“Devi sposarti o morire per riuscire a entrarci” era il nostro motto a proposito dal salone. Io avevo nella mente un’immagine molto vivida della me che si sposava lì dentro. Il matrimonio, pensavo, comportava indossare una gran quantità di raso bianco e di pizzi e mangiare una torta decorata con le colombe glassate come quella che avevo visto nella vetrina di Hanscom su Frankford Avenue, mentre il proprio marito si ubriacava in cucina.
Anche dopo la morte della mamma, papà continuò con i suoi patetici tentativi di mantenere “speciale” quella sala. Ogni tanto ci entrava e si sedeva sulla poltrona di velluto rosso, anche se non credo che si sentisse a suo agio. Non sembrava appropriato sedersi lì sopra in maniche di camicia. Sulla mensola c’era un magnifico orologio tutto dorature e cristalli sotto una campana di vetro, che era stato acquistato dal nonno all’Esposizione del Centenario nel 1876. Philadelphia non ha ancora dimenticato il Centenario; il vecchio ne parlava di tanto in tanto. Se fosse vivo ora, direbbe che quella Fiera Mondiale di New York era una cosa da parvenu, anche se credo che la sua aria da Tammany Hall non gli sarebbe dispiaciuta. Quell’orologio era un’imitazione del Padiglione dell’Orticoltura ed erano visibili tutti i meccanismi, che procedevano molto lentamente. «Ha il sangue di Philadelphia» diceva papà. L’orologio della cucina, molto più casalingo, correva. Una volta discutemmo su questo: quanto tempo ci sarebbe voluto, ponendo i due orologi a una certa distanza l’uno dall’altro, prima che segnassero di nuovo la stessa ora? Mac disse che era semplice, e salì in camera sua a scrivere il problema in termini algebrici. La mamma disse che non sarebbe mai potuto accadere, perché due cose sbagliate non ne fanno mai una giusta. Papà uscì in cortile per pensarci su… Mac scese per chiederci se intendevamo quando i due orologi avrebbero segnato la stessa ora o quando i due orologi avrebbero segnato contemporaneamente l’ora esatta.
«L’ora giusta» disse papà. «Oh» osservò Mac «allora ho paura che succederà fra circa un migliaio di anni». Poi salì di nuovo in camera sua a fare dei calcoli e non scese più. Nel frattempo i miei si dimenticarono di caricare l’orologio, che si fermò.
Io e mio padre eravamo come quei due orologi, molto diversi ma in graduale avvicinamento. Sarei andata fuori di testa se avessi cercato di risolvere il problema, ma mi diede la vaga nozione che esistono una quantità di cose deliziose appena fuori dalla nostra portata. È questo che sentii, anni dopo, quando lui morì. In lui c’era così tanto senso del comico e durezza e ritrosia, e io non ci sarei mai più arrivata.
Fui io a occuparmi della casa quando papà morì nel 1930 (Mac era l’unico della famiglia rimasto a Philly). Il salone fu la parte più difficile, in un certo senso, perché in realtà non era mai stato abitato. I mobili non avevano subito quello che era toccato al resto della casa. Alcune cose le spedimmo ai nostri fratelli. Denny ebbe l’orologio del Centenario perché era il maggiore, ma spero che non lo usi per regolare i suoi appuntamenti. La maggior parte degli oggetti furono buttati via come ciarpame. Solo io reclamai la tempesta giocattolo. Quel globo di vetro era stato, sin da quando ho memoria, su uno scaffale fissato al muro. Era piena d’acqua limpida e al suo interno conteneva una fanciulla su una slitta che scendeva giù per il fianco di una collina, con una sciarpa rossa svolazzante intorno al collo e un castello sullo sfondo. Scuotendo la palla, la fanciulla veniva avvolta da una bufera danzante che gradualmente si calmava e tutto tornava limpido e sereno. La presi io, la bufera, e ce l’ho ancora. Il castello ha finito per sovrapporsi con Wyn e la Main Line, e a volte dico: «Ciao, ragazzina in giro sulla slitta». Così, in un modo sciocco, mi ricorda me stessa… Non che ne senta la necessità.
Mi ricorda anche qualcos’altro, se glielo permetto. Il giorno del funerale della mamma nevicava. Il salone non superò mai del tutto quel funerale. Vi sgattaiolai dentro da sola dopo che la mamma fu messa nella bara. C’era un odore terribilmente dolciastro e defunto. Scossi la palla di vetro per rassicurarmi. Se qualcuno in famiglia doveva morire, io ero abbastanza grande per capirlo. Andavo per i dieci. Con mia immensa sorpresa e dispiacere, in un certo senso ne ero anche orgogliosa; immaginavo il modo solenne con cui sarei tornata a scuola e avrei impressionato gli altri bambini. Poi accadde una cosa spaventosa. Me ne stavo in un angolo con la palla in mano, dietro le tende ricamate, e credo che il becchino non si fosse accorto che ero lì… Entrò in punta di piedi per sincerarsi che fosse tutto a posto. Un puntino di fuliggine s’era posato sul naso della povera mamma e ciò naturalmente lo disturbò. Allora si tirò fuori dalla tasca un grande fazzoletto bianco magnificamente piegato, ma deve essergli sembrato un peccato rovinarne la piega; a quel punto, si chinò solennemente sulla bara, e con una veloce soffiata fece volar via la macchia di fuliggine. C’era qualcosa di sgradevole in uno sconosciuto che soffiava in faccia alla mamma, con lei che non poteva reagire né rendersene conto. Scoppiai in un pianto isterico di rabbia e di paura, e l’uomo rimase scioccato all’idea che l’avessi visto.
Zia Hattie e zio Elmer arrivarono proprio in quel momento da Manitou e mi videro in piena crisi di pianto, che immagino gli parve molto appropriata. Non sarei riuscita a spiegare a nessuno perché stessi piangendo. Mi resi conto che l’uomo delle pompe funebri era preoccupatissimo che lo facessi, mettendolo in una situazione di grave imbarazzo.
La vita è molto diversa da come la gente finge che sia. Ecco perché fingere è così divertente. Spesso pensavo che fosse a causa di qualche mia speciale cattiveria che accadevano cose tanto strane. Ora sospetto che siano tutti così. Wyn mi ha raccontato alcune delle cose inverosimili che sono successe nella sua famiglia e che uno non sospetterebbe minimamente leggendo i pezzi pieni di rispetto pubblicati sul Public Ledger. Sui giornali è pieno di articoli sul punto di vista dell’Uomo e su quello della Donna e via dicendo, come se le due cose non combaciassero mai. Credo che sia una trovata per impedire alle donne di dare troppo fastidio o di accaparrarsi i posti più prestigiosi. Non sono poi così diverse.
O forse invece lo sono, sì, forse sono davvero diverse. Oh, la cosa mi piace, grazie a Dio per questa diversità! Credo che stessi cercando di vendermi a tutti i costi un’idea solo perché ero così incredibilmente a terra.
Wyn e io ne abbiamo parlato, una volta (di questa differenza, intendo). Io sostenevo che l’uomo e la donna in fondo sono uguali. Lui mi prese in giro. Disse: «Tu intendi fondamentalmente. Certo. Se prendi una casa e ci metti un nuovo impianto elettrico e delle nuove tubature…».
«Specialmente quelle» lo interruppi.
«Non diresti che è una casa diversa».
«Ma forse è una casa migliore» dissi io.
Uno dei lati stupendi di Wyn era che spesso mi faceva pensare a cose più profonde delle sue, e che poi ne era contento quanto me.
Tornando al salone, aveva lunghe tendine ricamate alle finestre. Zia Hattie diceva sempre che lei e la mamma avrebbero preferito vivere nel peccato piuttosto che in una casa senza le tendine ricamate. Papà diceva: «È un bene che il vecchio John Wanamaker della scuola domenicale non sappia dove vanno a finire tutte le sue tende ricamate: sono le prime cose che le signore comprano per arredare le loro camere di rappresentanza».
«Come hai fatto a scoprirlo?» chiedeva la zia Hattie.
Nell’angolo più lontano, vicino alla bufera, c’era una valvola ad aria calda, particolarmente piacevole quando il tepore soffiava sotto le gonne. Le gambe delle donne si sono abituate al freddo da talmente tanto tempo che non si ricordano più quanto siano caldi questi vecchi radiatori. Ci si ferma lì davanti e si raccoglie tutto il calore possibile negli abiti, poi ci si siede più in fretta che si può per non lasciarlo sfuggire. Mi ricordo che papà, con i suoi reumatismi e tutto il resto, si mise a strofinare il radiatore con il lucido da stufa quando la mamma fu deposta nella stanza. Fu l’ultima cosa che poté fare per lei.
Sopra la mensola c’era una grande litografia, la Firma della Dichiarazione d’Indipendenza. Mac mi prese in giro, una volta, quando chiesi ingenuamente: «Tutti i firmatari erano della Main Line?». Nel caminetto, che non veniva mai usato, la grata era chiusa da un grande ventaglio di spessa carta bianca, tutta pieghettata come un vestito di Schiaparelli. Sul tavolo di marmo tra le finestre c’era la pila degli album e dei ritagli sul cricket di papà, nonché un’enorme quantità di foto dei famosi Undici. Il vecchio diceva spesso che quando fosse diventato ricco avrebbe fatto incorniciare molte di quelle fotografie; grazie a Dio non è mai successo. C’era anche una serie di mensole di bambù zeppe di coppe d’argento. Ogni coppa stava su un centrino e al suo interno c’era una vecchia palla da cricket rossa, trofeo di qualche gara importante o ricordo di quando papà aveva fatto il famoso hat trick che, credo, consisteva nel mettere fuori gioco tre battitori con un solo over. A ogni modo aveva il cappello, un magnifico cilindro di seta. Papà avrebbe voluto tenere anche quello in salone, ma la mamma non glielo aveva permesso. Lo conservava di sopra, nella canfora, e papà lo indossò al suo funerale per via della solennità dell’oggetto.
Al lampadario mancavano tre prismi di cristallo, probabilmente perché i ragazzi li avevano presi per guardarli attraversati dalla luce. Proprio sotto c’era un amorino, uno di quei piccoli divanetti lunghi e stretti a due posti uno di fronte all’altro, con le gambe sottili e dorate e i cuscini di seta color lavanda. La mamma ci stava così attenta che sono sicura che avesse una qualche storia particolare. Forse veniva dalla vecchia casa della famiglia Upsal, a Germantown: non riesco a immaginare papà mentre acquista una cosa tanto elegante e carina. Due persone sedute lì sopra si sarebbero ritrovate con i volti parecchio ravvicinati, come in quell’indovinello idiota con cui papà ci prendeva sempre in giro. Ci sono due pecore in un campo, una che guarda verso est e l’altra che guarda verso ovest. Cosa devono fare per guardarsi negli occhi? Molte persone rispondono subito che devono girarsi. Ma ovviamente loro si stanno già guardando l’una con l’altra, proprio come in quel divanetto. In ogni caso, quel mobile era troppo fragile per un corteggiamento vivace.
Nonostante tutti quegli oggetti affascinanti, il salone rimaneva sterile, senza vita. Neppure il gatto ci entrava quasi mai. Rispettavo il luogo, e sapevo che era importante per la nostra famiglia, ma non entrò a far parte della mia vita fino al giorno in cui Wyn ci fece la sua prima visita. Un qualche comitato stava preparando una Storia del cricket, e Wyn fu incaricato di parlare con il vecchio. È strano quanti pochi ricordi ci restino. Di quel giorno ricordo solo un bell’abito di tweed color tabacco e un delizioso paio di calze di lana rosso cupo. Nulla in Wyn mi piaceva quanto le sue calze. Wyn ha un modo tutto suo particolarmente affascinante di accavallare le gambe. Naturalmente stiamo parlando di gambe belle lunghe, ma i suoi piedi sembrano penzolare con più eleganza rispetto agli altri uomini. Non so perché, ma di solito da una cosa del genere si può riconoscere un gentiluomo: le loro gambe ricadono in modo più appropriato, senza sporgenze e rigonfiamenti. Wyn credette che lo stessi prendendo in giro quando glielo dissi, e dovetti fare attenzione a non metterlo a disagio. Se gli dicevo in modo troppo esplicito che amavo qualcosa di lui diventava subito timido nel farlo, per paura che potessi pensare che lo faceva solo per compiacermi.
Quanto al suo modo di accavallare le gambe, Wyn disse che forse era dovuto al suo pizzico di sangue inglese, ma aggiunse anche che non capiva perché le ginocchia inglesi fossero così flessibili, visto che gli inglesi non ne avevano mai fatto un gran uso.
Il loro primo incontro fu reso un successo dall’incendio del cestino della spazzatura. Papà e Wyn stavano frugando in un mucchio di vecchi taccuini di punteggi e ritagli di giornale, mettendo da parte tutto ciò che non serviva. Papà mi urlò di portare la grossa cesta delle pesche dalla cucina. Fui presentata, ovviamente, ma questo non comportò altro che qualche banalità in più sul cricket. Avevo passato alcuni anni nel Midwest, durante i quali avevo dimenticato l’esistenza del cricket. Inoltre, mi ero presa cura di papà per tutto l’inverno precedente, aiutandolo a superare quel primo colpo, e non volevo che si agitasse troppo e che la sua pressione aumentasse.
«Vi prego, non fate agitare mio padre» lo avvisai.
«Sono la persona più tranquilla di questa terra» mi rispose. «Non ho mai fatto agitare nessuno».
Era un caldo pomeriggio estivo e me ne stavo in cortile a cucire, e non credo che avessi altri pensieri in testa se non la speranza che il visitatore se ne andasse presto, così da lasciarmi il tempo di cucinare la cena a papà. Li sentivo chiacchierare ed ero felice che il vecchio fosse di buon umore. Poi, mentre parlavano, papà cominciò a buttare dei fiammiferi usati nel cestino. Si chinò a guardare che non avesse preso fuoco niente, e nel farlo gli cadde un po’ di brace dalla pipa senza che se ne accorgesse. In pochi minuti la cesta era in fiamme. Appena sentii le imprecazioni oscene del vecchio corsi da loro, e nel corridoio c’era Wyn, tutto imbarazzato, che cercava una coperta.
«Abbiamo fatto un guaio, temo» mi disse. Nessuno al mondo sa scusarsi in modo più seducente di lui. Il bello degli errori di Wyn è vederlo chiedere scusa. Talvolta mi sono chiesta se non ne fosse consapevole.
Aveva spento le fiamme rovesciandovi sopra la caraffa di tè ghiacciato. Ne preparai dell’altro, e mi invitarono a berlo con loro.
Era sabato 25 maggio 1929, il primo giorno della mia vita in cui abbia preso il cricket sul serio.