Non facevo una vera e propria vacanza da circa due anni quando Delphine mi fece fare quel viaggio alle Bermuda. Io non sapevo precisamente dove si trovasse l’arcipelago, sapevo solo che avevamo dato il nome “Bermuda” a una nostra lozione, e che la Main Line aveva l’abitudine di andarci per Pasqua. Eravamo ad agosto, però, e alle Bermuda c’era una gran calca ora che erano state scoperte dalle stenodattilografe. Delphine mi comprò il biglietto e mi accompagnò al piroscafo. Quando vide la folla che si accalcava sul ponte, disse: «Keety, in questo viaggio sarà meglio che beviate Bronx cocktail». Delphine è sempre un po’ snob, ma se una donna non ha una punta di snobismo significa che soffre di una qualche disfunzione ghiandolare. A ogni modo, mi aveva preso una cabina coperta con bagno privato, e c’era una sedia a sdraio prenotata per me sul ponte. Io stavo tutt’altro che bene, mi ero presa uno di quegli insopportabili raffreddori estivi, e il clima era caldo e umido.
Non bevvi Bronx cocktail, ma planter’s punch. Questa fu una cosa nuova per me, insieme a molte altre. Non sapevo neppure che le Bermuda fossero una colonia inglese; avevo la vaga impressione che facessero parte della Florida. Se si raggiungevano i turisti, si potevano fare degli ottimi affari. Li riconoscevo in blocco perché li avevo già visti, vestiti di tutto punto per affrontare le Catskill Mountain. Le ragazze riuscivano a indossare i pantaloncini fino alla “linea degli alberi”, l’altitudine oltre la quale non esistono forme vegetali sviluppate, e di solito raggiungevano Hamilton bruciate come del pollo grigliato. Nemmeno la nostra Crema Caraibica avrebbe potuto far niente contro delle bruciature come quelle. Quando toccavano terra erano in stato di shock, perché capivano che avrebbero dovuto indossare dei pantaloni che arrivavano almeno al ginocchio, o ancora meglio indossare dei veri vestiti. Le Bermuda non sembravano affatto curiose di scoprire i loro fianchi dell’Upper West Side, e loro si consolavano comprando dei cappellini per proteggersi dal sole.
Delphine, che conosce a perfezione l’arte del viaggio, doveva aver dato all’inserviente una grossa mancia, perché mentre me ne stavo accasciata nella mia sedia a sdraio lui si presentò per sentire di che cosa avessi bisogno. «Sento la campana del pranzo che suona da tutte le parti» dissi. «Farò bene a scendere per mangiare un boccone». L’inserviente mi spiegò che non era la campana del pranzo, ma solo i fattorini. Non sapevo a che cosa potessero servire dei fattorini con un campanello in mezzo al mare, se non forse per avvertire la gente di starsene alla larga da Staten Island, ma mi sentivo troppo fiacca per iniziare una discussione. Mi disse che avrei potuto farmi servire il pranzo sul ponte, se lo avessi desiderato. No, era meglio che scendessi a fare un buon pasto completo, per fare come diceva quel detto, “nutrire il raffreddore e far morire di fame la febbre”. Fu allora che l’uomo seduto accanto a me s’intromise. Lo avevo già vagamente notato, perché osservava tutto con aria semidivertita. Era ebreo, così immaginai che non dovesse essere il suo primo viaggio in mare. «No» disse «ha frainteso. Il detto vuol dire che se nutrite abbondantemente un raffreddore, poi dovrete far morire di fame una febbre. Di conseguenza: per un raffreddore come il suo prescrivo planter’s punch, con un consommé di gelatina e toast Melba».
L’ultima cosa che mi andava di fare era iniziare una conversazione, ma l’inserviente trovò che fosse una buona idea e mi portò l’ordinazione del medico su un vassoio. E il dottor Marcus Eisen, era proprio lui in carne e ossa, non fece alcun tentativo di continuarla. Scese a pranzare, e quando risalì io stavo dormendo. Verso sera mi sentivo molto meglio, tanto che scesi per la cena. Trovai l’amico al mio stesso tavolo, e supposi che i posti seguissero l’ordine delle sedie a sdraio. Solo in seguito seppi che aveva organizzato la cosa col maître.
Era divertente parlare di nuovo con un uomo del più e del meno, come si fa nei salotti. È un po’ come bere un buon drink dopo una lunga cura di acqua gassata. Lui fu abbastanza intelligente da capire che non avrei gradito una corte troppo serrata. Credo che gli servissi come stimolo intellettuale, e quando aveva bisogno di qualcosa di più semplice e solido andava a dedicarsi a qualcuna delle molte turiste dell’Upper West Side, in viaggio per Hamilton in shorts estremamente corti, che si arrostivano sul ponte. Pensai che dovevo essere una specie di vecchia zitella molto accomodante, ad accettare una situazione simile, ma la corrente del Golfo è capace di mettere in uno stato d’animo di grande tolleranza. Faceva lo stesso caldo che si pativa nella mia vecchia mansarda a Frankford, e per me era tutto nuovo, lo strano odore della nave, quella specie di stretta allo stomaco, quell’acqua azzurra su cui galleggiavano enormi spugne giallastre. Credo che la traversata sia durata solo due giorni, ma mi sembrarono molti di più.
Wyn mi aveva talmente condizionato sull’abbigliamento maschile che non potevo tollerare di vedere un uomo vestito male. I pantaloni a strisce di Mark, con la piega che sembrava la lama di un coltello, lo avrebbero fatto eliminare dalla lista dei soci di qualsiasi circolo di cricket, e quelle scarpe da crociera bianche e nere, con tanti forellini per l’aerazione del piede, facevano decisamente troppo Hollywood. Ciò che dava al tutto un tono da Montecarlo era una camicia da polo aperta sui peli del petto, con una giacca di tweed blu e un fazzoletto della stessa stoffa della camicia. Tutto ciò è abbastanza atroce perché un uomo dovrebbe apparire naturale, e non la conseguenza di una composizione artefatta. Povero Mark, si capiva che doveva aver passato parecchi sabati pomeriggio a sognare quell’abbigliamento da crociera. Sembrava che quella foresta che aveva sul petto avesse assorbito quasi tutte le risorse del suo cuoio capelluto, che appariva già parecchio sguarnito. Poi si notavano le sue mani e ci si dimenticava di tutto il resto. I massaggi e la chiropratica che avevo studiato a Chicago avevano acuito il mio spirito d’osservazione sulle mani. Quando seppi che lavorava in un ospedale per bambini trovammo una fonte inesauribile di conversazione. Era curioso di sapere quale fosse il mio genere di attività, ma non volli dirglielo. Dopo un paio di planter’s punch alcune delle sue storie erano diventate un po’ trite, ma io non mi spaventavo tanto facilmente, e alcune delle storie preferite di Parry Berwyn sul vecchio Racquet Club mi sembrarono molto simili alle sue. Quello che mi interessava di lui era come avesse fatto a sapere tante cose sul mondo infantile. Nel viaggio di ritorno, due settimane dopo, lo ritrovai sullo stesso piroscafo, era la fine di agosto e fummo colti da uno di quei famosi uragani. Un ragazzetto cadde dalle scale e si ruppe la clavicola, mentre Mark e io ci trovavamo là per caso. Il medico di bordo sembrava aver perso la testa e Mark fasciò e mise a letto il piccolo prima ancora che ce ne accorgessimo. Questo mi colpì moltissimo.
Alloggiavamo in alberghi diversi quando arrivammo alle Bermuda, e io passavo il tempo con altra gente, così ebbi poche occasioni di vederlo. Lo incontrai un giorno a Elbow Beach, abbronzato come un coltivatore di caffè, in mezzo a un gruppo di ragazze con costumi succinti. Una sera mi portò a ballare sulla terrazza dell’albergo; è un buon ballerino, anche lui, benché il suo abbraccio fosse un pochino troppo affettuoso per essere agosto alle Bermuda. La terrazza costeggiava l’orlo dell’acqua, e i barcaioli neri che spingevano le loro piccole barche a vela sembravano farfalle al chiaro di luna. Facemmo, su una di quelle barchette, una piccola corsa nel porto, ma dovetti spiegargli che ero riuscita a far morire di fame una febbre e che non avevo nessuna intenzione di metterne al mondo un’altra. Prese la cosa tanto allegramente che ne fui un po’ piccata. Ero un tipo di donna di cui non aveva esperienza, e questo lo teneva in uno stato di perplessa curiosità. La gente del suo stampo vuole sapere tutto di tutti, e mi crivellava di domande per classificarmi ai suoi occhi. Tutto ciò che gli dissi era che venivo da Philadelphia. Bene, è a sole due ore di treno, rispose. Credo che mi avesse preso per una specie d’infermiera specializzata che non aveva avuto il vantaggio di far pratica a New York o alla Johns Hopkins. Se avesse saputo che stavo per prendere possesso del mio appartamento in Riverside sarebbe riuscito a estorcermi il numero di telefono dopo due Aquarium. Dovetti sorridere quando mi raccontò d’aver trasferito la madre in West End Avenue, che per loro è una specie di settimo cielo. Mi piaceva il modo in cui parlava di sua madre. Il sentimento d’affettuosa devozione che hanno gli ebrei per i vecchi è molto bello. Sono meravigliosi con i vecchi e con i bambini, ma possono essere estremamente duri con chiunque si trovi fra le due categorie.
Mi parlò a lungo della paralisi infantile, di come si sposti solitamente dal sud verso il nord e si presenti come una specie di epidemia annuale, soprattutto verso la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno. Mi disse che si era preso quel periodo di vacanza per essere nelle condizioni migliori per affrontare un gran numero di casi al suo ritorno. Ecco perché non andava mai oltre il terzo bicchierino, e anche questo mi piacque. In mezzo a un gruppo di amici può essere anche molesto, è sempre troppo allegro; ma, preso da solo, e a farlo parlare di bambini, si riesce perfino a dimenticare quella cintura di coccodrillo che gli cinge le reni, con tanto di iniziali, M.E., su una fibbia dorata. Aveva un complesso d’inferiorità nascosto nelle più riposte pieghe dell’anima, complesso che doveva essersi formato in centinaia di generazioni, ma non c’era nessuna inferiorità in lui quando si chinava sul microscopio o su un bambino malato. Facemmo una gita in un’isola dove c’era un’antica prigione, e gli scarafaggi ci correvano incontro grossi come topi. Mark ne restò così meravigliato che non ci voleva credere. Ne prese uno, lo mise in una bottiglia e se lo portò in albergo, dove lo sezionò con una lametta da barba per vedere com’era fatto.
Sapevo che avrei finito col vederlo ancora, perché c’erano troppe cose da imparare da lui, ma pensai che sarebbe stato meglio se fosse rimasto in sospeso e non volli dargli il mio indirizzo. Inoltre, sentivo che prima o poi avrei finito per incontrarlo lungo la kosher belt o nell’alta Broadway. Mi diede il suo biglietto da visita. «Se fosse colta da paralisi» disse «mi chiami pure».
Mi piaceva che avesse un lavoro di quel tipo. Ed è a questo che penso quando vado a trovare Mac e Martha e vedo la piccola Kitty addormentata a braccia aperte sul letto. È meraviglioso avere qualcosa oltre se stessi. Forse queste ragazze in carriera, indipendenti, emancipate, che hanno conosciuto tante cose e hanno imparato a farne a meno, non sarebbero poi delle cattive mogli. Saper fare a meno di molto è l’unica arma che abbiamo.
Passò moltissimo tempo prima che rivedessi Mark. A dire il vero mi sarei completamente dimenticata della sua esistenza se non fosse stato per una fotografia che qualcuno ci aveva scattato sul piroscafo, nella quale le sue scarpe spiccavano su tutto. Avevo moltissime cose a cui pensare. Col matrimonio di Pearl Velour e Delphine che non stava bene, mi trovai a dover praticamente dirigere l’azienda. Sembravo una di quelle lavoratrici del ramo cosmetici senza uno straccio di vita privata. Col governo che non pensava che a nuove tasse, e i costi di distribuzione che salivano alle stelle, laccarsi le unghie era una buona idea, per non doversele mordere nel sonno. Delphine diceva: «Keety, a quanto pare il governo non vuole che le signore americane si facciano belle. Le mogli dei funzionari del Tesoro sono tutte così trascurate? Sarà meglio chiamare a raccolta i produttori di sapone e glicerina e vedere se hanno fatto progressi con il taglio delle accise». In realtà, tutta quella regolamentazione federale era probabilmente una cosa positiva, e avrebbe aiutato a inasprire i controlli su alcuni concorrenti che non utilizzavano dei prodotti puri come facevamo noi e risparmiavano con ogni sorta di schifezze sintetiche. Delphine era infastidita dal fatto che fissassero le quantità in pinte anziché in once o sottomultipli di oncia.
Diceva che “pinta” era una parola volgare, che faceva pensare a latte, liquori illegali o vernice per la casa. A qualsiasi persona che fosse cresciuta con il mio vecchio, anche oncia avrebbe fatto pensare al liquore.
Il signor Detaille in quel periodo non aveva tanto tempo a disposizione per lanciare le sue clave, era troppo occupato a far quadrare il bilancio. Fu un duro colpo rendersi conto che i nostri costi di distribuzione ammontavano al settantadue per cento del valore di fabbrica, e a circa il cinquanta per cento del valore al dettaglio. I costi di produzione arrivavano al sessantasei per cento del valore di fabbrica, senza considerare i danni causati dal signor Detaille con la giocoleria. Avevamo dei margini ristretti.
Ogni tanto Delphine andava a Washington, da non so quale alto funzionario del Tesoro, per cercare di migliorare la situazione. Per quelle visite si profumava sempre con l’Olympia, ma quell’alto funzionario doveva avere un perenne raffreddore da fieno perché non sembrò sortire il minimo effetto. Delphine tornava sempre molto depressa da quei viaggi. «Keety» mi diceva «l’ho saputo direttamente dalla fonte. Se ci sarà un nuovo Food and Drugs Act, finiremmo sotto la giurisdizione del dipartimento di Agricoltura. Dico sul serio! Sarà meglio fare domanda per ottenere delle sovvenzioni agricole, è l’unica cosa che preoccupa il governo».
Di solito, il pranzo non mi rubava molto tempo, e spesso mi fermavo a mangiare sulla Sixth Avenue, leggendo un giornale mentre masticavo il mio sandwich. Tutti sembravano avere una tale fretta da mettermi di buon umore. Le prime volte non riuscivo a capire che cosa desse a quel posto un’aria tanto buffa, ma poi mi accorsi che era perché tutti gli uomini mangiavano col cappello in testa. La masticazione dava ai cappelli un moto di su e giù, e a guardarli troppo a lungo veniva il mal di mare. Un giorno notai un cappello di velluto scuro che richiamava l’attenzione e, diavolo, non ci si poteva sbagliare, era proprio di Mark Eisen. Sembrava così contento e rispettoso, e io mi sentivo così sola, che non potei impedirgli di accompagnarmi fino in ufficio. Fu molto contento quando capì finalmente in che settore lavorassi. «E io che credevo che fosse a misurare la febbre in quel di Philadelphia!». Dopodiché il mio telefono di casa cominciò a squillare. Mi ricordo la telefonata che mi fece quella cara donna di sua madre. Mark le aveva tanto parlato di me, e lei voleva invitarmi al bar mitzvah del fratellino di Mark. Accettai, sperando che ci sarebbe stato qualcosa da mangiare. E la cerimonia importantissima a cui presenziai mi rese praticamente un membro della famiglia. Erano stati tutta la mattina in sinagoga, perché aveva tredici anni e doveva diventare un uomo, o qualcosa del genere. C’era grappa e pan di Spagna, e io provavo a immaginare le sensazioni del ragazzo che aveva provocato tutta quella frenesia familiare; in ogni caso, poté finalmente prendersi qualche libertà, e volle approfittarne per tenere un discorso sull’essere maturi. Mark ne fu terribilmente seccato.
Quel che è certo, è che prendevano la religione molto seriamente. La cosa mi piaceva, anche se Mark ogni tanto diventava un po’ ridicolo, come quella ruga che gli veniva quando rideva. «Di conseguenza, questa notte, più di tutte le altre notti, dobbiamo distenderci sulla sedia e riposare». È una citazione dalla Pasqua ebraica.
Mi è sempre piaciuto rubare qua e là dalle religioni altrui senza mai averne una tutta per me.
Quando vado ad Amsterdam Avenue a fare le mie compere, a volte mi fermo nella bottega di un giornalaio e tabaccaio dove un bimbetto dall’aria furba, di circa tre anni, gioca sul marciapiede. Ha una pelle dolcemente ambrata e gli occhi color della brace. Le caratteristiche ebraiche non si sono ancora palesate sul suo visino, ma è chiaro che sono pronte a saltare fuori. Quando lo vedo, mi dico sempre: questo piccino è il mio candidato per l’anno 2000. Sempre che riesca a stare lontano da Hitler, naturalmente. Io non vedrò l’anno 2000, penso; avrei ottantanove anni, il che richiede uno sforzo troppo grande d’immaginazione; ma quel bimbetto quasi certamente sì, e ce ne sono moltissimi della sua età che scriveranno “1° gennaio 2000” su qualche registro. Quel giorno sarà un sabato, l’ho visto su uno di quei Calendari Perpetui. Fidatevi di una ragazza in carriera. Sarà un giorno festivo, e vorrei esserci ancora.
Così ogni volta provo una specie di emozione quando vedo il piccolo Manny Silberman. Voglio sapere se ha dormito bene e se di tanto in tanto fa una gitarella a Rockaway: ho dato alla signora Silberman una lista delle spiagge più salubri. È il mio candidato segreto per il futuro. Sono cose a cui una donna deve pensare. Il mio bambino avrebbe potuto essere ancora forte e robusto nel 2000; non avrebbe avuto che settant’anni e… e poi, santo Dio, ogni donna ha diritto ad avere un candidato per il futuro. Con tutte le seccature fisiologiche a cui è sottoposta, ha il diritto di chiedersi che cosa sia venuta a fare in questo mondo. A lungo andare ci si stanca di sentirsi dire che il controllo delle nascite è la soluzione di tutto. Ha diritto ad avere un bambino, se ne sente il bisogno, così come un uomo ha diritto a pagare l’imposta sul reddito.
Certo, bisogna stare attenti quando si parla di queste cose con gli uomini, si scandalizzano così facilmente!
Mark, che è un ebreo intellettuale, affronta le cose in un modo molto diverso da me. Va pazzo per i libri, me ne ha fatti anche leggere alcuni dei suoi preferiti, ma io sto attenta a non lasciarmi suggestionare. Posso imparare molte cose senza doverle vedere stampate. Ma la poesia no, la poesia è diversa. C’è qualcosa, là dentro, se solo avessi il tempo di decifrarne il linguaggio. Dice le cose esattamente come le sentite. Se potessi avere un altro weekend a Pocono, con tanto sole, un bagno nel laghetto, una coperta di fronte al fuoco e Wyn che mi legge qualche poesia, capirei che cosa significa, anche se lui non poteva, povero caro. Potrei perfino spiegargliela. Era così adorabilmente semplice, come quando credeva che i corsetti dovessero essere per forza di colore rosa.
È inutile chiedere a Mark che vi legga della poesia, è troppo impaziente per arrivare in fondo.
* * *
È giusto ricordare tutte queste cose fra me e me, forse per l’ultima volta? Sul fiume c’è una luna, questa sera, grande e lucente come un orologio d’oro. È così bella che forse può insegnarmi a non pensare più tanto a me stessa. Si tormentano tutti come faccio io? Credo che non si possa mai essere felici se non pensando di più agli altri. Forse ero più vicina alla verità quando Wyn e io ci amavamo, ma naturalmente questo tipo di cose è troppo dolce per durare. Non è un elemento costante della vita, ma solo qualcosa che si accende e la illumina ogni tanto. Forse esiste un modo per arrivare più vicino a ciò che è vero.
È emozionante imparare delle cose sapendo che nello stesso modo le ha imparate qualsiasi altra persona al mondo.
Nessuno sa che cosa senta o pensi realmente. Bisogna indovinarlo dal proprio comportamento.