18
Si va al Nord!

«È tutto molto misterioso, signor Moss», commentò Shelley, riprendendosi lentamente dallo stupore per il fatto che il giovane ebreo non conoscesse nemmeno l’uomo che presumibilmente gli aveva inviato il biglietto.

«Sono d’accordo con lei», disse Moss.

«Non so che cosa darei», aggiunse Shelley, «per sapere esattamente chi sta tenendo prigioniera la signorina Arnell… o chi l’ha, in ogni caso, rapita e portata al Nord in questo modo sfrontato. Sarebbe interessante sapere di chi si tratta.»

«Mi dispiace di non poterla aiutare, signore», replicò Moss. «Ma sembra che catturare quell’uomo sia il suo mestiere. Non penso di poterle essere molto utile, davvero. Immagino che tornerò a casa a dormire… cioè, se non vuole che rimanga qui. Presumo di non essere sospettato, o in arresto, o niente del genere.» E rise, anche se la sua risata non fu particolarmente ben riuscita: tradiva smarrimento, paura e (per come la pensava Shelley) ostilità.

«No, non credo che vogliamo che lei rimanga ancora qui, signor Moss», disse Shelley. «È stato molto franco con noi, per quanto ne sappiamo, e non vedo alcun motivo per cui non possa andare a casa a dormire. Solo non lasci Londra senza farcelo sapere.»

«Grazie, signore», rispose Moss, con un atteggiamento di profonda gratitudine.

«È tutto a posto. Non mi ringrazi. Ringrazi la buona stella che le ha fatto tenere quella lettera e la busta. Se non fosse stato per quella, avremmo potuto sospettare di lei», gli disse Shelley. E poi, tendendogli la mano in modo amichevole, gli augurò la buonanotte.

Non appena il giovane se ne fu andato, tuttavia, i suoi modi cambiarono all’istante. Da amichevole e tranquillo, quasi languido, Shelley si trasformò nel detective in servizio, vigile, attivo e senza scrupoli quando si trattava di inseguire la sua preda. Tirò su il ricevitore dal telefono della sua scrivania e pronunciò poche, incisive parole.

«Jim?», domandò. «Bene. Un giovane ha appena lasciato il mio ufficio, un bel giovane ebreo: voglio che venga seguito giorno e notte. Mettigli alle calcagna i due uomini migliori che hai. Non lasciate che faccia un centimetro senza seguirlo.»

All’altro capo del telefono fu posta una domanda che Shelley si aspettava, e lui rispose: «Pericoloso? No. Non penso proprio, ma non si sa mai. E c’è solo la remota possibilità che possa essere un assassino. Capito? Quindi mettigli alle costole gli uomini migliori che hai; e di’ loro di riferire immediatamente, se tenta di lasciare Londra; e di arrestarlo preventivamente, se sembra che si stia dando alla fuga e non hanno il tempo di chiamare il quartier generale. Tutto chiaro? Bene». Sbatté il ricevitore, poi si girò con la sedia verso un Cunningham dall’aria pensierosa.

«Be’, Cunningham? Che cosa ne pensi del nostro signor Moss?»

Il sergente scrollò le spalle senza sbilanciarsi. «Molto difficile da dire, signore», rispose.

«Sono d’accordo. Ecco perché non voglio correre rischi. Non conosco l’identità del pazzo a cui tra poco daremo la caccia nel Nord dell’Inghilterra», aggiunse Shelley, «ma, poiché c’è in ogni caso la possibilità che sia un complice di Moses Moss, non voglio correre rischi con quel signore. Non voglio, nel caso sia coinvolto, che ci scivoli tra le dita mentre stiamo inseguendo l’altro. Capisci?»

Cunningham comprendeva molto bene.

«Ora», aggiunse Shelley spiccio, «a Sheffield. Temo che il signor Moss ci abbia portato via un po’ più di tempo di quanto pensassi. Quindi dovremo trovare altri treni. Quali abbiamo?»

Di nuovo Cunningham scorse l’orario. «Ce n’è uno a mezzanotte e un quarto, signore», annunciò alla fine. «Arriva a Sheffield alle quattro e mezzo del mattino. Che ne dice?»

«Dovremo farcelo andar bene, suppongo», borbottò Shelley. «Uno di questi giorni, Cunningham, mi troverò un lavoro come si deve, per il quale non sarò costretto a perdere il sonno. Grazie al cielo non sono sposato, comunque. Che cosa ne pensa tua moglie del fatto che passi così tanto tempo fuori casa?» Poi, senza aspettare una risposta alla sua domanda puramente retorica, continuò: «Comunque, dovremo cercare di dormire un po’ sul treno, se riusciamo. Immagino che non ci riposeremo molto, domani».

Cunningham andò alla porta e uscì di corsa, preparandosi a prendere l’auto che sapeva sarebbe servita per portarli a St Pancras.

Shelley lo seguì in modo più rilassato, fermandosi al laboratorio delle impronte digitali per prendere una fotografia, sviluppata, fissata e asciugata, delle impronte di J.K. Wallace, l’ex criminale comparso così misteriosamente nel suo caso, in una fase così avanzata, e che ancora non erano stati in alcun modo capaci di identificare.

Davanti alla portiera dell’auto fu fermato da una figura eccitata, con la bombetta tutta storta e un pince-nez appoggiato in modo assurdo sulla punta del naso.

«Salve, signor Fairhurst», disse l’ispettore. «Mi dispiace di non potermi fermare ora. Vado di fretta. Siamo sulle tracce della signorina Arnell e dobbiamo prendere un treno.»

«Ma, ispettore Shelley», ansimò l’ometto, che ovviamente era venuto di corsa, «devo parlarle del caso.»

«Mi dispiace, signor Fairhurst», tagliò corto Shelley. «In qualsiasi altro momento. Ora sono occupato.»

«È importante!»

«Ne è sicuro?»

«Sì, ispettore.»

Shelley si fermò un istante, pensando a una via d’uscita da quel problema. Fairhurst aveva fornito loro informazioni di una certa importanza, in precedenza, questo era vero, ed era possibile che avesse una qualche sorta di prova materiale che stava cercando di portare alla loro attenzione. Poi trovò la soluzione.

«Se pensa che questa informazione sia vitale, signor Fairhurst», disse, «salti su.» Indicò l’auto in attesa, al volante della quale sedeva, impassibile, un poliziotto.

«Vengo con lei?» Il signor Fairhurst era molto eccitato a quella prospettiva.

«Se pensa di poterci essere d’aiuto in questo caso.» Shelley fu attento a non sbilanciarsi.

«Sì!» Al signor Fairhurst brillarono gli occhi, il suo pince-nez scivolò in basso, più vicino alla punta del naso, e l’inclinazione del suo cappello si fece inconsciamente più spavalda che mai. «Sì!», ripeté. «Verrò con lei ovunque lei vada, ispettore Shelley, e spero di essere di qualche aiuto nel catturare questo mascalzone.»

Veloce, silenziosa ed efficiente, l’auto della polizia sfrecciò lungo lo Strand, su per una Kingsway deserta e, di lì, fino a St Pancras. Ben presto furono comodamente sistemati nell’intimità di un compartimento di prima classe, sfrecciando verso nord attraverso la periferia addormentata.

Shelley tirò fuori la sua vecchia pipa di radica, la riempì di fetido tabacco e l’accese. Poi si rivolse all’ometto che si era così inaspettatamente unito al loro gruppo, e gli chiese quale fosse l’informazione importante che aveva da comunicare loro.

«Moses Moss», annunciò Fairhurst in tono drammatico, «è a Londra!»

Cunningham emise un grugnito disgustato. «È tutto quello che ha da dirci, signor Fairhurst?», chiese sprezzante.

«Non è abbastanza?», ribatté Henry. «Stavo camminando lungo lo Strand, quando l’ho visto. Sono rimasto così sbalordito che avreste potuto buttarmi giù con una piuma. Eccolo lì, sfrontato come non mai, a passeggiare lungo lo Strand come se fosse a casa sua.»

«Suppongo», osservò Shelley, «che non abbia visto un uomo basso, di mezza età, con un cappotto di tweed e un cappello nero di feltro, pochi metri dietro di lui?»

«No», ammise il signor Fairhurst. «Chi era?»

«Il sergente Pinto, della divisione Indagini criminali di Scotland Yard», rispose Shelley, con un sorriso di superiorità.

«Uno dei vostri uomini?» Henry Fairhurst sembrava completamente disorientato.

«Uno dei nostri uomini.»

«Allora sapevate già tutto?»

«Sapevamo già tutto.»

«Ma allora perché sto venendo a Sheffield con voi?»

«Perché, in effetti?»

Henry si preoccupò al pensiero di aver addebitato ai contribuenti britannici il prezzo di un biglietto di andata e ritorno in prima classe da St Pancras a Sheffield, e Shelley era vagamente infastidito per essere riuscito in qualche modo a caricarsi del peso di un estraneo in quella fase fondamentale della sua indagine. Tuttavia, non poteva farci nulla, l’avrebbe rimandato a Londra alla prima occasione, sul primo treno disponibile.

«Suppongo», chiese, pensando di poter, dopotutto, comportarsi in modo ragionevole, e provare a vedere se Henry avesse qualche informazione sull’argomento che era in cima ai suoi pensieri, «che non le sia mai capitato di imbattersi in un uomo di nome J.K. Wallace.»

«Perché?», fu la sorprendente risposta. «Che cosa ha fatto, ora, il buon vecchio J.K.?»

«Signor Fairhurst», sbottò Shelley, «lei è un dono degli dei. Ha continuato a portarmi informazioni, e questa volta ha la migliore di tutte. Davvero ha conosciuto il signor J.K. Wallace?»

«Certo che sì. È stato molti anni fa. Era…» Henry esitò, come se si sentisse in qualche modo in imbarazzo; poi continuò valorosamente, prendendo il coraggio a due mani: «Un tempo era uno dei miei migliori amici, ma io disapprovavo il suo stile di vita e abbiamo litigato, tanto che negli ultimi anni non l’ho più visto.»

Shelley e Cunningham si scambiarono un’occhiata significativa, dicendosi che quello era il colpo di fortuna più grande che fosse capitato loro.

«Mi dica», continuò l’ispettore Shelley, «come lo ha conosciuto?»

«È successo nella sala lettura del British Museum», rispose Henry, «circa otto o nove anni fa.»

«Mmm», commentò Shelley. «Non molto tempo dopo che era stato rilasciato da Dartmoor.»

«Sì. Mi ha raccontato tutto di quel periodo», disse Henry e Shelley rise.

«Dubito che le abbia detto tutto», osservò. «Le ha detto, per esempio, che era stato mandato in prigione per complicità in una frode molto ingegnosa, perpetrata ai danni di una banca e di una compagnia di assicurazioni contemporaneamente?»

«Devo dire», ammise Henry, «che, quando ho scoperto un po’ di cose sul suo stile di vita, ho cominciato a chiedermi se non potesse essere accaduto qualcosa del genere. Lui ha giurato di essere innocente, ovviamente. Ha detto di essere stato ‘incastrato’ (o almeno credo che la parola fosse quella) da una banda che voleva sbarazzarsi di lui. Suppongo che fosse una completa falsità, non è così?»

Shelley inclinò gravemente la testa. «Temo che l’abbia seriamente ingannata, signor Fairhurst», confermò.

«Suppongo che sia stata colpa mia, per aver ceduto così facilmente alle blandizie di uno sconosciuto nella biblioteca del British Museum, quel giorno», disse Henry. «Ma si vedono così tante persone interessanti lì che, in qualche modo, si ha la sensazione che in quel luogo ci sia una sorta di massoneria dell’erudizione.»

Shelley sembrava pensoso. «Sì, suppongo che si abbia un po’ quel tipo di sensazione», ammise. «Proprio come io provo simpatia per i poliziotti, ovunque vada. Sì, me ne rendo conto.»

«Ma non era così, ispettore Shelley», si lamentò Henry. «Vede, all’inizio eravamo soliti pranzare o cenare insieme, di tanto in tanto, e lui mi raccontava tutto dei terribili momenti trascorsi a Dartmoor, degli uomini malvagi che c’erano là e di quel genere di cose.»

Shelley annuì. «Capisco», disse.

«Be’», continuò Henry. «È così che è iniziata, ma, dopo essere andata avanti in questo modo per un mese o due, mi sono reso conto che pagavo sempre io. E, se per caso suggerivo di andare a bere qualcosa, succedeva sempre, dopo che avevo pagato un giro io, che lui avesse qualche affare molto importante altrove, e quindi non potesse rimanere e pagare il giro successivo. Tutte piccole cose, che però hanno iniziato a darmi sui nervi.»

Shelley annuì di nuovo, comprensivo.

«E poi», continuò Henry, consapevole di avere un pubblico attento, «ha cominciato a chiedermi del denaro in prestito. Solo piccole somme, capisce? Uno scellino un giorno e mezza corona la settimana successiva.»

Il treno correva sferragliando nella notte e Henry si fermò, mentre attraversavano una galleria, perché il rimbombo era troppo forte per consentire una conversazione tranquilla. Shelley colse l’occasione per riempire la sua pipa e riaccenderla, ignorando i colpi di tosse di Henry Fairhurst, quando il fumo fetido si diffuse nello scompartimento.

«Questa questione dei prestiti», riprese Henry, non appena ebbero superato la galleria, «è andata avanti a lungo. All’inizio mi restituiva i soldi regolarmente, poi ci sono state occasioni in cui ho dovuto ricordargli che non me li aveva restituiti. Era una situazione molto sgradevole, glielo posso assicurare, ispettore Shelley.»

Shelley fece di nuovo dei mormorii di assenso e disse: «Vada avanti, signor Fairhurst. Tutto questo è molto interessante, e ne capirà il valore nel caso in essere, quando le dirò una cosa in seguito. Per il momento voglio tutte le informazioni concernenti il signor Wallace su cui posso mettere le mani.»

Henry quasi si sciolse di piacere. «Mi sembra di aver capito che abbia detto: ‘nel caso in essere’, ispettore Shelley», disse. «Be’, tutto questo è molto gratificante, davvero molto gratificante. Spero di poterle dire qualcosa che sia di reale aiuto in questo caso.»

«Sono sicuro che sarà così, signor Fairhurst», rispose serio Shelley. «Continui la sua storia. Sono certo che Cunningham sia ansioso quanto me di sentire il resto e di sapere come è andata a finire la sfortunata vicenda.»

«Be’», disse Henry, e si fermò indeciso per un istante. «Ha continuato a chiedermi in prestito sempre più denaro, sempre restituendomelo con… diciamo un po’ di pressione di tanto in tanto. Non volevo rifiutare i prestiti al poveretto. Aveva sempre un’ottima scusa per volere un po’ di ‘liquidi’, solo per superare qualche momento difficile.»

«Ne sono certo», disse Shelley tristemente.

«La storia è andata avanti, come ho detto, per alcuni mesi», continuò Henry. «Una settimana mi restituiva mezza corona e chiedeva in prestito cinque scellini. La settimana successiva mi chiedeva in prestito altri cinque scellini, e infine, dopo averglieli chiesti più volte, recuperavo i miei dieci scellini un mese dopo. Credo di essermi spiegato molto chiaramente, ispettore, no?»

«Molto chiaramente, signor Fairhurst», rispose Shelley. «Vorrei solo che tutti i testimoni con cui abbiamo a che fare potessero esprimersi con la metà della sua chiarezza.»

Ancora una volta Henry si pavoneggiò con soddisfazione, dicendosi che non tutti ricevevano elogi simili da parte di importanti funzionari di Scotland Yard.

«Una volta, però, mi ha chiesto in prestito cinque sterline. Mi ha detto che stava per essere buttato fuori dall’alloggio in cui viveva, poiché doveva diverse settimane di affitto.» Henry si fermò e guardò i suoi ascoltatori, per vedere se avevano qualche osservazione da fare riguardo a quella linea di condotta un po’ sorprendente da parte del signor Wallace.

Dato che non avevano nessun commento, però, proseguì: «Gli ho chiesto innumerevoli volte di restituirmi quelle cinque sterline, perché, anche se non sono affatto un uomo povero, ispettore, cinque sterline sono una somma che non mi va proprio di buttare nello scarico, per così dire.»

«Capisco perfettamente», disse Shelley.

«Ma lui», continuò Henry, «non dava segno di voler pagare quel debito assolutamente legittimo. Ogni volta che gli chiedevo i soldi, aveva una scusa. C’era qualche altro debito più urgente, poiché il suo creditore aveva minacciato di citarlo in giudizio, se il denaro non fosse stato restituito entro una certa data. Oppure c’erano dei libri che doveva comprare per la ricerca letteraria che stava svolgendo…»

«Un lavoro di ricerca letteraria?», lo interruppe subito Shelley. «Non mi risulta che il signor Wallace si interessasse di letteratura.»

«Oh, era estremamente istruito. In particolare, sapeva tutto sui drammaturghi elisabettiani minori…» La voce di Henry si affievolì lentamente. Sul suo volto comparve un’espressione di improvvisa comprensione. «È questo il collegamento con la morte del professor Arnell?», chiese eccitato.

«Potrebbe essere un collegamento», ammise Shelley. «Ma più o meno accidentale, immagino. Probabilmente è stata qualche conoscenza di questo tipo a suggerire il modo in cui è stato compiuto l’omicidio.»

«Allora è lui l’assassino?» Ora Henry era davvero eccitato.

«Sì.»

«Ma… ma… Non vedo che cosa lui abbia a che fare con il professor Arnell», si lamentò Henry.

«Nemmeno io», disse Shelley. «So come ha fatto. Probabilmente conosceva il professor Arnell come collega dalla biblioteca del British Museum. Ha messo il confetto avvelenato nel sacchetto che il professore era solito lasciare sul suo tavolo in biblioteca, mentre andava al bancone centrale per consegnare le richieste di libri.»

«E il dottor Crocker?»

«È stato attirato da Oxford con la richiesta di mantenere il segreto, probabilmente da un falso biglietto che gli chiedeva di venire a incontrare il professor Arnell, o, più probabilmente, qualcuno che potesse aiutarlo a dimostrare che il professor Arnell era un ciarlatano.»

«È possibile. Ma Harry Baker?»

«Un’altra lettera esca. Harry ha detto che si trovava lì a causa di una lettera. Vede? Le lettere esca sembrano essere uno dei suoi sistemi preferiti. Ne ha usata una (se quello che dice Moses Moss è vero) anche per tenere lontano Moss dalla signorina Arnell ieri sera, in modo da poter mettere in atto il suo piccolo rapimento.»

«Ma qual è mai la ragione di tutto questo?», chiese Henry sbalordito.

«Questo è ciò che lascia perplesso anche me», ammise Shelley. «Non riesco a capire quale possa essere la spiegazione. La mia sensazione è che il signor Wallace si sia in qualche modo travestito e abbia condotto, per così dire, una doppia vita. Potremmo averlo già incontrato sotto altre spoglie, in questo caso, così che, se solo riuscissimo a ‘individuare’ la sua attuale identità, riusciremmo a capire quale sia il suo scopo. Fino a quando non riusciremo a collegare le due metà del signor Wallace, non avremo alcuna possibilità di fare qualcosa al riguardo.»

«L’ha mai visto ai vecchi tempi?», chiese Henry.

«No. È questo il problema. Se l’avessi visto, il caso sarebbe probabilmente risolto», rispose Shelley. «Ma non ha finito la sua storia. Che cosa è successo, alla fine, ai suoi piccoli rapporti d’affari con il gentiluomo?»

«Oh, quando non sono riuscito a recuperare le mie cinque sterline, gli ho scritto e gli ho detto che non volevo più avere nulla a che fare con lui.»

«La cosa più saggia da fare», fu il commento di Shelley.

«Gli ho anche detto che ero costretto a rifiutare il suo invito a trascorrere un fine settimana con lui nel suo cottage a Penistone, e…»

«Che cosa?» Shelley quasi saltò sul sedile, mentre urlava la domanda. «Ha detto il suo cottage a Penistone?»

Henry era confuso. «Sì, perché?», chiese.

«Ha idea di dove si trovi Penistone?», chiese il detective.

Henry scosse la testa.

«Da qualche parte nel West Riding», disse. «È tutto ciò che so.»

«A meno di venti chilometri da Sheffield», spiegò Shelley. «Ed è proprio a Sheffield che è stato visto con la signorina Arnell ieri sera.»

«Cielo!» Henry era sbalordito. «Allora… allora… questo è l’ultimo atto.»

«L’ultimo atto», ripeté Shelley con un sorriso cupo. Il treno sfrecciava nell’oscurità. Dal suo camino usciva una nuvola di scintille, e gli altri passeggeri, inconsapevoli del messaggero della legge che stava correndo con esso verso il luogo in cui doveva incontrare un assassino, facevano del loro meglio per dormire.