Capitolo 6
1
Nel 1971, dopo la partenza di Bai Weiwei per lo Heilongjiang, Xie Qing prese a far visita alla sua famiglia ogni settimana per aiutarla nei lavori più pesanti. Era diventata un’abitudine e, anche se al molo Yang Hong l’aveva insultato dicendo che non era altro che il galoppino dei Bai, era deciso a mantenere quell’impegno. Dopo oltre un anno di fatiche ricevette finalmente una degna ricompensa. Era iniziata la campagna di reclutamento per l’esercito e in città i coscritti erano un numero molto esiguo, perché a poter indossare l’uniforme erano soltanto i figli degli alti quadri. Di certo nelle unità di lavoro statali si sarebbero creati dei posti di lavoro interessanti per i soldati in congedo, così Bai Xingdai e zia Huo non ebbero esitazioni e spinsero Xie Qing a fare domanda. Bai Xingdai, ormai libero, era entrato nel Comitato Rivoluzionario, acquisendo un certo potere. Forte della sua esperienza nella gestione economica stava preservando, non senza fatica, le fragili finanze della prefettura di Wenzhou; zia Huo, dal canto suo, nell’Unità Personale dell’Ufficio del Lavoro riusciva a tenere sotto controllo le quote dei lavoratori. Nessuno dei due sfruttò la propria posizione per garantire ai figli un trattamento di favore, in compenso spinsero Xie Qing a indossare la divisa verde. Il suo reggimento di destinazione fu quello dei genieri addetti alle infrastrutture della linea ferroviaria Chengdu-Kunming. Fu assegnato al reparto autisti e imparò a guidare i camion.
Ben presto, però, Xie Qing si rese conto che nell’esercito non aveva nessuna possibilità di crescere. Le unità di livello più basso erano composte essenzialmente da reclute provenienti dalle campagne e il loro unico obiettivo era di fare carriera. Nella squadra di Xie Qing c’erano soldati che ogni mattina facevano a gara per pompare l’acqua con cui il caporale si sarebbe lavato la faccia e gli spremevano persino il dentifricio sullo spazzolino. E se si comportavano così con un semplice sottufficiale, si poteva immaginare come cercassero di ingraziarsi i quadri che comandavano un plotone o una compagnia. Una sera arrivò un camioncino pieno di cavoli e tutti quanti, al buio, si misero a scaricarli per portarli nelle cucine. Xie Qing non capiva come mai certi suoi commilitoni continuassero a gridare come ossessi, così chiese lumi a un compagno con cui era in buoni rapporti. Se non gridi, rispose quello, chi saprà che ti stai dando da fare?
Nonostante fosse una recluta urbana, aveva molte difficoltà. I pochi soldati di città della sua compagnia erano tutti figli di qualche quadro e ogni mese ricevevano da casa pacchi pieni di cibo e sigarette, e se ne fregavano solennemente degli ufficiali. Anche dal punto di vista dell’istruzione Xie Qing era piuttosto svantaggiato: era un soldato di città, questo è vero, ma non era nemmeno in grado di scrivere una lettera decente. In realtà, da quando Bai Weiwei era partita per la frontiera qualche lettera se l’erano scambiata, ma la sua calligrafia sgradevole e le sue frasi sconclusionate lo mettevano sempre in grande imbarazzo. Trascorse tre anni in questo ambiente senza futuro e, arrivato al quarto con una gran voglia di darsi da fare, aveva ormai deciso di sistemare la faccenda dell’ingresso nel Partito. Una sera, però, proprio mentre montava la guardia seduto su un covone di paglia, si appisolò. Gli succedeva praticamente ogni volta che era di sentinella, ma non era mai stato beccato. Quella volta, il tenente colonnello che comandava il battaglione si era incaricato personalmente dell’ispezione e gli aveva sottratto il fucile senza che lui si svegliasse. Fu così che si infranse il suo sogno di entrare nel Partito. Dopo quattro anni di servizio Xie Qing fu congedato, tornò a casa e venne assunto come autista nella Società Autotrasporti a Lunga Percorrenza di Wenzhou.
Il lavoro era perfetto, di sicuro zia Huo aveva fatto la sua parte. A Wenzhou c’era un proverbio che diceva «primo l’emigrante, secondo il quattroruote», a significare che, dopo i cinesi d’oltremare, i più ricchi erano proprio gli autisti. Quando si presentò a casa Bai con indosso l’uniforme militare in dacron, a cui aveva staccato le mostrine, e le scarpe di pelle nera, era l’immagine della serenità. Bai Weiwei era tornata dallo Heilongjiang l’anno prima e adesso era in attesa di trovare lavoro.
Non appena aveva messo in moto il suo camion, Xie Qing aveva subito dimenticato l’amarezza di non essere riuscito a farsi largo nel Partito. Amava il suo lavoro e se faceva il confronto con il padre, con il suo carretto del carbone, si convinceva di essere ormai un uomo di successo. Il salario di base di un autista era piuttosto alto e la paga veniva calcolata in base ai chilometri percorsi, ma il beneficio più interessante era l’accesso a beni e merci di ogni tipo in tempi in cui la roba scarseggiava per le difficoltà di trasporto. Se doveva andare in montagna poteva procurarsi del legname, se capitava dalle parti di Jinhua comprava carne di maiale, uova, polli e anatre vive. Durante la Festa di Primavera, in molti lo incaricavano di procacciare qualcosa. Nella vita di Wenzhou polli e anatre avevano un ruolo fondamentale: a parte la carne laccata per la Festa di Primavera, se in casa di un parente o un amico si verificava qualche evento, lieto o triste, il dono che si faceva era sempre un pollo o un’anatra viva. In quegli anni una coppia di polli vivi era un regalo prezioso quanto un antico rotolo di calligrafia. Per questo a Wenzhou, che era lontana dalla ferrovia, costavano così cari.
Sul ciglio della strada, poi, c’era sempre qualcuno che chiedeva un passaggio per trasportare merce o altro, e anche questo garantiva guadagni aggiuntivi. Quando tornava dai suoi spostamenti, Xie Qing si presentava a casa di Bai Weiwei carico di borse e borsoni; durante il suo primo anno di lavoro portò al fratellino di Bai Weiwei, direttamente da Longquan, un metro cubo di legno di abete, benché il momento in cui il ragazzo avrebbe avuto bisogno di mobili fosse ancora piuttosto lontano. Era felice di potersi sdebitare, per quanto possibile.
Durante il secondo anno l’unità di lavoro gli assegnò una casa familiare e Xie Qing cominciò a prendere in considerazione l’idea di sposarsi. Aveva già messo da parte una quantità sufficiente di legno per farsi fabbricare i mobili e le molteplici entrate gli permettevano di non doversi crucciare per le questioni finanziarie. E poi in casa Bai era straordinariamente benvoluto. Tutto faceva pensare che fossero pronti ad accoglierlo come membro della famiglia. Di ritorno dal turno andava a trovare Bai Weiwei inforcando la sua bici Fenghuang modello 28 nuova di zecca, poi la faceva montare sul portapacchi e la portava a spasso, a vedere un film, a passeggiare nel parco. Mentre stavano seduti tra gli alberi, sotto una luna che pareva d’acqua, Xie Qing non poteva resistere alla tentazione di avvicinare la mano per toccarla. Le prime volte lei gliel’aveva spostata, ma dopo un po’ Xie Qing aveva avuto l’impressione che Bai Weiwei gli permettesse sempre di più. Quando gli fu assegnata la casa, la invitò a visitarla. Tra quelle quattro mura ancora da sistemare fecero l’amore per la prima volta. L’ambizione che aveva iniziato a nutrire da bambino, quando aveva deciso che da grande avrebbe sposato una ragazza della Residenza 118, stava per diventare realtà.
Prima della fine del 1976 quella dei lavoratori era una classe piuttosto privilegiata e avrebbe potuto continuare a esserlo ancora per molti anni. Bai Xingdai e zia Huo avevano quasi deciso di dare la propria figlia in moglie a un membro della classe lavoratrice, per mettersi al sicuro dall’ansia e dalla paura di future campagne politiche. Ma alla fine di quell’anno, dopo la dissoluzione della Banda dei Quattro, iniziarono a verificarsi cambiamenti a prima vista impercettibili.
2
L’economia del sud, infatti, conobbe una rapidissima ripresa e il salario di Xie Qing – compresi i suoi proventi più loschi – iniziò progressivamente a lievitare. Nell’estate del 1978 a Lilong, una cittadina sul mare a un centinaio di chilometri da Wenzhou, si concentrava un gran numero di barconi di contrabbandieri provenienti da Taiwan: i taiwanesi portavano mangiacassette Sanyo a quattro altoparlanti, orologi da polso automatici, nastri con le canzoni di Teresa Teng, collant di nylon, ombrellini decorati ad apertura automatica, a prezzi molto concorrenziali. In quel periodo Xie Qing si recava spesso a Lilong per dei carichi di farina di pesce e tornava con grandi quantità di merce di contrabbando.
In poco tempo emersero professioni ben più redditizie di quella dell’autista. Un suo collega, capace solo di provocare incidenti e farsi ritirare la patente, lasciò il lavoro statale per aprire una ditta di trasporti e presto lo si vide in giro alla guida di una moto giapponese. Iniziarono a spuntare negozi di mobili pronti, dove la gente poteva scegliere tra vari modelli, e così il legno di abete di prima qualità che Xie Qing si era procurato nel corso degli anni rimase inutilizzato.
Dopo che a Wenzhou prefettura e distretto furono unificati, Bai Xingdai divenne vicesindaco con delega all’industria, mentre sua moglie fu nominata capo del personale dell’Ufficio Municipale per il Commercio. Xie Qing si accorse che quando si presentava a casa loro trovava meno lavori da svolgere, perché altra gente aspettava di rendere qualche servizio alla famiglia Bai. Avevano sempre ospiti, un flusso ininterrotto, e zia Huo accoglieva tutti con calore e un sorriso radioso senza lasciare mai nessuno fuori dalla porta.
Un giorno Xie Qing trovò a pranzo dei Bai una decina di giovani alti in modo impressionante. In piedi nella cucina, che faceva anche da sala da pranzo, sfioravano il soffitto con la testa. Era la squadra di pallacanestro di Wenzhou, venuta a festeggiare il compleanno di zia Huo. Xie Qing non si capacitava come mai la donna avesse a che fare con dei cestisti. Tra di loro conosceva solo un certo Lü Guohua, che aveva prestato servizio in marina a Qingdao ed era stato congedato l’anno prima. Sapeva che era una schiappa totale capace solo di starsene in panchina, un jiaupai, un «portapalle», nel dialetto di Wenzhou. Dopo il congedo Lü Guohua, divenuto vigile urbano, dirigeva la circolazione in un crocevia piuttosto trafficato e alto com’era aveva fatto una certa impressione alla gente. Da quella volta Xie Qing si imbatté più volte in Lü Guohua a casa Bai e la cosa gli provocava un certo fastidio.
Le trasformazioni sociali divennero sempre più profonde. I cinesi si lanciavano a capofitto nel commercio, e i più ambiziosi investivano le proprie risorse in politica. Lü Guohua, invece, scelse una via diversa: chiese un periodo di aspettativa dal lavoro per frequentare un corso per adulti organizzato dall’Università Normale di Wenzhou. A casa Bai furono molto colpiti dalla sua scelta, quel ragazzo nutriva ambizioni fuori dal comune. Mentre Lü Guohua passava le notti sui libri nella biblioteca dell’università, Xie Qing, al volante del suo camion, era soddisfatto delle entrate extra garantite da tonnellate di merce di frodo. Era così concentrato su quei miseri guadagni da non accorgersi che i tempi erano definitivamente cambiati. Un giorno, arrivato a casa Bai, zia Huo gli offrì un pacchetto di dolcetti di nozze e gli disse che la figlia si era fidanzata con Lü Guohua. Xie Qing credette di impazzire.
L’anno in cui Lü Guohua sposò Bai Weiwei ci fu una riorganizzazione tra le file dei dirigenti dell’Ufficio di Pubblica Sicurezza cittadino. In ottemperanza ai principi di svecchiamento e intellettualizzazione dei dirigenti, l’Ufficio Organizzativo cercò tra quadri e agenti, ma l’unico in possesso di un diploma era proprio Lü Guohua. Era un gran lavoratore che aveva ottenuto ottimi risultati, così fu promosso alla posizione di vicecommissario capo. In tre anni diventò commissario capo.
Il sogno di sposare una ragazza della Residenza 118 era ormai infranto. Finché un giorno Xie Qing rivide Yang Hong.
3
Da quando l’aveva aiutata a infilarsi sulla corriera al molo di Mei’ao, non aveva saputo più nulla di Yang Hong. Di tanto in tanto, durante il servizio militare aveva ripensato a lei, ma non aveva idea di cosa fosse successo davvero quel giorno, se i responsabili l’avessero presa o meno. L’anno dopo il congedo, Xie Qing l’aveva incrociata qualche volta nel complesso senza mai salutarla, come se non la conoscesse affatto. Temeva che se le avesse rivolto la parola Bai Weiwei l’avrebbe presa male. Ma, dopo il fidanzamento con Lü Guohua, Xie Qing aveva deciso di parlarle. Quando la incontrò, non riuscì nemmeno ad aprir bocca che lei lo apostrofò: «È un pezzo che non ti vedo fare il galoppino dalle parti del complesso, che ti è capitato? I padroni ti hanno sollevato dall’incarico?».
«È da una vita che non ci parliamo, potresti almeno essere un po’ più gentile». In bocca a un cane non crescono certo zanne d’avorio, imprecò Xie Qing tra sé.
«Hai ragione. Grazie di avermi aiutato a salire sulla corriera».
«Lo ricordi ancora? Com’è andata nello Heilongjiang?».
«Niente di che. Mi sono ammalata gravemente e per poco non ci ho lasciato la pelle. E tu? Hai fatto il militare per qualche anno, ho sentito».
Rimasero a chiacchierare sul ciglio della strada. Yang Hong gli chiese se avesse in programma di andare a Hangzhou, voleva chiedergli un passaggio per visitare la tomba della madre. Così gli lasciò il numero di telefono del lavoro, era segretaria nell’ufficio della Società Servizi Idrici della città.
Una settimana più tardi a Xie Qing fu assegnata una trasferta a Hangzhou, e Yang Hong chiese qualche giorno di permesso.
Quella mattina Xie Qing si alzò alle tre. Tra Wenzhou e Hangzhou c’erano più di quattrocento chilometri di strade in condizioni pietose, il viaggio durava oltre dieci ore. Alla guida di un camion pieno zeppo di stuoie raccolse Yang Hong e alle prime luci dell’alba raggiunsero il molo di Mei’ao. Ad aspettare il traghetto c’era una lunghissima fila di auto. In riva al fiume, mentre osservavano le acque scorrere turbolente verso est, ripensarono entrambi alla partenza in corriera per lo Heilongjiang, quando erano ancora due ragazzini.
Al di là del fiume la strada proseguiva costeggiandone il corso. Era primavera, e le piccole alture erano tappezzate di azalee che da lontano sembravano le nuvole rossastre del mattino. In tanti anni da camionista Xie Qing non si era mai sentito tanto felice e leggero. Il fiume incantevole, la fragrante brezza primaverile, le colline ricoperte di fiori riempivano di energia anche Yang Hong. Per tutto il viaggio cantò canzoni popolari sovietiche come Kathyusha, Le tessitrici e La trojka, altre tratte dalle colonne sonore di film albanesi, come «I partigiani salgono sulle montagne», e ancora canzoni di film nordcoreani come La storia di un’infermiera e La ragazza dei fiori. Xie Qing canticchiava insieme a lei. Poi Yang Hong cominciò a raccontargli di Daxing’anling, di quanto lì fossero belle le betulle nane, e di quando si era ammalata ed era quasi morta con la febbre alta per oltre un mese. Quando si fu stancata di raccontare, poggiò la testa allo schienale del sedile e si addormentò. Sul ciglio della strada c’erano alcune bancarelle che vendevano frutta di montagna e Xie Qing si fermò più volte a comprarne un po’, oppure a raccogliere le azalee nei punti in cui il paesaggio era più affascinante. Era deciso a fare di tutto per compiacere Yang Hong.
Quando arrivarono a Dongyang erano quasi le dieci di sera. Rimanevano da percorrere ancora più di cento chilometri, così furono costretti a cercare una pensione per la notte. Prima, però, andarono a mangiare. Il padrone del ristorante, una vecchia conoscenza di Xie Qing, li portò a pescare nello stagno. Il cielo era una volta stellata e nell’acquitrino era tutto un gracidare di rane. Yang Hong tentò a più riprese di acchiappare un pesce senza riuscirci; Xie Qing, invece, catturò subito una grossa carpa erbivora. Nel giro di poco tempo il pesce diffuse un profumino delizioso e venne servito al loro tavolo insieme a pellicine di tofu fresche e qingcai saltati.
Dopo cena andarono nella pensione. Yang Hong desiderava lavarsi ma nella stanza non c’erano servizi, nell’edificio c’era soltanto una saletta da bagno, e l’acqua calda bisognava procurarsela fuori. Xie Qing prese allora due grossi thermos pieni d’acqua, raccomandandosi di usarla con parsimonia, ma lei aggiunse l’acqua calda dei thermos a quella fredda e prese allegramente a sciacquarsi. Quando fu coperta di sapone si accorse che non c’era più acqua calda e si mise a strillare.
«È finita l’acqua calda! Si muore di freddo!».
«Pazienza, vorrà dire che andrai a prendertela tu!».
«Io sono nei guai e tu ti rifiuti di aiutarmi! Hai fatto il galoppino per tutta la vita a Bai Weiwei e adesso non puoi andarmi a prendere nemmeno un catino d’acqua?».
Alla fine le portò un secchio d’acqua calda. Quando socchiuse la porta, Yang Hong lasciò intravedere mezza spalla, e uno sbuffo profumato di sapone Fenghua al sandalo, misto al calore del corpo femminile, uscì dalla fessura. Poi afferrò il secchio e richiuse seccamente la porta facendo scattare la serratura.
Era ormai molto tardi, ma la giornata non era ancora finita. Le due camere erano separate soltanto da un sottile pannello di legno in cui si aprivano delle fessure e a cui erano appoggiati i loro letti. Xie Qing iniziò a parlarle attraverso la parete.
«Vuoi dormire?».
«Metà del mio cervello sta già dormendo, l’altra metà non smette di parlare».
«Mi racconti cosa è successo dopo che ti ho infilato nel finestrino della corriera al molo di Mei’ao?».
«C’era ancora qualche posto libero e ho fatto amicizia con gli altri ragazzi, ci siamo messi a sgranocchiare semi di girasole e in un attimo ho trascorso oltre cinque anni a Daxing’anling assieme a loro».
«Mentre ti guardavo arrampicarti, anche il mio cuore è salito con te», le disse Xie Qing. «Per tutti questi anni non ho fatto che pensarti, e mi sono sempre chiesto come stesse andando il tuo viaggio».
«Oh, poverino, ma davvero? Beh, io invece mi sono dimenticata di te non appena sono salita sulla corriera. In cinque anni nello Heilongjiang non mi pare di aver pensato a te nemmeno una volta. Mi dispiace...».
«Sei davvero antipatica, e dire che io ti guardo da molto tempo, da quando eri ancora piccola».
«E da quando esattamente?». La voce di Yang Hong arrivava confusa e sonnolenta.
«Sarà stato il 1962. Era la prima volta che mettevo piede nella Residenza 118, e da una limousine nera è sceso un uomo in giacca a vento che portava con sé una bambina con le trecce. Quella bambina eri tu».
«E come fai a sapere che ero io?».
«Qualcuno mi aveva detto che quell’uomo era il funzionario più potente di tutta Wenzhou, perciò ho capito che era tuo padre».
«Già, mio padre portava sempre la giacca a vento». Yang Hong sembrava parlare nel sonno. «È curioso che tu l’abbia notato. Nei miei sogni è sempre in giacca a vento. Grazie di esserti ricordato com’era, ormai siete in pochi. Mi sembra di vederlo arrivare proprio adesso».
«Ma che dici?». Xie Qing sentì un brivido freddo.
«Lo vedo che si avvicina». Yang Hong parlava con un filo di voce. Poi il suo respiro si fece regolare e in un attimo si addormentò.
4
La mattina seguente raggiunsero le rive del Fiume Qiantang, fuori Hangzhou. Xie Qing doveva consegnare il suo carico a Fuyang e Yang Hong si separò da lui dandogli appuntamento tre giorni più tardi per rientrare assieme. Dopodiché montò su un bus e si avviò in direzione di Hangzhou.
L’allegria da scampagnata primaverile che l’aveva fatta gorgheggiare per tutto il viaggio iniziò subito a scemare. Non aveva preso la linea diretta per la città, ma quella che faceva il giro largo.
La vegetazione era lussureggiante quasi come quando l’aveva vista, anni prima, insieme al padre Yang Sulin. All’epoca suo padre viveva nella zona del lago nota come Lago Beili: la sua strada era fitta di platani e bastava spostarsi un poco verso sud per ammirare la Diga di Su, una delle attrazioni del Lago dell’Ovest. Uno scenario incantevole. Calpestando il suolo completamente tappezzato di petali di fiori, Yang Sulin era solito attraversare il boschetto in cui si alternavano peschi e magnolie yulan, ora rossi come il sangue, ora bianchi come neve prossima a sciogliersi, mentre nel lago le foglie del loto formavano una distesa ininterrotta e le donne, a bordo di barchette a forma di catino, ne raccoglievano i semi. A volte, dalla Pagoda Leifeng immersa nella luce del crepuscolo, mentre ammirava in lontananza la sconfinata distesa d’acqua, ripensava a Su Dongpo, che con la melma dragata dal fondo del lago era riuscito a costruire quella magnifica diga quasi mille anni prima. Agli occhi di un rivoluzionario che aveva combattuto tante battaglie, Hangzhou era un paesaggio bucolico che superava per dolcezza qualunque altro luogo. Qui i Song Meridionali, che si erano accontentati di regnare solo su una piccola parte del paese, si erano lasciati dietro un’atmosfera malinconica e il giardino in cui si trovava il Mausoleo di Yue Fei, all’estremità orientale della diga, con la sua intramontabile solennità, era la sola cosa che si confacesse allo spirito e al temperamento di Yang Sulin.
Era originario di Qingdao, nello Shandong, e in gioventù si era laureato in meccanica all’Università Jiao Tong di Shanghai. La sua passione, però, erano dibattiti e speculazioni, e adorava leggere i classici della filosofia. Poi, alla vigilia della vittoria nella Guerra di Resistenza contro il Giappone, aveva lasciato i libri per le armi ed era partito per Yan’an, la città che nel 1935 era stata il punto d’arrivo della Lunga Marcia dell’Armata Rossa guidata da Mao Zedong e dove si trovava la base del Partito Comunista. Qui aveva trascorso tre mesi a bruciare carbone prima di essere spedito in prima linea. Al seguito di Jiang Qiliang, che sarebbe diventato un illustre generale dell’Esercito Popolare di Liberazione, era partito per l’attacco a sud. Era rimasto ferito più volte, e la scheggia di una granata gli si era conficcata nel collo lasciandogli una cicatrice. Dopo l’annientamento pressoché totale delle truppe nazionaliste di Chiang Kai-shek nella zona costiera del Sudest, Yang Sulin aveva appeso la divisa al chiodo per diventare caposezione del Dipartimento di Propaganda di Hangzhou, sede del governo provinciale dello Zhejiang. Erano stati gli anni più belli della sua vita. Finalmente aveva un domicilio fisso e poteva accumulare i suoi libri sugli scaffali. Vestiva spesso un completo alla Sun Yat-sen di lana beige, nel taschino sul petto teneva tre penne biro, dal colletto spuntava la camicia immacolata. Quando si alzava il vento, aggiungeva al suo abbigliamento una sciarpa di cachemire, che usava anche per coprire la cicatrice sul collo. Aveva il fisico slanciato e il naso pronunciato e dritto della gente del nord, mentre il suo contegno da uomo di lettere lasciava trasparire un’ottima istruzione, unita al silenzio meditabondo di chi ama passare il tempo con i libri. Aveva sempre dato prova di grande riservatezza e manteneva un basso profilo, come una spada affilata e di rara perfezione che rimane nascosta nel suo fodero.
Il 1953 era stato l’anno del suo matrimonio. Poiché si era nel pieno della campagna «Resistere agli USA, sostenere la Corea», le nozze si erano svolte con grande sobrietà e la cosa era passata inosservata. La sposa era una ragazza mancese che, dopo aver lasciato l’esercito, aveva preso servizio presso l’Ufficio di Pubblica Sicurezza. L’anno seguente avevano avuto Yang Hong. Quando la bambina aveva tre anni, la donna aveva contratto una gravissima tubercolosi polmonare. Morì nel 1958 e fu seppellita ai piedi del Colle Gushan. Dopo la morte della moglie Yang Sulin, il rivoluzionario, non si concesse nemmeno il diritto al dolore: ogni sofferenza doveva essere trasformata in forza. Era stato in quel momento che la sua tempra e il suo talento avevano iniziato a essere notati. Nel 1960, quando il primo segretario del Comitato di Partito della prefettura di Wenzhou venne assegnato dalle autorità centrali a un posto prestigioso nella provincia del Fujian, Yang Sulin fu chiamato dai piani alti del Partito a sostituirlo. Inoltre il generale Jiang Qiliang, il suo vecchio superiore che al tempo era comandante militare della regione del Sudest, lo aveva nominato commissario politico del sottocomando militare. Era l’anno in cui le autorità di Taiwan avevano lanciato roboanti proclami di un contrattacco per riconquistare la Cina continentale e pertanto la zona di Wenzhou, primo avamposto sul Mar Cinese Orientale, si trovava in una posizione strategica. Il lavoro di Yang Sulin era stato apprezzato ai livelli più alti tanto del Partito quanto dell’esercito. Tuttavia, con l’inizio della Rivoluzione Culturale, la spada aveva finito per spezzarsi.
La parte del Lago dell’Ovest che Yang Hong trovava più stupefacente era la grande distesa di immacolate magnolie yulan. Era una pianta i cui rami si ergevano perfettamente dritti, con candidi fiori dai petali grandi come palloni da pallavolo. A incantarla, però, erano i peschi e i ciliegi che circondavano il lago come un banco di nuvole rosate. Quando l’autobus entrò nella zona tra il Parco Huagang e il Tempio Nanping, tra il vacillare dei salici e la danza dei fiori di pesco, le onde tremolanti del Lago dell’Ovest riflettevano ogni ponte con le sue arcate, ogni padiglione, ogni terrazza. Nella mente di Yang Hong prese forma il ricordo del padre che passeggiava sulla riva sotto la pioggia. Era lì il suo luogo natale, la casa della sua anima. Lì sentiva muoversi il proprio spirito. Le capitò a più riprese di avere delle allucinazioni. Per esempio, mentre fissava rapita le ninfee che ondeggiavano sull’acqua, tra le ombre dei fiori vide spuntare un paio di occhi di donna. Avevano qualcosa di familiare, sembravano quelli della madre. Intorno a quegli occhi, poi, Yang Hong scorse un volto: solo allora si accorse che si trattava del suo, riflesso sul finestrino del bus. Si sfregò la faccia per svegliarsi. Non riusciva nemmeno più a ricordare come fosse fatta davvero sua madre, di lei aveva conservato soltanto alcune vecchie foto ingiallite. Crescendo si era resa conto di assomigliarle molto.
Yang Hong scese dall’autobus dove la Diga di Su finiva di fronte al Mausoleo di Yue Fei; poi, costeggiando il lato interno del Lago Beili, si incamminò verso il Colle Gushan. Ricordava ancora la mattina del 1964 in cui il padre l’aveva condotta fino alla casa dove avevano abitato prima del 1960. Era costruita sul fianco della collina, aveva un portico con una volta a botte e le pareti completamente tappezzate di glicini. Adesso le era impossibile ritrovarla, eppure la geografia di quel luogo le risultava familiare.
La zona intorno al Colle Gushan le riempì il cuore di una grande pace. Se il padre non fosse stato trasferito a Wenzhou, pensò, forse non sarebbe stato costretto a chiudere la sua vita con un proiettile. I ricordi di Yang Hong diventavano più chiari con il trasloco nella Residenza 118. Sulle prime non le era andato a genio quell’enorme complesso disseminato di costruzioni appuntite. E poi trovava che nel cortile risuonasse ovunque un’eco insistente: dopo la morte del padre quell’eco era diventata un sussurro che aleggiava nell’aria senza tregua. Giorni infelici, ma ora non riusciva a credere di esserseli lasciati alle spalle.
Aveva imboccato il viottolo che portava al Colle Gushan, una stradina infestata da erbacce e arbusti. Quando il padre l’aveva portata alla tomba di sua madre per la prima volta, nel 1964, le aveva disegnato una mappa per timore che dimenticasse la strada. La tomba era nascosta dalla vegetazione, una minuscola lapide su cui si distinguevano a fatica il suo nome e, accanto, le date: 1933-1958. Era morta ad appena venticinque anni, più giovane di quanto non fosse lei. Poi accese davanti al cumulo una coppia di candele e tre bastoncini di incenso, chiedendosi se l’anno successivo avrebbe ritrovato la tomba della madre ancora lì. Non molto tempo prima aveva sentito dire da Liu – un vecchio compagno d’armi del padre – che alla fine dell’anno ci sarebbero stati dei lavori di ampliamento nella zona della collina, e che le sepolture sarebbero state trasferite.
Dopo aver reso omaggio alla tomba, Yang Hong montò sull’autobus diretto a Wansonglin per fare visita proprio a Liu, l’unico tra i commilitoni del padre con cui avesse ancora dei contatti.
Era stato lui a fornirle informazioni su quanto era avvenuto prima del suicidio. Mentre il padre tornava da un’ispezione delle milizie popolari sull’isola di Gushan, avamposto sul Mar Cinese Orientale, una fazione ribelle aveva progettato di sequestrarlo per sottoporlo a una seduta di pubblica critica. Preoccupato per la sua incolumità, il comandante Liu lo aveva ospitato nel complesso del sottocomando militare. Quando la fazione ribelle era venuta a sapere che si trovava lì, il complesso era stato circondato da una gran folla che ne aveva richiesto la consegna. Liu aveva dovuto rafforzare la guardia e schierare un carro armato all’ingresso, per evitare lo sfondamento da parte dei ribelli.
Avevano resistito fino ai primi di settembre. Poi era arrivata da Pechino una squadra investigativa mandata dal Gruppo per la Rivoluzione Culturale della Commissione Militare Centrale, chiedendo di vedere Yang Sulin. Di fronte a richieste così autorevoli il comandante Liu non aveva potuto far altro che organizzare l’incontro.
Era quasi sera quando i quattro militari giunti da Pechino erano entrati nella stanza di Yang Sulin. Davano l’impressione di essere persone calme e civili. Dopo aver allontanato tutti, erano rimasti a parlare con Yang Sulin a porte chiuse per oltre due ore. Poi, prima di congedarsi, i quattro avevano riferito al comandante Liu che Yang era in possesso di un dossier di estrema importanza di cui esigevano la consegna immediata, ma lui non si era mostrato collaborativo e aveva rifiutato la disposizione. In questo modo si era volontariamente isolato dal popolo.
Quella sera stessa Yang Sulin aveva annunciato al comandante Liu la sua intenzione di andarsene. Liu si trovava in una situazione difficile, non poteva opporsi alla squadra arrivata da Pechino ma aveva a cuore la sicurezza di Yang Sulin. Gli aveva chiesto dove fosse diretto ma aveva ottenuto una risposta generica. La mattina seguente era arrivata la notizia: Yang Sulin era tornato nel suo ufficio, nel complesso del Comitato di Partito della prefettura, si era seduto alla scrivania e si era ucciso con un colpo di pistola.
Anche a distanza di anni, mentre raccontava per l’ennesima volta questa vicenda, il comandante non riusciva a trattenere l’emozione.
«Quei tizi della Commissione Militare Centrale erano venuti per dargli una lezione? Ma il tuo papà non era altro che un funzionario locale, come poteva avere tra le mani del materiale capace di preoccupare i piani alti di Pechino? Continuo a pensare che nel suo caso ci siano ancora delle zone d’ombra».
5
Si avvicinava la Festa di Metà Autunno e Xie Qing, di ritorno da Jinhua, trasportava come di consueto un carico di polli e anatre nel cassone del camion. Anni prima era solito fare il suo ingresso trionfale a casa di Bai Weiwei, nella Residenza 118, con il manubrio e il portapacchi della bicicletta carichi di polli e anatre starnazzanti, accolto dalla famiglia intera, sotto lo sguardo di tutto il vicinato. Ora però le cose erano cambiate, e quel rito apparteneva ormai al passato.
Tornato a casa avvertì una strana frustrazione, e rimase fermo a macerarsi, fumando come una ciminiera. Alla fine uscì in strada e andò al telefono pubblico, deciso a chiamare Yang Hong in ufficio. Da quando l’aveva accompagnata a Hangzhou gli capitava spesso di ripensare a lei. Aveva già avuto una dimostrazione della sua indole brusca e aveva capito quanto fosse difficile, eppure ad affascinarlo era proprio quel caratteraccio. Xie Qing non era più riuscito a vederla, le aveva telefonato un paio di volte per invitarla al cinema, ma lei si era sempre negata. La Festa di Metà Autunno, però, gli sembrò l’occasione giusta per proporle una cena sotto la luna piena. Una volta presa faticosamente la linea un uomo dal tono severo gli disse che Yang Hong aveva chiesto un permesso a causa di un’epatite. Poi attaccò prima ancora che potesse chiedergli se fosse in ospedale o a casa.
Xie Qing rimase attonito davanti all’apparecchio. A Wenzhou, in effetti, si era verificata un’epidemia di epatite A. Pensò che fosse l’occasione giusta per farle visita, prese la bici, assicurò al portapacchi un’anatra muschiata bianca come la neve e si lanciò in direzione della Residenza 118. Ora che era malata, Yang Hong avrebbe avuto bisogno di carne d’anatra per rinforzarsi un po’. I vicini del complesso lo riconobbero, sicuramente, ma Xie Qing non se ne curò e puntò dritto verso la casa della ragazza, chiuse il lucchetto della bici, lanciò l’anatra in un angolo e bussò. Passò un bel po’ prima che la porta si aprisse. L’infiammazione era tutt’altro che leggera, Yang Hong aveva la faccia e gli occhi gialli. Presa dal panico, si mise di traverso: «Non entrare, sono contagiosa!».
«Lasciami entrare, non importa, mi sono già vaccinato con il guado! Hai bisogno di qualcuno che si prenda cura di te», insisté Xie Qing facendosi strada.
La stanza era un disastro, c’erano flaconcini di medicinali ovunque, Yang Hong sembrava smagrita, disidratata e terribilmente debole.
«Ma cosa ti salta in mente? Perché ti ostini a non andare in ospedale?», fece Xie Qing.
«Ci sono stata, ma ci sono troppi malati di epatite e l’ospedale non riesce a ricoverarli tutti. Bisognerà aspettare qualche giorno prima che si liberi una stanza, mi hanno detto di rimanere a casa e prendere intanto delle medicine».
«Così non va bene per niente, devi farti ricoverare al più presto. Vado a cercare qualcuno che mi possa aiutare». A Wenzhou per qualsiasi cosa serviva qualche conoscenza e trovare il modo per farsi ricoverare non era un’impresa particolarmente difficile. Lo colpì che Yang Hong non ci avesse pensato.
Quella sera, grazie a un compagno d’armi, Xie Qing riuscì a trovarle un letto all’Ospedale per Malattie Infettive Taipingling. Rientrato in fretta, preparò il necessario per il ricovero. Infilò in una borsa a rete il catino per lavarsi il viso, il thermos e altri oggetti, poi uscì di casa sorreggendola. Ormai era buio, e non appena Yang Hong girò l’angolo l’anatra si mise di colpo a starnazzare, facendola sussultare.
«E questa», esclamò, «cosa sarebbe?».
«Un’anatra muschiata». Le disse che l’indomani l’avrebbe uccisa e ne avrebbe fatto un brodino per lei.
«Che piume bianche, a vederla sembra quasi un cigno».
«Già, è proprio il genere di cui sono ghiotti i rospi».
«Rospo sarai tu! Beh, io non la mangio. E poi non mi va di mangiare niente, mi viene da vomitare».
«Allora lascia perdere, ti preparo una pappa di riso. Per il momento l’anatra la terrò io».
«Adesso non voglio neanche il riso, non voglio niente di niente».
«E allora non ti preparo niente, solo medicine e acqua calda. Ti lascio crepare al freddo e al gelo».
«Se la metti così mi fai tornare la fame. Ho voglia di un brodo di carassio, ma il carassio lo voglio vivo. Pensi di potermelo procurare? Certo che sì, sei o non sei un galoppino?». Ancor prima di mettere piede in ospedale, l’umore di Yang Hong aveva cominciato a migliorare.
L’ospedale si trovava a oltre dieci chilometri dalla città. Xie Qing l’accompagnò in taxi e sbrigò le pratiche per il ricovero. Poi un’infermiera la pesò: anche con indosso gli abiti di lana e cotone imbottito pesava appena quarantatré chili, era praticamente pelle e ossa. Dal momento che era stata ricoverata in isolamento Xie Qing non poté rimanere con lei, ma decisero che sarebbe andato a trovarla ogni giorno.
In quel periodo il camion di Xie Qing doveva fare il tagliando per il terzo livello di manutenzione, così lo portò a revisionare e si ritrovò assegnato quasi un mese di ferie. Ogni pomeriggio, in ospedale, due ore erano riservate alle visite. Si faceva quasi un’ora di bici per andare da lei, anche se non poteva entrare e doveva limitarsi a parlarle attraverso una grata metallica. In realtà non esisteva una cura efficace per l’epatite A e, a parte grandi flebo di glucosio, non doveva far altro che riposare e tornare ad alimentarsi normalmente. Ma i pasti erano così scadenti che Xie Qing le preparava ogni giorno dei piatti caldi che le portava in un contenitore termico avvolto in un indumento imbottito.
In gioventù Xie Qing adorava pescare ma quando aveva iniziato a lavorare era diventato complicato, senza contare che la città sempre più grande aveva inquinato i fiumiciattoli di campagna. Adesso che si era messo in testa di preparare a Yang Hong un brodo di carassio, decise di andare a pescare, non trovando vere carpe selvatiche al mercato. Questa decisione lo aveva reso felice e la sera stessa si mise a preparare le canne da pesca. Ne aveva molte, tutte ricavate da bambù d’acqua, canne selvatiche che aveva selezionato personalmente sul Monte Taishun. L’estremità più sottile doveva essere robusta, elastica e resistente alla rottura, mentre le giunture dovevano essere avvolte nelle corde di uno strumento musicale, lo huqin, e rivestite di vernice nera, esteticamente gradevoli e solide al tempo stesso. Dopo aver esaminato le canne una per una Xie Qing ne scelse tre. Aprì poi la scatola al cui interno c’erano ami di ogni misura, piombini di stagno, galleggianti e lenze di vari spessori. Montò lenze e ami sulle canne, e tirò fuori da sotto il letto la nassa di alluminio per riporre il pesce.
Alle tre del mattino, dopo una notte insonne, si alzò. Legò le lunghe canne al telaio della bicicletta e assicurò la nassa al portapacchi con una striscia di caucciù ricavata da una camera d’aria. Sulla strada deserta illuminata dai lampioni si imbatté in altri pescatori mattinieri. Pedalavano senza nemmeno salutarsi, lasciando la città come per un tacito accordo. Prima di partire Xie Qing era passato nella bottega di articoli da pesca di vicolo Canghou per comprare due liang di lombrichi da usare come esca.
Il sole non si era ancora levato quando dispose le canne sulla punta di una lingua di terra. Alle sue spalle si stendeva un boschetto di mandarini dove di notte trovavano rifugio molti piccoli uccelli. Si accese una sigaretta, svitò il tappo del thermos militare e bevve una sorsata di tè caldo. Sulla superficie del lago, bagnata dalla luce lunare, si riflettevano le nuvole all’orizzonte. Vicino alla riva le foglie violacee delle castagne d’acqua stavano distese sulla superficie del lago, mentre alcuni fiori di loto galleggianti si spostavano spinti dalla corrente o dalla brezza. Di tanto in tanto un pesce schizzava fuori dall’acqua sollevando degli spruzzi. Xie Qing era andato a pescare un’infinità di volte, ma mai come quel giorno aveva avuto chiaro il suo obiettivo. La sua speranza era quella di acchiappare un paio di carassi da quattro o cinque liang, sufficienti per preparare a Yang Hong una pentola di brodo. Da bambino aveva sentito raccontare la storia di un innamorato che per salvare la sua amata scalava una montagna per rubare un fungo dell’immortalità. A quel pensiero sulle labbra gli spuntò un sorriso. Gli tornò alla mente un’altra storia, quella di un pescatore che aveva catturato un meraviglioso pesce rosso. Il pesciolino, in lacrime, si era messo a scongiurarlo, lasciami andare, ti ripagherò. Il pescatore lo aveva liberato, il pesciolino si era trasformato in una bellissima fanciulla e lo aveva sposato.
Di tanto in tanto qualcosa mordeva all’amo, ma erano sempre pesci minuscoli. Poi, a mezzogiorno, finalmente abboccò una carpa da quattro liang. Aveva un modo di mordere tutto speciale, toccava appena l’esca, tanto che quasi non si era accorto di nulla, poi faceva salire un po’ il galleggiante. Xie Qing sentì qualcosa di pesante, e il pesce iniziò a dibattersi soltanto quando fu quasi in superficie. Allora lo tirò fuori dall’acqua e lo infilò nella nassa. A guardarlo dall’alto non sembrava particolarmente grosso, aveva una forma allungata e il dorso nero. Forse, a furia di starsene nelle profondità del lago, non aveva mai visto la luce del sole. Quando si girò sul fianco mostrò la pancia di un bianco argentato e si rivelò tutt’altro che piccolo. Tornò a casa di corsa, lo sventrò, gli infilò nella pancia un ripieno di carne, aggiunse del cipollotto e ne fece un brodo squisito. Lo versò nel contenitore termico, inforcò la bici e si diresse verso l’ospedale.
Dopo un mese di degenza Yang Hong, completamente ristabilita, ritrovò a poco a poco il suo splendore. Le compagne di stanza le invidiavano moltissimo quel ragazzo che ogni giorno le portava da mangiare. Era il suo galoppino, il suo chang gong, ma quelle si erano convinte che «Chang Gong» fosse proprio il suo nome. Xie Qing si era dedicato anima e corpo alla sua missione: la mente sgombra da qualsiasi distrazione, non pensava ad altro che a farla guarire. Il giorno in cui fu dimessa si era premurato di ripulire la casa, nonché di lavare e disinfettare le lenzuola. Quando Yang Hong uscì dall’ospedale un vento gelato spirava verso sud e il tempo volgeva al freddo. Xie Qing la portò direttamente ai bagni pubblici di via Fuqian: la gente comune non aveva servizi con acqua calda. Yang Hong, che durante il ricovero non aveva potuto lavarsi per un mese intero, aveva il corpo sudicio e untuoso. Rimase a mollo per oltre un’ora, poi gettò via i vestiti che aveva portato in ospedale e indossò abiti e biancheria puliti. Quando uscì dai bagni aveva il viso tutto arrossato e sprigionava dal corpo un profumo di sapone e vapore caldo. Una volta a casa, trovò le stanze tirate a lucido e il copriletto pulito, e vide che le lenzuola e il materasso erano stati stesi al sole, freschi e fragranti.
Il loro matrimonio, pochi mesi più tardi, fu un evento repentino, ma la notizia che Xie Qing aveva sposato la figlia dell’ex segretario del Comitato di Partito locale creò un certo scalpore. Quel matrimonio, in effetti, era stato un’assurdità: se Yang Hong non si fosse ammalata così gravemente, probabilmente quelle nozze non ci sarebbero mai state. Era successo tutto come nella storiella popolare della gru ferita che un popolano aveva preso con sé per curarla. Una volta che si era ristabilita, ecco presentarsi il dilemma: lasciarla tornare a volare tra le nuvole, oppure tenerla in casa e costringerla a cambiare le sue abitudini fino a farla morire di malinconia?
Qualche giorno prima delle nozze Xie Qing sognò Dio: stava facendo un gioco di prestigio, aveva messo due persone completamente diverse dentro una casa che sembrava una scatola magica per ricoprirla teatralmente con un telo rosso. Poi aveva riso di nascosto.
Non passò molto tempo prima che Dio sentisse risuonare da quella scatola gli strilli e le grida delle sue creature.