Capitolo Diciotto

Adriana

Quando finii di truccarmi, indossai un paio di ballerine nere e un cappotto leggero. Dopodiché chiusi a chiave la casa e andai in garage, dov’era parcheggiata la mia Verano. Quando accesi il motore, mi accorsi che stavo finendo la benzina, così, mentre andavo al Dazzle, mi fermai ad un distributore di benzina. Avevo appena cominciato a farla, quando notai che un furgone grande e nero aveva accostato dietro la mia macchina. Ignorando la cosa, continuai a riempire l’auto di benzina.

La persona che era nel furgone scese e sentii dei passi avvicinarsi. «Tesoro, mi ero accorto che eri tu» disse una voce roca.

Mi girai e mi ritrovai a guardare gli occhi freddi e piatti del motociclista che mi aveva importunata al Griffin. Cercai di restare calma.

«Come, scusa?» chiesi, fingendo di non conoscerlo. Faceva ancora più paura alla luce del giorno, la cicatrice sul suo volto spiccava come un segnale di pericolo. Qualcosa mi diceva che probabilmente se l’era meritata.

«Sei la bella fighetta che era al Griffin ieri sera. Devi ricordarti di me, tesoro.»

Il cuore mi batteva forte mentre tiravo fuori la pompa e la rinfilavo nella macchinetta. Avevo messo poca benzina, ma volevo andarmene il prima possibile. Sapere che era stato in prigione per stupro era terribile. Soprattutto visto che, evidentemente, gli interessavo ancora. «Scusa. Devi avermi scambiato per qualcun’altra» risposi, ridendo nervosamente. «Mi capita sempre.»

Lui fece un sorrisetto. «Non credo.»

Ignorandolo, presi lo scontrino e cercai di entrare in macchina.

«Sai, non potrei mai dimenticare un viso come il tuo» disse, bloccandomi la strada.

«Scusa, ma sei in mezzo.»

I suoi occhi si posarono sulla mia collana. «Porca puttana, è vero quello zaffiro?»

Misi una mano sulla pietra. «No. Certo che no. È bigiotteria. Ora, se ti puoi togliere di mezzo, devo andare da una parte.»

«Tutto bene, tesoro?» chiese una piccola anziana che faceva benzina di fronte a me.

«Fatti i fatti tuoi, nonnetta» disse Scatafascio, spostandosi.

La donna si girò in fretta e continuò a fare benzina.

«Vecchia stronza impicciona» borbottò, dopodiché si girò di nuovo verso di me. «Ti vedi con Raptor?»

Lo ignorai.

Lui ridacchiò. «Sembra che stai andando ad un appuntamento. Non sarà felice di sapere che frequenti qualcun altro oltre a lui.»

Stavo per dirgli che non frequentavo nessuno, compreso Raptor, ma mi fermai. In quel modo mi sarei messa ancora più nei guai. Mi sforzai di sorridere. «Per tua informazione, sto andando al lavoro, ma dopo mi vedo con lui.»

Lui sorrise lascivo. «Lavoro, eh? Dove lavori, tesoro?»

Non ce la feci. Ero stufa delle sue domande. «Non sono affari tuoi» dissi, sbattendo la portiera. Accesi subito il motore e chiusi le porte. Mentre facevo retromarcia, vidi che stava ridendo.

«Coglione» mormorai, girando. Uscii dal parcheggio ed entrai in strada, ancora scossa. Il semaforo davanti a me diventò rosso e io rallentai fino a fermarmi. Mentre aspettavo il verde, qualcuno dietro di me mandò su di giri il motore. Guardai nello specchietto retrovisore e il sangue mi si gelò nelle vene. Scatafascio era dietro di me, nel furgone, a pochi centimetri dal mio paraurti.

Imprecai a bassa voce, sperando che non mi stesse seguendo e che fosse diretto a nord. Ma il buon senso mi disse che non era così.

Quando finalmente il semaforo scattò, ripresi a guidare, ma non andai al Dazzle, che era a pochi isolati di distanza. L’ultima cosa che volevo era che scoprisse dove lavoravo. Così andrai dritto, senza sapere con precisione dove ero diretta. Con grande frustrazione, restò dietro di me per i cinque semafori successivi.

Merda, mi sta davvero seguendo, pensai, decidendo di girare a destra al semaforo dopo. Mentre mettevo la freccia e cambiavo corsia, notai che lui fece la stessa cosa. Girammo entrambi alla freccia verde e io lo guardai nello specchietto retrovisore. Non vedevo la sua faccia perché aveva i vetri oscurati, ma qualcosa mi diceva che si stava divertendo. Serrando le mani sul volante, accelerai e presi l’uscita successiva, questa volta girando a sinistra. Lui mi seguì subito.

«Accidenti» sbottai, col cuore che martellava. Misi una mano nella borsa, che era sul sedile accanto a me e presi il cellulare. Cercando di non fare un incidente, chiamai subito Trevor.

«Ehi, Gattina» rispose con un sorriso nella voce. «Non mi aspettavo di sentirti così presto.»

«Scatafascio mi sta seguendo» dissi in fretta.

Lui imprecò. «Spiegami.»

Gli dissi che avevo visto Scatafascio al distributore di benzina e che aveva cercato di parlare con me. «Ora mi sta alle calcagna.»

«Lo uccido quel coglione di merda. Lo giuro su Dio» ringhiò. «Ok, dove sei?»

Gli diedi una posizione approssimativa. «Devo andare alla stazione di polizia più vicina?» chiesi, continuando a vedere il furgone di Scatafascio nello specchietto.

«Così se ne andrà.»

«Non è quello lo scopo?» esclamai a voce alta.

«Voglio affrontare quel pezzo di merda, fargli sapere che nessuno segue la mia ragazza.»

Non sono la tua ragazza, pensai, anche se dovevo ammettere che una parte di me era felice della sua osservazione. «Davvero, non voglio far parte di questa cosa. Voglio solo che se ne vada per poi non rivederlo mai più.»

«Lo so, ma le teste di cazzo come Scatafascio non se ne vanno se non li si affronta. Senti» disse. «Perché non vieni al Griffin? Sei a soli dieci minuti da lì. Io sono nel parcheggio adesso. Farò in modo che quel ammasso di merda non ti dia più fastidio. Capito?»

Mi sentivo più frustrata che altro, perciò mi fermai ad un altro semaforo. Tuttavia, questa volta, Scatafascio si infilò nella corsia per girare a destra. «Aspetta un secondo» dissi, guardando il suo furgone. «Se ne sta andando. Grazie a Dio.»

Scatafascio abbassò il finestrino e il sorriso minaccioso che aveva sul volto mi diede i brividi. Mi mandò un bacio e si allontanò, le ruote che stridevano mentre girava sfrecciando.

«Stronzo» borbottai, sospirando di sollievo.

«Che succede?»

«Se n’è andato.»

«Bene. Ora vieni al Griffin. Ti porto a pranzo.»

Bleah, come se avessi voglia di mangiare lì.

«Non posso. Mia mamma mi sta aspettando al negozio. Mi sorprende che non mi abbia ancora chiamata per lamentarsi.»

Restò in silenzio per un po’, evidentemente per rimuginare sulla situazione. «Ok. Vai al lavoro e non preoccuparti di quel coglione.»

«Grazie» dissi. «Mi ha spaventata a morte.»

«Non permetterglielo, Gattina. Anzi, presto non ti darà più fastidio.»

«Ah, sì? Perché?»

«Non posso parlartene. Tu vai al lavoro, ci vediamo stasera.»

Mi morsi il labbro inferiore. «A proposito...»

«Devo andare. Mi stanno chiamando. Magari dopo vengo al Dazzle.» Ridacchiò. «Per fare una sorpresa a tua madre.»

«Ma...»

«A dopo, piccola» disse e riattaccò.

Sospirando, lanciai il telefono sul sedile del passeggero e mi diressi al negozio, controllando spesso lo specchietto retrovisore. Non mi sembravano vere le ultime ventiquattrore. Avevo avuto strani incontri con tre tipi molto diversi. Per quanto mi riguardava, erano tutti e tre una minaccia. Anche Trevor.