12
Di nuovo il testamento

Il signor Fairhurst scosse la testa abbattuto.

«Ho paura, mia cara signorina Arnell, che ci sia poco da fare», disse.

Violet Arnell lo guardò tristemente, con gli occhi che le si riempivano di lacrime.

«Su, non essere sciocco, Henry», lo rimproverò sua sorella. «Se tutto quello che sai fare è deprimerla ancora di più in quel modo, allora sei più stupido di quanto pensassi, e questo è un peccato.»

«Be’», argomentò Henry, «se tutto ciò che la polizia mi dice è che Wilkinson è morto di morte naturale, che il signor Baker è stato sul luogo dove avrebbe potuto facilmente mettere un confetto avvelenato nel sacchetto che era nella tasca di suo padre (vale a dire a Pinner), e che era senza dubbio fuori dai cancelli del British Museum (se non al loro interno) la notte in cui Crocker è stato assassinato, che cosa posso fare?»

«Puoi fare qualcosa, Henry», sbottò Sarah. Era chiaramente sulle spine, non le piaceva l’idea di vedere Violet Arnell così afflitta e in lacrime.

«Mi viene in mente solo una cosa», aggiunse Henry, dopo una profonda riflessione.

«E cioè…?» Violet Arnell pendeva dalle sue labbra con un’urgenza fin troppo lusinghiera per la vanità di Henry.

«E cioè… il testamento di suo padre», annunciò, e poi la guardò per vedere quale effetto avesse suscitato.

«Ma a che cosa pensa possa servire?», chiese la ragazza, in tono lamentoso.

Henry fece del suo meglio per fare una certa impressione. «Non lo so bene», disse lentamente. «Il punto, in un caso come questo, in cui tutti gli indizi più o meno si esauriscono, è indagare il più a fondo possibile sui pochi indizi che abbiamo.»

«Ma in che modo il testamento di mio padre è un indizio?»

«Non lo so», disse di nuovo Henry. «Ma è una delle poche prove che abbiamo, e dobbiamo fare del nostro meglio per capire come utilizzarla.»

Violet Arnell sorrise. Non era un sorriso particolarmente trionfante… Era, in effetti, un sorriso piuttosto scialbo, ma il fatto di essere riuscito a fare breccia nella tristezza fino a quel momento totale dell’espressione della ragazza era per Henry qualcosa di cui essere grato, e di conseguenza lo fece sentire un eroe. Era, tuttavia, pronto ad ammettere che quel sorriso fosse dovuto più all’immaginazione di Violet che alla bravura che lui poteva aver raggiunto come investigatore.

«Per la verità», disse lei, «ce l’ho proprio qui nella borsetta. Lo porto sempre con me, da quando l’ispettore Shelley, dopo averlo fotografato, mi ha detto di prendermene molta cura in quanto si sarebbe potuto rivelare un indizio importante in seguito.»

Henry sorrise raggiante. «Ecco: che cosa le ho detto?», commentò. «Un indizio importante. E io sono andato dritto a quello, vede?»

«Potresti fare qualcosa in più che parlarne soltanto, Henry», disse Sarah con uno sbuffo altezzoso. «Allora sì che potremmo pensare un po’ di più a te come a un vero investigatore.»

Violet tirò fuori il documento dalla borsetta e lo consegnò a Henry, che lo lesse ad alta voce.

«Queste sono le ultime volontà e il testamento del sottoscritto, Julius Arnell, professore emerito all’Università di Portavon. Con la presente lascio in eredità tutte le mie proprietà a mia figlia, Violet Arnell, a suo uso esclusivo finché sarà in vita. Alla sua morte, che lei abbia figli o meno, andrà tutto a mio nipote, Moses Moss, e apparterrà a lui e ai suoi eredi e assegnatari, in tutto e per tutto.»

Henry alzò lo sguardo. «È il tipo di testamento che si sarebbe aspettata da suo padre?», chiese.

«Sì», rispose lei.

«Scritto con l’inchiostro blu», mormorò Henry, «e datato 3 dicembre 1936.»

«Come?» Violet Arnell lo guardò sorpresa.

«Ho detto: ‘Scritto con l’inchiostro blu’», ripeté Henry, «‘e datato 3 dicembre 1936’.»

Sul volto della ragazza si dipinse un’espressione di sconcertata perplessità. Aggrottò la fronte e guardò con attenzione il documento, con gli occhi strabuzzati.

«Ma… ma… Non capisco», disse.

«Che cosa non capisce?», chiese pazientemente Henry.

«Mio padre in passato scriveva sempre tutto con l’inchiostro blu», spiegò lei. «Era una sua piccola mania. Ma quando ha scritto il suo libro nell’estate del 1936 ha avuto un piccolo problema. La ragazza che doveva batterlo a macchina a partire dal suo manoscritto ha detto che quell’inchiostro blu acceso (proprio questo colore, capisce?) le stancava gli occhi.» Si interruppe.

«Continui», la incalzò Henry.

«Nell’autunno del 1936, mio padre mi disse di buttare via l’inchiostro blu e di procurargli una fornitura del più consueto blu-nero. Sa, quello che diventa nero, dopo che si è asciugato per alcune ore.»

«Ho capito.» Henry era tutto eccitato. Disse a se stesso che quello era investigare. Finalmente cominciava a sembrare che fossero sulle tracce di qualcosa di grosso!

«E all’epoca in cui il testamento è stato scritto, non c’era inchiostro blu in casa!»

Si guardarono l’un l’altra in silenzio. Sarah sbuffò e disse: «Bene, che cosa hai intenzione di fare, al riguardo? Qui c’è qualcosa che puzza, ci metto la mano sul fuoco.»

«Non capisco», ammise Henry, francamente. «Non sembra avere senso. Se suo padre non aveva inchiostro blu, perché si è preso la briga di redigere il suo testamento con un inchiostro di quel colore?»

«Ma… ma… n-n-non capisce?» Violet Arnell balbettava per l’eccitazione.

«Temo di no. È una cosa davvero insolita, ma non riesco a capire che cosa significhi», insistette Henry, aggrottando perplesso la fronte.

«Significa», disse Violet con un tono solenne, «che non è stato mio padre a scrivere quel testamento.»

«Oh, andiamo, andiamo, signorina Arnell», protestò Henry. «Non credo che si possa dedurre esattamente questo. Dopotutto, quali motivi ha per dire…»

Violet lo interruppe. «Mio padre», ripeté, «non ha scritto quel testamento.»

«Non potrebbe essere rimasta una penna stilografica, in giro da qualche parte, con dentro un po’ di inchiostro blu?», suggerì in seguito Henry. «Dopotutto, erano passati solo pochi mesi da quando l’inchiostro blu era stato gettato via. E potrebbe facilmente esserne rimasto un po’ in una delle penne stilografiche.»

«Mio padre non usava mai la penna stilografica», spiegò la ragazza. «Per certi versi era un uomo all’antica, e aveva un’avversione radicata per le penne stilografiche: diceva che con quelle scrivevano tutti allo stesso modo. Usava una vecchia penna con il pennino d’acciaio. E io, pur avendo una penna stilografica, non ho mai usato l’inchiostro blu. Non mi piaceva.»

«Be’, è possibile, ovviamente», disse Henry. «E ora, signorina Arnell, potremmo anche indagare un po’ più a fondo su questo testamento. Presumo che l’ispettore Shelley abbia controllato se vi siano delle impronte digitali.»

«Sì.»

«Ne ha trovate?»

«No.»

«Be’, diamo un’occhiata alla carta.» Henry sollevò il documento alla luce e prese un appunto su un blocco che aveva davanti a sé.

«1937 Bond. Barnes and Co., Chiswick», disse. «Questo non ci dice molto, vero? Potrebbe valere la pena di chiedere al negozio se possono identificarla, ma in realtà non sembra probabile.»

«Aspetti un minuto. Aspetti un minuto.» Violet Arnell era di nuovo molto eccitata.

«Che cosa la preoccupa, ora?» borbottò Henry. E tra sé si disse che quel lavoro da investigatore non era affatto tutto rose e fiori.

«1937 Bond», disse lei piano.

«E allora?»

«Il testamento è datato 1936, ricorda?»

«Oh, non è niente.» Henry liquidò il suggerimento con un cenno della mano. «Quei numeri non significano nulla. La mia carta per gli appunti si chiama ‘1718 Bond’, ma questo non significa che sia stata prodotta nel 1718, né in quegli anni. Probabilmente il numero è solo un codice, e nient’altro.»

«Non ne sono tanto sicura. Penso che valga la pena di scoprirlo, comunque», obiettò Violet Arnell.

Henry sospirò. «Molto bene», concordò. «Suppongo che non ci sia nulla di male a chiamarli per chiederglielo.»

Tirò il telefono verso di sé, compose un numero e aspettò.

«Parla Barnes and Co.?», domandò. «Mi chiedevo se può dirmi in quale anno avete iniziato a immettere sul mercato la vostra carta ‘1937 Bond’. Quando? Oh, sì, questo mi è molto utile. Mille grazie. Arrivederci.»

Si voltò verso le donne, con la carnagione del colore del latte.

«La sua idea era giusta, signorina Arnell», ammise piano.

«È un falso», affermò lei.

«Esatto. È un falso. Quella carta originariamente avrebbe dovuto chiamarsi ‘Coronation Bond’, per celebrare l’incoronazione di re Giorgio VI, ma un’altra azienda ha utilizzato il nome per prima, così decisero di chiamarla ‘1937 Bond’.»

«E quando è stata immessa per la prima volta sul mercato?», chiese Violet Arnell.

«Il 10 febbraio 1937, due mesi dopo la data in cui si suppone sia stato scritto il testamento!»

«Di nuovo, signor Fairhurst?» Shelley quasi scoppiò a ridere, vedendo l’ometto che si contorceva goffamente sulla sedia a Scotland Yard.

«Di nuovo, ispettore.» Henry trovava molto difficile introdurre l’argomento.

«Bene, qual è il motivo di questa visita?»

«Ho scoperto una cosa molto importante, signore. Qualcosa che potrebbe alterare l’intero corso di questo caso.»

«Pensa ancora che il giovane Baker non sia colpevole?»

«Non so come questa scoperta possa incidere sulla sua colpevolezza, ma è una cosa che penso debba sapere. Dopodiché, può farne ciò che vuole.»

«Be’, continui», lo esortò Shelley, allegramente.

«Il testamento del defunto professor Arnell è un falso», annunciò Henry, nel suo tono più cupo.

«Sicuro?» Shelley sparò fuori la parola.

«Certissimo.» E Henry raccontò brevemente delle loro indagini di un’ora o due prima. Poi ebbe una dimostrazione della sorprendente efficienza di Scotland Yard.

«Dove ha lasciato la signorina Arnell?», chiese Shelley.

«È tornata a casa, a Pinner. Le ho detto che l’avrei chiamata quando lei, ispettore, mi avesse detto che cosa ne pensava di questa questione del falso.»

«Qual è il suo numero?»

Henry glielo disse, e Shelley tirò a sé il telefono e, rapidamente, si fece passare il numero richiesto. Dopo aver tenuto in mano il ricevitore per qualche minuto, ovviamente ascoltando gli squilli all’altro capo del telefono, lo riappoggiò tranquillamente sul suo gancio, e prese un altro telefono.

«Mandami il sergente Cunningham, un’auto della volante e una mezza dozzina di uomini in borghese», disse.

«Non capisco, ispettore», obiettò Henry.

«Capirà presto», rispose secco Shelley. «Non c’è tempo da perdere.»

Poi Cunningham entrò, e Shelley, in un tono secco e cadenzato, gli diede i suoi ordini.

«Ti ricordi la casa della signorina Arnell, a Pinner?», domandò.

Cunningham annuì.

«Be’, da qualche parte tra la casa e Streatham», gli disse il suo capo, «credo che la signorina Arnell sia scomparsa. Vedi se riesci a metterti sulle sue tracce.»

«Scomparsa?» Cunningham sembrava assolutamente stupito.

Shelley guardò di nuovo Henry.

«È andata in autobus?», gli chiese.

Henry annuì. In quell’atmosfera di rapida efficienza, sembrava inutile dire qualunque cosa. E in ogni caso, Shelley aveva sostenuto che era urgente, e lui non voleva perdere tempo.

«Segui le linee degli autobus e vedi se riesci a trovare qualcuno che ha visto una giovane donna che assomiglia alla signorina Arnell venire prelevata da un’auto», continuò Shelley. «Se non riesci a rintracciarla in nessun altro modo, prova a cercare un autobus partito da Streatham alle… A che ora, signor Fairhurst?»

«Alle otto», mormorò Henry, assolutamente disorientato da tutto quel trambusto, e non capendo affatto quella svolta degli eventi.

«Alle otto. Bene. Sentito, Cunningham?», chiese Shelley.

«Sì, signore», rispose Cunningham diligentemente.

«Prendi l’auto che ho richiesto e i sei uomini. E sbrigati. È in serio pericolo. Non mi perdonerei mai se… se…» Si interruppe, e Cunningham lasciò rapidamente la stanza.

«Che cosa pensa le sia successo, ispettore?», chiese Henry.

«Non lo so. Magari lo sapessi», rispose Shelley. «Sono le cose poco chiare come questa a causare i problemi.»

Poi prese di nuovo il telefono e parlò rapidamente.

«Vedi se riesci a individuare tracce di falsificazione in quella copia fotostatica del testamento del professor Arnell, Mac», ordinò. «Ci sono alcuni suoi documenti nel fascicolo nella stanza 126. Sono abbastanza sicuro che sia un falso, ma è meglio avere delle prove a conferma, se possibile.»

«Ma che cosa significa tutto questo, ispettore Shelley?», chiese Henry, quando il detective ebbe riattaccato il ricevitore del telefono al suo gancio.

«Può esserci solo una ragione per cui quel testamento è stato falsificato, mio caro signor Fairhurst», rispose Shelley. «Come ricorderà, lasciava i soldi alla signorina Arnell. Be’, è possibile che sia stato il signor Baker a falsificarlo, anche se non credo che, se lo avesse fatto, sarebbe stato così sciocco da lasciarli a lei solo fino alla sua morte. No?»

«Allora chi è stato?»

«Questo è quello che mi piacerebbe sapere.»

«Perché pensa che la signorina Arnell sia scomparsa?», chiese Henry.

«Perché è una donna molto ricca. E con la sua morte il signor Moses Moss erediterebbe un sacco di soldi. Ecco perché!»

«E pensa che Moses Moss sia l’assassino?»

«Sembra molto probabile», ammise Shelley.

D’un tratto, Henry guardò Shelley inorridito. Un brivido gli corse lungo la spina dorsale, mentre il sangue gli scorreva freddo nelle vene.

«Ma questo significa, ispettore», disse, «che c’è la possibilità che Moses Moss abbia rintracciato la signorina Arnell. Significa che potrebbe averla rapita e portata via da qualche parte.»

Shelley annuì cupo. «Non significa solo questo, mio caro signor Fairhurst», aggiunse piano. «Significa anche che il signor Moses Moss potrebbe avere in mente un altro omicidio.»