degna di un gentiluomo. Il parlare rimase essenzialmente una cosa da plebei. In completo contrasto con l’ellenismo, per il quale la conversazione era tutto e la trasposizione nello stile del dialogo costituiva la raffigurazione adeguata di ogni esperienza vissuta e di ogni scoperta, fu proprio il fior fiore della cultura letteraria cinese — i suoi migliori prodotti, cui viene attribuito un valore ben superiore alla drammaturgia fiorente, in modo significativo, proprio nel periodo dei Mongoli — che rimase per così dire sordomuto nella sua serica magnificenza. Tra i più eminenti filosofi sociali Meng—tzu (Mencio) si è servito sistematicamente della forma dialogata. Forse proprio per questo egli ci appare facilmente come l’unico rappresentante del confucianesimo giunto ad una totale «chiarezza». La fortissima influenza esercitata su di noi dai cosiddetti «Analecta» confuciani (cfr. Legge6) riposa proprio sul fatto che l’insegnamento qui (come del resto occasionalmente anche altrove) viene espresso sotto forma di risposte didascaliche (in parte perfettamente autentiche) del maestro alle domande dei discepoli e quindi si trova trasposto, per noi, nella forma parlata. Del resto la letteratura epica contiene le arringhe degli antichi re guerrieri all’esercito, spesso sommamente imponenti nella loro violenza lapidaria; e una parte degli annali, quelli didattici, si compone di discorsi il cui carattere tuttavia corrisponde piuttosto a quello di una «allocuzione» pontificia. Altrimenti il discorso non ha alcun ruolo nella letteratura ufficiale. Il suo mancato sviluppo è stato condizionato, come vedremo tra poco, da motivi sociali e politici. Da un lato, malgrado le qualità logiche del linguaggio, il pensiero rimase confinato in misura di gran lunga superiore nel «visivo» e la potenza del logos, della definizione e dell’argomentazione non si schiusero per il cinese. D’altra parte questa cultura puramente scritta contribuì a staccare il pensiero dal gesto, dal cenno espressivo, in misura ancora più forte di quanto altrimenti non faccia di solito ogni cultura a carattere letterario. Per due anni l’allievo imparava esclusivamente a dipingere circa 2000 ideogrammi, prima di aver accesso al loro significato. Più avanti l’attenzione veniva dedicata allo stile, all’arte poetica, alla conoscenza approfondita dei classici ed infine al modo di pensare manifestato dal candidato.

Nella cultura cinese, perfino in quella impartita nelle scuole elementari, colpisce la mancanza di un insegnamento dell’aritmetica. E questo benché nel vi secolo a. C., cioè nel periodo degli stati combattenti, il pensiero matematico posizionale fosse già sviluppatof1, la «calcolabilità» avesse permeato i rapporti intercorrenti tra tutti gli strati della popolazione ed i conti delle sedi amministrative fossero tanto minuziosi quanto confusi, per i motivi già menzionati. è vero che l’insegnamento impartito ai giovani nel Medioevo (Hsiao-hsueh, I, 29) contava tra le sei «arti» anche il calcolo e che all’epoca degli stati combattenti esisteva una matematica che oltre alla regola del tre e al calcolo commerciale includeva presumibilmente anche la trigonometria. Probabilmente questa letteratura è andata persa fino agli ultimi frammenti nell’incendio dei libri voluto da Shih Huang-tig1. In ogni caso, in seguito a ciò, nella pedagogia non si trova più da nessuna parte nemmeno un accenno all’aritmeticah1.

Per quanto riguarda l’educazione del ceto nobile dei mandarini, l’insegnamento dell’aritmetica arretra sempre più nel corso della storia sino a scomparire totalmente; i mercanti colti imparavano a far di conto direttamente dietro il banco. Dopo l’unificazione dell’impero ed il rilassamento della tendenza alla razionalizzazione nell’amministrazione dello stato il mandarino era diventato un letterato distinto ma non un uomo che si occupava della ajokrk dell’aritmetica.

Il carattere mondano di questa formazione è in contrasto con altri sistemi educativi di stampo letterario che altrimenti le sono imparentati. Gli esami letterari erano un affare puramente politico. L’insegnamento era impartito in parte sotto forma di lezioni individuali private, in parte in collegi sovvenzionati con un corpo insegnante. Tuttavia non vi partecipava nessun sacerdote. Le università cristiane del Medioevo sorsero con il bisogno di una scienza giuridica razionale (dialettica) per scopi pratici ed ideali. Le università islamiche seguendo il modello delle scuole giuridiche tardo—romane e della teologia cristiana si occupavano di casuistica del diritto canonico e di dogmatica religiosa; i rabbini guardavano all’interpretazione delle leggi; le scuole filosofiche dei brahmani si dedicavano alla filosofia speculativa, al rituale e alle leggi sacre. Erano sempre teologi o persone di alta condizione e qualità spirituale che formavano il corpo insegnante, sia in maniera esclusiva, sia come nucleo prin cipale cui si aggregavano altre discipline che si trovavano nelle mani di insegnanti laici. Nel cristianesimo, nell’islam, nell’induismo, le prebende erano lo scopo in vista del quale era ambito il diploma culturale, oltre che naturalmente per il fatto che esso costituiva la qualifica per un’attività rituale o di cura delle anime. Per gli antichi maestri ebraici che lavoravano «gratuitamente» (i precursori dei rabbini) contava solo la qualificazione per l’insegnamento, religiosamente indispensabile, della legge ai laici.

Sempre però la cultura era anche legata in qualche modo alle scritture sacre o cultuali. Solamente le scuole filosofiche elleniche avevano sviluppato una cultura puramente laica, senza alcun legame con le scritture, senza nessun interesse diretto alle prebende e nel solo interesse dell’educazione del gentleman ellenico (kaloikagazoi). La cultura cinese serviva gli interessi prebendari ed era legata alla scrittura ma nello stesso tempo era un’autentica cultura laica, di stampo in parte cerimoniale-ritualistico, in parte etico-tradizionalistico. La scuola non si occupava né di matematica, né di scienze naturali, né di geografia, né di grammatica. La filosofia stessa non era né di carattere speculativo-sistematico, come quella ellenica e, in parte e in senso diverso, quella indiana e quella teologica occidentale; né era razionale-formalistica, come quella giuridica occidentale; né empirica-casuistica, come quella rabbinica, quella islamica ed in parte quella indiana. Non ha dato vita a nessuna scolastica perché, contrariamente all’Occidente e al Medio Oriente, che riposavano ambedue su basi ellenistiche, non aveva promosso nessuna logica competente. Questo stesso concetto rimase assolutamente estraneo alla filosofia cinese, orientata verso i problemi pratici e gli interessi di status della burocrazia patrimoniale, legata alla scrittura e priva di dialettica. L’importanza che ha avuto l’estraneità alla filosofia cinese di questa problematica che ha costituito il nucleo centrale di tutta la filosofia occidentale viene alla luce in modo singolare nelle forme di pensiero dei filosofi cinesi, Confucio in testa. Gli strumenti intellettuali si attenevano alla massima sobrietà sul piano pratico, in una forma che — proprio in vari detti, veramente acuti, attribuiti a Confucio — ricorda di più, per il suo carattere figurato, i mezzi di espressione di un capo indiano che non un’argomentazione razionale. Il mancato uso del discorso come mezzo razionale per il raggiungimento di scopi politici e forensi, secondo un’usanza che risale storicamente alla polis ellenica in cui trova la sua origine ma che non poteva avere uno sviluppo in uno stato patrimoniale burocratico con una giustizia non formalizzata, si faceva sentire qui in modo particolare. La giustizia cinese rimase in parte una giustizia sommaria, da gabinetto (degli alti funzionari), in parte una giustizia basata sugli atti. Non vi erano arringhe, ma solo memorie scritte e interrogatori orali degli interessati. Nello stesso senso però operava la preponderanza dei legami con gli interessi convenzionali di decoro della burocrazia, la quale rifiutava la discussione di problemi «bassamente» speculativi come sterile sul piano pratico, sconveniente e pericolosa per la propria posizione, per via del rischio di innovazioni.

Se quindi la tecnica ed il contenuto concreto degli esami avevano un carattere puramente mondano e rappresentavano una sorta di «esame di cultura letteraria», la visione popolare tuttavia collegava ad essi un significato completamente diverso, a carattere magico-carismatico. Agli occhi delle masse il candidato e funzionario che aveva superato un esame non era affatto un semplice aspirante ad una carica che aveva conseguito la qualifica in base alle sue cognizioni, ma il portatore di qualità magiche provate; queste qualità — come vedremo più avanti — erano inerenti alla persona del mandarino diplomato come a quella del sacerdote, esaminato e ordinato, di un’istituzione ecclesiastica dispensatrice di grazia, o del mago che ha dato buona prova di sé. E anche la posizione del candidato e del funzionario che aveva superato con successo l’esame corrispondeva sotto molti aspetti importanti a quella di un cappellano cattolico. L’assolvimento degli studi con relativo esame non significava la fine della minorità dell’allievo. Colui che aveva conseguito il «baccalaureato» sottostava alla disciplina del direttore della scuola e degli esaminatori. In caso di cattiva condotta veniva radiato dalle liste. In certe circostanze gli venivano inflitti dei colpi sulle mani. Se poi l’aspirante funzionario aveva felicemente superato gli esami di grado superiore con la severa clausura che questi imponevano — nelle celle di clausura del luogo dove si svolgevano gli esami non erano rare le gravi malattie, oltre ai suicidi, che, conformemente alla concezione carismatica degli esami con «prove» magiche, erano considerati segno di una condot ta peccaminosa degli interessati — e se quindi, in base all’ordine di rango conferitogli dal numero di esami superati e dalle protezioni di cui godeva, riceveva una carica, nondimeno continuava a restare per tutta la vita sotto il controllo della scuola. Non solo egli era soggetto, oltre che al potere dei suoi superiori, alla sorveglianza incessante ed alla critica dei censori: la loro censura infatti si estendeva fino a comprendere la correttezza rituale dello stesso Figlio del Cielo. E non solo l’autocritica dei funzionari era da sempre prescritta e considerata come un meritoi1, alla stregua della confessione dei peccati in uso nella religione cattolica. Ma periodicamente, di regola ogni tre anni, veniva pubblicato nel Monitore dell’Imperoj1 (come diremmo noi) il resoconto della sua condotta accertata mediante i rilievi ufficiali dei censori e dei superiori, ossia l’elenco dei suoi meriti e dei suoi errori; e secondo l’esito di questa pagella pubblica di tipo scolastico, egli veniva lasciato al suo posto, promosso o retrocessok1. Che poi sull’esito di questo voto di condotta influissero regolarmente altri fattori che non quelli oggettivi è un altro discorso. Qui conta lo «spirito» ed era quello di una tirannia7 d’ufficio esercitata vita naturai durante.

5. I letterati come ceto. Onore feudale e onore accademico.

Tutti i letterati, anche quelli che avevano solo superato gli esami e non avevano ancora ottenuto un posto, godevano di privilegi di status. I letterati, dopo la definizione della loro posizione, traevano già vantaggio da specifici privilegi propri ad un ceto. I più importanti erano: i. l’esenzione dai sordida munera, le corvées; 2. l’esonero dalle pene corporali; 3. le prebende (sussidi). La portata di quest’ultimo privilegio era stata ridotta già da molto tempo per via della situazione finanziaria. Esistevano ancora, è vero, per gli sheng («baccellieri»), delle borse di studio (dieci dollari l’anno), a condizione che si sottoponessero ogni 3–6 anni all’esame di chii—jen («licenza»). Ma naturalmente ciò non aveva alcun significato decisivo. Gli oneri dell’istruzione e del periodo di attesa ricadevano in pratica, come abbiamo visto, sulla famiglia che sperava di trovare il suo tornaconto alla fine con l’arrivo del suo membro nel porto rappresentato dalla carica. I due altri privilegi conservavano ancora negli ultimi tempi la loro importanza. Infatti le corvées esistevano sempre, sia pure in misura decrescente. In quanto alle pene corporali, rimasero la forma nazionale di punizione. Derivavano dal canto loro dalla terribile pedagogia del bastone della scuola elementare cinese la cui particolarità stava nei seguenti tratti, che ricordano quelli della nostra pedagogia medioevale ma sviluppati in forme ancora più estremel1: i capifamiglia (delle schiatte o del villaggio) stendevano la «carta rossa» (lista degli scolari, kuan tan), ingaggiavano per un certo periodo il maestro di scuola tra i letterati provvisoriamente senza carica (ce n’erano sempre); il tempio degli antenati (o altro locale inutilizzato) costituiva di preferenza la sede della scuola; da mattina a sera vi risuonava il muggito delle «linee» scritte recitate in coro; lo scolaro si trovava tutto il giorno in uno stato di «rintronamento» (l’ideogramma — meng — è costituito da un maiale nell’erba). Gli scolari ed i diplomati prendevano ancora «le botte» (sulla mano c non più — secondo la terminologia delle madri tedesche di vecchio stampo — sul «posticino voluto da Dio» per le prime botte); quelli promossi ai gradi superiori ne erano del tutto esenti, salvo in caso di degradazione. L’esonero dalla corvée, nel Medioevo, appare fermamente stabilito. Tuttavia malgrado (e per via di) questi privilegi — che, come si è detto, erano precari, perché decadevano immediatamente con la degradazione che non era rara — lo sviluppo di un concetto di onore di tipo feudale era escluso per i motivi elencati: il diploma mediante esame come qualifica di status, la possibile degradazione, le pene corporali inflitte ai giovani e ancora possibili né del tutto rare per gli adulti. Ma una volta, nel passato, tale concetto di onore aveva influenzato intensamente il modo di vivere.

La «sincerità» e la «lealtà» erano esaltate dagli antichi annali come le virtù cardinalim1. «Morire con onore» era l’antico motto. «Essere sfortunati e non saper morire è vile». Questo valeva in particolare per l’ufficiale che non combatteva «fino alla morte»n1. Il suicidio da parte di un generale che aveva perduto una battaglia era un’azione che egli si attribuiva come privilegio: concederglielo significava rinunciare al diritto di punizione ed era quindi considerato non ineccepibileo1. Questi concetti feudali erano stati cambiati dalla concezione patriarcale dello hsìao: si dovevano patire le calunnie e le loro conseguenze fino alla morte se ciò era utile all’onore del signore; si può (e si deve) bilanciare con un fedele servizio tutti gli errori del signore, questo era la hsiao. Il kotow8 davanti al padre, ai fratelli maggiori, ai creditori, ai funzionari, all’imperatore non costituiva certo il segno di una concezione feudale dell’onore: al contrario, inginocchiarsi dinanzi ad una persona amata sarebbe stato esecrabile per il cinese corretto. Il che è proprio il contrario delle usanze dei cavalieri e dei «cortegiani» in Occidente.

Il concetto di onore del funzionario aveva una forte componente di quell’onore che potremmo chiamare scolastico, regolato da esami di profitto e pubblici biasimi da parte dei superiori, anche quando il funzionario aveva superato gli esami di grado più alto. Ciò in misura del tutto diversa da quella che in un certo senso è pur sempre valida per ogni burocrazia (per lo meno per i gradi inferiori e nel Württemberg, con il suo celebre Note-I-Fischer anche per le più alte cariche ufficiali).

Il particolare spirito scolastico alimentato dal sistema degli esami era strettamente connesso alle premesse fondamentali da cui derivava la dottrina cinese ortodossa (e del resto anche quasi tutte quelle eterodosse). Il dualismo degli shen e dei kuei, gli spiriti buoni e cattivi, il conflitto tra l’elemento celeste Yangp1 quello terreno Yin anche nell’anima del singolo individuo doveva far sì che l’unico compito dell’educazione, e anche dell’autoformazione, apparisse quello di far sviluppare nell’anima dell’uomo l’elemento Yanga. Infatti l’uomo che ha preso totalmente il sopravvento sulle forze demoniache (kuei) che riposano in lui possiede un potere — magico, secondo le antiche raffigurazioni — sugli spiriti. Gli spiriti buoni sono invece quelli che proteggono l’ordine e la bellezza, l’armonia del mondo. Autoperfezionarsi fino a riprodurre tale armonia è quindi il più alto e l’unico mezzo per acquisire tale potere.

6. L’ideale del «gentleman».

Il chün-tzu, l’«uomo superiore» — l’«eroe» di una volta — era, all’epoca dei letterati, l’uomo giunto all’autoperfeziona— mento sotto ogni aspetto: un’«opera d’arte» nel senso di un canone di bellezza classica, spirituale, eternamente valida, qua le la letteratura tradizionale la inculcava negli animi dei suoi allievi. D’altra parte, che gli spiriti ricompensassero la «bontà», nel senso di virtù etico—sociale era ferma credenza dei letterati che risaliva al più tardi al periodo Hanq1 Il bene, temperato dalla bellezza classica (e cioè conforme ai canoni), ha quindi lo scopo dell’autoperfezionamento. La produzione di belle opere perfette rispetto ai canoni costituiva l’aspirazione di ogni scolaro e l’ultimo grado della massima qualifica ottenuta con gli esami. Diventare un perfetto letterato, cioè un «poeta coronato» (dal raggiungimento del massimo grado) era l’ambizione giovanile di Li Hung-changr1; il suo orgoglio fu sempre quello di essere un calligrafo di gran maestria, di saper recitare testualmente i classici, in primo luogo il Primavera e Autunno di Confucio (gli Annali precedentemente citati, sempre troppo scarni per le nostre necessità); questo permise a suo zio, una volta verificate le sue capacità, di perdonargli i suoi vizi di gioventù e di procurargli una carica. Tutte le altre scienze (algebra, astronomia) erano per lui meri strumenti indispensabili «per diventare un grande poeta». La perfezione classica del poema che egli aveva composto sotto forma di preghiera nel tempio della dea protettrice della sericoltura in nome dell’imperatrice vedova gli valse il favore di quest’ultima. Giochi di parole, eufuismi, allusioni a citazioni classiche ed una bella spiritualità, puramente letteraria, rappresentavano l’ideale della conversazione dell’uomo nobile, da cui rimaneva escluso tutto ciò che rappresentava la politica attuales1. Può sembrarci sorprendente che questa cultura da «salotto», sublimata, con i suoi vincoli classici, rendesse atti all’amministrazione di vasti territo ri. E di fatto con la sola poesia non si governava nemmeno in Cina. Ma il burocrate prebendario cinese dava prova della sua qualifica di status, del suo carisma, attraverso la precisione canonica delle sue forme fondate sulla letteratura, alle quali di conseguenza veniva dato gran peso anche nei rapporti amministrativi. Numerosi importanti comunicati dell’imperatore, nella sua qualità di gran sacerdote dell’arte letteraria, avevano la forma di poemi didascalici. E d’altra parte il funzionario doveva dare prova del suo carisma con il decorso «armonioso» della sua amministrazione, cioè non turbato dagli spiriti irrequieti della natura e degli uomini, anche se il vero «lavoro» riposava sulle spalle dei subalterni. Sopra di lui stava, come abbiamo visto, il pontefice imperiale con la sua accademia di letterati ed il suo collegio di censori che ricompensava, puniva, rimproverava, ammoniva, esortava, elogiava, tutto ciò con la massima pubblicità.

Tutta l’amministrazione e le vicende della carriera dei funzionari con le loro (presunte) motivazioni, in conseguenza della pubblicazione degli atti personali e di tutti i rapporti, proposte e pareri, si svolgeva dinanzi al più vasto pubblico, molto più di quanto non avvenga da noi per qualsiasi amministrazione sotto controllo parlamentare, che dà il massimo peso alla salvaguardia del «segreto d’ufficio». Secondo la finzione ufficiale, perlomeno, la gazzetta ufficiale era una specie di resoconto continuo dell’imperatore dinanzi al cielo ed ai sudditi: espressione classica di quel tipo particolare di responsabilità che derivava dalla sua qualifica carismatica. Per quanto dubbia potesse essere la consistenza delle motivazioni ufficiali e la completezza di tali versioni — il che vale anche, in definitiva, per le comunicazioni della nostra burocrazia al nostro parlamento — tuttavia questo procedimento era sempre atto ad aprire una valvola di sfogo per la pressione dell’opinione pubblica nei confronti dell’amministrazione dei funzionari.

7. Il prestigio dei funzionari.

In Cina, come ovunque, era soprattutto contro i gradi inferiori della gerarchia, quelli che in pratica si trovavano in più stretto contatto con la popolazione, che si rivolgevano tutto l’odio e la diffidenza dei governati, comuni ad ogni regime patrimoniale, insieme a quella tendenza altrettanto tipica di scansare in modo apolitico ogni contatto non direttamente necessario con lo «stato». Ma questa apoliticità non pregiudicava l’importanza della cultura ufficiale per la formazione del carattere nazionale.

Le esigenze di un lungo periodo formativo — dovute in parte alla peculiarità della scrittura cinese e in parte a quella delle materie d’insegnamento — e il periodo di aspettativa, spesso molto lungo, obbligavano coloro che non erano in grado di vivere del proprio patrimonio o di denaro preso in prestito o messo da parte dalla famiglia nel modo che si è già detto prima, di ripiegare su di una professione pratica di qualsiasi tipo, dal commerciante al guaritore, prima della fine del corso degli studi. In tal caso non arrivavano fino ai classici, ma solo fino allo studio dell’ultimo libro di testo (il sesto), cioè l’antico e venerabile «Educazione della gioventù» (Hsiao—hsueli)t1 che conteneva essenzialmente degli estratti dei classici. Solo questa differenza nel livello di educazione, non un diverso tipo di educazione, distingueva questa categoria dalla burocrazia. Infatti non esisteva un tipo di educazione diversa da quella classica. La percentuale dei candidati bocciati agli esami era alquanto elevata. Il numero — estremamente limitato in percentuale per via del rigoroso contingentamentou1 — di coloro che si diplomavano nei gradi più alti, era ancora tuttavia in buona misura eccedente rispetto al numero delle prebende burocratiche disponibili. A queste prebende gli aspiranti concorrevano avvalendosi delle loro protezio ni personaliv1 o acquistandole con denaro proprio o preso a prestito: qui come in Europa il traffico delle prebende serviva come mezzo per fornire capitale allo stato e sostituivaw1 molto spesso la qualifica data dagli esami. Le proteste dei riformatori contro il traffico delle cariche sono andate avanti fino agli ultimi giorni del vecchio sistema, come mostrano numerose istanze di questo tipo sulla «Peking Gazette».

Il breve periodo ufficiale di permanenza in carica dei funzionari (tre anni) — che corrisponde in pieno ad analoghe istituzioni islamiche — non permetteva lo sviluppo di alcuna specie di influenza razionale intensiva sull’economia da parte dell’amministrazione statale, malgrado la teorica onnipotenza di quest’ultima, se non in maniera irregolare o discontinua. è sorprendente il limitato numero di funzionari in pianta stabile con i quali l’amministrazione pensava di poter tirare avanti. Le cifre di per sé recano già l’evidenza di questo fatto: di regola l’andamento delle cose, fintanto che non toccava gli interessi del potere statale o quelli fiscali, doveva essere lasciato a se stesso e le forze della tradizione — schiatte, villaggi, gilde e altre associazioni professionali — restavano le normali garanti dell’ordine. Tuttavia, malgrado la forte apoliticità delle masse di cui si è già parlato, l’influenza delle opinioni dello strato degli aventi diritto alle cariche era molto importante anche per il modo in cui vivevano gli strati del ceto medio. In primo luogo, e soprattutto, per via della concezione popolare magico-cari-smatica della qualifica per la carica provata dall’esame. Chi aveva sostenuto l’esame aveva mostrato, con tale sua prestazione, di essere portatore in misura eminente dello shen. Agli alti mandarini veniva attribuita una qualifica magica. Essi potevano sempre — salvo la «conferma» del loro carisma — diventare dopo la morte e anche già da vivi oggetto di culto. Il significato magico, che si ritrova in origine dappertutto, attaccato alla scrittura e al documento scritto dava un carattere apotropaico e terapeutico al loro sigillo e alla loro scrittura e questo si poteva estendere fino agli strumenti usati dal candidato per l’esame. Un candidato all’esame di massimo grado che veniva piazzato primo dall’imperatore tornava ad onore e vantaggio della provinciax1 da cui proveniva ed ogni persona il cui nome veniva pubblicamente affisso dopo un esame superato «si era fatta un nome nel villaggio». Tutte le gilde e gli altri club di qualche importanza avevano bisogno di un letterato come segretario, e questi posti, come altri simili, erano aperti ai promossi per i quali non vi era a disposizione una prebenda burocratica. I detentori di una carica e gli aspiranti che avevano superato l’esame, in virtù del loro carisma magico e dei loro rapporti clientelari, e proprio in quanto provenivano da strati piccoloborghesi, erano i naturali «padri confessori» e consiglieri della loro schiatta in tutte le occasioni importanti, analoghi ai brahmani (guru) che adempivano lo stesso ruolo in India. Il detentore di una carica, come abbiamo visto, accanto al fornitore dello stato ed al grande commerciante, era colui che aveva le massime possibilità di accumulare beni. Di conseguenza, sul piano economico come su quello personale, l’influenza di questo strato, anche al di fuori della propria schiatta — in cui, come si è prima sottolineato, l’autorità dell’anziano costituiva un forte contrappeso — era per la popolazione quasi altrettanto grande quanto nell’antico Egitto quella degli scribi e dei sacerdoti messe insieme. Prescindendo totalmente dalla «dignità» del singolo funzionario che nel dramma popolare veniva spesso derisa, il prestigio della cultura letteraria come tale era solidamente radicato nella popolazione, finché non venne minato dai propri membri che avevano ricevuto una formazione moderna ed occidentale.

8. Concezioni di politica economica.

Il carattere sociale dello strato colto determinava naturalmente anche le sue posizioni rispetto alla politica economica. Come tanti altri tratti tipici della struttura burocratico-patrimo-niale di marca teocratica, lo stato, secondo la propria leggenda, aveva già da millenni il carattere di uno stato di benessere religioso-utilitaristico. In realtà già da molto tempo l’effettiva politica dello stato aveva finito sempre per lasciare sostanzialmente a se stessa l’amministrazione economica — in Cina come del resto nell’antico Oriente — almeno finché si trattava della produzione e del profitto e non entravano in gioco nuove colonizzazioni, migliorie (tramite l’irrigazione) e interessi fiscali o militari. Solo gli interessi militari e fiscali-militari avevano sempre promosso nuovi interventi nella vita economica, spesso molto profondi, nel campo delle liturgie, dei monopoli e delle imposte: tali interventi erano regolati in parte da criteri mercantilistici, in parte da criteri di ceto. Con la fine del militarismo nazionale tutta la «politica economica» pianificata di questo tipo, cadde in disuso. Il governo, conscio della debolezza del suo apparato amministrativo, si accontentava ora di occuparsi dello scolo delle acque e della manutenzione dei corsi d’acqua indispensabile per i rifornimenti di riso delle province principali; del resto la sua era la tipica politica patrimoniale del caro—vita e del consumo. Non aveva una propria politica commercialey1 in senso moderno: i dazi che i mandarini isti tuivano sui corsi d’acqua avevano, per quanto ne sappiamo, un carattere meramente fiscale, mai politico—economico. D’altra parte, da un punto di vista globale che abbraccia anche altri campi, raramente il governo perseguiva interessi di politica economica diversi da quelli fiscali e di polizia, se si prescinde dagli stati di emergenza che erano sempre politicamente pericolosi dato il carattere carismatico del dominio. Il noto e grandioso tentativo di un’organizzazione economica unitaria — il monopolio di stato su tutto il ricavato del raccolto — com’era stato progettato nell’XI secolo da Wang An-shih, doveva servire in primo luogo, accanto alle entrate fiscali, al livellamento dei prezzi, ed era collegato ad una riforma dell’imposta fondiaria. Il tentativo fallì. Se di conseguenza l’economia rimase in larga misura abbandonata a se stessa, s’instaurò anche, come stato d’animo generale e permanente, l’avversione per gli «interventi statali» nelle cose economiche, soprattutto per i privilegi di monopolioz1 che costituivano una misura fiscale corrente in ogni regime patrimoniale. In realtà questo era solo uno degli stati d’animo accanto ad altri totalmente diversi derivanti dalla convinzione che il benessere dei sudditi dipendeva dal carisma dell’imperatore; queste concezioni, che spesso coesistevano sen za vie di mezzo, permettevano il sorgere rinnovato del malgoverno tipico del patrimonialismo, perlomeno come fenomeno intermittente. Inoltre vi era sempre naturalmente la riserva a favore della regolamentazione del consumo in base alla politica del caro-vita e del sostentamento, che si trova anche nella teoria del confucianesimo in numerose norme speciali su spese di ogni sorta. Vi era soprattutto però l’ovvia avversione di ogni burocrazia per una differenziazione sociale troppo rigida, determinata su base puramente economica dal libero scambio. La crescente stabilità della situazione economica nelle condizioni del grande impero diventato sostanzialmente autarchico sul piano economico e con un’articolazione sociale omogenea fece sì che i problemi economici, quali venivano discussi nella letteratura inglese del xvn secolo, non sorgessero assolutamente. Mancava totalmente quello strato borghese cosciente di sé che il governo non poteva ignorare, ai cui interessi si rivolgevano in primo luogo i pamphlets di quel periodo in Inghilterra. Solo da un punto di vista puramente «statico», per quanto riguardava il mantenimento della tradizione e dei loro privilegi speciali l’atteggiamento delle gilde mercantili costituiva una forza che l’amministrazione doveva prendere in seria considerazione, come ovunque vigono dei rapporti burocratico—patrimoniali. Al contrario, dal punto di vista dinamico esse non avevano alcun peso perché non esistevano (non più!) degli interessi capitalistici in espansione abbastanza forti da costringere l’amministrazione statale al loro servizio, come in Inghilterra.

9. Gli avversari politici dei letterati: il sultanismo e gli eunuchi.

La posizione politica globale dei letterati diventa ora chiara se si tiene presente contro quali forze essi dovevano combattere. Per il momento prescindiamo dalle eterodossie di cui si parlerà più avanti (cap. VII). Nel periodo più remoto i loro avversari principali erano state le «grandi famiglie» del periodo feudale che non avevano voluto lasciarsi esautorare dalla loro posizione di detentrici del monopolio delle cariche. Essi dovettero accontentarsi dei bisogni del patrimonialismo e della superiorità della scienza della scrittura e trovarono i mezzi e le vie per appianare la strada ai loro figli tramite il benvolere imperiale. Vennero poi gli acquirenti capitalistici di cariche, conseguenza naturale del livellamento dei ceti e dell’economia monetaria nelle finanze. Qui la lotta dei letterati non poteva avere un successo assoluto e permanente ma solo relativo, perché di fronte ad ogni fabbisogno bellico l’unico mezzo di finanziamento che si offriva all’amministrazione centrale priva di fondi propri era il traffico delle prebende e questo anche fino a tempi recentissimi. Ulteriori avversari dei letterati furono poi gli interessi razionalistici dell’amministrazione ad avere una burocrazia specializzata. Questi interessi, apparsi già nel 601 sotto Wen-ti, nel 1068, sotto Wang Anshih, conseguirono un grosso trionfo di breve durata nello stato di emergenza della guerra difensiva. Ma la tradizione vinse di nuovo e questa volta definitivamente. Rimaneva solo un nemico principale e durevole: il sultanismo ed il governo degli eunuchi che lo appoggiavaa2; e l’influenza dell’ha-rem che proprio per questo era visto con profonda diffidenza dai confuciani. Senza l’esame di questa lotta la storia cinese rimane quasi incomprensibile sotto molti aspetti.

Questa battaglia prolungatasi per quasi due millenni era già cominciata sotto Shih Huang-ti e proseguì poi sotto tutte le dinastie. Infatti energici dominatori tentavano naturalmente in continuazione, con l’aiuto degli eunuchi e dei parvenus plebei, di sbarazzarsi dei vincoli con lo strato colto dei letterati di ceto signorile. Molti letterati, che avevano agito contro questa forma di assolutismo, dovettero sacrificare la loro vita per il potere del loro ceto. Ma alla lunga i letterati furono sempre nuovamente vittoriosib2. Ogni siccità, inondazione, eclisse solare, sconfitta, ogni evento improvviso rimetteva immediatamen te il potere nelle loro mani poiché veniva considerato una conseguenza della violazione della tradizione e dell’abbandono del modo di vita classico i cui custodi erano i letterati, rappresentati dai censori e dall’«Accademia Han—lin». In tutti questi casi si concedevano «liberi dibattiti», si impetrava il consiglio del trono e l’esito era sempre lo stesso: eliminazione delle forme non classiche di governo, morte o esilio degli eunuchi, ritorno alle forme di vita comprese negli schemi classici, in breve adattamento alle pretese dei letterati. Il pericolo di un governo del— l’harem era piuttosto serio, in seguito alle regole di successione al trono; imperatori minorenni sotto la tutela di donne erano diventati la regola. Anche l’ultima reggente—imperatrice, Tsu— hsi9 tentò di governare con gli eunuchic2. Non si discuterà qui del ruolo giocato in queste lotte, che si trascinano attraverso tutta la storia cinese, dai taoisti e dai buddhisti, perché e in che misura erano alleati naturali, e in che misura casuali, degli eunuchi. Si noterà invece incidentalmente che anche l’astrolo— gia era considerata, perlomeno dal confucianesimo moderno, come una superstizione non classicad2 e in concorrenza con il carisma imperiale del tao, solo importante per il corso del governo, mentre in origine non era vista così. In questo caso la rivalità di competenze tra l’accademia Han-lin ed il collegio degli astrologi può aver giocato un ruolo decisivoe2 e forse anche la provenienza gesuitica degli strumenti di misurazione astronomica.

I confuciani erano convinti che la fiducia nella magia, coltivata dagli eunuchi, fosse la causa di tutti i mali. Nel suo memoriale del 1901 Tao Mo rimproverò all’imperatrice il fatto che per colpa sua nel 1875 il vero erede al trono fosse stato messo in disparte malgrado le proteste dei censori, fatto che il censore Wu Ko—tu avrebbe confermato con il suo suicidio. Un coraggio virile contraddistingue questo manoscritto lasciato come testamento alla reggente e la lettera al suo figliof2. Sull’assoluto e profondo convincimento non sussiste il minimo dubbio. Anche la credenza dell’imperatrice e di numerosi principi nelle doti magiche dei Boxer10 che da sola spiega tutta la loro politica, è sicuramente da ascrivere all’influenza degli eunuchig2. Sul letto di morte questa donna sempre imponente lasciò i suoi ultimi consigli: 1) non lasciare mai più che una donna governi la Cina; 2) eliminare per sempre il governo degli eunuchih2. Questi desideri — se sono veri — ebbero un adempimento senza dubbio diverso da quello che essa pensava. Ma non c’è dubbio che per gli autentici confuciani tutto ciò che è accaduto da allora, soprattutto la «rivoluzione» e il crollo della dinastia, può significare solo la conferma di quanto sia giusta la credenza nell’importanza del carisma classico di virtù della dinastia, e nel caso (improbabile ma possibile) di una restaurazione confuciana riceverebbe questa valutazione.

Il ceto dei letterati confuciani, in definitiva pacifisti, orientati verso una politica di benessere interna, si opponeva naturalmente, in un rapporto di rifiuto o di incomprensione, alle forze militari. Dei rapporti con gli ufficiali si è già parlato. Tutti gli annali ne sono pieni, in modo paradigmatico, come si è visto. Si trovano negli annali delle proteste contro il fatto che «pretoriani» venivano fatti censori (e funzionari)i2. In particolare, il fatto che gli eunuchi venivano preferiti come generalifavoriti, alla maniera di Narsete11 rendeva ovvia questa avversione contro l’esercito puramente sultanistico—patrimoniale. I letterati si vantavano di aver rovesciato il popolare usurpatore militare Wang Mang: il pericolo di un governo con i plebei era sempre presente in una dittatura. In tal senso tuttavia si conosce solo quest’unico tentativo. D’altra parte invece i letterati si sono adattati al potere effettivo, anche se fondato sull’usurpazione (come gli Han) o la conquista (Mongoli, Manciù), sia pure al prezzo di qualche sacrificio — i Manciù assunsero il 50 delle cariche senza qualifica culturale — a patto che il dominatore a sua volta si adattasse alle loro esigenze rituali e cerimoniali: in questo caso, secondo l’espressione moderna, assumevano un atteggiamento realistico.

Secondo la teoria dei confuciani l’imperatore poteva governare «costituzionalmente» solo attraverso dei letterati diplomati come funzionari, e in modo «classico» solo attraverso dei funzionari confuciani ortodossi. Ogni deviazione da questa regola poteva portare la sventura e in caso di ostinazione la caduta dell’imperatore e il crollo della dinastia. Si tratta quindi ora di determinare il contenuto materiale dell’etica ortodossa di questo ceto che tanto ha influito sullo spirito dell’amministrazione statale e degli strati dominanti.

a. Yu tsiuan tung kian kang mu, storia dei Ming dell’imperatore Ch’ien Lung, op. cit., p. 417.

b. è vero che ciò va contro quanto dice un’autorità importante come v. ROSTHORN, The Burning of thè Books (in «Journal of thè Peking Orientai Society», vol. IV, Peking, 1899, p. 1 e segg.). Egli crede nella tradizione orale dei testi sacri fino al periodo Han, così come di fatto tale tradizione ha regnato in modo esclusivo nell’India antica. A chi è estraneo alla materia non spetta alcun giudizio e forse si può solamente dire questo: che perlomeno gli annali non possono riposare sulla tradizione orale e, come risulta dalla verifica delle eclissi solari, risalgono fino al ii secolo. Del pari — se si estende quest’opinione dell’eminente erudito in particolare alla letteratura rituale (e a quella riportata in forma poetica) — non sarebbero conciliabili con essa molte altre cose che sono riportate circa l’archivio dei principi e l’importanza della scrittura e della trascrizione nei rapporti tra i letterati (notizie che, secondo l’accezione comune, sono attendibili). Tuttavia qui naturalmente solo l’esperto sinologo può pronunciare l’ultima parola e una «critica» da parte di un non—esperto sarebbe presunzione. Il principio della tradizione rigorosamente orale è valso quasi dappertutto solo per le rivelazioni carismatiche e il commento carismatico di tali rivelazioni, non per la poesia e la didattica. L’età molto elevata della scrittura come tale appare non solo nella sua forma immaginosa ma anche nella sua disposizione: le colonne verticali, divise da linee, rimandano ancora in tarda epoca agli originari strati di canne di bambù intagliate e giustapposte. I più antichi «contratti» erano legno intagliato di bambù o corde annodate; la stesura di ogni contratto e di tutti gli altri atti in due esemplari ciascuno è considerata a ragione da Conrady come un residuo di tale forma.

c. Questo spiega anche la stereotipizzazione della scrittura ad uno stadio così precoce del suo sviluppo storico; i suoi effetti si fanno sentire ancora oggi.

d. CHAVANNES, «Journ. of thè Pek. Or. Soc.», III, i, 1890, p. IV, traduce tai shih ling con «grande astrologo» invece che con «annalista di corte» come si usa perlopiù. In epoca posteriore e in particolare nel periodo più recente i rappresentanti della cultura letteraria sono apparsi tuttavia come accaniti avversari degli astrologi. Cfr. più avanti.

e. In TSCHEPE, Hist. du R. de Han («Var. Sinol.», 31, Shanghai, 1910, p. 48).

f. Quando nel iv secolo i rappresentanti dell’ordine feudale, e per prime le schiatte dei principi interessate a tale ordine, protestano, contro la progettata burocratizzazione dello stato di Chin, che «gli antichi avevano migliorato il popolo attraverso l’educazione, non attraverso il cambiamento dell’amministrazione» (in perfetto accordo con le posteriori teorie dell’or-todossia confuciana), il nuovo ministro-letterato Yang osserva in maniera alquanto non-confuciana: «l’uomo comune vive secondo la tradizione; ma gli spiriti superiori la creano e per ciò che esula daH’ordinario i riti non danno alcuna indicazione; il bene del popolo è la più alta legge»; e il principe aderì alla sua opinione (cfr. i passi in TSCHEPE, Hist. du R. de Tsin, cit., p. 118). è piuttosto probabile che l’ortodossia confuciana, rimaneggiando e purgando gli annali, abbia fortemente ritoccato questo tratto a favore di quel tradizionalismo più tardi considerato come corretto. D’altra parte naturalmente le relazioni citate in seguito sulla straordinaria reverenza tributata ai vecchi letterati non vanno tutte prese semplice— mente per oro colato!

g. Benché il principe ereditario di Wei fosse sceso dalla carrozza, non aveva ottenuto dal letterato di corte del re, un parvenu, nessuna risposta ai suoi ripetuti saluti. Alla domanda «se sono i ricchi o i poveri a poter essere orgogliosi» questo rispose: «i poveri», motivando tale risposta con il fatto che egli avrebbe potuto trovare impiego ogni giorno presso un’altra corte (TSCHEPE, Hist. du R. de Han, cit., p. 43). Un letterato entrò in gran furore perché il fratello del principe gli era stato preferito per il posto di ministro (ibid.).

h. Il principe di Wei ascoltava solo in piedi i rapporti del letterato di corte, un discepolo di Confucio (op. cit., nota preced.).

i. Cfr. le osservazioni in TSCHEPE, H. du R. de Tsin, cit., p. 77.

j. Il carattere ereditario della dignità ministeriale era considerato ritualmente riprovevole dai letterati (TSCHEPE, op. cit., p. 77). Quando il principe di Chao incaricò il suo ministro di trovare della terra appropriata come feudo per vari letterati benemeriti, in risposta a tre sollecitazioni questi dichiarò tre volte che non aveva ancora trovato nessuna terra che fosse degna di loro. Alla fine il principe capì e li nominò funzionari (TSCHEPE, op. cit., pp. 54–55).

k. Cfr. il passo che parla del quesito posto in proposito dal re di Wu in TSCHEPE, op. cit., «Var. Sinol.», 10, Shanghai, 1891.

l. Che vi fosse anche questo scopo era cosa che andava da sé, come gli annali lasciano capire.

m. Una volta che la concubina di un principe aveva riso di un letterato, tutti i suoi letterati si misero in sciopero finché questa non venne giustiziata (TSCHEPE, op. cit., p. 128).

n. Questo evento ricorda il «rinvenimento» della legge sacra sotto Giosia presso gli Ebrei. Il grande annalista vivente di allora, Ssu—ma Ch’ien, non lo menziona.

o. TSCHEPE, op. cit. («Var. Sinol.», 27, p. 53).

p. Alcuni occultamenti sono accertati (per esempio l’assalto dello stato di Wu contro il proprio stato di Lu). Ma per il resto, viste le lacune che si riscontrano, è stata sollevata seriamente la questione, se cioè il poderoso commento, fortemente moralizzante, a quegli annali non sia piuttosto la parte da considerare come opera sua.

q. Ancora nel 1900 ¡’imperatrice—reggente accolse molto sfavorevolmente la proposta di un censore per la loro abolizione. Cfr. nella «Peking Gazette» i decreti sulla «armata ortodossa» (10 gennaio 1899), sulle ispezioni durante la guerra giapponese (21 dicembre 1894), sull’importanza dei gradi militari (i novembre 1898, 10 novembre 1898, e in periodi precedenti, per esempio il 23 maggio 1878).

r. Su questa prassi cfr. ETIENNE ZI, S. J., Pratique des Examens Militaires en Chine («Var. Sinol.», n. 9). Materie d’esame erano il tiro coll’arco, certe dimostrazioni di forza ginnica e la redazione di una dissertazione che dal 1807 venne sostituita con la trascrizione di un paragrafo di 100 lettere dal Wu—ching (teoria della guerra), che risale presumibilmente al periodo della dinastia Chou. Molti ufficiali non ottenevano alcun titolo; i manciù ne erano generalmente esonerati.

s. Un decreto imperiale («Peking Gazette» del 17 settembre 1894) osserva, riferendosi ad un reclamo fatto contro un tao—tai (prefetto) proveniente dai ranghi degli ufficiali ma assunto per i suoi meriti militari nella carriera civile, che benché il comportamento del funzionario in quella dubbia faccenda sia stato riscontrato ineccepibile, egli avrebbe mostrato le sue «rozze maniere di soldato» nel suo contegno «e ci dobbiamo chiedere se egli possiede le maniere colte che debbono apparire indispensabili per qualunque persona del suo rango e della sua posizione». Viene quindi consigliato che egli assuma di nuovo una carica militare. L’abolizione dell’antichissimo tiro con l’arco e di altri sport molto antichi come elementi costitutivi della formazione «militare» era resa quasi impossibile dal rituale le cui origini si ricollegavano ancora alla «casa degli uomini». Al rituale si riferisce anche l’imperatrice nel suo rifiuto delle proposte di riforma.

t. Gli autori francesi traducono perlopiù sheng yuan hsiu tsai con «baccalauréat», chu jen con «licence» e chin shih con «doctorat». Il titolo inferiore dava diritto solo ai migliori candidati ad una borsa di studio. Questi «baccellieri» stipendiati si chiamavano Un sheng («prebendari da magazzino»)5 quelli selezionati dal direttore e mandati a Pechino pao kung, quelli tra loro ammessi all’istituto scolastico yu kung., mentre coloro che erano entrati in possesso del baccellierato mediante acquisto venivano chiamati chuan sheng.

u. Le qualità carismatiche del discendente costituiscono una prova di quelle della schiatta e quindi degli antenati. Shih Huang—ti, a suo tempo, aveva soppresso questa usanza perché il figlio non doveva giudicare il padre. Ma quasi ogni nuovo fondatore di dinastia da allora ha conferito ranghi ai suoi antenati.

v. Detto per inciso, questo costituisce un segno abbastanza sicuro della sua origine recente!

w. Cfr. in proposito BIOT, Essai sur Vhistoire de V instruction publique en Chine et de la corporation des Lettrés, Paris, 1847 (ce rimane tuttora utile).

x. Lagnanze in merito si trovano in Ma Tuan-lin, tradotto da BIOT, p. 481.

y. Argomenti assegnati a questi gradi sono riportati da Williams. Cfr. Zi, op. cit.

z. Questo in particolare nell’esame di grado intermedio («licenza») dove l’argomento della dissertazione (cfr. l’esempio in Zi, op. cit., p. 144) spesso richiedeva una dotta analisi storico—letteraria e filologica dei testi classici in questione.

a1. Ciò valeva in particolare per il grado superiore («dottorato») per il quale spesso l’imperatore assegnava i temi personalmente e provvedeva alla classifica dei candidati. Questioni riguardanti misure amministrative opportune, e collegate di preferenza ad una delle «sei questioni» dell’imperatore T’ang (BIOT, p. 209, nota 1) costituivano inoltre argomenti usuali dei temi assegnati (cfr. un esempio in Zi, op. cit., p. 209, nota 1).

b1. Siao—hsiieh, ed. De Harlez, V, II, I, 29–40. Cfr. la citazione tratta da CHU HSI, Ibid., p. 46. Sulla questione delle classi d’età, cfr. Id., I, 13.

c1. Op. cit., I, 25, inoltre II Introduzione, n. 5 e seg.

d1. Anche per questo esistevano prescrizioni letterarie.

e1. Occorre appena osservare che quanto è detto qui sulla lingua e la scrittura non fa che ripetere ciò che eminenti sinologi come in particolare il defunto W. Grube insegnano a chi è estraneo alla materia, e non deriva da studi personali.

f1. EDKINS, Locai Values in Chines. Arithmetical Notation, «Jour. of the Pek. Or. Soc.», I, n. 4, p. 161 e seg. L’abbaco cinese impiegava il sistema di valori posizionale (decimale). Lo scomparso sistema posizionale più antico sembra essere stato di origine babilonese.

g1. De Harlez, Siao—hsueh., p. 42, nota 3.

h1. A questo fatto dà rilievo anche TIMKOVSKI, Reise durch China (1820–21) tradotto in tedesco da Schmid (Leipzig, 1825).

i1. Per una siffatta autocritica da parte di un ufficiale di fanteria che era stato negligente (nel periodo Han, cioè molto prima dell’introduzione degli esami) cfr. il N. 567 dei documenti di Aurei Stein pubblicati da E. Chavannes.

j1. Gli inizi dell’odierna «Peking Gazette» risalgono al secondo imperatore della dinastia T’ang (618–907).

k1. Effettivamente si trovano nella «Peking Gazette», con particolare frequenza alla fine dell’anno, ma spessissimo anche in altri periodi, in parte con riferimento ai rapporti dei censori, in parte a quelli dei superiori, elogi e promozioni per i funzionari meritevoli, retrocessioni ad altre cariche per quelli con qualifiche insufficienti («affinché egli possa farsi un’esperienza», op. cit., 31 dicembre 1897, sPesso ripetuto), sospensione dalla carica con messa a disposizione, espulsione dei totalmente inetti e anche la dichiarazione che le opere virtuose di un funzionario sono contrastate da errori che egli dovrà correggere prima di ottenere un’ulteriore promozione. Vi è quasi sempre un’esauriente motivazione. Si trovano anche decreti postumi di condanna a punizioni corporali per persone che hanno subito (apparentemente) una degradazione postuma («Peking Gazette», 26 maggio 1895).

l1. Cfr. in proposito A. H. SMITH, Village life in China (Edinburgh, 1899, P* 66 e segg.).

m1. Per quanto segue cfr. Kuo-Yü (Discours des Royaumes, «Ann. Nat. des états Chin. de X au V s.», ed. De Harlez, London, 1895, pp. 54, 75, 89, 159, 189, et al.).

n1. TSCHEPE, «Var. Sinol.», 27, p. 38. Egli chiedeva di essere punito. Lo stesso vedasi nei documenti di A. Stein (ripetutamente citati più su).

o1. Cfr. però il decreto pubblicato nella «Peking Gazette» del 10 aprile 1895, in virtù del quale agli ufficiali che dopo la resa di Wei-hai-wei si erano dati la morte veniva conferito una postuma elevazione di grado (evidentemente perché si erano addossati la colpa evitando così che il carisma dell’imperatore venisse compromesso da questa vergogna).

p1. Tuttavia esisteva, almeno in un distretto, anche un tempio dedicato al Tai chi, alla materia primitiva (il caos) dalla cui scissione si sarebbero sviluppati i due elementi (Schih Luh Kuoh Kiang Yuh Tschi, trad. da Michels, p. 39). Cfr. quanto già detto prima.

q1. Secondo de Groot.

r1. Cfr. le traduzioni in sunto delle sue Memorie12, redatte dalla contessa Hagen (Berlin, 1915), pp. 27, 29, 33.

s1. Cfr. le annotazioni, agili e piene di spirito, seppure alquanto superficiali, destinate agli Europei, di Chen Chi—tung (China und die Chi-ne sen, trad. tedesca di A. Schultze, Dresden und Leipzig, 1896), pagina 158. Sulla conversazione cinese varie osservazioni pienamente concordanti con quanto si è detto si trovano nel Reistagebuch eines Philosophen del conte Keyserling.

t1. Siao-hsueh (trad. di De Harlez, «Annales du Musée Guinet», XV, 1889) è l’opera di Chu Hsi (xn secolo d. C.) la cui realizzazione essenziale è stata la canonizzazione definitiva del confucianesimo, nella forma da lui sistematizzata: cfr. GALL, Le phìlosophe Tschou Hi, sa doct-rine etc. («Var. Sinol.», 6, Shanghai, 1894). Si tratta sostanzialmente di un commento popolare al Li Chi illustrato con esempi storici che in Cina era familiare ad ogni allievo di scuola elementare.

u1. Il numero di diplomati con «licenza» era distribuito tra le province. Quando veniva indetto un prestito d’emergenza avveniva — ancora dopo la rivolta dei T’ai—p’ing — che alle province venissero promesse quote maggiori per ottenere la fornitura di determinate somme minimali. Tra i candidati al «dottorato» ad ogni esame ne venivano promossi solo dieci, di cui i tre primi godevano di una stima particolarmente alta.

v1. Il ruolo preminente di queste è messo in luce dal paragone tra la provenienza dei tre diplomati di massimo grado e quella dei più alti mandarini, in Zi, op. cit., app. II, p. 221, nota 1. A prescindere dal fatto che delle 748 maggiori cariche amministrative ricoperte dal 1646 al 1914, 398 sono state occupate da manciù, benché solo tre di questi si trovassero tra i massimi graduati (i tre tien she piazzati come primi dall’imperatore), la provincia dell’Honan forniva 58, pari ad 1/6, di tutti gli alti funzionari, esclusivamente in virtù del potere della famiglia Tseng, mentre tra i diplomati di massimo grado quasi i due terzi provenivano da altre province che partecipavano alla distribuzione di queste cariche solo in misura del 30.

w1. In maniera sistematica per la prima volta sotto l’imperatore Ming nel 1453 (tuttavia era già una misura finanziaria sotto Shih Huang—ti). In origine il grado inferiore costava 108 piastre, pari al valore capitalizzato delle prebende di studio, allora di 60 taèl; dopo un’inondazione del— l’Huang—ho il prezzo venne abbassato a 20–30 taèl onde allargare il mercato al fine di un finanziamento più abbondante. A partire dal 1963 anche gli acquirenti del «baccalaureato» vennero ammessi agli esami superiori. Un posto di tao—tai costava, con tutte le spese accessorie, circa 40.000 taèl.

x1. Per questo motivo in certe circostanze nello stabilire la graduatoria gli imperatori guardavano se un candidato apparteneva ad una provincia che non aveva ancora fornito nessun candidato piazzatosi al primo posto.

y1. Un buon esempio di ciò che era la scienza delle finanze cinesi è costituito dal trattato di Ssu—ma Ch’ien (n. 8, cap. XXX, vol. Ili dell’ed. di Chavannes) sulla bilancia commerciale (ping sheng), che contiene nel—io stesso tempo il più antico documento sulla politica economica cinese. I grandi profitti commerciali degli stati combattenti, il declassamento dei commercianti nell’impero unitario, l’esclusione dagli uffici, la determinazione degli stipendi ed in base a questa quella dell’imposta fondiaria, le imposte sul commercio, sulle foreste, sulle acque (entrate in possesso dei grandi), la questione delle zecche private, il pericolo dell’eccessivo arricchimento dei privati (ma: con la ricchezza regna la virtù, secondo uno spirito ben confuciano), i costi dei trasporti, l’acquisto di titoli, il monopolio del sale e del ferro, il registro dei commercianti, i dazi interni, la politica di stabilizzazione dei prezzi, la lotta contro gli appalti ai fornitori dello stato (appalto diretto agli artigiani): questi sono gli argomenti trattati (che secondo le nostre concezioni non rientrano nella «bilancia commerciale»); come si vede, oggetto della scienza delle finanze e della politica finanziaria è la tranquillità interna tramite la stabilità, non la bilancia commerciale con l’estero.

z1. Il monopolio dei mercanti del Ko—hung, esistente fino al 1892, sul commercio nell’unico porto aperto agli stranieri, quello di Canton, fu creato allo scopo di impedire ogni rapporto dei barbari con i Cinesi; gli enormi profitti che fruttava rendeva i prebendari burocratici interessati contrari ad ogni mutamento spontaneo di questo stato di cose.

a2. Non solo la storia ufficiale dei Ming (nota seg.) ma anche il Tschi li kuo kiang yu tschi (Hist. gcogr. des XVI Royaumes, ed. Michels, Paris, 1891) ne è pieno. Così, a p. 7, si trova: nel 1368 l’esclusione dell’harem dagli affari di stato (su proposta dell’accademia di Han—lin), nel 1498 un memoriale della Han—lin in occasione dell’incendio del palazzo con l’esortazione (tipica in caso di incidenti) a «parlare liberamente contro l’eunuco favorito» (cfr. nota seg.).

b2. Numerosi esempi di questa lotta si trovano per esempio nel Yu tsiuan tung kian kang mu (Storia dei Ming dell’imperatore Ch’ien Lung, ed. Delamarre). Prendiamo il xv secolo: p. 155 (1404): un eunuco alla testa dell’esercito (fatto frequente da allora in poi, vedi 1428, p. 233), poi anche, nel 1409 (p. 168) la penetrazione dei funzionari di palazzo neiramministrazione. 1445 (p. 254): un dottore della Han—lin chiede l’abrogazione del governo di gabinetto, ¡’alleggerimento delle corvées e il consulto dell’imperatore con ì letterati. Un eunuco lo uccide. 1449 (p. 273): l’eunuco—favorito viene ucciso per volontà dei letterati, ma nel 1457 gli vengono elevati dei templi. 1471: i consiglieri devono passare attraverso gli eunuchi nei loro rapporti con l’imperatore (p. 374). Proprio la stessa cosa viene riferita da Hsiao Kung (361–338 a. C.). 1472: eunuchi vengono impiegati come polizia segreta (p. 273) poi soppressa nel 1481 su richiesta dei censori (p. 289). 1488: restaurazione dell’antico rituale (come in numerose altre epoche). Si risolse in modo penoso per i letterati la destituzione, nel 1418, di un eunuco, presso il quale venne trovata la lista dei letterati da lui corrotti. I letterati ottennero di tener segreto il fatto, e per la destituzione di quelli corrotti fu trovato un altro pretesto

c2. Cfr. BLAND e BACKHOUSE, China unter den Kaiserin—Witwe, trad. tedesca di Ranch, 1812. All’opposto, il celebre memoriale di Tao Mo del 1901.

d2. Quando nel 1441 un’eclisse solare predetta dagli astrologi non ebbe luogo, le autorità ritualistiche si congratularono, ma l’imperatore le respinse.

e2. Cfr. il memoriale (precedentemente citato) dell’accademia di Han— lin alle reggenti nel 1878.

f2. Op. cit., cap. IX, p. 130 e segg.

g2. Cfr. il decreto dell’imperatrice del febbraio 1901.

h2. Op. cit., p. 457.

i2. Per esempio in Yu tsiuan tung hjan kang mu dell’imperatore Ch’ien Lung (pp. 167, 223), 1409 e 1428. Un divieto analogo di immischiarsi nell’amministrazione, rivolto ai militari, c’era già stato nel 1388, ibid.

1. Lao-tzu, filosofo cinese, nato nel 604 a. C., considerato il fondatore della religione taoista. è l’autore del Tao-te-ching.

2. Yao, leggendario imperatore dell’età dell’oro cinese, nato miracolosamente e asceso al trono nel 2357 a. C. Dopo un regno di 70 o 98 anni abdicò in favore di Shun.

3. Shun, 2317–2208, successore di Yao, uno dei più celebri esempi di pietà filiale, fu nominato erede dall’imperatore al posto del proprio figlio indegno.

4. Li—chi, «Memorie sui riti», uno dei cinque Ching o classici, i libri canonici del confucianesimo. La raccolta nella sua forma attuale risale solo al secondo secolo della nostra era (periodo Han); tuttavia il materiale è per la maggior parte del periodo Chou e talvolta molto antico.

5. Wilhelm Grube, 1855–1908, professore di lingue orientali all’università di Berlino, autore di varie opere in lingua tedesca sulla filosofia e la letteratura cinese.

6. James Legge (1814–1897), missionario cinese a Hong—Kong, celebre sinologo; la sua fama si fonda in particolare sulle sue numerose e dotte traduzioni critiche dei classici cinesi.

7. Pennalismus in tedesco, termine che si riferisce specificamente alla tirannia esercitata dagli studenti anziani sulle matricole.

8. Profondo inchino con la fronte a terra in segno di omaggio e sottomissione in uso presso i Cinesi.

9. Li Hung—chang, 1822–1901, statista cinese, ricoprì varie importanti cariche civili e militari.

10. Tzu—hsi, 1835–1908, concubina dell’imperatore Hsien—feng e madre dell’imperatore T’ung—chih; quando questi morì senza discendenti fece salire al trono il nipote Kuang—hsii sul quale esercitò un’influenza dispotica per tutta la vita.

11. Boxer, nome inglese dato a una società segreta esistente nello Shantung, dalla quale scaturì la ribellione xenofoba dello stesso nome (1900).

12. Narsete, generale dell’Impero d’Oriente, morto a Roma nel 568 d. C.