Grazie a Dio non si sa mai, prima, quanto si ami qualcuno o qualcosa. Non lo si sa fino a quando non è troppo tardi, e allora, proprio perché è troppo tardi, il buon senso ci impedisce di pensarci troppo. La stazione di Manitou, ad esempio. Quasi sempre, quando prendevo il treno in quella stazione, eravamo nel pieno della calura estiva. Allungando il collo da sotto la tettoia si vedevano le rotaie sfilare via all’infinito in uno scintillio abbagliante di calore, specialmente se si avevano gli occhi umidi.
Gli occhi sono gli ultimi ad asciugarsi, e me ne resi conto con papà. Era terribile: se ne stava steso, incapace di parlare, con gli occhi spalancati; di tanto in tanto un occhio perdeva acqua. Noi pensavamo che il cervello lavorasse come al solito ma che non fosse più in grado di esprimersi a parole, e che quello fosse il motivo per cui ogni tanto piangeva. Le lacrime si perdevano quasi subito fra i suoi baffi. Mac avrebbe voluto raderlo, pensando che papà si sarebbe sentito più a suo agio, ma quando il barbiere entrò nella stanza papà fece una faccia così spaventosa e gemette in tal modo che lo allontanai dalla camera. Per molto tempo papà non fece che gemere e ringhiare, ma quando se ne uscì con un bel “Santo Dio” capimmo che stava migliorando.
Ripenso alla stazione di Manitou. Lo zio e la zia mi accompagnarono al treno e venne anche Molly con noi. Naturalmente ci illudevamo a vicenda ripetendoci che sarei tornata, e può anche darsi che ci credessi davvero. La zia era così agitata per la paura che perdessi il treno che si rovesciò tutta l’acqua di lavanda sulla camicetta, tanto che alla stazione l’odore stantio di fumo e di cenere quasi non si sentiva più, e perfino i panini e le cosce di pollo che aveva chiuso in un sacchetto sapevano di lavanda. Era letteralmente sconvolta perché si era dimenticata di metterci dentro un po’ di sale. «Non c’è bisogno del sale» mi disse lo zio. «Ci ha già pianto sopra».
La parte più dura di quel lungo viaggio fu il tratto tra Manitou e Chicago. La prima fermata è Plautus, ed era strano guardare la prateria bruciata dal sole in direzione della fattoria Debaugh, pensando alle sere d’inverno in cui giravamo sulla slitta per quelle strade. I Weissenkorn avevano una vecchia coperta di pelle di bufalo che, certo, ne conservava un sentore a giudicare dall’odore che emanava. Molly mi disse, una volta, che probabilmente quell’odore era afrodisiaco, visto il modo in cui i Debaugh continuavano imperterriti ad andare sulla slitta.
Non molto lontano da Chicago il treno si fermava ad Aurora, e lì avvenne un episodio molto importante per me. Ero molto triste, si capisce, non solo per il povero papà, ma anche per aver dovuto abbandonare i miei studi. Avevamo appena lasciato Aurora quando notai una signora che, sulla piattaforma del vagone, cercava di aprire la porta per entrare nella vettura. Teneva un terrier bianco sotto il braccio, una valigia e un mazzo di fiori sotto l’altro, e aveva posato per terra una cappelliera scura molto elegante. Ero immersa nei miei pensieri e dissi fra me: “La aiuterà qualcun altro”. La vettura era piena di uomini ma non si mosse nessuno e io, vergognandomi nel vederla combattere con la porta, mi alzai di scatto, aprii la porta e presi la sua valigia.
Lei me ne fu molto grata. Disse, con un marcato accento francese, di aver avuto una discussione col controllore a proposito del cane. Secondo lui, il cane doveva viaggiare nel vagone bagagli, cosa che lei non poteva assolutamente permettere. Il cane era ancora un cucciolo e lei non voleva che si spaventasse. Il controllore allora aveva detto che poteva portarlo nella carrozza fumatori, ma nessuno si era offerto di aiutarla e lei stava percorrendo faticosamente tutto il treno, portandosi dietro il bagaglio.
Ancora non riesco a capire perché gli uomini che si trovavano nel vagone non si fossero precipitati ad aprirle la porta; forse era perché aveva un’aria così sicura di sé che era subito chiaro che non c’era nulla che non sapesse gestire. Credo che la prima cosa che ho notato in lei, mentre le portavo il bagaglio attraverso la vettura, siano stati i tacchi rossi delle sue scarpe. S’intonavano alla perfezione con le sue labbra, le sue unghie, il guinzaglio e il collare del cane. Come ho avuto occasione di dirle più di una volta, in seguito, fui stupita che le unghie di Pfui non fossero laccate di rosso.
In una delle fiabe che avevo letto da bambina c’era una domestica con dei tacchi rossi, e la cosa mi aveva fatto una grande impressione.
Quello che mi sembrò molto interessante fu l’assoluta fiducia di Pfui nei suoi confronti. Quella razza può essere estremamente instabile, e poi la signora aveva quel cane solo da un paio di giorni, ma lui se ne restò seduto accanto a lei guardandola con un’espressione beata. Non sapeva che cosa stesse succedendo, ma sapeva che tutto sarebbe andato bene. Lei mi disse che i francesi sanno come trattare i cani.
Tirò fuori da una borsa un portasigarette smaltato di rosso. Me ne offrì una ma ero troppo timida, e poi volevo tornare al mio posto, dove avevo lasciato la mia valigia, dato che mancavano pochi minuti all’arrivo a Chicago. Le offrii il mio aiuto per quando fossimo arrivate là ma lei rifiutò, ci sarebbe pur stato un facchino, disse. Quando la vidi allontanarsi sotto l’immensa tettoia della Union Station, il berretto rosso del facchino fu la sfumatura finale in quella sua piccola gamma di colori.
Lo zio mi aveva prenotato un posto sul rapido. Quando scese il crepuscolo su quell’interminabile pomeriggio io mi sentii terribilmente triste di tutto e per tutto, e credo di aver pianto e di aver cercato di nasconderlo voltando il viso verso il finestrino su uno di quei cuscini bianchi, gonfi e piccini, forniti dalle ferrovie. Non era proprio pianto; non piango facilmente, anche se vorrei farlo; era quello che Wyn chiama una lieve pioggerellina. Poi mi accorsi che qualcuno mi stava parlando. Era la signora di prima.
«Ma è la mia piccola amica! C’è qualcosa che non va? Prima mi ha aiutato lei, ora la aiuto io».
Si sedette accanto a me e mi arrivò un’ondata del suo profumo dolce e penetrante. Tutti ora conoscono l’Olympia, nome che gli diede per via del quadro che abbiamo in ufficio, ma allora mi colpì e vacillai per un istante.
Balbettai: «Lei ha l’odore della veranda di casa mia». Ovviamente pensavo alla grazia odorosa di crema detergente e di cognac delle vecchie rose rampicanti e agli scricchiolii di papà nella sua sedia di vimini.
Credo che sia stata una delle cose più stupide che io abbia mai detto, e insieme una delle più dense di destino. Lei mi disse poi che quella frase le aveva rivelato la “finezza dei miei sentimenti”.
Restò a guardarmi in silenzio. Anche nelle mie nebbie scoto-irlandesi potevo accorgermi che stava esaminando il mio vestito da matricola preso alla Moda Parigina e il misero rossetto che avevo appena iniziato a usare.
«Verrà nel mio salottino» disse «e mi racconterà tutto. Poi andremo a cena. Stavo giusto andando al vagone ristorante».
Aveva uno scompartimento riservato all’altro capo dello stesso vagone. Era incredibile come fosse riuscita a trasformare quel buco. Profumava come lei, aveva il suo stesso aspetto, ed era addirittura riuscita a farsi chiamare Madame dal facchino. Doveva aver dato delle mance favolose perché la cuccetta superiore era stata appositamente preparata per Pfui. Gli squallidi divani verde e marrone si scorgevano a malapena dietro le graziose vestaglie e il nécessaire Vionnet.
È una gran cosa avere qualcuno che si occupa di noi quando si è in difficoltà. Io la guardai a bocca aperta, credo, ma la donna era calmissima e imponente. «Ora vada nel dublevè» mi disse. Non avevo la più pallida idea di che cosa stesse parlando; era il termine francese per la “w”, per il gabinetto. Poi mi fece sedere alla toeletta, mi mise un asciugamano intorno al collo e si dedicò a me. Mi tolse il cappello, mi spazzolò i capelli, mi bagnò con non so quale acqua di Colonia, mi tolse il rossetto dalle labbra e lo sostituì col suo, e alla fine mi fece bere un sorso da una bottiglietta di cristallo. Mi sembra ancora di sentirla dire “tranchiii” (o almeno così mi suonava la parola) quando cercavo di dire qualcosa.
«Ora si sieda qui» disse. «Ceneremo qui e parleremo. Ma prima si guardi allo specchio».
Ammesso che fossi in grado di elaborare un’idea, credo di aver pensato che quel genere di cose non accadesse nella realtà. Ma ero ancora abbastanza umana per essere curiosa del mio aspetto. Spero di restarlo sempre. Mi sembrò un peccato che non andassimo più nella carrozza ristorante, dove qualcuno avrebbe potuto vedermi. Un profumo e un rossetto scelti con criterio possono fare più di tutta la teologia del mondo per molte di noi.
«Ora mi racconti un po’» disse alla fine. «Berremo un buon brodo. Un buon brodo e un po’ di trucco curano qualunque male».
Provai a raccontarle. Le parlai del vecchio, di Griscom Street, di Manitou, di come mi fossi entusiasmata all’idea di studiare e della consapevolezza che avrei dovuto abbandonare tutto. Mentre parlavo vedevo le zampe di Pfui penzolare oltre il bordo della cuccetta superiore, e il profumo Olympia mi arrivava addosso a ondate dagli abiti di seta di Delphine buttati sulla spalliera del divano su cui eravamo sedute. Pfui dopo un po’ si mise a uggiolare, e a una stazione, Crestline mi pare, lo portammo a passeggiare sulla banchina. Era profumato come tutto il resto.
«Pfui, a letto, su, a letto, ora andiamo a letto tutti e tre» disse lei, mentre risalivamo sul treno. Vidi che il facchino ammirava i tacchi rossi sul poggiapiedi giallo. «Non si preoccupi, cara. Il suo papà ha avuto una vita buona, una vita serena, ed è più fortunato di quanto creda. Si ricordi, ci sono moltissime cose che non si imparano all’università. Le do il mio biglietto da visita, un giorno verrà a trovarmi a New York, non è vero?».
Si sentiva chiaramente l’accento francese, e dato che doveva sempre pensare prima a quello che voleva dire, ogni sua frase aveva un tono di particolare importanza.
Fu così che conobbi Delphine Detaille. Avrei voluto dirle quello che mi sentivo dentro, ma tutto quello che riuscii a dire fu «Avrei voluto far meglio con l’Abbé Constantin», e la cosa la fece ridere moltissimo.
«Anche l’Abbé Constantin non sapeva tutto» rispose. «C’è molto da vivere e le cose per cui vale la pena di vivere feriscono. Ecco un consiglio molto americano: l’importante è essere se stessi».
Mac venne a prendermi alla stazione di North Philly e mi disse che, secondo i medici, papà se la sarebbe cavata. Quando fummo nel taxi, osservò: «Caspita, piccola, se è questo l’odore del Midwest se ne può prendere a carrettate».