8
La questione del testamento

Shelley riuscì a dormire qualche ora e si svegliò per tempo. Sguazzò per un po’ in un bagno freddo, e poi si strofinò per bene con un asciugamano ruvido; questo era il miglior rimedio che conosceva per compensare la mancanza di sonno e risultare attivo.

Poi fece un salto a Scotland Yard, dove incontrò un Cunningham altrettanto stanco e assonnato.

«Senti un po’, Cunningham», gli disse, «una cosa è certa, di questo caso.»

«Sì, signore», rispose Cunningham ossequioso, attendendo ulteriori istruzioni.

«Ci sono così tante piste da seguire che credo dovremo continuare a lavorare separatamente e a confrontare i nostri appunti alla fine di ogni giornata. Che cosa ne pensi?»

«Be’», rispose Cunningham, dubbioso, «se crede che io possa cavarmela da solo…»

«Certo», lo rassicurò Shelley, con un sorriso gentile. «Puoi interrogare il signor Moses Moss con la stessa efficienza con cui lo interrogherei io.»

«Lei pensa, signore?» Cunningham era ancora un po’ perplesso, ma si sentiva comunque grato per quelle parole di apprezzamento, provenienti da una persona per cui esprimere apprezzamento era raro.

«E nel frattempo», continuò Shelley, ritenendo superflua qualsiasi risposta a quella domanda, «penso che indagherò sulla questioncina del testamento del defunto professor Arnell.»

«Sembra proprio un punto che richiede un attento esame, signore», ammise Cunningham.

«Proprio così», concordò Shelley. «Se non mi sbaglio, ci fornirà l’indizio cruciale dell’intera questione. Alla base di un caso di omicidio di questo tipo, di solito, c’è il denaro e, se si trova il movente economico, si può capire dove cercare i sospettati.

«Buona fortuna, signore», gli augurò Cunningham con un sorriso.

«Anche a te, Cunningham», disse Shelley, «e credo che avremo bisogno di tutta la fortuna possibile, se vogliamo venire a capo di questa faccenda.»

Lo studio degli avvocati Samuel, Grant e Samuel era ai piani alti di un edificio di uffici in Chancery Lane, solo una porta o due più in là rispetto a un ufficio in cui Shelley era stato spesso in relazione a un altro caso di omicidio su cui aveva indagato un anno o due prima.

L’avvocato Samuel era un giovane dall’aspetto gradevole, che ruotò la propria sedia girevole, tendendo apertamente la mano a Shelley.

«Che cosa posso fare per lei, ispettore?», chiese, con una nota di curiosità nella voce. «Vorrei delle informazioni, avvocato», disse Shelley, «che penso lei possa fornirmi.»

«Se è possibile, ispettore, lo farò», rispose l’avvocato. «Siamo sempre pronti ad assistervi nel vostro lavoro di rappresentanti della legge, lo sapete.»

Samuel rise, e Shelley si sentì più a suo agio. Il detective aveva una teoria, che fino a quel giorno si era invariabilmente dimostrata giusta, e cioè che la risata di un uomo fosse la cosa più caratteristica, in lui, e che fosse possibile giudicarne il carattere – buono e affidabile o l’esatto opposto –, a seconda se ridesse di gusto e apertamente o sghignazzasse di nascosto sotto i baffi. Non appena ebbe sentito la piacevole e profonda risata dell’avvocato Samuel, fu assolutamente certo che si trattasse di un uomo a cui si poteva credere, un uomo nelle cui parole si poteva riporre una fiducia incondizionata. E procedette di conseguenza, sicuro che il suo istinto al riguardo non potesse fallire.

«Si tratta della morte del professor Arnell», gli spiegò.

Samuel annuì. «Mi aspettavo che qualcuno venisse a farci visita, a questo proposito, ispettore», commentò.

«Sapeva che è morto?»

Samuel sorrise. «Ho le mie umane debolezze, ispettore», disse, «e una di queste è che mi piace leggere il giornale del mattino a colazione. Ho letto della morte del professore, e ho immaginato che ci sarebbe stata una sorta di inchiesta, dal momento che a quanto pare è morto all’improvviso.»

«Non solo è morto all’improvviso, avvocato Samuel», disse Shelley, «ma è morto in circostanze misteriose.»

«In circostanze misteriose?» Samuel sembrava assolutamente sconcertato, poi il suo viso si schiarì. «Intende dire suicidio?»

Shelley scosse con solennità la testa. «No, avvocato», replicò. «Intendo dire… omicidio!»

«Buon Dio!» Samuel fece un balzo sulla sedia, tirandosi su dritto per lo stupore, e fissando Shelley come se fosse un fantasma. «Chi mai avrebbe voluto uccidere quel poveretto innocuo?»

«Questo», rispose Shelley, in modo un po’ sentenzioso, «è quello che devo scoprire, se ci riuscirò, avvocato Samuel, e spero di poter contare sul suo aiuto.»

«Naturalmente le darò tutto l’aiuto che potrò», rispose l’avvocato, «anche se non vedo nello specifico che cosa potrei fare.»

«Be’», gli spiegò Shelley, «come prima cosa, avete qualche documento, qui, che appartenga al professore? Se è così, potremmo trovarvi un indizio sul movente e cose simili.»

Samuel premette un pulsante sulla sua scrivania e comparve una dattilografa ben vestita e dall’aria efficiente.

«Le dispiace tirare fuori la cassetta con i documenti appartenuti al professor Arnell, signorina Watkins», chiese l’avvocato, «e portarmela qui?»

«Subito, avvocato Samuel», disse la ragazza, e tornò a ritirarsi in una zona privata dell’ufficio dove, a quanto pareva, lavorava.

«Una faccenda terribile», commentò Samuel, mentre la ragazza era via. «Come è successo?»

Shelley gli fece un breve riassunto delle circostanze del crimine, ma senza dare alcuna indicazione sulla situazione generale, né sui pochi fatti emersi riguardo alla possibile identità dell’assassino.

Poco dopo, però, la signorina Watkins portò una cassetta d’acciaio, che posò sulla scrivania insieme a una chiave dall’aspetto spaventosamente pesante, per poi ritirarsi ancora una volta nel suo ufficio privato.

«Avete sia la chiave sia la cassetta?», chiese Shelley, con una certa sorpresa.

«Un duplicato», spiegò l’avvocato, inserendo la chiave nella serratura. «Al professore non piaceva l’idea che potesse rendersi necessario chiamare un fabbro per aprire la cassetta. Era un signore di una certa età e molto distratto, e pensava che avrebbe potuto facilmente perdere la chiave. Quindi ne ha fatto fare un duplicato, che abbiamo tenuto qui in ufficio.»

«Dove era conservato?», chiese Shelley, prendendo nota dello stato delle cose. Pensava infatti che, in seguito, avrebbe potuto rivelarsi importante sapere chi avesse accesso alla cassetta dei documenti.

«In cassaforte», rispose l’altro, aprendo il coperchio della scatola e rivelando una grande quantità di carte.

«È possibile che qualcuno, a parte voi, abbia accesso alla vostra cassaforte?», continuò Shelley.

«Gesù, no!», rispose Samuel, inorridito. «Sa, ispettore, il materiale che uno studio come il nostro custodisce è piuttosto esplosivo. È bene non correre rischi, e non far sapere a nessuno di che cosa si tratta. Segreti professionali e tutte quelle cose lì, capisce?»

«Capisco», disse Shelley, guardando la pila di documenti con vivo interesse. «Ora, vediamo cosa avete qui: che cosa Arnell ha lasciato sotto la vostra responsabilità?»

«Oh», rispose l’avvocato, con un’alzata di spalle, «tutte le solite cose, sa: atti di proprietà di case, certificati azionari, copie dei contratti firmati con gli editori e così via.»

«C’è il suo testamento?»

«Non lo so.»

«Non lo sa?» Shelley rimase molto sorpreso. Si era fatto l’idea che Arnell avesse certamente lasciato il testamento nelle mani del suo avvocato.

«No.» Samuel sorrise. «Per certi aspetti, il vecchio Arnell non era un uomo che si fidava molto. In ogni caso, si fidava degli avvocati solo fintanto che poteva tenerli d’occhio. Non abbiamo redatto noi il suo testamento. Non so nemmeno se ne abbia lasciato uno.»

«Strano», commentò Shelley.

«Non così strano come si potrebbe pensare. Dopotutto, anche se questa è una cosa poco professionale da dire, se non miri a un modo sciocco e complicato di lasciare in eredità i tuoi soldi, fare testamento è una cosa semplicissima. Un avvocato è davvero necessario solo se si vogliono vincolare i propri soldi in qualche modo complesso. E immagino che Arnell avrebbe lasciato tutto alla figlia. È la sua unica parente, per quanto ne so. E un testamento del genere poteva facilmente buttarlo giù da solo.»

«Capisco», ribatté Shelley. «Be’, dia un’occhiata a quel mucchio di documenti, le spiace? Dopotutto, il testamento potrebbe essere lì. Non si sa mai, giusto?»

«Va bene», concordò l’avvocato, e riversò il contenuto della cassetta sulla propria scrivania.

A uno a uno passò in rassegna i documenti, esaminandoli con una certa cura e riponendoli poi in una pila ordinata al suo fianco. Alla fine di questa operazione, quando tutti i documenti erano stati guardati, si appoggiò allo schienale della propria poltrona, con un sospiro, scuotendo tristemente la testa.

«Niente da fare, temo», disse.

«Non c’è, eh?» Shelley era seriamente deluso, perché aveva contato di trovare il testamento lì.

«No. A dire il vero, non mi aspettavo di trovarlo, ispettore. Come le ho detto, Arnell era per molti versi uno strano tipo, e ritenevo molto improbabile che avesse lasciato il testamento in mia custodia.»

«Dove pensa che sia più probabile trovarlo?», chiese Shelley.

«Non saprei dire», rispose Samuel, senza sbilanciarsi. Poi il suo volto si illuminò, come se gli fosse venuta improvvisamente in mente una nuova idea. «Sa che il professore aveva una cassetta di sicurezza?», disse. «Forse il testamento sarà lì.»

«Credo che sia altamente probabile», concordò Shelley. «E dov’è questa cassetta di sicurezza?»

«Non lontano da qui. In quel deposito in Chancery Lane, sa. Ma mi chiedo se ci sia il modo di aprirla. Sono dei satanassi, quelli, quando si tratta di tirare fuori qualcosa senza le chiavi», spiegò l’avvocato.

«Oh, so tutto al riguardo», replicò Shelley con un sorriso. «Ho già avuto a che fare con loro. Ma penso di potermela cavare.»

Il poliziotto e l’avvocato andarono insieme fino al deposito di sicurezza e, dopo una lunga chiacchierata con il direttore e una conversazione al telefono con un personaggio molto altolocato di Scotland Yard, Shelley riuscì a ottenere il permesso di aprire la cassetta di sicurezza del defunto professor Arnell, anche se solo in presenza del direttore del deposito e di un altro testimone. Samuel accettò di agire in questa veste.

Le chiavi girarono, la cassetta fu aperta e il contenuto esposto alla vista.

«Non le avevo detto che era uno strano tipo?», mormorò Samuel, mentre il contenuto della cassetta veniva tirato fuori.

C’erano altri certificati azionari e altri atti di proprietà. A quanto pareva, il professor Arnell non voleva correre rischi, preferendo sparpagliare in più luoghi le sue proprietà, che potevano andare distrutte in un incendio o venire rubate dai ladri. Quella sembrava l’unica spiegazione per la strana scelta di tenere alcuni documenti nello studio del suo avvocato e altri nel deposito di sicurezza.

Ma lì c’erano anche altre cose. Alcuni gioielli fuori moda (presumibilmente appartenuti a sua moglie) e un oggetto che fece strabuzzare gli occhi a Shelley per la sorpresa. Si trattava della fotografia di un giovane di bell’aspetto, dai tratti ebraici, con i capelli neri, lisci e lucenti.

«Scusi», disse Shelley, «avrebbe qualche obiezione se portassi via con me quella fotografia? Sento che potrebbe essere importante per il caso.»

Il direttore del deposito di sicurezza sembrava nutrire dubbi sulla correttezza di quella linea d’azione.

«Naturalmente», si affrettò ad aggiungere Shelley, «le darò una ricevuta, e in seguito le sarà restituita. In effetti, se potessimo averla per il tempo necessario a fotografarla, e quindi a farne delle copie, per noi sarebbe sufficiente. Potrei restituirgliela stasera stessa, se ha delle perplessità sul fatto di lasciarmela.»

«Be’, ispettore», replicò il direttore, «è un po’ complicato. Come sa, abbiamo già infranto tutte le regole permettendovi di esaminare il contenuto della cassetta. E penso che non dovrei permettere che qualcosa esca di qui, capisce?» La sua voce si affievolì in un dubbioso silenzio, poi il direttore guardò Shelley, ovviamente in imbarazzo nel doversi dichiarare in disaccordo con il grande detective di Scotland Yard.

«Possiamo fare così», insistette l’ispettore alla fine. «Chiamerò Scotland Yard e farò venire uno dei nostri fotografi a fare qualche scatto a quel ritratto. Potrebbe andarle bene?»

«Così sarebbe certamente meglio», ammise il direttore. «Non che questa fotografia possa avere alcun valore, sa, ma è piuttosto una questione di principio. Spero che capisca.»

«D’accordo», disse Shelley in modo spiccio. «Ora, che mi dice, avvocato, del testamento?»

Durante quello scambio di cortesie, Samuel aveva ispezionato i documenti con una certa attenzione, e ora scuoteva tristemente la testa.

«Temo che sia stato di nuovo sfortunato, ispettore», rispose. «Il testamento non è qui.»

Shelley sospirò. «Questo significa che dovrò fare un’altra visita a Pinner, suppongo», disse. «È una seccatura che non ci abbiamo pensato prima, per la miseria, ma non possiamo evitarlo.»

Così, con qualche parola di gratitudine rivolta al direttore, l’ispettore se ne andò e, in men che non si dica, sfrecciava verso la casa del professor Arnell, dov’era stato la sera prima.

Arrivato lì, chiese di vedere la signorina Arnell, e presto si ritrovò seduto sul comodo divano del suo salotto, a spiegare perché era lì.

«Non credo», disse la ragazza, «che mio padre tenesse documenti di quel tipo qui, a parte quelli direttamente collegati al suo lavoro.»

«Ma non può esserne sicura», insistette Shelley. «E il testamento può aiutarci a risolvere il mistero della sua morte.»

«Tutti i documenti sono nella scrivania del suo studio», continuò lei, «e lei, ovviamente, può esaminarli a suo piacimento, se vuole. Temo che troverà una confusione spaventosa», continuò con un sorriso. «Mio padre era un uomo terribilmente disordinato, e l’unica cosa su cui era assolutamente irremovibile era che non toccassi le sue carte private.»

«Non c’è problema», ribatté Shelley, sorridendo a sua volta. «Siamo abbastanza abituati a smistare quantità di documenti in disordine, sa, signorina Arnell? Fa semplicemente parte del nostro lavoro, capisce?»

«Certo. Allora la accompagno lì?»

«Se non le dispiace.»

In silenzio, la ragazza gli fece strada attraverso l’atrio piastrellato fino a un piccolo studio accogliente. Era pieno di libri quasi dal pavimento al soffitto, e davanti alla finestra c’era una grande scrivania con la ribaltina, chiaramente quella a cui si riferiva la signorina Arnell.

La ragazza frugò nella borsetta e ne tirò fuori un grande mazzo di chiavi. Ne infilò una nella serratura della scrivania e, dopo aver armeggiato un po’, riuscì a girarla e ad aprire la ribaltina.

«Ecco!», disse. Con un ampio gesto del braccio, indicò il caos che regnava al suo interno. Era davvero «una confusione spaventosa», e Shelley gemette tra sé, pensando alla quantità di lavoro che lo aspettava.

«La lascio da solo?», chiese lei.

«Be’», rispose Shelley, «non mi sembra che abbia molto senso farla rimanere mentre io faccio ordine in tutti questi documenti. Sembra che sarà un lavoro un po’ lungo… Penso che ci vorrà un’ora buona, per scorrere tutta questa roba. E già che ci sono, potrei esaminare tutto. Anche se il testamento non c’è, qualcos’altro potrebbe fornirmi un indizio sul caso.»

«Bene», disse la signorina Arnell, con un sorriso aggraziato. «Suoni il campanello, se ha bisogno di qualcosa, d’accordo?»

«Lo farò», rispose Shelley, e si mise al lavoro.

Fu uno dei compiti più faticosi che avesse mai intrapreso. Quasi tutti i documenti sulla scrivania riguardavano, in un modo o nell’altro, il lavoro del professore morto. C’erano relazioni di conferenze tenute e ascoltate; appunti su libri letti; lettere ricevute da redattori di riviste letterarie, da colleghi dediti alla ricerca letteraria e da studenti a caccia di informazioni; c’erano quantità di appunti sui vari drammaturghi elisabettiani e almeno quattro diversi incipit per un libro sull’argomento. Chiaramente il defunto professor Arnell, quali che fossero i suoi meriti come studioso o ricercatore, non era in alcun modo un uomo ordinato e metodico. Eppure ogni pagina di quella prova documentale doveva essere accuratamente vagliata, ogni singolo foglietto dettagliatamente esaminato per vedere se contenesse qualche informazione importante. Shelley aveva visto fin troppi casi in cui un detective si era lasciato scappare un indizio inestimabile per non essere stato sufficientemente scrupoloso. Fu molto meticoloso, eppure, al termine di quasi due ore di duro lavoro, dovette dichiararsi sconfitto. Il testamento non era lì. Né vi era traccia di alcuna corrispondenza di natura personale. Ogni lettera aveva a che fare, in un modo o nell’altro, con il lavoro del defunto professore. Cominciava a pensare che la signorina Arnell fosse stata fin troppo corretta nell’affermare che suo padre non avesse amici a parte i suoi colleghi letterati.

Appoggiandosi allo schienale della sedia, Shelley rifletté attentamente. Che ci fosse un testamento, da qualche parte, era più che sicuro. Ma dove poteva mai essere? L’ispettore era certo che il professor Arnell non fosse il tipo di uomo che moriva senza lasciare un testamento. Aveva un bel po’ di denaro ed era troppo affezionato alla figlia per correre il rischio che lei non ottenesse la propria eredità. L’intera faccenda era sconcertante ai massimi livelli.

La porta si aprì lentamente, e il viso della signorina Arnell fece capolino. Le brillavano gli occhi e aveva un’aria eccitata, seppur repressa, che fece immediatamente capire a Shelley che aveva delle informazioni importanti da rivelare.

«Entri, signorina Arnell», disse l’ispettore.

La ragazza entrò. «Non ha avuto fortuna, suppongo, ispettore», azzardò.

Shelley scosse tristemente la testa. «Non un briciolo, temo», ammise. «Sono sicuro che suo padre ha fatto testamento, ma non riesco a trovarlo da nessuna parte. E nemmeno qui c’è traccia di alcun tipo di corrispondenza personale. È tutto collegato al suo lavoro.»

«C’era da aspettarselo», replicò Violet Arnell. «Mio padre non ha mai fatto amicizia facilmente. Ha sempre detto che il suo lavoro era la sua cerchia di amici. E non aveva alcun desiderio di fare amicizia con chi non potesse discutere in modo erudito di Marlowe, Peele, Greene e gli altri.»

«Ma che cos’era venuta a dirmi?», chiese all’improvviso Shelley. Era evidente che la signorina Arnell stava semplicemente esplodendo dalla voglia di comunicare le sue novità, ed era possibile che queste fossero di qualche valore.

«Come lo sapeva…?», iniziò lei, poi si interruppe. «È solo che ho trovato il testamento di mio padre», disse.

«Ha trovato lei il suo testamento?» Shelley era francamente incredulo. «E dove mai l’ha trovato?»

«In una lettera.»

«Quale lettera?» Shelley poteva essere decisamente laconico, quando l’occasione lo richiedeva.

«Una lettera che è appena arrivata per posta. Guardi.» La ragazza gliela porse: una lettera raccomandata, spedita da Londra (succursale di Holborn). Shelley notò queste informazioni in modo automatico, mentre estraeva il documento dalla busta.

«Chi l’ha inviata?», chiese.

La ragazza scosse la testa disorientata. «Non ne ho la minima idea», disse.

«C’era una lettera di accompagnamento?», domandò l’ispettore.

Lei scosse di nuovo la testa. «No. C’era solo il testamento nella busta. Non riesco a pensare chi me l’abbia mandato, né perché.»

«Riconosce la scrittura?», chiese Shelley.

«No.» L’indirizzo sulla busta era uno scarabocchio rozzo e disordinato, che poteva, come Shelley realizzò subito, essere semplicemente un tentativo di mascherare la propria calligrafia.

«L’ha letto?»

Lei annuì.

«Non le dispiace se lo leggo anch’io?»

«Certo che no», rispose lei. «Dopotutto, ha detto che era importante, e ora che l’abbiamo trovato voglio che lo legga immediatamente.»

Shelley lesse il documento ad alta voce. «Queste sono le ultime volontà e il testamento del sottoscritto, Julius Arnell, professore emerito all’Università di Portavon. Con la presente lascio in eredità tutte le mie proprietà a mia figlia, Violet Arnell, a suo uso esclusivo finché sarà in vita. Alla sua morte, che lei abbia figli o meno, andrà tutto a mio nipote, Moses Moss, e apparterrà a lui e ai suoi eredi e assegnatari, in tutto e per tutto.»

La ragazza fece un sorriso tremolante. «Mi sembra proprio da lui», commentò. «Per quanto disordinato e poco pratico fosse in alcune cose, in quelle che contavano davvero, faceva tutto nel modo corretto.»

«Mmm.» Shelley non era del tutto soddisfatto. «È il tipo di testamento che si sarebbe aspettata da suo padre?»

«Sì.» Violet Arnell fu piuttosto categorica, su questo punto.

«Be’, d’accordo, allora», disse Shelley, dando un’altra occhiata al testamento. Poi fischiò piano tra sé.

«Qual è il problema?» La ragazza intuì che d’un tratto era sorpreso e a disagio per qualcosa.

«Lo guardi di nuovo», la esortò Shelley.

La ragazza guardò. «Non vedo nulla di curioso», disse.

«Allora probabilmente non sa che il professor Wilkinson è morto al British Museum circa sei mesi fa, e che il dottor Crocker è stato pugnalato sempre lì la scorsa notte», le spiegò Shelley.

«Ma è terribile!» Era inorridita e sconcertata al tempo stesso. «Però non capisco…», mormorò.

«Dia un’altra occhiata al testamento di suo padre», la invitò Shelley.

«Di nuovo?» La signorina Arnell aveva ancora un tono perplesso, ma obbedì. Prese il documento e lo lesse fino in fondo con la massima attenzione, come se avesse deciso che qualunque circostanza peculiare avesse colpito Shelley, questa volta non sarebbe dovuta sfuggire al suo sollecito esame.

«Ancora non capisco…», ripeté.

«Lo guardi un’ultima volta», la spronò il detective. «Se ancora non capirà, glielo spiegherò io. Ma, in qualche modo, credo che tra un attimo si renderà conto di dove voglio arrivare.»

La ragazza guardò. Poi pronunciò un urletto di terrore. «Il professor Wilkinson», disse. «E il dottor Crocker.»

«Sì», disse Shelley, serio. «Non so che cosa significhi. Non sembra avere alcun senso. Ma il professor Wilkinson, morto al British Museum sei mesi fa, e il dottor Crocker, morto sempre lì la scorsa notte, sono stati i testimoni del testamento di suo padre!»