Violet si svegliò da un sonno profondo, disturbato dai sogni più assurdi e ridicoli. Il suo volto esprimeva il più completo sconcerto, sembrava dicesse: «Che cosa ci faccio qui, e dove sono, in ogni caso?». Poi, all’improvviso, le tornò la memoria; le venne in mente la terribile situazione in cui si trovava, e dovette lottare duramente per ricacciare indietro le lacrime che le salirono spontanee agli occhi.
Sopra di lei incombeva la figura barbuta del suo rapitore. Le aveva afferrato poco cortesemente la spalla con una delle sue grandi mani, ed era evidente che dovesse averla svegliata con uno scossone.
«Deve alzarsi», mormorò spietato.
«Perché?» Violet era ancora mezza addormentata e si strofinò gli occhi come una bambina che si sta alzando dal letto in una fredda mattina.
«È necessario che lasciamo questa casa immediatamente», rispose l’uomo, parlando lentamente e con cautela, quasi che stesse spiegando qualcosa di molto difficile e complicato alla bambina che lei sembrava essere.
«Ma io non voglio andarmene», obiettò Violet. «Sto benissimo dove sono, grazie.»
«Farà come le dico», disse lui brusco. «Io ordino e lei obbedisce. Possiamo procedere solo in questo modo. Capisce quello che le sto dicendo?»
«Suppongo di sì», assentì Violet. «In ogni caso, dato che mi sembra di essere abbastanza impotente, nelle sue mani, suppongo di dover fare come mi dice.»
Il rapitore espresse la sua soddisfazione per quell’improvviso cambio di atteggiamento.
«Ah», disse, «così va meglio. Molto meglio, grazie, signorina Arnell. Se continuerà a adottare un atteggiamento tanto saggio… allora arriveremo da qualche parte. Potrei suggerirle che, se cerca di contestare la mia volontà di dirle che cosa fare…» E fece una pausa oltremodo significativa.
«Che cosa succederà?» La domanda di Violet sembrava piuttosto innocente, ma in realtà stava prendendo tempo, rendendosi conto che quella decisione di lasciare la casa doveva essere indice del fatto che gli inseguitori erano vicini.
«Che cosa farò?» L’uomo rise, una risata dura, che le stridette sgradevolmente nelle orecchie. «Procederò, mia cara signorina Arnell, a farle una piccola iniezione con un delizioso piccolo farmaco in mio possesso. Quel farmaco farà in modo che lei perda ogni interesse per ciò che accadrà per… Oh, per un tempo considerevole.» Di nuovo risuonò quella risata dura, e Violet, nonostante la sua ferrea determinazione a non battere ciglio, a non mostrare alcuna paura di quell’uomo malvagio, si ritrovò a rabbrividire per la terribile minaccia nella sua voce. Quell’uomo trasudava malvagità, come se fosse la personificazione del male stesso.
«Quindi vede?», stava continuando. «Tanto vale che faccia come le dico. Sarà un comportamento più saggio e porterà meno problemi per tutti gli interessati, inclusa lei stessa… Ho detto, inclusa lei stessa, e so che ci tiene, mia cara signorina.»
Violet pensò che quando cercava di essere gradevole era più detestabile di quando era determinato a dare ordini, ma non fece obiezioni e si lasciò condurre fuori dalla stanza, giù per le scale e fuori dalla porta d’ingresso della casa. Lì trovò l’auto in attesa, e vi fu gettata dentro. Senza perdere tempo, l’uomo partì. Alla fine di quella che sembrava essere una strada privata, scese, aprì il cancello della fattoria che sbarrava l’accesso alla strada principale, e tornò in auto. Quindi ripartì.
Mentre correvano lungo la strada, Violet si ritrovò a guardarsi attorno, cercando di raccapezzarsi, per così dire, in quella strana campagna in cui da un po’ era prigioniera. Non avrebbe saputo dire da quanto tempo fosse lì, perché poteva aver dormito per un’ora o un giorno intero; né sapeva per quanto tempo era rimasta incosciente, in quella casa, prima di svegliarsi la prima volta.
Vide un tratto di vasta brughiera, punteggiato qua e là da affioramenti di granito grigio, e con pecore dall’aspetto sporco che pascolavano qua e là sugli aspri pendii di colline impassibili. In un’occasione il suo rapitore sterzò per evitare una di quelle pecore, mormorò un’imprecazione e sterzò di nuovo sulla strada, dopo essere arrivato a pochi centimetri da uno strapiombo che doveva essere profondo più di un centinaio di metri. Quando vide di nuovo la strada snodarsi marrone davanti a loro, Violet tirò un profondo sospiro di sollievo. Il suo rapitore si limitò a ridacchiare, guardando il suo volto bianco.
«C’è mancato poco, eh?», disse. «Si fidi di me. Sono un buon pilota, io. Non ho mai avuto un incidente, né un guasto serio a cui non sia riuscito a porre rimedio. È in buone mani, in macchina con me, mia cara.»
Quasi a voler smentire le sue parole, l’auto rallentò, con il motore che emetteva rumori strani, e poi si fermò bruscamente in mezzo alla strada.
«All’inferno!», mormorò l’uomo, premendo energicamente lo starter. Il motore emetteva forti ronzii, ma l’auto rimase comunque ferma.
«Sembra che in questa occasione la sua abilità l’abbia lasciata in panne, signor Pilota», commentò Violet, con un sorriso sfrontato, recuperando un po’ di fiducia.
«Neanche per sogno», rispose lui. «Sistemerò il problema in un attimo.» Si alzò dal sedile e, chiudendo con cura le portiere dell’auto dall’esterno e mettendosi in tasca le chiavi, si diresse verso la parte anteriore, dove aprì il cofano e guardò il motore per alcuni minuti.
Armeggiò invano per un po’, poi tornò a sbloccare la portiera e le fece cenno di uscire e di unirsi a lui.
«Che cosa significa tutto questo?», chiese Violet.
«Non sono affari suoi», grugnì l’uomo, afferrandola forte per il polso e trascinandola di peso fuori dall’auto, per poi farla atterrare, senza fiato, sulla strada.
«Guardi che cosa ha fatto», protestò la giovane. «Che cosa diamine significa tutto questo, signore? Mi trascina per tutto il Paese e mi porta in una brughiera dimenticata da Dio nel mezzo dello Yorkshire (se quello che mi ha detto è vero), e ora, a quanto pare, si aspetta che io attraversi il Nord dell’Inghilterra a piedi insieme a lei. Glielo dico, qualunque potere lei abbia, non è abbastanza.»
«Non sia sciocca, mia cara», replicò l’uomo (un po’ più amabilmente, a dire il vero). «Arriviamo solo fino all’officina più vicina.»
«E quanto dista?»
«Come diavolo faccio a saperlo?»
«Be’, non ho intenzione di farmi dieci chilometri a piedi insieme a lei.»
«Ne farà anche cento, se glielo dico io», rispose lui, brusco. «Quell’auto non funzionerà senza carburante, e per trovare un po’ di benzina dobbiamo arrivare a un’officina.»
Violet rise. «Così l’efficientissimo rapitore si è dimenticato di riempire il serbatoio della benzina!», lo punzecchiò, quasi dimenticando, nel suo divertimento per quel puerile scivolone, il pericolo in cui si trovava in quel momento.
«Sì», disse lui. «E, dal momento che non posso lasciarla in macchina fino al mio ritorno, devo portarla all’officina più vicina insieme a me. E se non fa come le dico… be’, la avverto che ho altri metodi. Posso costringerla a fare esattamente quello che voglio. Quindi non cerchi di disobbedirmi, o sarà peggio per lei. Capito?» Tirò fuori la mano dalla tasca del cappotto, per mostrarle che aveva un enorme revolver dall’aspetto minaccioso, e Violet questa volta non ebbe difficoltà a ricordare a se stessa che quell’uomo era probabilmente un assassino.
Camminarono lungo la strada, la mano dell’uomo saldamente aggrappata al braccio di Violet, che guardava la brulla collina sopra di lei e il pericoloso precipizio sottostante, chiedendosi se fosse possibile tentare la fuga. Poi decise di no. Quell’uomo, che era senz’altro un ottimo tiratore con il revolver, sarebbe stato in grado di colpirla senza difficoltà molto prima che lei fosse fuori dalla portata dell’arma. Quindi, l’unica cosa da fare era andare avanti, e sperare che una qualche opportunità di fuga potesse offrirsi in seguito. Così affrettò obbediente il passo per adattarlo a quello del suo rapitore, che camminava svelto lungo la strada.
Mentre l’auto lasciava di corsa Penistone, Shelley teneva ansioso gli occhi sulla strada davanti a loro. «Quanto hai detto che dista?», chiese.
«Quattro o cinque chilometri», rispose Cartwright.
«Non manca molto, allora», affermò Shelley, in tono composto, ma Cunningham sapeva fin troppo bene che il suo capo stava provando una grandissima agitazione. Quello sguardo di intensa concentrazione, gli occhi d’acciaio che seguivano fissi la strada che si snodava su per la collina davanti a loro, era inconfondibile.
A un certo punto, la strada correva rapida nella brughiera aperta. Shelley notò, come aveva notato Violet prima di lui, la curiosa mescolanza di sfumature di marrone sulle colline, il granito che sporgeva sulle loro cime, le pecore di un colore sporco, indefinito, sparse qua e là sui pericolosi pendii, precariamente abbarbicate in punti in cui sembrava totalmente impossibile che un qualsiasi animale potesse trovare un appoggio soddisfacente.
«Aspettate!», esclamò Cartwright, mentre passavano davanti a un cancello a lato della strada principale. «Il posto è quello.»
L’autista fermò obbediente l’auto e si voltò indietro. «Dove? Oltre quel cancello?», chiese.
«Sì», rispose Cartwright. «Un paio di centinaia di metri più in là. È una grande fattoria, sa?»
Mentre Cartwright dava la sua spiegazione, l’abile autista aveva invertito la marcia e raggiunto il cancello.
«Ehi», osservò Cartwright. «È piuttosto strano.»
«Che cosa è strano?» Shelley era, come sempre, impaziente di scoprire qualsiasi cosa anomala stesse accadendo, perché sapeva che, quando in un caso insorgeva un elemento anomalo, questo si sarebbe probabilmente rivelato, in seguito, un indizio prezioso. Tale, in ogni caso, era stata la sua esperienza in passato e tale, ne era fermamente convinto, doveva essere il suo destino in futuro.
Cartwright aggrottò la fronte perplesso. «Prima d’ora non ho mai visto il cancello aperto», dichiarò.
«Come escono, allora?», chiese Cunningham.
«Non intendevo esattamente in quel senso», spiegò Cartwright, con un sorriso un po’ imbarazzato. «Volevo dire che mai prima d’ora avevo visto il cancello lasciato aperto. Quando qualcuno entrava o usciva, lo chiudeva sempre dietro di sé.»
«Mmm.» Shelley era pensieroso. «Probabilmente il nostro uomo ha preso il volo, allora. Come avrà fatto a sapere che stavamo arrivando?»
Cunningham aveva un suggerimento. «Si ricorda», disse, «che, quando abbiamo lasciato Penistone, siamo arrivati in cima a un’alta collina?»
Shelley annuì.
«Be’», continuò il suo assistente, «se un uomo al piano superiore di questa casa», e indicò la fattoria alla quale si stavano ormai rapidamente avvicinando, «avesse avuto un cannocchiale e stesse guardando la strada (come avrebbe potuto fare, se sospettava di essere seguito), ci avrebbe visti lì, a più di un chilometro di distanza, e avrebbe potuto abbandonare il posto molto prima che ci avvicinassimo abbastanza da vederlo.»
«Sì», concordò Shelley. «E noi saremmo stati nella valle sottostante, quindi non ci saremmo accorti di nulla. Temo proprio che sia accaduto qualcosa del genere, e che abbiamo ancora un po’ di inseguimento da fare, prima che questa faccenda sia conclusa, e prima che l’attuale identità del nostro amico, il signor Wallace, ci venga rivelata.»
«Lo scopriremo presto», osservò Cunningham.
«Sì», confermò Shelley.
E così fu. Erano arrivati alla casa, che, in tutta franchezza, sembrava abbastanza deserta. La porta d’ingresso era spalancata, come se fosse stata abbandonata con noncuranza dagli abitanti in fuga. Eppure, quando procedettero con cautela all’interno, mostrava tutti i segni di una recente occupazione. Sul tavolo nella piccola sala per la colazione, adiacente alla spaziosa cucina, c’erano i resti di un pasto. Qualcuno aveva mangiato un uovo, lasciando sul tavolo il suo guscio in un portauova. Shelley si avvicinò e prese la caffettiera in metallo appoggiata su un sottopentola di sughero sul tavolo di rovere lucido.
«Siamo molto vicini, Cunningham», disse con un sorriso soddisfatto.
«Come fa a saperlo?», domandò il sergente.
«Senti questa caffettiera.»
Cunningham la toccò con cautela ed emise un fischio. «Calda!», esclamò.
«Sì, li abbiamo mancati per una decina di minuti al massimo», dichiarò Shelley. Corsero al piano di sopra, guardandosi attorno nelle varie stanze della casa. Poche mostravano segni di essere state abitate di recente, ma, come Cunningham aveva suggerito, in una delle camere da letto c’era un cannocchiale. Si trovava davanti a una finestra, e Shelley appoggiò l’occhio alla sua lente. Poi fischiò anche lui, una nota stridula, quasi sovrannaturale.
«Cunningham», disse, «credo che dovrò proporre una promozione per te.»
«Perché? Avevo ragione?»
«Sì, assolutamente. Questo cannocchiale è rivolto verso quel punto sulla collina di cui hai parlato. È esattamente a fuoco su quel punto. Svelto! Dobbiamo controllare le altre stanze, e poi partire all’inseguimento.»
In una camera da letto, tuttavia, trovarono qualcosa che li trattenne per un momento. Henry Fairhurst, che da un po’ era stranamente silenzioso, si avventò su una borsetta che giaceva sul pavimento.
«Questa è della signorina Arnell!», gridò, con una certa eccitazione.
Shelley la raccolse, la aprì e ne guardò la confusione all’interno.
«Esatto, signor Fairhurst», ammise. «Be’, questo sistema l’intera faccenda. Il signor Wallace ha preso con sé la signorina Arnell qui nello Yorkshire. E non possono essere molto lontani, a giudicare dal caffè caldo nella caffettiera sul tavolo della colazione al piano di sotto.»
«Come farà a catturarli?», chiese Henry.
«Guardi e vedrà», rispose Shelley. Corse giù per le scale, e gli altri lo seguirono al volo. L’ispettore corse fuori dalla porta d’ingresso; Cunningham, che era un uomo robusto, cercava di stargli dietro, e gli altri li seguivano nelle retrovie.
Shelley si fermò davanti alla casa, scrutando ansioso la ghiaia, gettata liberamente sul vialetto privato che portava dalla strada principale fino alla casa stessa, e che avevano percorso pochi minuti prima.
«Ah!», esclamò alla fine. «Eccoci qui. Vedi, Cunningham?»
Henry Fairhurst osservò i due detective che guardavano il terreno.
«Sì», disse il sergente. «Una vecchia Dunlop con una toppa. Dovrebbe essere abbastanza facile da seguire.»
«Bene», ribatté Shelley. «In auto, svelti, signori, se non vi dispiace. Siamo vicini, ormai, e presto li prenderemo.»
Poco dopo erano in auto, e Shelley diede le sue istruzioni al conducente. «Guida fino alla strada principale il più velocemente possibile», disse, «e poi fermati al cancello.» L’autista obbedì prontamente, e presto furono di nuovo al cancello. Shelley e Cunningham scesero dall’auto ed esaminarono la strada con molta attenzione. All’inizio non sembravano essere d’accordo. Ci furono un bel po’ di scuotimenti di testa e discussioni. Presto, tuttavia, arrivarono a una conclusione.
«Gira a destra», ordinò Shelley all’autista, mentre risalivano in auto. «Poi procedi a tavoletta fino a quando non li prendiamo. Non preoccuparti dei limiti di velocità, non contano in questo caso.»
Quando si immisero sulla strada, l’auto prese velocità e continuò a correre, con il tachimetro che saliva sempre di più, tremolando, sul quadrante. Henry Fairhurst tratteneva il respiro reprimendo l’eccitazione. Si disse che quello era il vero lavoro da detective. Sarah avrebbe dovuto credergli, ora. Non avrebbe mai più potuto dargli ordini, o controllare che indossasse i calzini da letto e prendesse l’aspirina, quando era in corso un’epidemia di influenza. Aveva partecipato alle battute finali di una caccia all’uomo, e nessuno, da quel momento in poi, avrebbe più potuto dargli ordini.