PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE

Sono probabilmente due le ragioni che stanno alla base della per-durante validità del pensiero weberiano e che ne conservano presso-ché intatta, a circa novantanni dalla morte, la carica stimolatrice. In primo luogo, è da menzionare la nozione di «sistema aperto», che pone Marx Weber al di là, in una posizione assai più avanzata, della maggior parte dei suoi alacri commentatori odierni, da Talcott Parsons a Reinhard Bendix e a Samuel Eisenstadt. Avendo, piuttosto grossolanamente, frainteso questa nozione critica fondamentale, Talcott Parsons e Edward A. Shils hanno potuto, introducendo Weber presso gli scienziati sociali americani negli anni ’50, presentarlo come un «sistematico timido», vale a dire come un teorico sistematico delle scienze sociali, dotato di una lodevole informazione storica, economica e giuridica, il quale mostrava però l’inconveniente di non saper pensare i suoi pensieri fino alla fine, arrestandosi a mezza strada invece di costruire il «sistema sociale» onnicomprensivo e totale, capace di inglobare in sé tutta l’esperienza umana possibile e di elaborare pertanto gli «universali» definitivi, destinati a caratterizzare tutte le società industrializzate del mondo moderno.

La seconda ragione, connessa con questa prima, è data dal con-cetto weberiano di «razionalità» - concetto eminentemente problematico e storico, alieno da ogni tentazione di apriorica intemporalità. Da questo punto di vista, è stato un serio errore l’enfasi su Economia e società, come se si trattasse dell’ultima opera di Weber solo perché uscita postuma. E piuttosto la Wirtschaftsethik ad avere il merito di ultimo, genuino statement weberiano; come tale, resta forse anche come il più significativo, secondo quanto è stato a suo tempo bene rilevato dal Tenbruck. Di altri più o meno gravi fraintendimenti non mette conto qui dilungarsi. Una ventina d’anni fa, introducendo La struttura delibazione sociale parsoniana1 Gianfranco Poggi proponeva, alquanto meccanicisticamente, la sintesi fra il sistema «dinamico» di Marx e quello, «statico», di Parsons. Colgo l’eco di siffatte confusioni nei tentativi odierni di Jurgen Kocka di «usare pensieri marxistici in modo weberiano». A imprese del genere occorre in primo luogo un chiarimento concettuale ancora da farsi.

Dopo i vari tentativi di cooptazione e di rigetto, dal punto di vista scientifico e ideologico, messi in atto nei riguardi dell’opera weberiana, restano dunque in piedi alcune acquisizioni di perdurante vali-dità: la concezione di un sistema sociale aperto e la necessità di un’analisi comparativa, quali risultano in modo perspicuo dai saggi di Weber sulla Sociologia delle religioni. Risulta inoltre evidente il ruolo della religione, vista essenzialmente come variabile indipendente, il che non equivale a dire determinante, cioè matrice unica di particolari fenomenologie sociali descritte in chiave idealtipica, come nel caso del capitalismo. A ragione Benjamin Nelson mette in guardia contro posizioni preconcette e fuorviami che mirerebbero a ritenere l’etica protestante la condizione assolutamente sufficiente, peculiare dello sviluppo capitalistico2. In effetti nel «sommergibile» della razionalizzazione, straordinariamente attiva sia nel capitalismo che nel socialismo, la morale della Riforma è appena «una piccola [tiny] parte»3, magari una sorta di propulsore supplementare, ma non certo il motore principale. Di ciò è data prova anche nell’ultimo capitolo («L’evoluzione dello spirito capitalistico») dell’opera postuma di Weber sulla Storia economica generale nonché nelle «Osservazioni preliminari» che introducono i saggi di Sociologia delle religioni. D’altro canto, proprio a partire dalla sua posizione di sostanziale «indifferenza» al fatto religioso, senza l’ostilità marxiana e al di là del funzionalismo durkheimiano, Weber è in grado - con la sua avalutatività metodologica - di ribattere al riduttivismo del marxismo ortodosso, indicando precise potenzialità di mutamento negli stessi movimenti religiosi e nelle loro forme organizzativo-istituzionali presenti in Occidente come in Oriente.

È con queste cautele che l’approccio weberiano può applicarsi, per esempio, anche al puritanesimo nord-americano, come ha suggerito Edward Tiryakian4. L’impegno nel lavoro e il raggiungimento di ottimi risultati possono pertanto essere letti in termini etico-religiosi, per quanto non disgiunti da altre implicazioni5. Indagini più recenti testimoniano dell’interesse e della fertilità cui dà luogo - ottant’anni dopo - il modello weberiano: è il caso di una ricerca condotta da Jere Cohen, che ha verificato gli effetti dell’etica protestante sulle scelte occupazionali di un campione di studenti6.

La tuttora viva attenzione ai testi weberiani a carattere socio-religioso non è casuale. Si tratta di quadri teorici ed empirici insieme da non leggere con l’ottica esclusiva della sociologia applicata ai fenomeni religiosi. Essi si collocano in effetti in un più ampio contesto, se è vero - come ricorda anche Gianfranco Poggi7 - che lo scritto su La città avrebbe dovuto accompagnare, nelle intenzioni dell’autore, appunto i saggi comparativi sulla Sociologia delle religioni, mentre è stato poi inserito dagli editors come capitolo della parte postuma di Economia e società. Viene così giustificato il tentativo operato dallo stesso Poggi, nel volume citato sopra, di rileggere L’etica protestante e lo spirito del capitalismo alla luce di un’ottica storica di sviluppo della borghesia in contesti urbani, a partire dal Medioevo (economia della città feudale) per passare poi ai secoli successivi (economia del sistema familiare a carattere artigianale) e concludere quindi con la terza fase connotata dal capitalismo sempre più industrializzato. In definitiva, il saggio sull’etica protestante altro non sarebbe che un capitolo di una più vasta storia sociale della borghesia. E tuttavia occorre precisare che la trattazione contenuta ne La città non esaurisce un tale supposto, ambizioso progetto, giacché resta appena a livello di schema, dettagliato quanto si vuole ma senza il respiro e Vallure del poderoso affresco sulle religioni. Né va dimenticato che l’attenzione e la curiosità scientifica di Weber per il fenomeno religioso hanno dei prodromi significativi, per cui non è certo il «risveglio» dalla malattia mentale fra il 1898 ed il 1902, parzialmente ricordata da sua moglie Marianne nel famoso Lebensbild, a stimolare improvvisamente l’estro socio-religioso. Max Weber dalla sua posizione di non credente - «indifferente», religiosamente unmusikalisch, aveva in realtà già affrontato criticamente e dibattuto a più riprese alcune tematiche religiose: con il cugino Otto Baumgarten, con il fratello Alfred, con Friedrich Naumann detto il «pastore del proletariato», con i membri del Congresso evangelico-sociale8.

È indubbio comunque che la fortuna toccata a L’etica protestante e lo spirito del capitalismo abbia lasciato alquanto in ombra gli altri contributi sulle religioni. I motivi sono molteplici: gli specialisti nel settore non abbondano; quelli, poi, in grado di padroneggiare le intricate «nomenclature» del giudaismo antico e del taoismo insieme sono ben pochi; l’etnocentrismo occidentale è ovviamente più allettato dai problemi di casa propria che non dagli altri; il tema della morale calvinista riesce più facilmente a far convergere gli interessi di due contesti - quello europeo e nordamericano - in cui il protestantesimo è ancor oggi largamente diffuso; la centralità della questione capitalismo-individualismo è tale da asciugare, vanificare o quanto meno fare impallidire altri percorsi problematici. In verità, qualche recupero avviene a proposito dell’emergenza dei nuovi movimenti religiosi, ma il riferimento alle forme religiose non occidentali resta vago e disarticolato9. Appare invece più calibrato e di grande utilità il saggio di Tony Fahey su II giudaismo antico10. E uno dei rari interventi in proposito, dopo le prime osservazioni di Julius Guttman che risalgono al 192511. In effetti, Fahey ha ragione di argomentare che «Il giudaismo antico di Max Weber è un’opera interessante, ma molto dimenticata nella sociologia classica»12. Miglior sorte, del resto, non è toccata agli altri saggi di sociologia delle religioni, nonostante gli evi-denti legami che essi mostrano in riferimento a tutto il resto della produzione weberiana. Eppure molte monografie su Weber prescindono quasi del tutto da una lettura puntuale di questi scritti. Ciò risulta tanto più dannoso per la storia del pensiero sociologico in quanto di fatto «si è finito per scambiare Weber con il pensiero di alcuni suoi studiosi, che di lui tentano una sintesi unilaterale»13. Giu-stamente Dal Ferro insiste sulla «metodologia aperta» di Weber, che può persino apparire una deliberata assenza di metodo, ostile ad un «sistema chiuso di concetti». Meno chiaramente si evoca e si invoca un embrassons-nous fra teologia e sociologia in una interdisciplinarità fittizia in quanto non sufficientemente definita14.

Occorre infine mettere nel conto l’ostacolo rappresentato dalla barriera linguistica. La difficoltà della lingua tedesca per decenni ha impedito la conoscenza diretta di Weber da parte di intere generazioni di studenti e studiosi. L’edizione inglese de L’etica risale al 1930, quella italiana al 1928, ad opera di Pietro Burresi, ripubblicata poi nel 1945. E noto che negli Stati Uniti per superare gli esami di teoria sociologica si ricorreva allo studio delle pagine parsonsiane su Weber contenute ne La struttura dell’azione sociale. E neppure lo scritto su Chiese e sette in Nordamerica trovò immediata eco e traduzione. A ciò va aggiunto che il quantofrenismo statunitense non poteva essere, per sua natura, molto recettivo nei confronti dell’approccio qualitativo weberiano, come ha mostrato con ampia e dettagliata documentazione Jennifer Platt15. Per molto tempo la sola lettura di Weber restò quella mediata da Parsons. Soprattutto è mancata, negli Stati Uniti come in Italia, un’adeguata conoscenza della produzione socio-religiosa weberiana al di là del testo su L’etica. Nessuna meraviglia, pertanto, che il pensiero di Weber sociologo della religione sia stato sottoposto a letture riduttive e fuorviami. E da ritenere che solo un esame completo della sua Sociologia delle religioni potrà controbilanciarle almeno in parte, dopo tanti anni di «censure» e reticenze.

FRANCO FERRAROTTI

1. TALCOTT PARSONS, La struttura detrazione sodale, traci, it., Bologna, 1964.

2. Cfr. in proposito il saggio di Nelson nel volume a cura di CH. Y. GLOCK e PH. E. HAMMOND, Beyond thè Classics? Essays in thè Scientific Study of Religion, Harper Row, New York, 1973, in particolare p.III.

3. Ibid., p. 112.

4. Cfr. «Neither Marx nor Durkheim… Perhaps Weber», American Journal of Sociology, 81, 1975, pp. 1–33.

5. Cfr. Ph. Hammond, K. Williams, The Protestant Ethic Thesis: A Social-Psychological Assessment, «Social Forces», 54, 1976, pp. 579–589; cfr. pure H. C. Kim, Protestant Ethic and Achievement, «Journal for thè Scientific Study of Religion», 16, 1977, pp. 255–262.

6. Cfr. J. COHEN, Protestant Ethic and Status-Attainment, «Sociological Analysis», I, 1985, pp. 49–58.

7. Cfr. Calvinism and thè Capitalist Spirit. Max Weber’s Protestant Ethic, Macmillan, London, 1983, p. 92; ora anche in edizione italiana, il Mulino, Bologna, 1964.

8. Per una più articolata discussione sulla sociologia weberiana della religione cfr. JOSé A. PRADèS, La sociologie de la religión chez Max Weber, Nauwelaerts, Louvainparis, 1966, 19692.

9. Cfr. FREDERICK B. BIRD, FRANCéS WESTLEY, The Economie Strategies of New Religious Movements, «Sociological Analysis», 2, 1985, pp. 157–170.

10. Cfr. Max Weber s Ancient Judaism, «American Journal of Sociology», 1, 1982, pp. 62–87.

11. Cfr. Max Weber’s Soziologie des antiken ]udentums, «Monatsschrift für Geschichte und Wissenschaft des Judentums», 69, 1925, pp. 195–223.

12. lbid., p. 62.

13. GIUSEPPE DAL FERRO, Max Weber sociologo della religione, «Studi di sociologia», 1, 1982, pp. 27–40, in particolare p. 27.

14. Ibid., p. 33.

15. Cfr. Weber’s verstehen and the history of qualitative research: the missing link, «The British Journal of Sociology», 3, 1985, pp. 448–466.