Sapevo che avrei fatto bene ad agire prima di smettere di pensare. Non volevo tornarmene nella mia stanza perché Wyn avrebbe potuto cercarmi lì; presi un taxi e mi feci portare direttamente a casa di Delphine. Lei e Monsieur stavano bevendo un bicchiere di porto prima di mettersi a tavola. Spero che sappia che non scorderò mai la sua gentilezza. Vedendo Delphine in quell’appartamento con le poltrone di stoffa, la mensola sul camino tutta di cristallo e ricoperta di tabacchiere di porcellana, con un cane profumato alla Colonia e un marito vestito con la giacca di velluto e gli stivaletti con i bottoni, la si sarebbe potuta credere la bottega di un antiquario. Imbrigliava le cose nel suo ritmo, a prescindere dal resto del mondo. Ordinò alla cameriera di mettere in tavola un altro coperto e cenammo con zuppa di verdura e carciofi. Era la prima volta che mangiavo i carciofi, e le mani mi tremavano troppo perché potessi affrontarli a dovere. Quando il signor Detaille era in casa e riteneva suo dovere mostrarsi socievole, prendeva la sua scatola dell’apparecchio acustico; Delphine quella volta lo bloccò con un gesto, perché aveva capito che volevo parlarle in privato. Meglio ancora, non aspettò neppure che ci mettessimo a tavola per lasciarmi sfogare.
Quand’ebbi finito il mio racconto, mi disse: «Temo che sia colpa mia, Keety, non avrei dovuto farle mettere l’Olympia. È troppo sottile per i giovani».
«Sarebbe una magnifica pubblicità, se potessimo usarla» dissi io. Poi feci una risatina un po’ isterica, e lei capì che stavo per avere un attacco di nervi. Pensavo a una filastrocca che mi avevano insegnato da piccola: “Questo è il giorno in cui si vendono i bambini in cambio di una mezza libbra di tè”. Non è piacevole ricordarsi certe cose proprio quando fanno più male. Così mi fece bere un altro bicchiere di porto e andammo a tavola. Grazie al cielo, quella sera non avevano invitati. Dopo cena capì che non volevo tornare a casa per paura di trovarvi Wyn, allora mi consigliò di telefonare alla padrona di casa dicendole che dovevo partire per affari e mandò la sua cameriera a prepararmi la valigia. Poi mi diede un tale bicchiere di cognac che me ne andai subito a dormire nella stanza degli ospiti. Mentre scivolavo nel sonno la sentii parlare in francese al telefono.
La mattina dopo, la cameriera mi portò il caffè a letto. Stavo pensando che sarebbe stato opportuno fare un salto in ufficio quando Delphine entrò, già pronta per uscire. Mi porse un biglietto con un nome e un indirizzo.
«Keety, tutto ciò non è etico. Io stessa a volte mi chiedo se sono stata corrotta dalla mentalità di Park Avenue. È proprio sicura di non volerlo, questo bambino? Non pensi al lavoro, avrà sempre il suo posto, dopo che sarà nato, e forse potremmo inventare una nuova polvere di talco per lui».
Credo proprio di non aver saputo rispondere; scossi solo la testa. Sarebbe stato troppo difficile da spiegare. Oh, se Wyn avesse potuto sapere, e aiutarmi, e il bimbo avesse potuto avere un esordio fortunato nella vita, sarebbe stato diverso. Ma Wyn non l’avrebbe mai dovuto sapere. Avevo capito, di colpo, che Wyn non aveva le spalle abbastanza larghe per subire un bastardo, o che la gente che aveva intorno non gliel’avrebbe lasciato avere. Avrei reso infelici delle persone per amore di qualcuno che non esisteva ancora.
Fu buffo vedere Delphine, tutta pronta per uscire, col suo elegante abito nero e la piccola Vuitton di pelle, ammorbidirsi all’improvviso. «Credo di capire. Ho avuto anch’io un bebè una volta. È morto. Lo spaventò la guerra prima ancora che nascesse».
Fu tutto ciò che disse sull’argomento. È spaventoso intravedere i retroscena di chi ha avuto tanto successo ed è così sicuro di sé. Sarebbe proprio buffo se tutta l’azienda dei cosmetici non fosse stata altro che una specie di compensazione di qualche altra cosa per la quale Delphine aveva avuto, un tempo, intenzione di vivere. Una volta le chiesi come le fosse capitato di dedicarsi a quell’attività, perché avevo capito che era stata lei a far iniziare il signor Detaille e non viceversa. Lei disse una frase che ripete ogni volta che non vuole rispondere direttamente: «Bichara saisit la fortune!». Credo che sia lo slogan o il marchio di fabbrica di un prodotto di bellezza parigino.
A quei tempi ero troppo stupida, o troppo sofferente, per accorgermene, ma credo che sarebbe stata contentissima se avessi avuto un bambino. L’avrebbe divertita moltissimo e probabilmente lo avrebbe anche mandato in Francia, per francesizzarlo a dovere con stivaletti con bottoni e un nastro sul bavero, per poi farlo tornare in America, dove gli avremmo parlato molto della Main Line. Ma io non avevo alcuna intenzione di mettere al mondo un bambino solo per far piacere a Delphine, o perché il signor Detaille era un marito pigro. Era una faccenda piuttosto personale, la mia.
«Tout s’arrange» disse lei, che era la sua espressione francese per dire “okay”. «Vada a parlare con questo dottore. Le ho fissato un appuntamento telefonicamente. Ho avuto il suo nome da amici che dicono che la sua clientela è tutta d’alta classe: a quanto sembra toglie dai guai la gente dalla Fifth a Yorkville. Ma si ricordi, Keety, questa non è un’idea francese. Mia cara, è molto meglio prendere le proprie precauzioni prima e non dopo».
Cercai di dire qualcosa sul rimetterci a lavorare.
«Resterà qui, a casa mia, fin quando non starà meglio. Sarà indisposta per parecchi giorni, povera Keety. È indegno e anche doloroso, temo, che non si possano usare degli anestetici. A ogni modo vada da questo dottore e faccia tutto ciò che le dirà».
Era tipico di Delphine parlare di dignità. A questo aspetto non avevo pensato. L’atto di mettere al mondo un figlio non è in sé molto dignitoso. Quando ci ripenso ora, cosa che non mi accade spesso, ricordo come fosse abile e decoroso quel medico. Era un brav’uomo. Mi piacque subito, e il giorno in cui andai da lui per l’operazione gli portai un piccolo elefante di porcellana con delle lingue di suocera sulla schiena come portafortuna. Scoppiò a ridere. Credo che ne abbia bisogno, ogni tanto, di una buona risata, visto il lavoro che fa. Cominciammo a parlare di molte cose e mi diede un mucchio di informazioni utili di cui, a mio parere, non avrei mai avuto bisogno. Piacque anche a lui l’Olympia, ma io gli dissi che lo vendevamo solo in esclusiva: se ci fossimo regolati diversamente, avrebbe potuto dargli troppo lavoro da fare.
Non avrei mai immaginato di poter abbozzare un sorriso in quel frangente, che fu davvero penoso. Era un po’ come essere immersa nell’olio bollente. Quando poi fui a letto, in casa di Delphine, in uno stato d’animo incredibilmente depresso, cercai di riordinare un po’ le idee. Può darsi che non abbia un senso morale. Ero dispiaciuta, probabilmente mi sentivo egoista, e come se avessi perso qualcosa di bello e di reale, ma non ebbi in alcun modo l’impressione di aver fatto qualcosa di sbagliato. Avevo fatto ciò che andava fatto. Che male che mi fece dover scrivere un monte di sciocchezze a Wyn! Naturalmente c’era una sua lunga lettera, quando tornai nella mia stanza, tutta su Ronnie e sul fidanzamento che era stato annunciato prima di quanto si aspettasse e piena di cose dolci che non erano molto più dolci della verità. Mi fu odioso scrivergli, povero caro, tante frottole sulla mia improvvisa partenza e sulla mia attività così intensa che non mi aveva permesso di scrivergli. Le cose non sono più, in un certo senso, le stesse, dopo che si è dovuto mentire a una persona.
Aveva anche lui il suo inferno da patire, come aveva detto Rosey Rittenhouse. Non vedevo perché avrei dovuto essere cattiva con lui, solo perché mi aveva fatto scoprire quanto certe cose possano essere adorabili. Ce l’eravamo insegnato a vicenda.
Era strano ritrovarsi nella deliziosa cameretta degli ospiti di Delphine e, al suo ritorno, vedere lei che entrava per raccontarmi gli avvenimenti della giornata. Ogni volta che sentivo lei o la cameriera entrare dovevo sbrigarmi a raccogliere da terra il trapuntino di seta, che non ero capace di tenere sul letto. Delphine mi aveva fatto indossare il più grazioso dei suoi pigiami, e mi diceva che mi dava un’aria da malata particolarmente romantica, un po’ come una che avesse vissuto la Rivoluzione Francese. Delphine sapeva essere estremamente materna quando non stava dettando, ma mi preparava come se avessi dovuto comparire in vetrina, e non è mai riuscita a convincermi che il letto sia un posto da messa in scena. Parlava spesso delle mie occhiaie. Io credevo che fossero una caratteristica irlandese, ma lei mi disse che anche i francesi ne soffrivano parecchio. Osservai che forse capitava a chi doveva vivere tutta la vita accanto agli inglesi. Questo la fece talmente ridere che fece venire Monsieur, con tanto di apparecchio inserito, per fargliela sentire. Quando Monsieur mise la batteria e si intrattenne un’eternità, capii che stavo molto meglio e che non sarei più morta di setticemia. Delphine studia sempre le situazioni nuove, e quando mi fece truccare per una visita del dottore le venne l’idea di una trousse speciale, con tutto l’occorrente per i malati. Si gingillò un po’ con quell’idea, ma poi decidemmo che non era psicologicamente adatta.
Dovevo alzarmi e collaborare quando Delphine era lì, un po’ come Pfui, che doveva rincorrere un osso di gomma quando la padrona lo desiderava. Nonostante ciò non mi sembrava di rendermi ridicola, quando avevo l’opportunità di pensarci su. Lei mi stava aiutando a superare un momento difficile e in qualche modo questo le aveva dato dei diritti su di me, ma io avrei estinto il mio debito. I venditori di mele agli angoli delle strade, quell’inverno, mi rendevano sensibile. La mia stanzetta spesso profumava di mele, che compravo e poi non avevo voglia di mangiare.
Forse è utile trovarsi almeno una volta in uno stato altamente inverosimile. Non mi rendevo conto di quanto fosse assurda quella situazione fino a quando non cercai, in seguito, di descriverla a Molly. Ecco qua Kitty Foyle che non fa esattamente tutto ciò che una donna dovrebbe fare. Non sta per avere un bambino, non cucina, non si guadagna neppure da vivere con un impiego che, comunque, è già di per sé una fiaba, ovvero dare alle signore eleganti un aspetto che non è il loro. Non fa nemmeno le scale, perché c’è un ascensore che le fa per lei, non chiude neppure la porta di casa, perché per questo c’è un gigantesco valletto in uniforme. Vive in un boudoir di cellophane, con una cameriera che le porge vassoi pieni di delicatessen. Perfino Pfui, il cane, è costretto a indossare un cappottino quando esce col maltempo, e in casa scivola sul pavimento lucidissimo come un attore comico, perché non c’è nulla che possa scavare con le unghie. Quello fu l’inverno in cui ottenemmo la nostra prima esclusiva su una nave da crociera, e io non potei fare a meno di ridere all’idea che perfino i raggi del sole dovessero essere filtrati attraverso qualche crema chimica.
Io e Delphine avemmo delle discussioni in proposito. Non le importava di comprendere le cose; non avrebbe lasciato che qualcosa interferisse con la sua attività. «Questa è l’epoca dei cosmetici» mi disse in proposito «perché il mondo è in decadenza. Quando la gente non è più sicura di ciò che è necessario, allora ricorre al lusso. E che cosa c’è di più necessario alla vita? Credo che sia la sensazione del futuro. Se non ci si sente sicure del futuro, allora ci si butta a rendere più bello e più divertente possibile l’adesso, non è così? Ogni rossetto che vendiamo, in realtà, rappresenta l’idea che noi vendiamo alla cliente di quanto siano fondamentali il qui e l’adesso».
«Ma rappresenta anche una certa nostalgia dei tempi andati» osservai.
«Questo è molto saggio, Keety. Ne saprà di più, in proposito, fra qualche anno».
A me sembrava di saperne già moltissimo, ma si ignora quanto poco si sappia quando il corteo sfila in tutte le direzioni.
«Dovrà parlarmi della sua cara vecchia Philadelphia, anche se non è proprio alla sua Pheelly che pensa. È qualcosa di vago, come Les Andelys in Francia per me. È felicità ed evanescenza. È un luogo dove tutto era stato predisposto. Keety, Philadelphia è il suo Abbé Constantin. Potremmo chiedere a Monsieur d’inventare per noi una Colonia tenue, che potremmo chiamare Philadelphia, qualcosa d’infinitamente nostalgico e sconsolato».
Forse mi misi a ridere, non ricordo. Quando Delphine voleva farmi ridere, ci riusciva. Specialmente quando mi chiedeva «Fila tutto liscio?», un’espressione che aveva sentito da me senza capire bene il significato. Spesso ho desiderato stenografare Delphine fuori servizio; ha una sua posizione chiara sulle cose, anche se parla un po’ troppo velocemente. «New York» disse «è una parassita. Vive divertendo gli altri. Ma la vostra vecchia Pheelly se ne sta saldamente seduta sul suo fondoschiena e se ne compiace. È molto chic». Mi ci volle un po’ per capire cosa intendesse.
Le sue mi sembravano parole crudeli allora, ma credo che mi facessero bene, come l’acqua ossigenata su un taglio. Potevo sentirne il bruciore all’altezza degli occhi. Stavamo sviscerando il tema New York e Philly, così le raccontai di un caldo giorno d’estate in cui Wyn e io eravamo andati in barca fino a Coney Island. Lui aveva visto delle fotografie, ma voleva accertarsi che simili posti esistessero realmente. Diede un’occhiata alla spiaggia e disse: «Grazie a Dio non c’è nessuno a Philadelphia che senta talmente il bisogno di andare in vacanza da vivere delle domeniche così atroci».
«Il suo amico» osservò Delphine «è un principiante dei sentimenti. Mi fa piacere che abbia amato un uomo di Philadelphia. Sono un po’ come degli inglesi che abbiano visto il peggio e l’abbiano superato. Keety, ho conosciuto un ufficiale inglese, durante la guerra, ed è un ricordo molto bello per me. Sono semplici, e tanto cari, e tirano fuori il meglio di una donna, perché lei deve pensare a tutti e due. Le donne francesi hanno perdonato molto ai tedeschi per via degli inglesi che hanno portato in Francia».
Come ho detto a Molly, devo fare molta attenzione nel distinguere ciò che penso io e ciò che ho preso in prestito da Delphine. Non farei intuire a Delphine in alcun modo, naturalmente, quanto fossero perfette le cose tra me e Wyn. Ma qualche volta ho testato su Molly alcune delle teorie di Delphine, per vedere le sue reazioni. Delphine dice: «Un uomo non deve avere tutto, Keety. È molto meglio se pensa poco, o è un po’ duro d’orecchio, o è brutto, o non sa capire uno scherzo. Allora si può avere quella deliziosa sensazione di proteggerlo. Se hanno tutto sono monotoni. Vanno bene per il cinema».
A Molly questa idea piacque, e mi accorsi che studiava gli uomini per vedere se qualcuno avesse il tipo giusto di difetto.
È un bene che quel trapuntino di seta color pesca scivolasse tanto spesso giù dal letto. Avrebbe potuto conservare la traccia di molte lacrime. Povera Delphine, lei trova la sua compensazione nel lavorare notte e giorno. Ma la mia compensazione non ha ancora cominciato a farsi vedere, né voglio che lo faccia. Quando una cosa fa male, fa male.