Che avventura andare in Illinois a soli tredici anni! Non ero mai uscita da Philly, fatta eccezione per qualche gita sulle spiagge del Jersey. Papà e Mac mi accompagnarono alla stazione North Philadelphia per prendere il treno espresso; ci ripenso sempre ogni volta che vedo quella banchina alta e ventosa. Era una torrida sera di fine estate e minacciava di piovere. Cenammo nel ristorante della stazione. Per me era una grande avventura, e mi lasciarono ordinare tutto quello che volevo, principalmente gelati e Coca-Cola. Ero troppo eccitata per mangiare e mi sentivo strana. Ricordo che avrei voluto sapere se uno dei primi sintomi della tubercolosi fosse un dolore al petto, perché provavo una specie di malessere là dove pensavo che fossero i miei polmoni; naturalmente non lo chiesi: se avessero pensato che ero malata non mi avrebbero lasciata partire. Il vecchio mi aveva dato istruzioni su tutto – come spogliarsi nella cuccetta, come trovare il bagno delle signore, come dare la mancia al facchino – e zio Elmer e zia Hattie sarebbero venuti a prendermi alla stazione di Chicago. Naturalmente, non mi disse nulla di ciò che era davvero importante da sapere.
Il temporale scoppiò proprio all’arrivo del treno in stazione, e l’ultima cosa che vidi di Mac e papà fu che correvano a ripararsi in una di quelle piccole sale d’aspetto a vetri. Caro vecchio papà, quando voleva esprimere i suoi sentimenti gli veniva sempre un’aria brutale, e da dietro il vetro sembrava fuori di sé dalla rabbia.
Il facchino fu semplicemente meraviglioso. Come dissi una volta a Wyn, i facchini della Pullman sono i gentiluomini più raffinati che conosco, e meriterebbero di diventare soci onorari del Merion Cricket Club. Preparò la mia cuccetta prima di tutte le altre e io mi misi a letto, facendo molta attenzione a non spingere troppo sulla tendina verde, cosa che sarebbe potuta sembrare spudorata. Per non correre il rischio di attirare l’attenzione, tenni con me la valigia nella cuccetta. Mi sentivo incredibilmente turbata, ma lo attribuii all’emozione della partenza. Invece ovviamente si rivelarono essere le mestruazioni, per la prima volta. Ero convinta di stare morendo di tubercolosi che, sapevo vagamente, provocava delle emorragie. Doveva essere un caso molto serio perché l’emorragia sembrava aver preso una strada sbagliata. Mi chiedevo se mi avrebbero trovata morta nel vagone la mattina successiva.
Credo che si fossero raccomandati col facchino di avere un’attenzione particolare per me, visto che, anche se avrei preferito morire anziché chiedere aiuto, dopo un po’ mi domandò da dietro la tendina se avessi bisogno di qualcosa.
«Credo di essere malata» dissi.
«Di che problema si tratta, signorina?».
A questa domanda non risposi. Non potevo. Ma con un intuito da vero gentleman dovette indovinarlo, perché dopo pochi minuti una grossa mano nera apparve tra le tendine porgendomi un pacchetto.
Vorrei poter sapere quali fossero realmente i miei pensieri di allora e quali invece i pensieri che immagino di aver avuto. È difficile portare con sé i propri pensieri: sono come i cibi nella ghiacciaia, non durano molto. È facile sbagliarsi senza rendersene conto. Papà mi aveva detto quanto sarebbe stato emozionante vedere per la prima volta l’Ohio, l’Indiana e l’Illinois. «Quando ti sveglierai, ti troverai nell’Ohio». Dio solo sa cosa mi aspettassi di vedere quando alzai la tendina del finestrino, pronta a qualsiasi cosa. Per quel che mi ricordo non c’era proprio niente tranne una campagna piatta, bruciata e annerita dal calore. Se ripenso poi alla periferia di Chicago, quando alla fine ci arrivammo, mi vengono sempre in mente le parole di Wyn in proposito: «La civiltà con i pantaloni calati». Tuttavia, c’è qualcosa di rassicurante nelle lunghe file di vagoni-deposito e vagoni-frigorifero allineati alle porte di Chicago. Danno la sensazione che al mondo ci sia un’enorme quantità di cibo e stimolano sagge elucubrazioni.
Immagino che avrei dovuto riflettere sull’enormità dell’America e cose del genere, ma in realtà pensavo solo a me stessa. Mi ero guadagnata il privilegio tutto femminile di sentirmi inadeguata, ed ero troppo terrorizzata anche solo per sapere come fare colazione; ancora una volta quel magnifico facchino mi trasse in salvo. Visto che non davo segni di vita, alla fine si fece vivo lui e mi chiese da dietro la tenda se volessi mangiare. Credo di aver mugugnato una risposta affermativa, perché la cosa successiva che ricordo è che mi portò una tazzona di latte bollente. Era la mattinata più torrida dell’estate.
Quando finalmente scesi dal treno dovevo avere un aspetto orribile, a giudicare da quello che disse la zia Hattie: a sentire lei, non c’è nessuno come gli irlandesi che abbia cerchi neri così meravigliosi sotto gli occhi. È sempre stata la sua specialità parlare di me come della povera bambina-senza-mamma, e la cosa mi faceva imbestialire; la mia risposta era puntualmente: «Non sono più una bambina!». Mi spinsero a forza nel ristorante della stazione prima di prendere il treno per Manitou. Il fatto di aver consumato due pasti di seguito in una stazione mi fece dimenticare i miei problemi.
Mi annoia sempre un po’ pensare a zia Hattie e allo zio Elmer, il che è davvero irriconoscente da parte mia. Sapevano sempre tutte le cose irrilevanti, e molto poco di ciò che era davvero importante.
Questo è ciò che penso ora. Tutto quello che riuscivo a pensare, allora, era una terribile nostalgia di casa. Immagino che lo zio e la zia mi trovassero un po’ difficile, all’inizio. Non avevano avuto figli, e anche ammesso che un tempo fossero stati giovani di certo se n’erano completamente dimenticati. Quel viaggio ansiogeno e caldissimo – riesco ancora a sentire la fuliggine sulla fronte madida – è rimasto come un incubo tra me e Philly. Era stato troppo tutto insieme. Che colpo quando ci si rende conto per la prima volta di essere soli, chiusi in se stessi e senza possibilità di uscirne! È una cosa che nessuno ha l’ardire di ammettere. Non so cosa avrei fatto se non fosse stato per il cane, Pastafrolla. Lo chiamavano così perché, quand’era un cucciolo, si era mangiato un’intera teglia di pasticcini che la zia aveva cucinato per una festa. Era un bastardino dal pelo scuro e dai meravigliosi occhi gialli, e mi si affezionò immediatamente. Io gli confidavo ogni sorta di assurdità quando non potevo parlare con nessun altro. Una volta dissi a Wyn: «Se incontrassi un uomo con gli stessi occhi di Pastafrolla gli direi tutto di me». Allora Wyn prese l’abitudine di sussurrarmi, al buio: «Ora facciamo finta che abbia gli occhi gialli».
Il pomeriggio del mio arrivo, a Manitou si soffocava. Sulle strade ci si sarebbero potute friggere delle uova, c’era un soffice effluvio di carbone che avvolgeva tutta la città, quei fischi tremendi dalla ferrovia e ogni ora la lugubre campanella dell’università. La campanella rappresentava il Tempo, i fischi le Distanze. Allora non avrei saputo dirlo in questi termini, ma non bisogna credere che i bambini non sentano queste cose. Percorremmo la vecchia e ombrosa Thanksgiving Avenue, con le sue case marroni e gialle dai portici decorati, e mi accorsi con stupore che zio Elmer Taswell doveva essere ricco. La porta d’ingresso aveva grandi vetrate a colori come quelle delle chiese; tutto era tenuto ermeticamente chiuso per lasciare fuori il caldo; quando entrammo nell’atrio sentimmo una zaffata di pollo fritto, di un forte intingolo e di prosciutto in padella con zucchero e chiodi di garofano. Manitou è il massimo in fatto di sontuosi spuntini, ma ritengo che sia così un po’ in tutto il Midwest. Mi sentii soffocare; tutto profumava di salute e vigore, e io non ero affatto nello stesso stato.
Passati quei primi terribili giorni, dopo essere stata iscritta al liceo e aver ritrovato il mio appetito, iniziai a incuriosirmi di me stessa; volevo sapere se tutte quelle esperienze nuove mi avevano dato un’aria diversa. Inclinando leggermente lo specchio della toeletta e salendo in piedi sul letto, riuscivo a ottenere una visione abbastanza completa di me. Avevo la sensazione di fare qualcosa di terribilmente sbagliato, e in più la mia porta non si poteva chiudere a chiave, ma Pastafrolla se ne stava steso sul pavimento a mo’ di fermaporta perché si era reso conto che quello in estate era il punto migliore in cui trovare una corrente d’aria fresca. Allora mi toglievo tutti i vestiti e mi scrutavo da varie angolazioni, per scoprire se da qualche parte nel mio corpo stessi sviluppando le stesse forme che ammiravo nelle attrici dei film. “L’umana forma divina” era una frase che dovevo aver letto da qualche parte e me la ripetevo con soddisfazione, anche se sinceramente non credo che ci fosse granché di divino nella mia nudità piccola e ossuta. Non sono mai riuscita a fare qualcosa di soddisfacente per me stessa senza venire interrotta, di solito dall’arrivo di zia Hattie. Ma le ci voleva molto tempo per spingere il povero Pastafrolla da una parte, e così io potevo saltare giù dal letto e fingere di cercare qualcosa nei cassetti del comò. Alla zia non piaceva trovarmi così; dal modo in cui ordinava al cane di uscire mi dava l’impressione che trovasse molto sconveniente lo spogliarsi con un cane maschio nella stanza.
Talvolta ho cercato di dare a Wyn un’idea degli anni trascorsi a Manitou (eccetto le estati, in cui tornavo a casa a vedere papà). Wyn era molto interessato a questo argomento perché aveva il preconcetto, molto diffuso a Philadelphia, che tutte le persone a ovest di Paoli fossero provinciali e zoticone. La cosa più significativa che sia mai accaduta a Philly, anche se i suoi abitanti a quel tempo non lo sapevano ancora, fu quando smise di essere il capolinea della ferrovia della Pennsylvania e la grande e antica stazione di Broad Street divenne una semplice stazione di cambio per i treni suburbani. Quando la gente come Wyn è felice non bisogna dirle nulla di nuovo. In Philly vedevano un capolinea, mentre Manitou era solo una stazione di passaggio. I treni ululavano tutta la notte perché erano diretti da qualche altra parte: verso Chicago da un lato, verso Denver e Los Angeles dall’altro. Noi ragazzini ci divertivamo ad andare alla stazione di Santa Fe a veder passare il rapido; provavamo un immenso piacere al pensiero che Doug Fairbanks e Mary Pickford fossero a bordo. Era per via delle normali notizie mondane sul giornale locale: “Miss Dorothy Gish è passata dalla nostra città giovedì sera sul treno rapido”. Forse è un bene per la città che le cose le passino accanto senza fermarsi. «A Philly» diceva sempre Wyn «non ci interessiamo di qualcosa finché non è rimasto tra noi per parecchie generazioni. Perfino il Saturday Evening Post ci è ancora un po’ estraneo; ecco perché insistono sul fatto che venne fondato da Benjamin Franklin».
Era incredibile come Wyn e io riuscissimo a parlare di tantissime cose senza litigare – o, perlomeno, senza che lui si arrabbiasse.