Wyn si fece vivo il 1° settembre. Ricordo che era una domenica, e che papà si stava lamentando perché non avrebbe avuto le ostriche fino al giorno dopo. Wyn aveva affittato, per la redazione, il primo piano di una vecchia casa in Sansom Street; aveva già comprato i mobili, e avremmo iniziato a lavorare il giorno successivo.
Io rimasi sveglia quasi tutta la notte, passando in rassegna il mio guardaroba. Mio Dio, Wyn non ha mai sospettato di quanto fossi in ansia per il mio abbigliamento. Lavorare in un ufficio alle dipendenze di Wyn Strafford, e contribuire alla pubblicazione di una rivista brillante, rischiava di sovrastarmi. Mi fanno ridere quegli articoli del tipo “il bilancio della ragazza indipendente”, in cui si sostiene che, se si vive a casa propria, ce la si possa cavare con 1.072,06 dollari all’anno o qualcosa del genere. Immagino che quei sei centesimi siano per il francobollo della posta aerea, qualora il proprio spasimante si trovi a Rhode Island o in qualche altro posto. Può una ragazza permettersi un lusso simile almeno una volta l’anno? In tutto le restano 185 dollari per i vestiti.
Io ero praticamente una milionaria, dato che Wyn mi aveva assegnato uno stipendio di 30 dollari alla settimana – molto più di quanto sperassi per il mio primo impiego –, ma anche così e nonostante tutti i pasti che mi offriva, faticai non poco per avere un aspetto all’altezza del Philly. Provai un grande sollievo quando Wyn mi disse di essere stato nella redazione del New Yorker e di avervi notato gente dall’aspetto molto strano.
Ero sulla metropolitana prima delle 8, quel lunedì mattina. Lungo tutto il percorso non feci che vedere quelle grandi “r” verniciate di fresco, messe a mo’ d’insegna sulle rivendite di ostriche. Wyn era già in Sansom Street, e stavano portando dentro i mobili. Mi sentivo piuttosto imbarazzata, perché non sapevo che comportamento avrei dovuto tenere, e Wyn molto probabilmente doveva avermi dimenticata. Ma mentre gli uomini erano intenti a portar su per le scale un’enorme scrivania, lui mi spinse dietro la porta e mi baciò.
«Oggi cominceremo ad aprire la nostra ostrica» mi disse. «Spero che non ci avveleni».
«Forse ci troveremo una perla».
«Io ne ho già trovata una».
Dopodiché, tutto andò bene. I locali erano sporchi e mi pentii d’essermi messa un abito nuovo, ma ne era valsa la pena per quella prima occhiata che Wyn m’aveva dato. Corsi in strada, da Gimbel, comprai un grande grembiule da casalinga e qualche spolverino, tolsi la scopa dalle mani di Wyn e mi misi all’opera. Non esiste donna che possa resistere alla combinazione di lavoro d’ufficio e lavoro domestico. Può dare una delle migliori sensazioni che si possano provare. Fare delle cose normalmente riservate agli uomini e farle bene quanto loro, e al contempo dedicarsi a quelle attività femminili che di solito fanno impazzire gli uomini, così negati in quel campo. Tra un colpo di scopa e la sistemazione dell’archivio, Wyn ebbe un’idea e mi disse di prepararmi a scrivere una lettera. In banca non si fidavano neppure di fargli dettare le lettere, e così non gli pareva vero di vedere le sue parole concretizzarsi su un taccuino. Si era chinato su di me e mi osservava da vicino, mentre dettava, così che alla fine diventai terribilmente nervosa. Inoltre temevo, dopo tutto quel tira e molla con i mobili, che sentisse la mia sudorazione. Le donne pensano proprio a tutto.
Lavorammo duramente. È comico ripensarci ora. Quelle tre stanze erano un manicomio; si trovavano in cima a una rampa di scale e spesso dovevamo usare il pianerottolo come reception. Il padre di Wyn disse che aveva già speso 10.000 dollari quando finalmente uscì il primo numero. Non ci volle molto perché si spargesse la voce che Sansom Street era un posto dove andare in cerca di finanziamenti. Tutti i disegnatori in bolletta e tutti i collaboratori squattrinati dei quotidiani di Philadelphia erano in redazione già dal terzo giorno. Con gli amici di Wyn che andavano e venivano in continuazione, gli uffici erano perfetti per un articolo della pagina mondana del Ledger. Parry Berwyn e Bill Cynwyd stavano nella prima stanza, con il compito di respingere fannulloni e perditempo. Wyn si batteva con tipografi e commercianti di carta nella stanza di mezzo, mentre io, nello stanzino in fondo, cercavo di rendere le lettere di Wyn più concise. Non avevo mai visto nulla di più comico, e credo di aver capito fin dal terzo giorno che sarebbe stato un fiasco. Era un diversivo piacevolissimo per Bill Cynwyd e Parry Berwyn e Coxey Narberth, lasciare il polo e le racchette per qualche settimana e divertirsi a fare i direttori di una rivista, e Staceylea Bala se la godette un mondo cercando di imitare le rubriche di moda delle grandi riviste newyorkesi. Ma il povero Wyn aveva creduto davvero al ritorno di una Philadelphia letteraria. La vecchia Philly, un tempo, era stata la madre del giornalismo americano: perché non avrebbe potuto tornare a esserlo? Il bisnonno di Wyn aveva aiutato Edgar Allan Poe, probabilmente a bere; perché Wyn Strafford VI non avrebbe potuto essere un altro protettore delle Muse? Questo fu quello che disse un tipo sveglio del Bulletin quando scartammo la sua stupida proposta, “Adamo e l’Evasione”, per la nostra rubrica di gossip.
In seguito, quando iniziai a lavorare per Delphine, dovetti studiare le grandi riviste e scoprire cos’è che le rende interessanti. Naturalmente sorrido quando ripenso a Philly e al tentativo dilettantesco che fu. Nessuno se la ricorda più, ormai, nemmeno il padre di Wyn, nonostante debba aver inciso molto allegramente sul suo reddito nel 1929, ma io non vorrei aver perso quell’esperienza per niente al mondo. Anche solo l’aver visto gli abiti di Staceylea, quando venne a parlare con Wyn e non si era accorta che ero lì, seduta alla macchina da scrivere, contribuì a farmi capire molte cose.
Wyn era così felice che era un piacere osservarlo. Anche con la macchina da scrivere lanciata a perdifiato riuscivo, di tanto in tanto, a dargli un’occhiata. Per la prima volta in vita sua faceva qualcosa che non era né il cricket né la vela e che sembrava avere un’intima corrispondenza col suo spirito. Parry e Bill erano così accomodanti che quasi ogni visitatore riusciva ad arrivare a Wyn, e lui accettava tutte le loro idee come il mezzo più rapido di liberarsene. Nel frattempo si era totalmente dimenticato della questione della distribuzione, e io dovetti correre in giro per tutte le agenzie di stampa per risolvere la cosa. Diedi a Myrtle 5 dollari in più a settimana perché restasse a casa fino al mio ritorno, dato che non riuscivamo mai a staccarci dalla redazione prima delle otto o le nove di sera.
C’era un vecchio contabile che veniva dalla banca per tenere i libri dell’amministrazione; era calvo come un pomello cinese. Dopo averci osservato per qualche settimana mi disse: «Signorina Kitty, l’unico motivo per cui non mi diventano bianchi i capelli è perché non ne ho più».
Wyn aveva l’abitudine di scrivermi, anche quando era occupatissimo, delle piccole poesie, spesso sul retro di qualche busta. Lo vedevo tutto assorto, chino sul suo tavolo, e temevo di disturbarlo finché non mi diceva “Kitty, memorandum interno”, e mi porgeva qualche verso semplice e ingenuo scritto con la sua calligrafia da studentello. Un giorno in cui avevamo lavorato fino a tardi mi portò in un bar clandestino di Pine Street, dicendo che un sorso di liquore ci avrebbe risollevato il morale. Fu il primo drink clandestino della mia vita. Era un piccolo bar francese, intimo e confidenziale, sul retro di un palazzo; ordinammo un cocktail. Wyn disse che il primo era piuttosto leggero, così citò il motto del Racquet Club, “un uccello non può volare con una sola ala”, e ne ordinò un altro. «Sia un po’ più liberale stavolta» disse al barista. Il proprietario dovette sentirlo, e credo che sapesse che Wyn era un cliente importante, e infatti quando il barista brandì la bottiglia per riempire i nostri bicchieri il vecchio Monsieur Duval gli disse: «Soyez gentil avec». Questo divertì Wyn talmente tanto che ancora oggi cita questa frase quando qualcuno gli versa da bere. Il giorno seguente, dopo aver avuto il tempo di pensarci su, mi porse un foglietto di carta:
Cameriere, quel whisky & soda non è rock, forse era meglio un Jack.
Vi si è intasata la bottiglia, fate un check!
La prossima volta se versate, soyez genteel avec!
Bisognava sempre aspettare fino al giorno dopo perché le poesie di Wyn venissero alla luce.
Dopo quel primo bacio dell’ostrica, Wyn non si era più occupato di me se non con qualche amichevole occhiata; era troppo preso dalla rivista. Non passò molto tempo prima che cercassi di dirgli che secondo me eravamo in un vicolo cieco. I disegni che ci portavano non mi sembravano affatto umoristici, e la maggior parte degli articoli erano più o meno allo stesso livello di quelli dell’Harvest. Per prendere in giro un gentleman serve qualcuno che non lo sia, e quando la Main Line cercava di fare dell’autoironia era una specie di suicidio. Ma non riuscii mai a dirlo a Wyn, era troppo felice e non sarebbe servito a nulla.
Wyn, ho cercato di dirtelo cento volte al giorno, ti guardavo con una gran voglia di raddrizzarti il nodo della cravatta, di tirarti su le calze o soltanto di baciarti l’orlo della camicia. Portai in ufficio perfino un piccolo kit da cucito, pensando che un giorno o l’altro un bottone avrebbe potuto staccartisi e io sarei stata in grado di ricucirtelo. Maledissi quei tremendi camiciai di lusso che attaccano i bottoni così stretti.
Ricordi? Il primo numero della rivista doveva uscire il giorno di Halloween e proprio mentre, riviste le bozze, stavamo per rimandarle al tipografo, tuo padre telefonò per dirci che la Borsa di New York era crollata.
Mandammo il resto del materiale in tipografia con un fattorino, e Parry andò a supervisionare la messa in macchina. Ricordi, mi dicesti che Parry se ne intendeva perché aveva diretto il giornale degli studenti a Groton. Mettesti i piedi sul tavolo e ti buttasti indietro sulla schiena, facendo scricchiolare la sedia girevole. Quando mi girai a guardarti, mi accorsi che mi osservavi con un’espressione che non ti avevo mai visto prima.
«Kitty» mi dicesti. «Kitty…». Ricordo come lo dicesti, lentamente.
«Ora che abbiamo messo a letto la rivista, perché non facciamo lo stesso?».
In un primo momento non capii.
Quel pomeriggio telefonai a Myrtle per chiederle di restare col vecchio, e tu mi portasti a Harrisburg.
Avevo così tanta paura che ti dissi: «Soyez gentil avec», ma tu avevi bevuto troppo whisky e ti addormentasti.
Wyn, Wyn, ero così dispiaciuta per me stessa! Ora che so molte più cose, sono più dispiaciuta per te.