709

La notte in cui Oriol Pairot ricevette il premio più prestigioso della sua carriera, Sara e Max furono i primi ad arrivare. «Per prendere un posto in prima fila» aveva detto Max prima di sapere che l’amico gli aveva riservato quattro posti nella zona di lusso del Gran Saló Gaudí, dove si sarebbe celebrata la cerimonia di consegna. Quattro posti, sebbene per loro fossero sufficienti tre: per Pol avevano portato il passeggino, immaginando che nel migliore dei casi avrebbe preso sonno e si sarebbe messo a frignare, perciò era meglio avere un posto in cui metterlo. Aina, invece, resistette molto bene. Per tutta la cerimonia rimase ferma e seria al suo posto e solo una volta le scappò uno sbadiglio un po’ troppo indiscreto che fece sorridere l’assessore alla Cultura, seduto proprio davanti a lei. Poi, durante il rinfresco, mangiò così tanto e con tale fretta che stette male.

Sara intrattenne molte più relazioni pubbliche quella sera che nel resto della sua vita. Rivide Ortega, dopo tanti anni, e lo trovò invecchiato, sempre affascinante, generoso, felice di poter dire di essere stato l’insegnante della stella della serata, e forse anche un po’ brillo, ma non ne era certa. Era solo e indossava un vestito blu marino che sembrava leggermente fuori moda ed era un po’ rovinato.

«Non mi piacciono per niente queste cose. Se non si fosse trattato di Oriol, non ci sarei mai venuto» le disse.

Ebbe anche l’occasione di vedere alcuni colleghi, si trovò al centro di una discussione molto accesa sul permesso concesso dalle nuove direttive europee ai fabbricanti di cioccolata di usare fino a un cinque per cento di grassi vegetali diversi dal burro di cacao. Per alcuni era un’occasione e per altri un disastro di dimensioni cosmiche. Sara era più vicina a questi ultimi, ma non aveva voglia di prender parte a discussioni così accalorate. Alla fine si ritrovò, senza sapere come, in mezzo a un gruppetto di persone tra cui il direttore della rivista Cuines, che non appena la vide le chiese se voleva collaborare scrivendo articoli sulla storia della pasticceria. «Un uccellino mi ha detto che sei una storica» aggiunse. E Sara, lusingata, promise che ci avrebbe pensato seriamente, mentre metteva in borsa il biglietto da visita che l’uomo le aveva appena consegnato con sopra la mail e il suo numero di telefono diretto.

Nel frattempo, Max rimase con i bambini; tutti e tre insieme formavano un’isola bizzarra in mezzo a quell’oceano agitato. In lontananza vedeva la testa di Oriol che spuntava dalla folla di gente in attesa per salutarlo. Lo vedeva sorridere, stringere mani, posare per fotografie con signore che brillavano come lampade. Parlare con personalità che gli avevano appena presentato, ricevere l’abbraccio del presidente della corporazione dei pasticceri, i complimenti del sindaco, o stare in mezzo a cuochi famosi che gli si rivolgevano come se lo conoscessero da sempre. Pian piano, forse al ritmo di un millimetro al minuto, Oriol avanzava verso il luogo in cui Max lo stava aspettando, facendo il padre di due bambini troppo piccoli per capire cosa ci stessero a fare lì.

Mentre Oriol si avvicinava, senza mai riuscire ad arrivare, Aina ebbe un bisogno urgentissimo.

«Papà devo fare la cacca» disse con tutta la naturalezza del mondo.

E Max le rivolse la solita e inutile domanda che i genitori fanno in questi casi: «Riesci a resistere?»

Ma la bambina fu sufficientemente chiara: «No. Devo fare la cacca adesso».

Max intraprese una spedizione molto complessa lungo i corridoi soffici dell’hotel, con passeggino, borsa piena delle cose di Pol e la bambina che non riusciva più a trattenersi. Arrivò in tempo per miracolo, ma mentre Aina dal bagno delle donne, con la porta aperta, gli faceva la cronaca in diretta – ‘esce papà, sta uscendo’ – Pol piangeva perché con tutto quel movimento si era svegliato e ora non riusciva a riaddormentarsi. Inoltre aveva sete e la bottiglietta dell’acqua era vuota. Max lo prese dal passeggino ed entrò con lui nel bagno degli uomini per riempire la bottiglietta. Dopo aver bevuto, Pol si strinse a suo padre, gli appoggiò la testa sulla spalla destra e si lasciò cullare per più di dieci minuti dopo i quali si addormentò profondamente.

Aina, tutta contenta, continuava a informarlo in diretta:

«Papà ne ho fatta molta, moltissima! Ed è verde!»

E Max le dava istruzioni da fuori, mentre alcune signore in bagno, vestite come ci si aspetta dai clienti di un hotel di lusso, lo guardavano disgustate, forse perché facevano parte di quella cerchia di persone che non hanno mai avuto a che fare con le altrui evacuazioni.

«Pulisciti bene, butta la carta nel water e tira lo sciacquone».

«Va bene, papà».

«E lavati le mani».

«Va bene, papà».

Il colore verde non era molto tranquillizzante, soprattutto perché adesso la bimba aveva lo stomaco vuoto (letteralmente) e voleva tornare al Saló Gaudí per continuare a inghiottire canapè dolci e salati e succo d’arancia fino all’ora di andar via. Max era allo stremo della resistenza.

Rientrati in sala, approfittando del fatto che Pol dormiva e che Aina stava mangiando voracemente tutto quel che trovava, Max riuscì a scambiare due parole con Oriol. Lo abbracciò con forza e gli disse che sia lui sia Sara erano molto orgogliosi di dov’era riuscito ad arrivare e gli presentò i suoi figli, che non erano al massimo (Aina aveva lo sguardo assonnato e Pol era rosso come un pomodoro, sudato fradicio e addormentato come un ghiro). Oriol gli chiese del lavoro e Max fece un breve riassunto dei suoi ultimi quindici anni al dipartimento di Biochimica degli alimenti alla Facoltà di Chimica dell’università di Barcellona: «Tutto uguale».

Poi Oriol disse che era un peccato che si potessero vedere così poco, con tutto quel che aveva da raccontargli e chiese se la sera dopo non avessero per caso un po’ di tempo, che lui sarebbe stato libero per un paio d’ore e...

«Domani? Impossibile. Domani siamo al Liceu. Sai che è un appuntamento sacro» disse Max, e per non sembrare troppo brusco aggiunse: «Perché non vieni con noi?»

«No tranquillo, tranquillo» allontanò la proposta con grandi gesti. «Io l’opera non la capisco!»

«Ma non c’è niente da capire, Oriol. La musica è un linguaggio universale».

«No, no».

«E poi domani c’è Donizetti. Facile facile. Anche per un pigro come te».

«La prossima volta, ok?» concluse lui, che non reggeva di sentirsi fuori posto da qualche parte. E subito andò via, perché una signorina in giacca gli sussurrò all’orecchio che lo stavano aspettando i mezzi di comunicazione. Disse all’amico, in assoluta buona fede: «Resta qui, torno subito». Ma Max non rimase, perché sapeva come andavano queste cose, nonostante lui facesse parte della cerchia dei tranquilli, di quelli che sono sempre lì ad aspettare che gli altri finiscano le cose importanti che hanno da fare. A quel punto Aina disse che aveva molto mal di pancia e Max decise che ne aveva abbastanza. Cercò Sara, che stava chiacchierando molto allegramente ed era molto bella, con un calice in mano, insieme ad alcuni dei pasticceri più famosi di Barcellona e le disse di non preoccuparsi, ma che lui preferiva andare a casa.

«Allora vengo con te» rispose lei.

«Ma no, figurati. Tu resta qui, per te quest’incubo di riunione è lavoro. Io vado via perché i bambini sono insopportabili e sono la scusa perfetta».

«Sicuro?»

«Certo, non parliamone più. Quando hai finito, se è troppo tardi, prendi un taxi, ok? Fattelo chiamare».

«Va bene...» Sara pensò ancora una volta che era fortunata ad avere accanto quest’uomo. Con chiunque altro le cose sarebbero andate in modo molto diverso.

«Divertiti» le augurò Max, prima di andarsene chiudendo il passeggino con una mano e prendendo con l’altra Aina, che salutava tutti come fosse una principessa.

Sara sentiva un specie di nodo allo stomaco nel vederli andar via, ma per fortuna le passò subito, non appena il presidente della corporazione dei pasticceri disse che il suo pralinato era il migliore di Barcellona e che ogni anno comprava i torroni di Casa Rovira per regalarli al presidente della Generalitat, come dono personale. I politici che avevano condito il momento con il loro discorsetto se n’erano andati da tempo, così come anche gli invitati d’obbligo, e non restavano che quattro colleghi e alcuni amici che non vedeva da tempo. Oriol andava avanti e indietro tra giornalisti e ammiratori, ma non era facile vederlo. Sara stava per andarsene a casa quando sul cellulare ricevette un messaggio da Oriol:

 

709

 

Per accomiatarsi ci fu bisogno di un po’ di tempo, nonostante avesse salutato solo chi era possibile e avesse chiesto di salutare da parte sua quelli che ora non vedeva, in particolare il presidente della corporazione, che era stato così gentile con lei. Uscì dal Gran Saló Gaudí molto eccitata, proprio come le capitava ogni volta che si presentava l’occasione di rimanere da sola con Oriol. Si perse in un lunghissimo corridoio alla ricerca dell’ascensore e dovette tornare indietro e chiedere indicazioni a un cameriere che l’accompagnò come una bambina piccola fino addirittura a premere il bottone del settimo piano. ‘Se volessi assassinare Oriol, quest’uomo sarebbe il perfetto testimone per l’accusa’ le venne in mente di pensare.

Tutta l’operazione, da quando ricevette il messaggio fino a quando l’ascensore le permise di scendere al settimo piano, durò una dozzina di minuti, un tempo che Oriol considerava un’eternità. Per questo fece di corsa l’ultimo tratto, dal 730 al 709. La porta 709 si aprì prima che bussasse. Dall’altra parte, Oriol l’aspettava ancora vestito con lo smoking di gala e un sorriso malizioso sulle labbra. La spinse contro la porta e le diede un bacio urgente e sofferente. Era molto più alto di lei, anche adesso che Sara indossava i tacchi, e per baciarla doveva chinarsi un po’. Sembrava un insetto intento a mangiarsi la sua vittima per cena. Sara si tolse le scarpe, gettò la borsa a terra e fece un profondo sospiro. Come ogni volta che ritrovava Oriol, aveva la sensazione di averne sentito molto la mancanza mentre non c’era e quindi il conseguente bisogno di fare cose che la compensassero di quella nostalgia. Senza staccare le labbra dall’amante, si sfilò il vestito dai piedi. Indossava un tanga che si era comprata pensando a lui qualche giorno prima e un reggiseno senza spalline che lasciava nude due spalle tentatrici. Oriol si lanciò su quelle con la furia di un predatore, di un vampiro. Le spalle, il collo, il mento, e di nuovo le labbra di Sara. Le labbra tanto sognate di Sara Rovira. Lei gli prese il collo tra le mani, come a volerlo strangolare, mentre appoggiava i pollici sul pomo d’Adamo, quella tentazione che non era mutata, avvolta da una pelle bianchiccia, ruvida e soave al tempo stesso e che tanto le ricordava la pancia di un rettile. Ora che non aveva più i tacchi, il pomo d’Adamo di Oriol era proprio all’altezza dei suoi occhi, posizione perfetta per l’attacco.

«Calma, non sono ancora del tutto libero, mi aspettano dei giornalisti francesi» mormorò lui ansimante. «Perché non ti versi qualcosa e mi aspetti? Farò in fretta».

«Fai come vuoi. Se ci impieghi troppo, mi addormenterò».

«Se ti addormenti troverò il modo di svegliarti».

Oriol ci impiegò più di due ore a tornare e Sara ebbe tempo per fare di tutto. Esplorare la stanza, una suite di lusso composta da due appartamenti con una splendida vista sul porto olimpico e sul mare. Peccato che fosse già notte e che non si potesse svegliare con quella visuale. Poi osservò a lungo il suo riflesso allo specchio, ammirando come le due gravidanze non avessero lasciato traccia sul suo corpo ancora giovane ed elastico. Annusò tutte le bottigliette del bagno, si fece una doccia e si mise uno dei due accappatoi con il logo dell’hotel. Si versò da bere, proprio come aveva detto Oriol, da una bottiglia dentro un porta ghiaccio ai piedi del letto, ma lasciò il calice intatto mentre entrava sotto le lenzuola e se ne stava bella tranquilla, limitandosi ad ascoltare il proprio respiro e i battiti impazienti del suo cuore, sentendo come si eccitava ogni volta che percepiva passi smorzati che si avvicinavano lungo il corridoio.

Improvvisamente le venne in mente Max e telefonò a casa per sapere come andavano le cose. La voce di suo marito la tranquillizzò, come sempre. Le disse che tutto filava liscio come l’olio, i bambini stavano dormendo e lui stava leggendo un po’ in sala per farsi venire sonno. L’unico contrattempo era che Aina era indisposta, ma siccome era andata non sapeva più quante volte in bagno e si era presa un cucchiaio di quel miracoloso sciroppo, non c’era nulla di cui preoccuparsi. «E tu? Sei ancora lì?» chiese Max. «Sì» rispose lei, «qui le cose vanno alla lunga. Siamo presi da una di quelle discussioni allucinanti». Max non chiese nessuna spiegazione – se l’avesse fatto, Sara non avrebbe saputo cosa rispondere e si sarebbe innervosita – e si limitò a ripeterle «Divertiti». Ma questa volta aggiunse una parola: «Divertiti, mamma».

Dopo aver parlato con Max, le prese una specie di sonnolenza. Oriol era via da un’ora e non poteva metterci ancora molto a tornare. Di certo i giornalisti l’avevano trattenuto, erano pesanti come il piombo. Di solito, Oriol non voleva averci a che fare, ma quella sera si sentiva in dovere di fare bella figura con tutti, proprio come lei si sentiva di doverlo aspettare fin quando non avesse finito. Era il prezzo da pagare per essere un uomo famoso, e anche per essere l’amante clandestina di un uomo famoso. E a lei stava bene così.

Si coprì un po’ con il piumone, che sapeva di pulito e di buono, e di colpo le venne in mente quell’altra stanza a Parigi. Era davvero la 709? Come mai improvvisamente lo notava con tale chiarezza? Non l’aveva ricordato fino a quel momento, ma doveva riconoscere che la coincidenza era incredibile. 709. Quanto fa 7 più 9? Sedici, 1+6. Ovvero sette. Il sette è il suo numero fortunato, o almeno l’ha sempre creduto fin da quando era bambina. È una stupidaggine, ma non può evitare di pensare che Aina è nata un giorno 7, lei un mese 7, che gli anni che finivano in 7 erano sempre stati anni molto fortunati per lei e che in quel momento era al settimo piano del miglior hotel della città aspettando l’uomo che più desiderava al mondo.

Sara pensò a quelle cose che il mare trascina fino in spiaggia e che nessuno sa da dove vengono e di chi sono. Le parve che il numero 709 fosse come uno di quei tesori marini inspiegabili. E in quell’altra 709 dell’Hotel Madeleine di Parigi – ora è certa che fosse un 709 – erano stati incredibilmente felici. Era l’anno in cui a Barcellona si celebravano le Olimpiadi, Oriol era il responsabile della cioccolateria della maison Fauchon e Max e Sara erano due turisti abbastanza tipici in una città con molte cose da vedere.

Max impazziva nei musei parigini. Volle andare al Louvre per tre giorni di seguito e anche così non ne aveva ancora abbastanza di mummie, sculture e quadri. Doveva passare almeno quindici minuti davanti a qualsiasi opera, perché voleva sapere tutto, doveva leggere tutto, vedere tutto da vicino, da lontano, ancora una volta da vicino. Il secondo giorno, Sara gli disse di andare da solo e rimase a dormire a casa di Oriol. Si risvegliò che era quasi mezzogiorno e sul tavolo della sala da pranzo c’erano un bricco di caffè, un cestino di croissant con troppo burro e un biglietto di Oriol con su scritto: ‘Se qualcuno è libero all’ora di pranzo mi chiami allo...’ e il numero del lavoro. Poltrì fin verso l’una. Frugò in alcuni cassetti cercando tracce del passaggio di una qualche donna nell’appartamento, ma non trovò nulla. Sembrava che a Oriol non interessassero le francesi. Poi si vestì e prese la metro fino a place de la Madeleine. Non appena uscita dal sotterraneo, si rese conto che proprio di fianco al palazzo sofisticato e carissimo in cui lavorava il suo amico c’era un hotel. Come se l’avesse pianificato, entrò alla reception e chiese se avevano qualche stanza libera ‘con letto matrimoniale’ e qual era il costo. «Oui madame» rispose l’impiegato alla reception con un sorriso molto gentile, prima di chiederle il passaporto. Una volta in camera, telefonò al numero che Oriol aveva segnato e gli disse che lo stava aspettando nuda nella stanza 709 e che si prendesse la giornata libera. Oriol, per dissimulare, si limitò a rispondere con nonchalance «Oui, madame, naturellement».

Ci impiegò soltanto mezz’ora ad arrivare. Aveva con sé una scatoletta con quattro pasticcini e un’erezione che prometteva un bel pomeriggio. Non appena la vide disse: «Sei pazza».

E lei gli diede ragione.

Fu il più bel pomeriggio che trascorsero assieme. Era soltanto la seconda volta che stavano insieme, ma l’attesa, il ricordo e il desiderio fecero il resto. Erano passati due anni eterni da quell’incontro nella stanza di Sara.

Sdraiata al contrario sul letto, con la testa che pendeva, i capelli che toccavano la moquette, le caviglie sulle spalle di Oriol e il sangue che le pulsava sulle tempie, Sara invidiava il vigore della sua penetrazione, quel ruolo così potente e attivo che la natura ha riservato agli uomini nel sesso. Le sarebbe piaciuto poter cambiare i suoi attributi sessuali per un po’, solo per sentire cosa si provava durante la penetrazione o l’orgasmo. I francesi parlano di petite mort. Una piccola morte che doveva essere molto diversa dalla sua e che mai – quale misteriosa impotenza – avrebbe potuto provare.

Alla fine, stesi sul letto nel verso giusto, si mangiarono i pasticcini che Oriol aveva portato – due al limone e due al cioccolato – tutti belli sistemati in una scatolina. Quattro. Due ciascuno, accompagnati da una bottiglietta di vino bianco che si erano scordati di mettere nel frigobar e che era piuttosto calda. Poi ripresero. Pensarono che questa volta ci sarebbero andati piano, ma soltanto fin quando, scivoloso, giocherellone, facendo finta di niente, l’indice di Oriol non si trovò tra le natiche di lei iniziando a tastarne le possibilità.

«Un giorno mi farai entrare da qui?» chiese lui.

«Un giorno?» Sara scoppiò a ridere. «Dobbiamo forse chiedere il permesso a qualcuno?»

«E se non ti piace?»

«Se lo fai tu, mi piacerà».

«E se ti faccio male?»

«Allora griderò».

«Non ti fa paura?»

«Sì. Per questo voglio che tu lo faccia».

«Adesso?»

«Ci stai impiegando troppo, Oriol Pairot».

Oriol impazziva per tutto quello che Sara diceva o faceva. Nessuna, nessuna che conoscesse era come lei a letto. La sua capacità di ripresa fisica avrebbe fatto morire d’invidia l’uomo di quarantatré anni che non avrebbe impiegato tanto a diventare, ma Sara ci metteva tanto del suo. Era bravissima. Lo provocava. Lo faceva impazzire.

«Anche a Max dici queste cose?»

«Zitto, stupido. Questo non si chiede».

La seconda parte del pomeriggio andò ancora meglio. C’è un’unica occasione per fare una cosa per la prima volta nella vita, e se la godettero per bene. Dopo un pomeriggio così attivo e multi orgasmico, come si può immaginare in due corpi giovani quanto i loro all’epoca, entrambi avevano bisogno di rinfrescarsi un po’. «Fai la doccia con me?» chiese Oriol con un sorriso provocante, spuntando dalla porta del bagno. E lei, docile, lo seguì. «Mi insaponi la schiena?» le chiese lui. «E adesso davanti?» E poi: «Chiudi gli occhi» e nel buio percepì le mani di lui che la insaponavano così dolcemente che avrebbe potuto continuare per sempre, e magari fosse stato così, perché Oriol si stava ancora una volta perdendo nel suo corpo e iniziava di nuovo a respirare affannato, mentre lei lusingata disse: «Non ne hai ancora avuto abbastanza?» e lui rispose: «Di te, mai». Era molto stanca, ma continuava. «Ma se vuoi che mi fermi, mi fermo» aggiunse lui. «Non fermarti mai» rispose.

Lo voleva, era ovvio che lo voleva, Sara aveva già deciso che a Oriol non avrebbe mai negato nulla. E così tornarono sotto il getto d’acqua della doccia, lei si teneva forte a un porta asciugamani messo nel luogo più opportuno e lui faceva l’equilibrista per non rischiare di scivolare e cadere di schiena. Prima di finire, quando lei si avvinghiò con le gambe e le braccia al cuore palpitante di lui e il naso di Oriol sfiorò l’orecchio di Sara, lui cambiò un po’ il copione per la prima volta. «Quanto mi sei mancata» disse. E lei rispose. «Perché? Sono sempre qui».

Fu l’unico momento di debolezza e fu solo alla seconda volta di tredici. Sara teneva sempre il conto, era la sua specialità. Tredici volte, senza contare la notte del premio che non era ancora arrivata e che aspettava facendo volare la fantasia. Ma tornando a Parigi: mentre lei si asciugava i capelli con il phon del bagno, Oriol le aveva chiesto: «Dove dirai che sei stata oggi pomeriggio a Max?»

«Con te, è ovvio» rispose con una naturalezza tanto logica che terminò per mettere le basi di quel che sarebbe stata la sua vita, quella di tutti e tre, da quel momento in poi.

E non si sbagliò affatto.

Oriol arrivò tardissimo alla 709 dell’Hotel Arts, stanco di parlare con persone che credevano di conoscerlo sebbene non sapessero nulla di lui. Eppure interpretò bene il ruolo, il ruolo dell’uomo che mostra di essere come gli altri vogliono che sia. Stancante. Quando entrò in camera trovò Sara addormentata come una bambina. Ne approfittò per liberarsi dello smoking e delle scarpe, per bersi il bicchiere sul davanzale che lei non aveva toccato, il tutto pensando a cosa dovesse fare: svegliarla o lasciarla dormire? Decise di svegliarla, non voleva che Max si preoccupasse se non rientrava a casa prima dell’alba. Si tolse le mutande – firmate – s’infilò sotto le lenzuola e passò una mano calda e grande sui fianchi di Sara. Lei si voltò, ancora addormentata, aprì le gambe e sorrise. Oriol si avvinghiò al suo corpo minuto e la girò. Ne conosceva ogni angolo, sapeva cosa fare. Fece una lieve pressione col ventre, percepì le natiche di lei sulla sua pelle, le cercò la vagina da dietro e vi entrò con la facilità di chi conosce molto bene la strada.

Sara gemette a lungo, senza aprire gli occhi, come se stesse sognando, come se soffrisse (ma non troppo) e non mosse un muscolo. Il suo corpo era morbido come quello di una bambola di pezza ed era, come sempre, al servizio del desiderio di Oriol, che era anche il suo. Mentre la sua respirazione via via accelerava, Oriol fece sprofondare il naso nella massa dei capelli di lei e disse: «Questa sera non potevo evitare di guardarti. Eri bellissima». Sara sorrise ancora di più, con gli occhi chiusi, contenta di ciò che stava accadendo. Erano ancora in forma, nonostante tutto. Ormai non erano più due giovani ventenni, ma forse a livello sessuale ora avevano da offrire più di quel pomeriggio a Parigi. Ed entrambi sembravano disposti, come sempre, a offrire e prendere tutto. «Ma avrei preferito che fossi di fianco a me» aggiunse Oriol.

Una volta, molto tempo prima, lei gli aveva detto: «Tu su di me, spingendo con tutte le tue forze, in quei tre o quattro secondi giusto prima dell’orgasmo. Per me questa immagine ha a che fare con la parte migliore del mondo. La giovinezza, la felicità, la voglia di vivere. Prometto che la invocherò in punto di morte, per portarmela dietro come il più bel regalo che la vita mi ha fatto». Tanti anni dopo, continuava a vederla così.

Nella stanza 709 dell’Hotel Arts, il sesso fu splendido come sempre. Forse con gli anni avevano imparato a essere un po’ più cauti. Ora non gridavano più come prima e Oriol non si riprendeva prima di qualche ora. Questo sì che era cambiato: adesso erano impensabili le sessioni doppie. Quelle triple ancor di meno.

Oriol versò qualcosa da bere, lei indossò l’accappatoio dell’hotel e si sedettero davanti al mare.

«Sai che ho un biglietto aereo in più?» disse lui. «E di prima classe! Quelli del premio credevano venissi accompagnato e me ne hanno comprati due. Vieni con me?»

Lei lo guardò socchiudendo gli occhi, per vedere se stava scherzando. Non era così.

«Dove vai questa volta?»

«A Tokyo».

«Tokyo è un po’ troppo lontano, Oriol».

«Non hai mai desiderato lasciare Max?»

«Mai!»

«Nemmeno all’inizio?»

«No».

«Nemmeno quando torni da una notte passata insieme a me?»

«Ancora meno».

«Nemmeno quando, dopo aver passato una notte insieme, entri nel letto con lui? Ora mi dirai che con Max stai bene come con me, Sara?»

«Non voglio che parli così di Max. Non se lo merita».

Un silenzio di sedimentazione. Per lasciare che le cose tornino al loro posto, perché ciò che non si sarebbe dovuto dire a voce alta svanisca nell’oblio.

«Dovrai andare via presto, vero?» dice lui.

«Presto? Sono le cinque del mattino passate».

Un ultimo sorso prima della successiva proposta di Oriol: «Facciamo la doccia insieme?»

Mentre lui entrava in bagno e accendeva il getto della doccia, Sara era lì fuori, pietrificata, pensando alle conseguenze delle cose. La stanza 709 dell’Hotel Madeleine, la doccia, le parole sussurrate all’orecchio e non ancora del tutto svanite, i due biglietti di prima classe per Tokyo, il passare degli anni, la sedia vuota di fianco a Oriol quella sera, i suoi due figli, Max che l’aspetta addormentato sulla sua solita poltrona.

Era più tardi che mai quando decise che questa volta Oriol si sarebbe fatto la doccia da solo. Non ebbe il coraggio di salutarlo. Sarebbe stato molto triste, molto ridicolo. Non avrebbe saputo trovare le parole giuste. Si vestì in silenzio, raccolse le sue cose e se ne andò.

Tornò a casa a piedi, ma deviò lungo il molo della Marina, fermandosi solo un po’, per sedersi, guardare il mare e calmarsi. Aveva la testa piena di problemi senza soluzioni. Di dubbi, invece, non ne aveva nessuno perché aveva sempre saputo cosa voleva fare: tornare a casa da suo marito. Altro era se in quel momento, alle sei meno un quarto del mattino di un lunedì d’aprile del 2004, avesse voglia di farlo.

Arrivò a casa che era ormai giorno, con un sacchetto di brioche ancora calde che la responsabile non aveva ancora messo in vetrina. Trovò Max addormentato sulla poltrona, con la luce accesa. Si fece una doccia veloce, preparò due cioccolate calde e lo svegliò nel modo più amorevole possibile per dirgli che in tavola c’era la colazione.

«Com’è andata la serata?» chiese lui.

«Molto bene».

«Ti sei divertita?»

«Molto».

«Sono contento, mamma».

Le successive furono settimane insopportabili. Sara decise che il miglior modo per fronteggiare le sue contraddizioni fosse rinchiudersi in se stessa. Max la disturbava a qualsiasi ora, non lo reggeva, la infastidiva ogni parola che pronunciava, ma era sufficientemente matura da rendersi conto che il peggiore difetto di suo marito era non essere Oriol Pairot. Parlava poco per non ferirlo, per non dire nulla di sconveniente, e nel frattempo aspettava che le passasse tutto quel che sentiva dentro e che la soffocava. Era diventata un mostro. Max dovette usare un’infinita pazienza.

Ci impiegò più di due mesi a smettere di guardare il cellulare a qualsiasi ora. Aspettava qualche notizia da Oriol, qualche preghiera, una qualche cronaca del suo dolore, che doveva di certo assomigliare a quello di lei. Ma non le disse nulla. Soltanto silenzio. Forse era arrabbiato per il modo in cui se n’era andata dalla 709. Forse non stava poi così tanto male. Il silenzio si allungò per nove anni, segno che si era arrabbiato molto e che forse non si ricordava più di lei. Qualsiasi ipotesi era insopportabile. Per quanto il tempo passasse, il dolore per la sua assenza si ravvivava con troppa facilità. Era come il desiderio: sempre vivo, e sempre lì. E tutto questo fino a quella sera della televisione, dopo cena, quando Max aveva alzato lo sguardo dal libro sui rischi del polimorfismo e le aveva detto, come fosse la cosa più normale del mondo: «Caspita, mamma, per poco non me ne dimentico! Sai chi mi ha telefonato oggi? Se te lo dico non ci credi. Pairot. Dice che è a Barcellona e che dopodomani sera è libero. Gli ho detto di venire a cena. Non hai voglia di vederlo? È da un sacco adesso che non ci vediamo».

 

 

Sara sta per andarsene dal suo osservatorio clandestino, quando si rimette a sedere. E avviene proprio nel momento in cui Max dice: «Tra l’altro, Oriol. C’è una cosa che mi piacerebbe sapessi, ora che ti vedo così tanto innamorato di Hina e che finalmente hai fatto qualcosa di utile in vita tua».

Un preambolo del genere non può che assicurare l’attenzione del pubblico. Nessuno oserebbe andarsene prima di sapere cos’ha da dire Max. Oriol aspetta, impaziente, che l’amico parli. Sara, dietro le piante, presta tutta la sua attenzione.

«Non vorrei affatto che suonasse teatrale. Sai che non sono uno a cui piace fare o ascoltare discorsi enfatici. Comunque, ora non cerco di fare il misterioso. Ciò che voglio dirti è che sono al corrente che tu e Sara per anni avete avuto degli incontri sessuali, l’ultimo dei quali, se non vado errato, si è consumato all’Hotel Arts quella notte del premio. Aspetta, non dire niente, non ho ancora finito. Ti prego, bevi ancora un po’ di vino. Non voglio che pensi che mi aspetti delle scuse, o che adesso tirerò fuori un’arma o quelle cose che fanno i mariti nei film. Io sono un uomo in carne e ossa, Oriol, e in certe occasioni sono stato fortunato che tu abbia dato a Sara ciò di cui io non sapevo avesse bisogno. Le cose sono complicate, e il trascorrere del tempo non le rende più facili. Non so se succede anche a te, ma con gli anni mi rendo conto che divento strano, come se i miei elementi interni si adulterassero, non so se mi spiego. Tu sei un tipo carismatico, ricco, famoso, bello. Sei anche un filo insopportabile, ma credo che le tue virtù compensino i tuoi difetti, quantomeno agli occhi delle donne. Ma sai, in questi nove anni in cui non ti abbiamo visto, mi sono abituato ad avere Sara, una donna splendida, tutta per me. Non è che sia così limitato da credere che si possano possedere le persone. È ovvio che non è così: evidentemente Sara non è né mia, né tua, né di nessuno; soltanto che negli ultimi tempi ho potuto sperimentare un’emozione inedita pensando che voleva stare qui con me, perché nella vita arriva un momento in cui è più importante quello che hai fatto di quello che puoi ancora fare. È per questo che volevo dirti queste cose, e già che ci siamo, farti una domanda, Oriol, se non ti dispiace. Vorrei tanto sapere, nel caso tu riesca a prevederlo, se la faccenda del tuo matrimonio potrebbe rappresentare una speranza concreta di avere mia moglie soltanto per me».

Oriol resta in silenzio. Non gli escono le parole e gli tremano le mani.

«Non mi dici niente, Oriol? Forse non sei ancora in grado di dirmelo?»

«Cazzo».

«Vedo che sei provato da quel che ti ho appena detto, ma ti spiacerebbe essere un po’ meno laconico nella risposta, amico mio?»

«Credo che in questo momento non posso essere niente di niente. Cazzo, Max, ma cosa mi hai appena detto? Allora... allora hai sempre saputo tutto?»

«Be’, insomma, tutto proprio tutto... se devo essere sincero non è che avessi voglia di sapere proprio tutto. Ci sono cose che è meglio non sapere, non credi? A volte essere troppo informati può fare male. Inoltre, forse sapere non è la parola giusta. A volte ne avevo il sospetto a priori, quando lei si inventava scuse per restare da sola con te, e dire che io non chiedevo mai spiegazioni, ma lei me le dava lo stesso, e la cosa mi faceva sospettare. A volte i sospetti mi venivano a posteriori, quando tornava con quell’aria colpevole che la rendeva tanto bella e diventava un po’ sfuggente, fingendo di essere molto occupata. A volte erano piccolezze, me ne accorgevo perché sono sempre stato un buon osservatore e perché mi è sempre piaciuto guardarla. Per esempio, se a letto inseriva qualche novità, sapevo che non l’aveva inventata per me. O se si comprava della biancheria intima, proprio un giorno prima del tuo arrivo, avevo la certezza che non era per me. Non posso farti tutti gli esempi perché ce ne sono moltissimi e non hanno alcuna importanza. La maggior parte li ho dimenticati da tempo. Ma credo di averti già fatto capire di cosa sto parlando, no? Coraggio, dai, non fare quella faccia. Credi davvero che sia necessaria?»

«Mi hai lasciato di stucco, Max. Sono molto imbarazzato. Non so cosa dire».

«Ma non devi dirmi niente. E non vedo perché adesso ti dovresti sentire in imbarazzo. Per me non è cambiato nulla. Non mi aspetto niente di straordinario, a parte potere parlare come due uomini che si vogliono bene e si rispettano reciprocamente. Dai! Sono ventitré anni che siamo amici. Se ho qualcosa ben chiara in mente è che in un certo modo mi rispetti. È molto più di quanto mi sarei potuto aspettare da questa situazione. E se l’analizzo a freddo, mi rendo conto che non avevo nessuna vera possibilità di competere con te per lei. Forse non ricordi? Il primo giorno io ero già innamorato e lei non aveva occhi che per te. Il mio era un caso perso in partenza! Ero un terribilmente timido, non riuscivo nemmeno a non arrossire quando mi rivolgeva la parola! Che disastro. Se non fosse stato per te, Sara non si sarebbe nemmeno accorta di me».

«Per me? Ma cosa stai dicendo? Ma se avete iniziato a uscire insieme quando ero in Francia».

«Perché io ero l’unico modo che aveva per continuare ad averti accanto. È ovvio che mi diedi una svegliata, ci mancherebbe. Trovai il coraggio di farle delle proposte (che rifiutava sempre), di rubarle qualche bacio (si arrabbiava così tanto che a volte pensavo mi avrebbe picchiato) e penso che arrivai anche a sorprenderla a letto la prima volta. Non credere, i miei sforzi mi sono costati parecchio. Ma non ottenni nulla fin quando non la invitai alla discussione della mia tesi. La faccenda dei polimorfi fu un vero e proprio successo imprevisto! Le piacque molto di più il mio aspetto intellettuale di qualsiasi altra cosa. Le donne impazziscono con gli uomini belli e sfacciati come te, ma poi finiscono per restare con i noiosi e normali come me. E sai perché? Perché a un certo punto scoprono che nella vita si passa molto più tempo fuori che non dentro al letto. È ovvio che Sara ha fatto di meglio. Ci ha scelti entrambi, ognuno con la propria specialità. Lo sai, è sempre stata molto intelligente. Molte altre donne dovrebbero prendere esempio da lei».

«Non dire così, Max: ha scelto di restare con te, con tutte le conseguenze. Quando me ne resi conto, ti maledissi con tutte le mie forze».

«Davvero? Credo che le farebbe piacere saperlo, perché penso che lei immagini di non aver rappresentato niente per te. Intendo, niente più di una donna facile con cui andare a letto ogni volta che passi dal casello d’uscita (parlo con le parole che userebbe lei, non prendertela a male. Per me Sara è stata tutto fuorché facile)».

«Be’ se la vede così si sbaglia proprio».

«Immaginavo, Oriol, ma non potevo dirglielo, ovviamente. Intendo dire che sospettavo che anche tu a un certo punto ti fossi innamorato. Del resto faccio fatica a pensare che non se ne innamorino tutti gli uomini, non ne conosco una come lei. A modo tuo, è ovvio, o forse costretto a far finta di niente per via delle circostanze, ma sapevo che ne eri innamorato. A volte avrei voluto dirglielo per vederla più felice, ma non potevo. Non potevo, così all’improvviso, alzare gli occhi dai libri e dire: ‘Coraggio, non soffrire, anche Oriol ti ama e ora probabilmente starà male quanto te, sentirà la tua mancanza ogni millesimo di secondo, starà ricordando ogni minimo dettaglio del vostro ultimo incontro e contando i giorni che mancano per rivederti!’ Forse se lei avesse saputo... Oh, Oriol, se lei avesse saputo. Penso che le cose mi sarebbero andate in un altro modo. Anzi, sai una cosa? Rettifico. Non le avrei mai detto nulla. Se Sara mi avesse lasciato per te, non so cosa avrei fatto. In fondo ho sempre tollerato tutto questo perché sono sempre stato sicuro che non mi avrebbe mai lasciato. O quasi sempre».

«Io non credo che lei...»

«Guarda, alla fine dei conti, non ha tanta importanza. Non sono state poi nemmeno così tante volte, no? Quante volte, esattamente, siete stati insieme? Le hai contate?»

«In realtà no».

«Oh! Io credo che Sara lo abbia fatto. È un peccato che non glielo possa chiedere. E anch’io. Penso siano state quattordici, contando l’ultima. Forse ne ho dimenticata qualcuna, anche se no, non credo. Quattordici. Ne sono sicuro. Se potessi chiederlo a mia moglie lo confermerebbe e ti lascerebbe a bocca aperta. Ma, ovviamente, mi auguro che tu non le dica nulla di questa conversazione».

«No. È ovvio. Sei tu che credo...»

«No, no, io non ho intenzione di dirle niente».

«Davvero?»

«Mi rendo conto che ti sembrerà strano; forse è un po’ strano. Ma non voglio rischiare che qualcosa cambi. Una cosa del genere surriscalderebbe troppo la situazione. E le reazioni di un improvviso aumento della temperatura sono imprevedibili. Dovresti sapere qual è l’arco di temperature perfette perché il burro di cacao dia luogo alla migliore cioccolata possibile, no? 45, 27, 32. Be’ forse potremmo essere più precisi, ma le cose stanno così. Temperature più alte o più basse di queste, anche se si trattasse di un solo grado Celsius, non possono che causare disastri. La cioccolata, come le persone, è una microstruttura estremamente complessa, per questo è meglio non toccare nulla, fare le cose per bene. Adesso capisci? Io non voglio affatto che la mia relazione con Sara cambi. La voglio così com’è, affascinante, perfezionista, arrogante, contraddittoria, a volte decisamente sgradevole, sempre attenta con me, sempre disponibile con la famiglia, ma con quella puntina di distanza di chi sa che ci avrebbe potuti abbandonare da tempo, ma che ci ha fatto un favore ed è rimasta. Non ne voglio nessun’altra. Non voglio una Sara imbarazzata, colpevole, in preda alla tristezza. Una donna del genere non sarebbe la nostra Sara, non trovi? La mia Sara».

A Oriol gira la testa quando suona il campanello. Max si alza tranquillo, sistemandosi la camicia e dice: «Guarda, è già qui! Inizia ad aprire l’assenzio che dobbiamo festeggiare! Dai, Oriol, mi fai il favore di cambiare espressione? Penserà che sia morto qualcuno!»

Oriol sbuffa, prende aria, come i nuotatori quando stanno per tuffarsi nella piscina olimpionica. Fa qualche passo per vedere i profili attenti delle torri di Santa Maria del Mar, ora al buio. A quel punto si accorge che la siepe del vicino è bucherellata e che dal buco più grande è possibile vedere la terrazza di fianco. Si affaccia e spia dall’altra parte. Lo imbarazza molto pensare che qualcuno possa aver sentito la loro conversazione. Ma no, dall’altra parte non ci sono che buio e una sedia vuota. La finestra ha la persiana su, ma nell’appartamento di fianco sembra non esserci nessuno.

«E si è rotta tanto? Si potrà incollare?» sente la voce di Sara che si avvicina dalla sala, mette le mani in tasca e cerca di sembrare ancora un uomo attraente.

«Ma certo» dice Max. «Lo farò io».

Quando esce in terrazza, tutta vestita di nero, con i capelli raccolti, la trova più bella che mai. Pensa che potrebbe disegnare centimetro per centimetro la cartografia del suo corpo, che continua a desiderare. Lei si avvicina con gli occhi lucidi per l’emozione, gli prende le mani, gli sembra che per un attimo gli guardi il pomo d’Adamo. Il suo profumo l’avvolge con l’intensità dei ricordi resuscitati.

«Oriol! Ma sei vivo! Che gioia rivederti!» dice avvicinandosi.

Si scambiano due baci sulle guance. Nei secondi che seguono, nessuno dei due riesce a evitare che il profumo dell’altro lo avvolga e faccia accelerare i battiti del cuore.

Sara dice: «Mi avete lasciato qualche tartufo? Ho bisogno di cioccolata!»

Max sorride. Ha in mano la bottiglia d’assenzio e almeno tre buone ragioni per brindare.