DON PASQUALE

Le cose vennero fatte come stabilito dalla signora Hortènsia. L’uniforme di cotone, i capelli ben raccolti, le scarpe lustrate e il volto bello pulito. Sei arrivata in anticipo e hai aspettato che le campane di Santa Maria del Pi suonassero le nove. Stava ancora rintoccando l’ultima campana quando il dottor Volpi ha aperto la porta. Ti ha guardato socchiudendo gli occhi, con la fronte corrugata e gli occhiali sulla punta del naso. Indossava una vestaglia di seta tutta macchiata e i capelli spettinati gli formavano un’aureola grigiastra intorno al capo.

«Buongiorno, dottore» hai salutato facendo una riverenza molto simpatica. «Sono Aurora, mi manda la signora Hortènsia, la vedova del signor...»

«Passi, passi signorina, la stavo aspettando. La mia amica Hortènsia mi aveva detto che sarebbe venuta mercoledì alle nove. Ah! Caspita, siamo già a mercoledì e sono le nove? Certo che i giorni volano via come le rondini in autunno. Si accomodi, qui o là, dove riesce. Io arrivo subito, lasci solo che mi pettini un attimo. Siccome non pensavo di ricevere nessuno... passi, passi, signorina».

Dall’ingresso hai dato un’occhiata alla saletta. Tanto per cominciare non era una saletta. Era piena di mensole cariche di libri fino al soffitto. In centro c’erano un tappeto, qualche sedia, una poltrona, una piantana... il tutto messo a casaccio e senza ordine apparente, come se dei traslocatori avessero appena mollato tutto lì. Quel disordine ti ha fatto passare la voglia di entrare. Sulle sedie erano ammonticchiati libri e fogli e in mezzo al tappeto – lurido – c’era una pila di giornali; le tende si trascinavano a terra perché avevano l’orlo disfatto, c’erano dei cuscini sventrati e sul tavolo rotondo sei cappelli, pieni di polvere! ‘Che disastro!’ hai pensato non appena visto il tutto. ‘Qui, per pulire, c’è bisogno di settimane di lavoro’. Fortunatamente l’appartamento non sembrava molto grande. ‘È ovvio che se la sala è così, chissà in che stato sarà la cucina!’ Ti sei agitata senza fare un solo passo, lì in mezzo all’ingresso, con i piedi ben vicini e il cappotto ancora abbottonato.

«Passi, passi, signorina» ti ha detto il dottore, che si era cambiato la vestaglia (questa era senza macchie) e si era pettinato i capelli all’indietro. «Mi deve scusare! Si vede, vero, che non ricevo molte visite? Accidenti, non c’è nemmeno un posto per sedersi! Mi permetta, mi permetta di fare spazio. Basta spostare questo da un’altra parte». Ha preso una pila intera di scartoffie da sopra la poltrona e ha fatto un paio di giri nella stanza. Siccome non sapeva come fare, alla fine ha buttato tutto nel caminetto, che era acceso. Un’ondata di cenere ha iniziato a volteggiare nella stanza. «Perfetto, ecco fatto. Ora non ci ingombrerà più».

Ti sei seduta di fronte al dottore, facendo un immenso sforzo per nascondere l’imbarazzo provocato dalla situazione.

«Di certo la signora Hortènsia deve averle parlato molto bene di me» ha detto lui, sedendosi. Lo stavi scrutando, convinta che non se ne accorgesse. Prima gli hai osservato le mani. Bianche, con la pelle sottile, le unghie in ordine, attraversate da vene blu. Mani da signore, dirai più avanti. «E dunque, signorina Aurora, la sua signora le ha mentito! Sono un disastro. Quando tre mesi fa se n’è andata la mia governante, pensavo che ce l’avrei fatta da solo. Sì, lo so che non è normale, ma io sono un eremita, sa? Un uomo solo, che ha bisogno di poco e che passa il giorno a leggere. Sono abituato a mangiare fuori, mi faccio lavare le cose dai monaci di Montsió e per passarmi lo scaldaletto nelle lenzuola non c’è bisogno che disturbi nessuno. E guardi che me lo diceva, Hortènsia, ma io, testardo, non volevo darle ragione. La testardaggine è un altro dei miei grandi difetti. Sono un testone e un pretenzioso, che ci possiamo fare? Non ce la faccio a vivere da solo. E ora, poverina, se lei accetta il lavoro, avrà davvero molto da fare. E tutto per colpa mia...»

Il dottor Volpi era un uomo alto e magro, con un’aria distinta che nemmeno la vestaglia più malridotta del mondo avrebbe potuto nascondere. Aveva cinquantasei anni, la sua pelle iniziava a sembrare trasparente e i capelli stavano incanutendo, ma conservava il corpo magro e slanciato che aveva sempre avuto. Un corpo che lo rendeva molto più attraente ora che si avvicinava all’inverno della sua vita rispetto a quanto fosse mai stato nelle sue primavere o estati.

«Non ha nessuna domanda da fare?» chiese.

Ne avevi parecchie. Le hai messe in ordine di importanza, dalla più grande alla più piccola.

«Mi piacerebbe sapere come mai la vecchia governante è andata via» hai iniziato a dire.

«Ha ragione, Aurora, avrei dovuto spiegarglielo. La povera Joana era qui da quarantasette anni. Ne aveva ottantotto e non stava quasi più in piedi. Si figuri che a volte la dovevo aiutare ad allacciarsi le scarpe. Ultimamente era molto cagionevole di salute. Un giorno le ho detto: ‘Signora Joana, che ne pensa di andare a vivere con qualche parente che la possa aiutare?’ Gliel’ho dovuto ripetere diverse volte, perché era un po’ sorda. Ma alla fine mi ha capito e mi ha chiesto: ‘Lei dice, dottore? E lei come farà senza nessuno che l’aiuti?’ Poverina, non si rendeva conto che ultimamente era lei a sembrare la signora e io il maggiordomo. Questa casa era come un’operetta di Donizetti. Conosce Donizetti, signorina Aurora?»

«No, signore».

«Non importa. A queste cose c’è rimedio. Del resto lei sembra molto giovane. Ha l’aria di sapersi allacciare le scarpe da sola».

Sei scoppiata a ridere. Non volevi, ma non sei riuscita a resistere. ‘Aurora, contegno!’ ti sei sgridata.

«Sì, signore. Me le allaccio sola soletta. E ho venticinque anni».

«Ma è fantastico, signorina. Non sa che sollievo saperlo. E rida tranquilla. Ridere migliora la digestione e allunga la vita, non lo sapeva? Siamo venuti al mondo per ridere! E infatti lo dicono: cessa alfin di sospirar,9 una verità così universale che la si usa anche per chiudere le opere, pensi un po’. Venga, venga, le mostrerò la sua stanza, queste sono cose importanti da vedere prima di prendere un qualsiasi impegno, venga, venga di qui, come vede l’appartamento non è niente di speciale. Mi ci sono trasferito quand’è morta mia moglie. Un uomo solo non ha bisogno di una grande casa, sa? Le case grandi sono state inventate perché le signore non si mettano a litigare. Con il marito o con altre signore. Non ha fatto caso che negli ambienti piccoli litigano molto di più? Per questo più stanze ci sono, meglio è, l’importante è non doversi mai incrociare. Non si crucci, è un male tanto diffuso quanto privo di conseguenze, sa, Così fan tutte». Poi ha fatto una pausa e ti ha guardata: «Capisce, signorina?»

«Nemmeno mezza parola, dottore».

«Così fan tutte, Mozart. Non la conosce? È un’opera buffa come Le nozze di Figaro. Buffa significa che fa ridere, ma senza perdere l’eleganza, eh! Con questo Mozart si ride sempre con eleganza. Guardi, ecco la stanza. Cosa ne pensa?»

Tutta questa conversazione aveva luogo in un corridoio stretto e buio che ogni tanto, improvvisamente, andava a incappare in un angolo retto, come se l’architetto avesse voluto che i suoi clienti giocassero a nascondino in eterno. La camera era vicina alla cucina, ma rivolta al cortile interno ed entrava un po’ della luce del giorno. Inoltre era molto più grande di tutte le stanze che avevi avuto in passato. C’erano un armadio, un tavolino e una sedia, ma restava comunque spazio per passare e aprire la finestra. L’unica pecca era la luce. Siccome non avevi mai dormito in una stanza illuminata, avevi paura di non riuscirci. Ma comunque sia non hai avuto bisogno di pensarci su: «La stanza va molto bene».

«Bisognerà comprare delle lenzuola. Poi mi dice quanto fa e le lascio i soldi» ha detto il dottor Volpi.

«Se è d’accordo posso confezionarmele io stessa e così risparmia».

«Davvero? Mi sembra fantastico! Sì, sì, fantastico! Allora... siamo d’accordo, signorina?»

«Cosa c’è, laggiù?» e indicavi un altro angolo del corridoio.

«Ah, è vero. Venga, venga, qui c’è un’altra sala da pranzo che non uso mai, per me è sufficiente quella davanti ed è più calda». Il dottore ti ha indicato una piccola stanza da pranzo che si affacciava anche lei al cortiletto interno, dove c’erano altre pile di scartoffie, quattro sedie e due quadri di quelli così scuri che non si capisce cosa rappresentino.

«E quella laggiù deve essere la sua camera da letto» hai aggiunto.

«Sì, sì, è la mia camera, vuole vederla?»

«No, no. Non è necessario. Forse dovrebbe parlarmi dello stipendio».

«Ha ragione! Lo stipendio! Molto importante, signorina, ha ragione. Mi dica lei quanto vuole».

«La signora Hortènsia mi dava sei reali da otto alla settimana».

«Allora siamo d’accordo. Per me la signora Hortènsia è un esempio».

«Anche se ne preferirei sette o otto. Ora è tutto più caro e a volte non è sufficiente nemmeno per comprarmi un fazzoletto».

«Mi piace, lei mi piace. Non ha ancora iniziato e vuole già un aumento. Va bene. Sette o otto? Lei cosa preferisce?»

«Se potessero essere otto...»

«Questa è la risposta più sensata. Allora non parliamone più! Facciamo otto! Qualcos’altro?»

«Lì avevo anche un pomeriggio libero. Il giovedì».

«Come vuole lei».

«E mi piacerebbe poterle chiedere il permesso di andare a messa la domenica mattina».

«Ma certo, vada a messa, ci mancherebbe!»

«Ah, ancora una cosa».

«Sentiamo».

Hai fatto una pausa un po’ timorosa, non eri certa dell’effetto che le tue parole avrebbero sortito. Tuttavia, hai continuato.

«Dottore, io... non ho nessuno al mondo. Nessuno che mi possa difendere, intendo. Sono venuta perché la signora Hortènsia me l’ha chiesto e perché mi ha detto che lei è un cavaliere, un uomo d’altri tempi».

«Così le ha detto? Perbacco, perbacco... che credenziali!»

«Se le cose non stessero così, io non sarei qui. Non intendo offenderla, ma lei è un uomo che vive solo e io sono una povera ragazza che non...»

«Non mi offende assolutamente! Se lei crede che noi uomini siamo tutti una brutta razza, non posso che darle ragione! Fa molto bene a non fidarsi! E la verità è che non saprei come rassicurarla: i lupi possono travestirsi da agnelli. Forse si sentirebbe più tranquilla se mettessimo un lucchetto alla porta della sua stanza? Crede che potrebbe essere sufficiente?»

«Penso di sì».

«Allora d’accordo! Che altro?»

«Nient’altro, mi dica solo quando vuole che inizi».

«Potrebbe essere subito?»

«Andrò a prendere le mie cose e sarò di ritorno domani all’ora di pranzo. Sempre che sia d’accordo, ovvio».

«Signorina, lo trovo meraviglioso! Non posso che dire di sì a tutto!»

 

 

Non sei mai stata una di quelle persone che entrano facilmente in confusione. Se le cose erano un po’ più difficili di quanto sembrassero, allora ci mettevi più pazienza. La pulizia della casa, per esempio, non era necessariamente da fare in un giorno solo, non ti costringeva nessuno. Per prima cosa ti sei occupata di ciò che aveva la priorità: gli orli delle tende, che messe così davano proprio un’aria trasandata. In quanto alle scartoffie hai pensato che ti saresti fatta aiutare dal dottore, ma siccome non lo volevi disturbare hai fatto dei mucchietti ordinati e li hai messi in un cassetto. Così hai potuto togliere il tappeto, che era sporco come uno straccio e non poteva aspettare un solo giorno in più. Hai trovato un posto anche per i cappelli, su una mensola nell’ingresso. E per evitare che si sporcassero a diretto contatto con il legno, hai preparato con le tue mani un tappetino in cotone che finiva in un merletto ed era molto carino. Quando lo vide, il dottore fece un sorriso compiaciuto e disse: «Come si vede che in questa casa è tornata a viverci una donna!»

Il dottore non era affatto taccagno quanto alle spese, e non s’impicciava di ciò che c’era da comprare. Ti lasciava decidere liberamente, come quando gli dicesti che avevi bisogno di tre pesetas per tappezzare le sedie della sala e farti delle lenzuola e te le diede senza batter ciglio e senza mai chiedere una ricevuta. Quell’uomo si fidava troppo, chiunque l’avrebbe potuto raggirare. Non ci sarebbe da stupirsi se la vecchia governante si fosse riempita per bene le tasche, prima di andar via. Tu non lo faresti mai, ma tu sei fatta in modo diverso.

Al dottore andava tutto bene, fin dal primo giorno, e tu non sapevi cosa pensare. Quel disastro era un dottore? Un dottore di che tipo? Di polvere e bonarietà? Non riuscivi a capire perché sembrasse sempre così contento, né perché ti desse del lei e nemmeno perché ti chiamasse signorina. Non avevi mai conosciuto nessuno come lui. Ti sorprendeva sempre, ti sconcertava e ti lasciava senza parole. Quando credevi stesse per dire una cosa, ecco che diceva l’opposto. Faceva cose stravaganti, come per esempio entrare in cucina di continuo per chiedere cosa fosse quell’odore così buono oppure chiamarti come un pazzo, tanto da farti pensare che la casa stesse andando a fuoco, solo per chiederti che giorno fosse. A volte passava dodici ore a leggere in biblioteca, senza mai uscire. Altre chiedeva una macchina alle nove del mattino e non rientrava fino a mezzanotte. Non riceveva visite a casa, ma di tanto in tanto qualcuno gli chiedeva aiuto e allora faceva portare il malato in biblioteca e lo faceva stendere in mezzo al tappeto. Non alzava mai la voce e non ti sgridava mai. Non l’avevi ancora visto arrabbiato. Non c’era nulla che gli facesse cambiare umore: né le faccende politiche, né il freddo dell’inverno né il caldo dell’estate. Era un uomo tranquillo, pacifico, diverso, e accanto a lui la vita filava liscia come l’olio. A te, ovviamente, tutto questo piaceva. In realtà, forse, ti sembrava che le cose andassero troppo bene. Come se quella perfezione non fosse possibile e dovesse nascondere un qualche mistero.

«Abbiamo una sola vita, Aurora! Ti sembra il caso di rovinarcela con cose sgradevoli come la politica? Che se ne vadano al diavolo i Borboni, i Carlisti, i Repubblicani, i Federalisti e quella disgrazia di re italiano che è venuto qui a fare il manichino! A me non importa niente! Non intendo sprecare le mie parole in questo!»

Il dottore era appena arrivato, si era tolto il cappello e l’aveva lasciato sul tavolo, che era troppo pulito e sgombro. Stava guardando la posta – che tu gli avevi lasciato nel cestino d’argento – con una curiosità calma, mentre nel frattempo si toglieva i guanti. Gli avevi preparato una prelibatezza che portavi sul vassoio, nascosta sotto un tovagliolo.

«Mmm... cos’è quest’odore così buono?» aveva chiesto lui, distratto, al sentire il profumo.

«Ma allora, dottore» avevi risposto tu, «se non vuole parlare di politica, di cosa parla negli incontri settimanali con i suoi amici?»

«Ah! In quegli incontri parliamo solo di cose sensate. Quelle che rendono il mondo un luogo gradevole in cui vivere!» Lo guardavi con gli occhi sbarrati, come se così fosse più facile capirci qualcosa. Lui ti spiegava: «Opera. Teatro. Poesia. Pittura. Architettura...» poi, abbassando un po’ la voce, aggiungeva: «E di signore!»

«E di tutto questo c’è tanto da dire?» chiedevi, perché quanto più cercava di rendertelo chiaro, tanto più si complicava. Come potevano passare un intero pomeriggio a parlare di quegli argomenti? Cosa si dicevano?

Ti muovevi come un insetto silenzioso e agile. Hai preso il cappello e lo hai messo sulla mensola dell’ingresso, sul tappetino di cotone, ben in fila accanto agli altri. L’hai aiutato a togliersi il mantello, l’hai piegato con cura e l’hai appoggiato sul canapè. Poi ti sei inginocchiata per aiutarlo a sfilarsi gli stivaletti.

«Si stupirebbe, Aurora, delle discussioni tanto accese che abbiamo io e i miei amici! Sono certo che gli isabelliani e i sostenitori dell’arciduca Carlo parlavano con meno veemenza quando entrambi ambivano al trono di Spagna. Ma anche noi abbiamo dichiarato una guerra! E di quelle terribili, Aurora! Masinisti contro Gayarristi!»

Avevi l’espressione di chi sta pensando: ‘Lo dicevo io che l’opera non poteva essere l’unico argomento’ e ti spaventavi un po’, perché non ne sapevi nulla delle guerre, sapevi solo che non ti piacevano perché erano una brutta cosa.

«Le spiegherò tutto» diceva il dottore. «Ma una cosa così grande non può essere risolta in due parole, con le mani vuote e la gola secca. Le spiace se la condisco con quello che mi ha appena portato e che ha un odorino così buono che sembra l’abbia preparato un angelo?» Non hai detto niente, concentrata com’eri sulle scarpe. Ti sei limitata a sorridere, timida, mentre lui continuava a parlare da solo. «Cosa può essere? Succo di nuvole del paradiso? Essenza d’ala di un cherubino guercio?»

Ti scappava da ridere in sordina quando diceva quelle stupidaggini. Sembrava soddisfatto di te.

Dopo le scarpe sei uscita un attimo, misteriosa, per poi tornare con la sua vestaglia di seta – ora pulita, senza più aloni e con gli orli ricuciti – e le pantofole. L’hai aiutato a infilarle e a coprirsi. Poi gli hai avvicinato la cintura, perché non dovesse stare lì a cercarla. Tuttavia lui la stava già cercando e per un secondo le vostre mani si sono sfiorate. Le sue erano morbide, o almeno così ti sono sembrate. Lui ha notato che le tue erano fredde come due ghiaccioli. Ti sei spaventata. Le hai subito infilate in tasca e hai socchiuso le dita, per l’agitazione. Poi sei arrossita e la cosa ti ha davvero imbarazzata. Cosa ti stava succedendo, Aurora? Aveva forse un nome quel che provavi? E avresti avuto il coraggio di dirlo a voce alta, anche solo a te stessa? No, ovviamente no! Ci sono emozioni difficili da nominare. Emozioni che tu non potevi permetterti!

Il dottore si è seduto sulla poltrona e ti ha guardato in quel modo in cui ti guardava sempre, da quando avevi iniziato a lavorare per lui. Uno sguardo che, non sapevi come mai, ti ricordava la tenerezza con cui il signor Estanislau guardava la piccola Càndida.

«Ha immaginato anche oggi che sarei arrivato tardi?»

Per risposta, un sorriso.

«A lei non pare di trattarmi troppo bene?»

«No, signore. Io credo che se lo meriti eccome» e hai abbassato lo sguardo.

Ti piaceva accoglierlo sempre con qualche prelibatezza e non ti spiaceva affatto aspettarlo fino a tardi. Eri più serena se non se ne andava a letto con la pancia vuota perché non aveva mangiato niente chissà da quando. Il pomeriggio, siccome ti annoiavi, trafficavi un po’ in cucina. Così, nel caso in cui il dottore fosse tornato a casa stanco dal tanto parlare e con la voglia di rimettersi in forza. E siccome era goloso ed esigente, una delle cose che preferiva era la cioccolata calda di Sampons. Gliela preparavi con un pizzico di cannella, un cucchiaio bello pieno di zucchero bianco e poca acqua, per renderla ben spessa. Poi gliela servivi in un’apposita tazza con dei pezzettini di pane dolce e una goccia di acqua bella fresca, perché dopo la cioccolata la sete non aspetta.

«Questa sì che è una cioccolata barcellonese ben servita!» ha detto il dottore dopo che hai tolto il tovagliolo, come un prestigiatore.

«Sì, ma oggi è diverso» hai aggiunto orgogliosa.

«Diverso perché?»

«L’assaggi e mi dica cosa ne pensa!»

Il dottore la lasciava raffreddare come sempre e nel frattempo cercava di farti capire la faccenda della guerra dell’opera. Pare che ci fossero due cantanti – lui li chiamava tenori, ma a te all’epoca quella parola non diceva ancora niente – e che entrambi volessero cantare più forte, più alto, più a lungo, più spesso e per più soldi dell’altro. Uno si chiamava Julián Gayarre ed era spagnolo. L’altro si chiamava Angelo Masini ed era italiano. Non cantavano mai insieme perché entrambi ritenevano che la propria voce fosse troppo splendida per poter competere con quella dell’altro, ma soprattutto perché avrebbero mandato in rovina qualsiasi impresario avesse voluto ingaggiarli. A Barcellona, che amava andare sempre un po’ controcorrente, piaceva di più Gayarre, ma pian pianino i masinisti della resistenza – come il dottore – avevano preso piede e presto avrebbero ottenuto che il loro tenore facesse la stagione al Liceu, lasciando tutti a bocca aperta. Questa faccenda del masinismo, diceva, era un po’ come il catalanismo: siccome era una cosa giusta, e la cosa era evidente, prima o tardi si sarebbe trovato qualcuno di sensato che l’avrebbe riconosciuto, l’importante era non perdere la speranza. E con ancora la voce carica di quell’entusiasmo bellico-masiniano ha aggiunto: «Aurora, per assaggiare questa cioccolata abbiamo bisogno di un altro cucchiaino!»

«Come dice, dottore?» hai risposto.

«Un altro cucchiaino, Aurora. Non proverò niente se lei non mangia».

«No, no, signore, la cioccolata è per lei. Ci mancherebbe! E dove mai si è visto?»

«Non ha forse detto che è una ricetta nuova? Allora inventiamo un nuovo modo di gustarla. Come due vecchi amici dopo un’intensa chiacchierata. Forza, prenda anche una tazza per lei».

«No, signore, non starebbe bene. Ma le farò compagnia».

«No, no e poi no, Aurora! Quanto a testardaggine non mi vincerà certo» e teneva le braccia conserte, come un bambino arrabbiato. «Sono testone come un mulo. Non intendo assaggiarla da solo. Andrò io stesso a prendere un’altra tazza...» e si stava già alzando.

«Oh, che diavolo d’uomo, stia fermo lì, dottore». L’hai detto in modo tanto autoritario che ti sei sorpresa da sola. «Si rende conto che lei non deve andare a prendere niente a me? Alla fine si ritroverà ad allacciarmi le scarpe come all’altra governante. Lasci perdere, lasci perdere. Io devo fare sempre tutto a modo mio».

«Davvero?10» e ha aggrottato la fronte mentre tu ti alzavi e andavi in cucina.

Ci sarebbe andato, ne eri certa. Il dottore a volte perdeva la tramontana e gli venivano in mente quelle stupidaggini. Non si sarebbe fatto problemi ad andare in cucina. Gli piaceva scoperchiare pentole e annusarne il contenuto, come un bambino dispettoso. Quando cercava qualcosa non la trovava mai e lasciava sempre tutto in disordine. Era meglio tenerlo sempre sotto controllo.

Sei tornata dalla cucina con l’occorrente. La tazzina più piccola che sei riuscita a trovare e il cucchiaino più minuto. Il signore era seduto sulla poltrona, con le gambe elegantemente incrociate, facendo dondolare leggermente un piede in aria, al ritmo di una romanza che canticchiava a bassa voce:

 

Com’è gentil

la notte a mezzo april!

È azzurro il ciel,

la luna è senza vel:

tutt’è languor,

pace, mistero, amor!11

 

«Ci si sta restringendo il servizio, Aurora?» chiese nel vederti arrivare con quegli oggetti in miniatura. Un’altra risata che non sei riuscita a evitare. «E perché non si siede? È così che lei mangia insieme a un amico? Ma che angoscia!»

Non sapevi nemmeno come sistemarti. Di fianco, con una gamba in avanti, sul bordo della sedia o più in dentro... ti imbarazzava molto che il signore ti vedesse mangiare. Non avevi mai mangiato davanti a qualcuno come lui, di fatto non avevi mai mangiato fuori dalla cucina e ti sembrava così strano, ti sentivi così diversa, goffa, fuori luogo... ma ti sforzavi perché per niente al mondo l’avresti voluto offendere. Riempivi così poco il cucchiaino che a fatica sentivi il gusto della cioccolata e aprivi la bocca come un uccellino, da far ridere. Ma il dottore non si burlava di te, anzi ti rendeva tutto facile e naturale. Addirittura quel suo modo fisso di guardarti iniziava a sembrarti normale. Anche se a volte ti faceva ancora arrossire.

«E quindi? Ha intenzione di spiegarmi qual è la novità?» ha detto.

«L’ho fatta con acqua e latte, mescolati al cinquanta per cento».

Alzò le sopracciglia molto sorpreso.

«Ah» ha detto.

«È l’ultima moda di Vienna e Parigi».

«E lei se ne intende di queste cose, Aurora? È mai andata a Vienna o a Parigi?»

«Io? Ovviamente no, per carità. L’ho letto su una rivista di moda straniera» sei leggermente arrossita, come se ti avessero colto con le mani nel sacco.

«Ha ragione! Non ricordo mai che sa leggere, Aurora. Anche lei è un po’ strana, però. E quindi si compra riviste di moda straniere».

«Con il mio stipendio, signore. E solo ogni tanto perché sono care, solo quando risparmio qualcosina. Sono scritte in altre lingue, ma se le leggi tanto e dimentichi le parole, alla fine capisci».

«Davvero?» le sopracciglia non scendevano. Il dottore ti osservava come fossi un fenomeno curioso. «Bene, Aurora, allora lasci che le dica che approvo in pieno le mode di Vienna e Parigi! E a lei piacerebbe andarci in queste città?»

«Ovviamente no! Cosa mai ci farei io lì, come uno stoccafisso?»

«Mangiare cioccolata al latte?»

«Ma la mangio già qui». E sei scoppiata a ridere, e la tua risata ha contagiato il dottore che quando rideva sembrava un basso-baritono, anche se di quello tu non ci capivi niente, ma alla fine la faccenda delle risate comuni vi faceva davvero sembrare due amici.

«Ascolti, Aurora, voglio che d’ora in poi comprenda l’acquisto delle riviste straniere di moda nelle spese di casa».

«Oh, no, dottore. Non è necessario. È una spesa che possiamo davvero evitare...»

«Eh no! È una spesa indispensabile! Come faremmo a sapere, altrimenti, come cambia la moda della cioccolata a Vienna e a Parigi? Faccia come le dico, Aurora. Compri le riviste di moda. Meglio ancora: mandi una richiesta di abbonamento alla rivista».

Tu negavi con il capo, come se il dottore si fosse bevuto il cervello, come se ti avesse appena proposto una stupidaggine.

«A Parigi?» hai chiesto con un’ottava più alta del normale, tanto eri sconvolta.

«Dove necessario, ragazza! La mandi e non se ne parli più. A nome suo, ovviamente. Non posso abbonarmi io a una rivista di moda francese».

Scuotevi la testa da una parte all’altra, ma ti lasciavi convincere. Era una vera e propria tentazione, troppo generosa per lasciartela scappare. Corrugavi la fronte, proprio come previsto dal tuo ruolo, ma non riuscivi a non pensare a come fosse possibile una cosa del genere. Come mai eri così fortunata? Quell’uomo era come il primo premio della lotteria, e non avevi idea di come avessi fatto a vincerlo. Proprio tu, che non avevi mai avuto nulla.

 

 

Sei tornata a casa del signor Antoni con la cioccolatiera in mano almeno un altro paio di volte. La porta non si apriva, ma dietro lo spioncino compariva il volto accigliato di Enriqueta.

«Di nuovo?» brontolava appena ti vedeva.

Hai notato che ti osservava con insistenza. Eri un po’ ingrassata. Ora avevi un bell’aspetto. Eri anche meglio vestita, perché il dottore lasciava che ti cucissi da sola i vestiti e non ti costringeva a indossare l’uniforme di un colore piuttosto che di un altro. Sebbene tu avessi ben chiaro come dovevi andare in giro.

«Ascolta, Enriqueta». Anche la tua voce suonava più sicura di un tempo. «Questa è l’ultima volta che vengo e intendo parlare chiaro. Quando me ne sono andata da questa casa, dopo la faccenda della signora Càndida, ho preso una cosa che non mi apparteneva. Non so ancora adesso perché l’ho fatto, ero più giovane, confusa e non avevo la mente lucida. Me ne sono pentita molto dal momento stesso in cui ho varcato questa soglia. È da allora che voglio restituire ciò che ho rubato e m’imbatto sempre in te e nella tua faccia schifata che mi blocca il passo. Credo che sia il momento di farla finita e smetterla con le sceneggiate, non ti pare? Ti prego di prendere questa cioccolatiera e basta!» e le hai mostrato il pacchetto, ma lei non ha dato cenni di interessamento.

«Una cioccolatiera?» ha detto con la stessa espressione che avrebbe fatto se le avessero parlato di un mostro appena spuntato dal fondo del mare.

«Di porcellana bianca».

«E chi se ne ricorda di questa, Aurora?» ha fatto un cenno di disinteresse. «Sono ormai otto anni che la signora Càndida ha alzato i tacchi. Non ti sembra che questo non stia né in cielo né in terra?»

«Non m’importa. La cioccolatiera non è mia. Il suo posto è qui. Era un oggetto speciale per la madre del signor Antoni. Me l’aveva spiegato molto tempo fa».

«Aurora, la signora sta morendo. Ti assicuro che non è un bel momento per andare a stuzzicare vecchie ferite. Questo oggetto ormai non appartiene a nessuno. Perché non te lo tieni? In fondo è più tuo che di chiunque altro. Ma, ti prego, non tornare. Abbiamo molto da fare qui».

‘A chi appartengono gli oggetti che qualcuno ha amato quando quella persona se ne va per sempre? Vogliono che qualcun altro li tenga con sé, li ami e li consideri di sua proprietà? C’è qualche luogo in cui gli oggetti perduti sperano di essere trovati? Le cose hanno bisogno di un proprietario o sono più felici in libertà? La libertà chi rende felice? Non è forse meglio la certezza di appartenere a qualcuno?’

«E va bene, Enriqueta. Non tornerò più» hai detto, con la testa da un’altra parte.

Lo spioncino si è chiuso e sei rimasta ancora una volta in strada con la cioccolatiera in mano.

Hai camminato piano e un po’ alla deriva lungo il labirinto di strade: Agullers ti è sembrata più lunga del solito, in Espaseria hai sentito rintoccare le campane di Santa Maria del Mar e ti è parso che l’eco del suono ti sfiorasse le guance mentre correva come una freccia verso il mare. Sei entrata in chiesa, come un insetto che cerca di raggiungere la luce. Ci sei rimasta un po’. Poi sei uscita dalla porta che si affaccia su Banys Vells e hai continuato quel pellegrinaggio tranquillo, fin quando non hai girato a sinistra imboccando la stretta strada di Brosolí. Stavi approfittando della passeggiata per riordinare i pensieri. Perché anche in testa, ogni tanto, conviene che sia sabato, buttar via ciò che ormai non serve a nulla e togliere la polvere dalle cose migliori. Se no il tempo copre tutto con lo stesso velo.

Carrer del Brosolí sboccava in carrer de l’Argenteria, proprio davanti all’angolo con Manresa, dove c’era il negozio Xocolates Sampons. Ti sei fermata davanti alle vetrine, che brillavano come un ostensorio ed erano piene di prelibatezze ben distribuite su piattini e vassoi. C’erano fili di zucchero candido che sembravano capricci di ghiaccio, dolcini al caffè avvolti in carta argentata, bustine di cacao in polvere per farne cioccolata, cioccolatini di tutti i tipi farciti con le miscele più sofisticate e il tutto incorniciato da un bellissimo quadro con una signora molto ben vestita nell’atto di bere una tazza di cioccolata seduta nella sua biblioteca. Sotto c’era la scritta: ‘Il desiderio di cioccolata Sampons è il migliore’. Il tuo sguardo si perdeva tra le confezioni di colori e misure differenti, piene di delizie che tu non avevi mai gustato. Sembrava che la grande novità fossero dei cioccolatini ‘al gianduia’ che formavano piramidi brillanti in una zona a parte della vetrina, come fossero una vera e propria svolta. Più in là c’erano, sistemate come dei soldati, le tavolette di cioccolato. Grandi, piccole e medie, di cioccolato nero – ‘di pietra’, diceva l’involucro – o di cioccolato al latte, una rarità del tutto nuova. I prezzi non erano indicati, ma avevi qualche spicciolo con te – non uscivi mai senza niente – e hai pensato di averne a sufficienza per comprare qualcosa che potesse piacere al dottore.

Hai spinto la porta del negozio ed è suonato un campanello. Saresti rimasta lì, immobile, ad annusare, se una voce di donna non ti avesse subito chiesto, molto gentilmente: «In cosa posso esserle utile, signora?»

Signora.

Hai guardato il volto di chi aveva appena parlato. Era una ragazza giovane, che non doveva avere più di vent’anni e con gli occhi grandi e sorridenti. Forse non si capiva, dall’uniforme che ti eri confezionata da sola, che non eri una signora ma una domestica? Certo, di una buona famiglia, e anche fortunata. Quella ragazza ti avrebbe potuto dare del tu, se avesse guardato meglio, ne aveva tutti i diritti, ma ha preferito dire: «In cosa posso esserle utile, signora?» E tu hai chiesto della cioccolata in polvere, da preparare ben spessa, di quella che piaceva tanto al dottore, e già che c’eri anche una tavoletta di cioccolato al latte. La ragazza ha avvolto tutto in carta velina, continuando a sorridere.

Mentre ti preparava il pacchetto, hai dato un’occhiata ad alcune fotografie appese alle pareti. Rappresentavano uomini dalla pelle scura che raccoglievano frutti di cacao da alcuni alberi ritorti. Sotto, c’era scritto: ‘Piantagioni di Cioccolata Sampons a Cuba’. C’era anche un ritratto del signor Antoni accanto a un mucchio di fave di cacao che si stavano seccando al sole. E sotto: ‘Antoni Sampons a Santiago de Cuba, mentre controlla il raccolto del 1878’. E più in là un cartello ben visibile scritto in nero, che diceva:

 

 

XOCOLATES SAMPONS

CASA FONDATA NEL 1877

prodotti premiati a tutti i concorsi
per le loro proprietà alimentari.

Approvati e raccomandati dalla

REALE ACCADEMIA DI MEDICINA E CHIRURGIA

DELLA CITTÀ DI BARCELLONA

Si vende alle più importanti pasticcerie e drogherie.

 

«Una peseta e tre reali» ha detto la ragazza e tu ti sei subito affannata a cercare i soldi in tasca e poi li hai lasciati sul palmo della sua mano.

Mentre aspettavi il resto, hai trovato il modo di fare ciò che ancora non avevi fatto. Ti è parso logico, una sorta di atto di giustizia. Hai lasciato con nonchalance il pacchetto con la cioccolatiera sopra una sedia che avevi lì vicino, davanti al bancone. La commessa era di schiena e inoltre da lì la sedia non si vedeva. Nel negozio c’erano altri due clienti, ma erano distratti: uno stava scegliendo dei cioccolatini da regalare, quasi stesse valutando delle pietre preziose. L’altra, una donna in carne, stava sgridando un bambino che voleva dello zucchero candito. Non c’era pericolo. La cioccolatiera è rimasta sulla sedia, di fianco, non tanto in vista, perché così nessuno l’avrebbe notata. L’avrebbero trovata mentre sistemavano il negozio prima della chiusura.

«Ecco il resto, signora. Vedrà quanto le piacerà la cioccolata» ti ha detto la ragazza.

Quindi adesso avevi l’aria di una consumatrice abituale di cioccolata? Era questo che pensava la commessa? Che la stavi comprando per te?

Hai spinto la porta ed ecco che eri in strada con la dolce mercanzia in mano. Hai tirato un sospiro di sollievo.

‘Fatto. Ti ho restituita. È finita!’ hai pensato.

E ti sei allontanata di lì con passo deciso e a testa alta.

 

 

La cioccolatiera è subito tornata in tuo possesso, nella tua vita, nella tua coscienza di donna onesta, proprio come un animaletto perso per strada che però non ci impiega che mezzo minuto a ritrovare casa. Te l’ha restituita la commessa con un volto sorridente. Eri andata, come d’abitudine, a comprare il cioccolato in polvere per il dottore, quello che ora preparavi con il latte, seguendo le mode di Parigi e Vienna e stavi aspettando in negozio guardando gli involucri delle caramelle e dei cioccolatini e le figurine che regalavano con le tavolette e che i bambini collezionavano. E mentre ti dava il resto, la ragazza ha detto: «Aspetti un momento, per favore» e subito dopo è scomparsa nel retro del negozio ed è tornata con il pacchetto avvolto nella carta velina e quel sorriso che la illuminava sempre. «L’altro giorno ha dimenticato questo su una sedia. Gliel’ho messo da parte perché ero certa che sarebbe tornata».

Hai preso il pacchetto cercando di essere gentile.

«Grazie» hai risposto. «Pensavo di averlo perso».

«Al suo servizio, signora» ha detto lei.

Signora.

Tornata a casa hai di nuovo nascosto il pacchetto dentro all’armadio. Ora sì che non sapevi quando avresti avuto un’altra occasione di liberartene. O se l’avresti mai più avuta.

 

 

Gli anni volano via come le rondini in autunno, ti aveva detto una volta quel vecchio con cui vivevi felice e senza capirlo del tutto. Ma il dottore ne diceva tante di cose che tu non riuscivi a capire bene.

Ogni tanto avevi l’impressione che qualche suo commento fatto tempo prima di colpo acquisisse un senso. A volte addirittura anni dopo. Come quel giorno in cui ti sei guardata allo specchio e hai visto una donna con il volto rotondo, con una ciocca di capelli che le cadeva sulla fronte e uno sguardo senza tracce di turbamento e hai pensato: ‘Com’è possibile?’

Com’era possibile che avessi trentanove anni e che da quindici vivessi in quell’appartamento in carrer del Pi dove in ogni angolo si riconosceva la tua presenza e che ora il dottor Volpi avesse tutti i capelli bianchi e che l’ascoltassi ancora con la stessa ammirazione e lo stesso sussulto del primo giorno? E com’era possibile che persino adesso, dopo così tanto tempo, ti facesse ancora ridere e arrossire?

Tra quelle quattro pareti gli anni non passavano, o passavano sempre al suono della stessa melodia. Il dottore si rintanava a leggere o usciva molto presto e non rientrava fino alla fine delle riunioni al circolo e tu gli tenevi pronta una cioccolata con del pane – o con biscotti, brioche, maddalene... – e ti spiegava di cosa aveva parlato con i suoi amici mentre borbottava perché faceva molto freddo e c’era molta gente malata e nel frattempo tu l’aiutavi a indossare la vestaglia di seta e a calzare le ciabatte. Poi lui ti diceva: «Buonanotte, Aurora, sono contento perché la prossima settimana al Liceu ci sarà il Guglielmo Tell. Ah, quanto mi piace l’opera in francese!» e se ne andava a letto canticchiando e tu gli auguravi buonanotte e buon riposo, dottor Volpi, a domani, se Dio vuole!

Al pomeriggio leggevi riviste di moda, che adesso arrivavano tutti i mesi tanto che non facevi in tempo a finirle, oppure uscivi a fare un giro sulla Rambla perché era un piacere vedere quel brulichio di caffè e quei teatri, poi tornavi a casa, accendevi le lampade a petrolio e pensavi: ‘Com’è possibile che non capiti nulla, ma che gli anni scivolino via come l’acqua in un cesto di paglia?’

È vero che ci furono anche momenti difficili, come quella notte in cui andava in scena il maledetto Guglielmo Tell. Maledetto, che il cielo ti perdoni, perché il dottore era tornato a casa in anticipo, sconvolto e con il gilet bianco sporco di sangue, tanto che per poco non morivi per lo spavento, credendo fosse stato ferito. Ancora agitato, seduto sulla poltrona mentre lo aiutavi a sfilarsi gli stivaletti, ti spiegò che la moglie del libraio Dalmàs gli era morta tra le braccia senza che avesse potuto fare niente per salvarla, e che non era stata l’unica, che lo spettacolo di morte e distruzione era stato terribile. E dire che era esplosa solo una delle due bombe che avevano lanciato. La seconda era rimasta sospesa, come per miracolo, tra le gonne della moglie dell’avvocato Cardellach, che era morta, poverina, che Dio la benedica.

«Oh mio Dio!» esclamava il dottor Volpi che fino ad allora non avevi mai visto alterato. «Il Liceu non tornerà mai più a essere quello che era, Aurora. Non ci riprenderemo mai più da questo bagno di sangue».

Improvvisamente hai lasciato andare il secondo stivaletto sul tappeto. E lì, inginocchiata ai piedi del dottore, sei scoppiata a piangere. Lui è rimasto muto per lo spavento, guardandoti. Tu singhiozzavi come una bambina, sempre più forte, senza riuscire a smettere. Pensavi: ‘Ma da dove è uscita all’improvviso tutta questa disperazione? Cosa mi prende?’ e il dottore pensava lo stesso e aveva paura di trarre delle conclusioni.

«Ma Aurora» ti ha detto. «Aurora, si alzi da terra. Cosa succede, cara? Non pianga così. La prego, mi parli».

Ti ha tirata su per un braccio. E tu giù a piangere e, invece di alzarti, ti sei lasciata andare del tutto. La gonna si è gonfiata e sei rimasta sul tappeto come una grande cipolla. E lui sempre più sorpreso, più disperato.

«Aurora, per favore, vuole ascoltarmi? Cosa le prende? Mi dica cosa sente. Forse sta piangendo per i morti della bomba?»

Una volta recuperata un po’ di calma – solo un po’ perché le lacrime sono testarde e quando iniziano non ne vogliono sapere di smetterla – hai balbettato quattro parole, giusto per farti capire da quell’uomo.

«Tanto sangue... mi sono spaventata molto... pensavo... sembrava ferito... sangue... grazie a Dio... lei sta bene... ho avuto tanta paura...»

Ti ha aiutata ad alzarti e ti ha guardata dritta negli occhi.

«Aurora, creatura...! Ma, allora... allora sta piangendo così solo per me?» il dottor Volpi aveva gli occhi umidi e forse gli tremavano un po’ le mani, ma tu non te ne sei accorta, presa com’eri dalla tua disperazione. «Si sieda, Aurora, si sieda che ora le porto un fazzoletto». Ed è corso fuori dalla sala, lasciandoti lì da sola a guardare le sue scarpe, anche quelle macchiate di sangue; e quanto più guardavi il sangue tanto più singhiozzavi pensando che gli sarebbe potuto accadere qualcosa, e quanto più singhiozzavi tanto più ti veniva voglia di singhiozzare, e tanto più guardavi le scarpe... ed era un po’ come una tiritera che quando inizia non finisce più.

Il dottore ti ha portato un fazzoletto e una tazza di cioccolata e ha cercato di consolarti con le parole che avrebbe usato con una bimba piccola, piene di dolcezza, parole che non avevi mai ricevuto. Poi ti ha fatto andare nella tua stanza, perché ci dormissi sopra. E lui è rimasto da solo, sveglio, seduto sulla poltrona della biblioteca a guardare i libri, che erano stati testimoni di tante cose nella sua vita, quasi gli chiedesse consiglio o condividesse con loro il suo stupore. E pensando. Quella notte il dottor Volpi ha rimuginato molto. Forse come mai aveva fatto, almeno mentre era consapevole di farlo. Quando ormai albeggiava, pensò di dover dormire un po’ e se ne andò a letto.

E dormì di gusto, perché aveva appena preso qualcosa di simile a una decisione.

 

 

«Aurora, può sedersi un attimo qui davanti a me? Dovrei parlarle di una faccenda».

Povero dottor Volpi, non immaginava ciò a cui stava andando incontro. Ma se l’avesse sospettato, avrebbe fatto lo stesso perché era di quel tipo d’uomini testardi che quando prendono una decisione non si fanno fermare da minuzie.

Ti sei seduta ben composta sulla sedia, con le mani in grembo e una ruga in mezzo alla fronte. Ti sistemavi la gonna. Sembravi tranquilla, ma avevi le guance del colore delle rose.

«Mi dica, dottore».

«Allora... sono giorni che penso a una faccenda che ha a che vedere con lei e in parte anche un po’ con me, naturalmente, e penso sia arrivato il momento di parlarne, sempre che trovi il modo di farlo, perché come vede non sono molto lucido. Comunque... le dirò che se devo essere sincero mi sembrava molto più semplice in teoria, quando provavo il discorso prima di chiamarla, e invece adesso non so da dove iniziare. Accidenti, alla mia età!»

«Posso aiutarla in qualche modo, dottore?» hai detto.

«Si tratta di una di quelle cose che non si dicono spesso, sa? Io stesso, alla mia età, mi sono ritrovato a dirlo una sola volta in vita mia ed era stato molto diverso. Non ne ero molto consapevole, credo. Ah! La gioventù! Che malattia della coscienza! Ma tranquilla, tranquilla, ce la farò. Allora... Aurora, lei ricorda esattamente da quando è la governante di questa casa?»

«Da novembre del 1877» hai risposto e la ruga in fronte diventava sempre più profonda.

«E dunque...» il dottore si è messo a contare, «diciannove anni! Caspita se è passato in fretta il tempo!»

L’ansia è venuta fuori in forma di domanda: «C’è qualcosa che non va, dottore? Devo preoccuparmi? Ho forse fatto qualcosa che l’ha infastidita?»

«No, no, no, no, Aurora, la prego, mi ascolti. Diciannove anni sono un bel po’ di anni...»

«E ventuno giorni».

«Ecco... quello che voglio dirle forse le sembrerà un po’ strano, così all’improvviso, ma è che in questi diciannove anni e ventuno giorni sono stato l’uomo più ben servito della Terra».

Hai sorriso, lusingata. Allo stesso tempo, però, sentivi crescere l’angoscia. Quelle parole avevano il riconoscibile aspetto degli addii, delle chiusure, della fine. Stava succedendo qualcosa di importante e iniziavi a rendertene conto.

«Dottore, forse non sta bene? È malato?»

«Malato? No, che io sappia. Alla mia età il peggio che capita è appunto avere la mia età. Non si agiti, Aurora. Mi lasci parlare».

‘Facile dire non si agiti’ pensavi. E te ne stavi in silenzio, con i denti serrati, lasciandolo parlare, anche se lui continuava a vaneggiare.

«Mi piace pensare che anche lei si sia trovata bene in questa casa nei passati diciannove anni» ha detto.

«Ha qualche problema? È entrato in politica?»

«Se mi fa la cortesia di stare zitta un attimo, Aurora... glielo chiedo in modo deciso perché se non sta zitta perderò quel poco di coraggio e la lascerò con questo mistero in aeternum, che non è poco tempo».

«No, no, per carità. Sto zitta».

E stavi in silenzio con i denti sempre più serrati, ma era sempre più difficile. Quasi impossibile. Una vera e propria tortura.

«Mi piace pensare che per lei ci sia stato qualche momento in cui si è dimenticata che lavorava per me, che io ero il signore di casa e tutte queste stupidaggini formali, e che siamo stati due amici che stavano bene insieme a chiacchierare e bere cioccolata».

Spalancavi gli occhi. Continuavi a non capire. Ti stava licenziando? Voleva morire? Se ne andava a vivere all’estero? Se il martirio era più della tortura, allora tutto questo stava diventando un martirio.

Ora ti guardava fisso, in attesa di qualcosa, e tu non sapevi cosa fare.

«Mi potrebbe confermare l’ultima cosa che ho detto, Aurora? È importante per il filo del discorso».

«Certo, dottore. Cos’era?»

«Siamo amici?»

«Ovviamente no! Lei è il padrone e io sono la sua governante».

«Ma potremmo diventarlo?»

«No! Sarebbe una mancanza di rispetto molto grave da parte mia considerarmi una sua amica. Io non sono una sua pari e lo so molto bene».

«Ma le piacerebbe che lo fossimo?»

«Ascolti, io di amici non ne ho mai avuti, sa?» l’hai visto stravolto, come fosse sottoposto a uno sforzo incredibile. Tuttavia hai proseguito: «Credo che questa faccenda degli amici non sia fatta per gente come me. Gli amici non lasciano lavorare e io sono venuta al mondo per lavorare. Tutto qui!»

Hai incrociato le mani sulla gonna, orgogliosa di ciò che avevi appena detto. Il dottore ha corrugato la fronte, lo sguardo sospeso un secondo in aria, poi si è ripreso e si è sfregato la faccia con le mani.

«Niente da fare Aurora, non ci riesco. È più difficile di quanto pensassi».

Eri sobbalzata dallo spavento, dall’ansia, dallo stupore. Non riuscivi a capire cosa stesse accadendo. Quell’uomo non era il dottor Horaci Volpi che conoscevi, e il peggio era che non ne sapevi il perché.

«La smetta di spaventarmi, dottore» hai detto. «Mi dica una volta per tutte cosa le prende. Lei vuol dirmi qualcosa, giusto? Lasci che l’aiuti. È una cosa brutta? Una cattiva notizia?»

«Oh, mia cara. Mi auguro che lei non la veda così».

«No. Bene. Allora... allora è una notizia... diversa?»

«Esatto».

«Strana?»

«Molto!»

«Sgradevole?»

«Non necessariamente».

«Vuol forse andarsene da Barcellona?»

«Ma no, dove pensa che vada alla mia età?»

«È malato? Morirà?»

«Certo che morirò! Ma mi dispiacerebbe molto che avvenisse proprio adesso».

Non c’erano più tante possibilità.

‘Pensa, Aurora, pensa, cosa può renderlo tanto confuso? Qualcosa che non ha il coraggio di dirti, che gli spezza la voce come fosse un bambino davanti a una malefatta...? Ce l’ho! È ovvio che è questo! Non può essere altro’.

«Allora non può che essere una questione di donne» hai detto.

«Lei è davvero molto sveglia, Aurora!» il dottore ha sorriso delicatamente.

«Si vuole sposare. È questo?»

«Bravissimo!»12

La soluzione del problema ti ha scoraggiata. Voleva portarti una signora in casa! Ormai una signora era come uno schiaffo e di quelli forti! Adesso avresti dovuto fare tutto a modo suo, ti avrebbe mandata in confusione con ordini a destra e a manca, avrebbe voluto tenere i conti di casa, cambiare delle cose – potevi iniziare a dire addio alle riviste di moda! – sarebbe stata attenta alle spese per poi riempirsi le tasche, ovvio. Perché se non era per riempirsi le tasche, chi mai avrebbe voluto sposarsi con il dottor Volpi, un uomo di settantacinque anni con una vita così pacata, dalla biblioteca al circolo e dal circolo al palco del Liceu? Ed era giovane? Se adesso ti fosse toccato sopportare una signora di venticinque anni con un corpo giovane e un volto di porcellana sempre lì a mettere disordine negli armadi, ti sarebbe salito il sangue alla testa! O ancora peggio se avessi dovuto vedere quel brav’uomo del dottor Volpi dietro le gonne di una giovane approfittatrice! E di sicuro lui la avrebbe assecondata in tutto, perché non sa dire di no a nessuno, e pian piano avrebbe perso la sua vera personalità, perché si sa che le donne hanno più influenza sugli uomini di qualsiasi cosa sia mai stata inventata, e questo davvero non l’avresti retto!

Ma ti sei subito vergognata di quei pensieri. Chi eri tu per giudicare così le decisioni del dottore? Forse tanti anni da privilegiata ti avevano fatto alzare troppo la testa, Aurora? Avevi forse creduto che dato che dai Sampons una commessa un po’ svampita ti chiamava ‘signora’ godevi di qualche diritto su di lui? Ti vergognavi di te stessa e ti sei sgridata: ‘Aurora, non posso credere che tu ti sia illusa che le cose sarebbero sempre andate così. Devi solo ringraziare di aver passato questi vent’anni in un letto di rose. Tu che sei venuta al mondo senza nessuno. Tu che non ti meriti niente’.

E nel frattempo, il silenzio cresceva e diventava imbarazzante. Il dottor Volpi respirava a fatica per via dell’agitazione e del fatto di dover aspettare tanto la tua opinione e non sapere come proseguire.

«Ascolti, Aurora, basta! Non ne posso più! Glielo dirò senza girarci tanto attorno, meglio così, non crede?» hai fatto cenno di sì con il capo. «Dunque, Aurora... mi farebbe moltissimo piacere se volesse sposarsi con me».

‘Sei cattiva, Aurora, sei più cattiva del diavolo. Hai pensato male del dottore. Hai sporcato con i pensieri l’unica persona davvero buona che tu abbia mai conosciuto. E l’unica cosa che gli capita, poverino, è che è andato fuori di testa. È impazzito. Senti con cosa se ne esce adesso! Sposarsi! E con te! Mamma mia, ti fa morir dal ridere! Ma attenta, perché lui prende le cose sul serio. Sii gentile’.

«No, dottore, non è possibile» gli hai detto molto decisa, assolutamente convinta.

«E perché no? Non siamo forse liberi noi due?»

«Non è possibile, dottore, perché non sta bene. Noi due non siamo uguali. Non siamo liberi allo stesso modo».

«Ah no?»

«No, dottore, io non saprei come essere sua moglie. Non potrei accompagnarla da nessuna parte».

«E perché no?»

«Perché la gente mormorerebbe, capisce?»

«Mormorano già adesso. Preferisco che parlino perché mi sono sposato e non che facciano girare stupidaggini sul perché non mi sposo. Non pensavo le importasse quel che dice la gente, Aurora».

«Mi importa che parlino male di lei, ovvio».

«Allora, ascolti, a me piacerebbe dar loro motivi per parlare di noi».

«Che Dio me ne scampi! No, no, no, no» facevi di no con la testa, sottolineando le negazioni con altre negazioni, «lei non ci ha pensato per bene. È un ghiribizzo che l’è venuto. Si rende conto che la considererebbero un irresponsabile?»

«A me non interessa, pensino cosa vogliono. Finché non è lei a pensarlo...»

«No, no, no, non si può, no, no, no...» e giù a scuotere da una parte all’altra la testa. «Si è bevuto il cervello, dottore. Sapranno che sono la sua governante!»

«Non mi interessa!»

«Rideranno di lei».

«Sì, d’invidia».

«Che follia! Non ho mai sentito una follia del genere. E si può sapere perché adesso le è venuta in mente una cosa del genere?»

Il dottor Volpi ha fatto un sospiro. Lungo, carico di mistero. Un sospiro che nascondeva mille ragioni per cui desiderava che Aurora diventasse sua moglie.

«E poi» continuava lei, «io di uomini non ne so proprio niente di niente. Non ho mai... io non ho mai... io sono ancora vergine, ecco».

«Mia cara io sono vedovo da più di trent’anni. Non ho mai fatto il libertino. Credo di aver dimenticato ciò che un tempo dovevo aver imparato. Ma ce la faremo, non crede?»

E tu: «No, no, no...»

«Ascolti, non è che io non pensi a tutte queste cose, Aurora. A me sembra che lei abbia la bellezza di una delle Grazie. E ancor più di loro, perché lei, Aurora, è reale ed è qui a casa mia. Ma il fatto è che quando penso a lei e a me e al futuro, a casa nostra, non sono concupiscenze le prime cose che mi vengono in mente, sa?» tu continuavi a negare ogni espressione che sentivi (‘futuro’, ‘nostra’, ‘casa’) con la severità di una madre che proibisce una marachella al figlio. «Deve essere per via degli anni e per il fatto che non sono mai stato uno particolarmente sveglio, ma la prima cosa che mi viene in mente è lei sdraiata a letto, di fianco a me, che mi stringe forte la mano sotto le lenzuola. Lei che ride di qualcosa che le avrò raccontato, e ride in quel modo in cui fa di solito, simile a un cardellino, e noi due al Liceu, a goderci un bello spettacolo come La sonnambula o l’Aida, e sempre noi due a passeggio lungo la Rambla o a berci una cioccolata in carrer de Petritxol. È questo ciò a cui penso, e quando lo faccio mi sento mancare dalla felicità».

«Il Liceu? Ma per favore! Non continui!» dicevi tu. «Povero dottore, domani sarà davvero dispiaciuto di avermi detto tutto questo. Ma ascolti, non si preoccupi, io farò finta di non avere sentito niente. Si vede che oggi si è stancato troppo. Sa cosa facciamo? Se ne andrà a dormire. Ecco! Ora le porterò a letto una tazzina di cioccolata di quella che le piace e lei chiuderà gli occhi e si lascerà andare, vero che mi sta ascoltando?»

«Certo che l’ascolto».

«Allora deciso. Adesso va a dormire e vedrà che domani tutto le sembrerà più chiaro».

«E se domani non...?»

«No, ora non dica altro, dottore. Domani sarà un altro giorno e tornerà in sé. Forza, venga di là. Lo scaldaletto dovrebbe già essere freddo».

Fu una lunga notte. Sebbene non ci volessi pensare, le parole del dottor Volpi continuavano a venirti in mente, ‘bella’, ‘dea’, ‘cardellino’, parole che non avresti mai pensato che qualcuno ti avrebbe rivolto, rivolto a te e solo a te, e che non ti si addicevano ma ti piacevano molto. Ti piacevano proprio come ti piaceva il modo in cui il dottore ti guardava, il tono della sua voce quando ti parlava del futuro, e addirittura le vene blu delle sue mani. Nella calma della notte, che sembrava confondere le cose, per un attimo hai smesso di pensare che tutto quello fosse una follia e ti sei chiesta cosa sarebbe successo se...

‘Cosa succederebbe se...’ Tutti i cambiamenti nel mondo, tutte le rivoluzioni, tutte le conquiste, tutto ciò che merita inizia sempre quando qualcuno si domanda: ‘Cosa succederebbe se...’

E tu ti sei posta questa domanda con un tale rigore che ti sei dovuta alzare dal letto e andare a bere un bicchiere d’acqua, perché improvvisamente ti si era seccata la gola. E mentre eri in cucina, incantata a osservare una tavoletta di cioccolato, leggendo più volte la scritta: ‘Il desiderio di cioccolata Sampons è il migliore’, ti sei chiesta, per la prima volta, cosa desiderassi. Cosa volessi. Cosa ti sarebbe piaciuto, se fossi nata in un’altra vita. Le risposte ti hanno spaventata molto.

Mentre tornavi dalla cucina, ti è parso di sentire che il dottore canticchiasse qualcosa, come sempre, era un canterino lui. Hai prestato attenzione e hai riconosciuto uno di quei motivetti italiani che avevi già sentito altre volte. Cantava con un’allegria che non sei riuscita a capire. Hai negato ancora una volta con la testa, in quella notte così carica di negazioni, e te ne sei tornata a letto accompagnata dall’allegra melodia:

 

La moral di tutto questo

è assai facil di trovarsi.

Ve la dico presto, presto,

se vi piace d’ascoltar.

Ben è scemo di cervello

chi s’ammoglia in vecchia età;

va a cercar col campanello

noie e doglie in quantità.13