Capitolo 7

1

Un mese dopo il ritorno di Xie Qing a Parigi dalla Grecia, Qiumei gli fece avere un passaporto cinese con la nuova identità di Wang Jialong, già corredato di visto rilasciato dalle autorità consolari albanesi. Prima di rimetterlo su un aereo per Tirana, però, gli ordinò di prendere un treno per Roma. Lì incontrò alcuni amici di lei, suoi conterranei che parlavano correntemente l’italiano. Non come a Parigi, dove quelli che sapevano il francese si contavano sulle dita di una mano. Rapidamente lui stesso imparò qualche parola, la pronuncia dell’italiano non era poi così diversa da quella del dialetto di Wenzhou. Dopo qualche giorno Xie Qing fu mandato a Bari, una piccola città affacciata sull’Adriatico. Oltre il Canale di Otranto c’era l’Albania. Salì sulla nave, un traghetto bianco che trasportava merci e passeggeri. Non appena fu a bordo, una zaffata acida come di latte rancido per poco non lo fece vomitare. La nave era stipata di gente, e per la prima volta Xie Qing vide dei veri albanesi. Li trovò molto diversi dai francesi o dagli italiani, piuttosto erano simili alla gente dello Xinjiang. Non capì come mai puzzassero di latte rancido finché non si rese conto che andavano ghiotti di un formaggio fresco che all’aspetto sembrava tofu. A giudicare dal loro abbigliamento gli albanesi non dovevano navigare nell’oro, eppure avevano un’aria felice. Qualcuno addirittura lo salutò in cinese: «Ni hao, tongzhi!», «Buongiorno, compagno!». Xie Qing si illuse che sapessero il cinese, ma la loro conoscenza si limitava a quella frase. Sembravano molto socievoli, perché continuavano a farsi delle gran risate e a dargli pacche sulla spalla.

La traversata durò oltre dieci ore. Eppure il canale non era affatto vasto, nel punto più stretto misurava poco più di quaranta miglia. La nave lo percorse da nord verso sud, con destinazione Durazzo, una città non distante da Tirana. Il mattino successivo, in prossimità del porto, Xie Qing in piedi sul ponte si sentì pervadere da una certa agitazione alla vista della riva che si avvicinava. Gli tornarono in mente brani di alcune canzoni in voga al tempo della Rivoluzione Culturale: «Sui flutti del Qianjiang spira la brezza dall’Adriatico / i semi del frumento spediti dal Paese delle Aquile». E poi un’altra: «Amiche fraterne divise dal mare / ai due capi del mondo, eppure vicine / Cina e Albania, ancorché separate / da mille monti e diecimila fiumi...». Continuava a pensare alla Mira del Trionfo sulla morte, di cui si era perdutamente innamorato da ragazzo. Il suo viso candido, con un neo sulla guancia sinistra, mentre suonava la chitarra cantando: «Presto, o prodi, salite sulle montagne / in primavera ci uniremo alla guerriglia. / Sta suonando l’ora dei nostri nemici / la nostra vita di lotta è come una poesia». E ora stava per mettere piede negli stessi luoghi in cui aveva vissuto Mira. Ben presto la nave attraccò a Durazzo.

Non appena ebbe superato la dogana vide un albanese sulla sessantina, piuttosto alto, avvicinarsi con un gran sorriso e accoglierlo in cinese: «Se non erro lei è il signor Xie Qing. Io sono Aleksander».

Doveva trattarsi dell’interprete procurato da Qiumei, di cui gli aveva parlato Mok Yeun-chiu, lo specialista della seta che aveva studiato all’Istituto di Sericoltura di Hangzhou. Sembrava un tipo energico, composto da due cubi sovrapposti, il più grande corrispondeva al corpo e il più piccolo alla testa. Con il cinese se la cavava discretamente.

Xie Qing montò sull’auto verde di Aleksander e lasciò il molo. Era una Mercedes, un diesel dalla carrozzeria massiccia, un po’ vecchiotto, a occhio e croce un modello del 1986. Si stupì che Aleksander potesse permettersi una Mercedes, ma guardando le strade dal finestrino ne vide un’infinità, più o meno un’auto su tre delle macchine che incrociavano, e per giunta si vedevano moltissime serie 300 ultimo modello. Notò persino delle Mercedes 500, BMW, Volvo e altre auto di marca. Le strade, per contro, erano terribilmente vecchie e disastrate, strette, tutte curve e pozzanghere. Quella per Tirana era costeggiata, a intervalli di circa un chilometro, di casematte in cemento che sembravano formare una linea di difesa.

«Allora? Ti piace l’Albania? Sarà anche messa male ma per me è come un vecchio paio di scarpe, a forza di portarle diventano confortevoli», fece Aleksander.

«È tutta un’altra cosa rispetto all’Europa occidentale. Le strade somigliano a quelle che si vedevano una volta in Cina, è un po’ come sentirsi a casa».

«Ah sì?», scoppiò a ridere Aleksander. «Ma le strade le metteranno a posto, ci saranno grandi miglioramenti. E non hai ancora visto le ragazze di Tirana! Vedrai come ti sentirai a casa allora!». Aleksander gli fece vistosamente l’occhiolino.

«Come mai tutte queste Mercedes?».

«Per lo più sono auto di seconda mano dismesse nell’Europa occidentale. Quelle più scadenti vengono rottamate, ma le Mercedes, che sono ancora buone, le spediscono in Albania».

«Ma ci sono anche un sacco di macchine nuove, persino a Parigi verrebbero considerate auto di lusso».

«Quelle sono tutte rubate. Magari pochi giorni fa erano a Zurigo, ma qualche ricettatore le ha fatte arrivare qui in Albania. Le organizzazioni di ladri d’auto dell’Europa occidentale fanno arrivare centinaia di pezzi al giorno, poi da qui le spediscono nell’Europa dell’Est».

«Ma allora saranno a buon mercato, no?».

«Con diecimila dollari puoi portarti a casa una 300 nuova di zecca».

Xie Qing sobbalzò. A Wenzhou diecimila dollari non bastavano neppure ad aggiudicarsi la targa per una moto. Per una Mercedes 300 nera con cambio manuale il padrone di un negozio di calzature aveva scucito un milione e mezzo di yuan.

Chiacchierando arrivarono a Tirana. Aleksander portò l’auto fin dentro un vicoletto costeggiato da case a un piano con giardinetto. Entrarono in un cortile dove cresceva un fico dalla chioma simile alla tela di un ombrello. La casa era stata affittata per Xie Qing, e una domestica di nome Josha l’aveva pulita e lucidata. Josha uscì ad aiutarlo con i bagagli: era una ragazzotta brutta e corpulenta, ma con degli occhi interessanti.

Quando Xie Qing si fu sistemato era ormai sera, e Aleksander lo portò in giro per farlo ambientare un po’. Al loro arrivo a Tirana quel pomeriggio le strade erano pressoché deserte, ma adesso brulicavano di gente. Quando ebbero raggiunto il Bulevardi Zogu I, nel cuore della città, la folla era ormai un fiume in piena. Il viale aveva al centro un canale artificiale per il deflusso dell’acqua alluvionale, ed era fiancheggiato da limoni che stuzzicavano le narici con la loro fragranza. C’era una ressa incredibile, nemmeno ci fosse stata qualche festa. Aleksander spiegò a Xie Qing che in Albania la giornata lavorativa andava solitamente dalle sette del mattino alle tre del pomeriggio. Alle tre, finito di lavorare, si pranzava, dopodiché si schiacciava un pisolino. Al risveglio, alle cinque passate, la gente usciva di casa riposata. C’era chi andava a trovare gli amici, chi faceva quattro passi, chi prendeva un caffè. Xie Qing si mise a camminare nella marea umana, intorno a lui gente di buonumore chiacchierava a voce alta, e di tanto in tanto gli veniva incontro qualche ragazza così bella da fargli sgranare gli occhi. Seguì Aleksander fino al Bulevardi Dëshmorët e Kombit, di fronte al Politecnico di Tirana. Ai lati della strada, gremita di caffetterie, si stendeva una fila di auto addossate le une alle altre di cui non si vedeva la fine. A mano a mano che procedevano Aleksander spiegava: questo è il Palazzo della Presidenza, questa è l’Assemblea del Popolo, questo doveva essere il mausoleo di Enver Hoxha ma è rimasto vuoto. Per essere un mausoleo sembrava una costruzione davvero rudimentale. Passarono anche davanti alla statua di Giorgio Castriota Skanderbeg, l’eroe nazionale, che brandiva la spada a cavallo. L’aveva già vista, su un pacchetto di sigarette albanesi. Poco dopo raggiunsero quella che era stata la residenza di Hoxha: un gigantesco complesso con giardino che occupava una porzione considerevole del centro città. Il giardino non aveva un muro di cinta, era separato dalla strada da semplici inferriate.

Si sedettero in un caffè all’aperto a sorseggiare un Martini e un espresso italiano denso come salsa di soia. Davanti a Xie Qing scorreva un flusso ininterrotto di persone e parecchie di queste, comprese alcune ragazze bellissime, si lasciavano scappare vedendolo un «Kinezi!», «Un cinese!», di sorpresa, e qualcuna lo salutava con un cenno della mano. Quella sì era gente che ti faceva sentire a casa! A Parigi Xie Qing era inconsciamente terrorizzato dagli sbirri, ma non lì: sentì di essere sbarcato in un luogo che conosceva da sempre, in mezzo a un popolo che grazie al cinema sentiva vicino.

«Gli albanesi mi sembrano persone felici», commentò Xie Qing.

«Dici bene», confermò Aleksander. «Anche senza soldi qui si fa una vita più felice che nell’Europa occidentale. Hai mai visto una nazione intera uscire tutta insieme a prendere il caffè?».

«E poi le donne sono uno spettacolo». Xie Qing prese a fissare con audacia le ragazze che si avvicinavano. A Parigi non avrebbe mai osato guardare le francesi in quel modo.

«Presto ti ritroverai circondato di ragazze».

«Davvero?». A quell’incoraggiamento sentì montare l’adrenalina. «E quando potrei incontrarne qualcuna?».

«Non aver fretta, piano, piano», lo frenò Aleksander, in italiano.

In un bar chiamato Las Vegas, in una diagonale della via principale, stavano sedute un paio di ragazze che si potevano avere per un’ora con cinquemila lek, una cinquantina di dollari. Aleksander, però, aveva un’altra soluzione.

Si alzarono per addentrarsi in un quartiere piuttosto buio, ma non passò molto prima che le strade tornassero ad animarsi. L’aria era intrisa di un odore di salsicce arrostite che veniva da un ristorante con decorazioni decisamente spartane e dall’aria sudicia, eppure pieno di clienti. Si piazzarono in un angolino sotto una lampada, in modo da non attirare l’attenzione. Xie Qing ordinò salsicce e insalata. Aleksander lo stesso, e in più del formaggio fresco e una zuppa di fagioli. L’appetito dell’albanese aveva dell’incredibile. Sbrigate le ordinazioni, Aleksander fece chiamare la proprietaria Sofia. La padrona arrivò immediatamente. Era una donna che aveva passato la trentina, con i capelli corti, dall’aria corpulenta e dalla voce un po’ rauca. Aleksander fece le presentazioni, Xie Qing strinse la sua mano dalle palme corte e grassocce. Poi Aleksander le disse qualcosa all’orecchio e la donna scoppiò a ridere e ad agitarsi come per dire di no, lanciando una fugace occhiata a Xie Qing. Quello sguardo gli permise di notare un paio di occhi volpini dalla forma allungata e leggermente lascivi. Aleksander tornò a sussurrarle nell’orecchio, lei scoppiò di nuovo in una risata, gli bisbigliò a sua volta qualcosa e se ne andò.

«Ha detto di sì, tra un po’ puoi portarla con te, ma guarda che la devi riaccompagnare qui».

Sulle prime Xie Qing pensò che fosse uno scherzo. «E quanto vuole?», chiese.

«Non vuole soldi, vuole soltanto spassarsela un po’».

«Ma com’è possibile? Non la conosco nemmeno».

«Hai una bella fortuna, è curiosa di vedere come sono i cinesi».

Quando ebbero finito di cenare Aleksander chiamò un taxi e pochi istanti più tardi Sofia li raggiunse con la sua borsetta a tracolla, si infilò nell’auto e prese posto accanto a Xie Qing. La condusse subito in camera da letto, non si scambiarono nemmeno una parola, ma la faccenda funzionava più o meno allo stesso modo in ogni parte del mondo. Quando Xie Qing fece per sedersi sul letto i vestiti di Sofia erano già spariti. Era una ragazza obbediente, Xie Qing le diceva di stare sotto e lei stava sotto, le diceva di venirgli sopra e lei lo faceva. Ben presto iniziò a farsi sfuggire mugolii inframmezzati da qualche canzone popolare albanese di cui lui non capiva una parola. Tutto ciò non lo metteva a suo agio, ma lo trovava piuttosto divertente. La cosa migliore erano i grandi seni che Sofia gli faceva dondolare davanti al viso. Quando tentò di afferrarli con entrambe le mani per sollevarli verso l’alto, la ragazza si lasciò scappare una risatina di piacere. In quell’attimo la sua mente tornò alla donna che brandiva il maglio nella bottega del lattoniere in via Xihe, nella Wenzhou della sua infanzia. Il tempo passava e scompariva, come i fiumi e le foreste, e scopriva luoghi, persone, odori completamente nuovi. Eppure, come sfere e cilindri scolpiti nella mente, certi dettagli della sua vita erano destinati a riemergere costantemente.

2

Prima che Xie Qing arrivasse in Albania, quattro o cinquecento persone provenienti da Zhejiang e Fujian avevano passato illegalmente la frontiera cinese nei modi più disparati, iniziando così la difficoltosa traversata verso l’Europa occidentale. Sfruttando la rete messa in piedi da Qiumei e Mok Yeun-chiu qualcuno aveva attraversato le foreste del Vietnam, altri avevano valicato la catena del Tianshan nello Xinjiang, altri ancora avevano lasciato la frontiera passando le dogane con un passaporto falso. Si erano poi sparpagliati attraversando Russia, Ucraina e Mongolia, oppure avevano fatto una deviazione attraverso la Thailandia o qualche altro paese del Sudest asiatico, avvicinandosi passo dopo passo alla Bulgaria. Secondo i piani, nel giro di un mese avrebbero attraversato la Macedonia per poi proseguire verso l’Albania. Una volta a Tirana sarebbero stati trasferiti a Valona, nel sud del paese: tra loro e l’Italia a quel punto non ci sarebbe stato che un braccio di mare.

Una sera Xie Qing andò a incontrare una persona allo Shanghai, un ristorante aperto da alcuni cinesi venuti dall’Italia, allestito discretamente, con porte e finestre vermiglie, tovaglie di un bianco immacolato, un garofano su ogni tavolo e addirittura uno stagno con pesci rossi. Eppure gli affari stentavano a ingranare. La persona che doveva incontrare era appena arrivata dalla Bulgaria e, stando alle disposizioni di Qiumei, sarebbe dovuta diventare il suo aiutante. Xie Qing indossava completo nero e cravatta a quadretti. I capelli impomatati e le scarpe brillanti erano perfettamente in ordine. Da quando aveva lasciato la Cina non si era mai tirato così a lucido. Il giovane venuto dalla Bulgaria era già seduto ad aspettarlo.

«Mi chiamo Cui Zuogao e sono del Fujian», si presentò. Aveva un’aria estremamente cortese.

Si strinsero la mano. Non doveva avere nemmeno trent’anni: di bell’aspetto, occhiali dalla montatura nera, era identico al cantante Angus Tung da giovane. All’apparenza era una persona estremamente raffinata, ma aveva un passato sorprendente. Era stato un atleta specializzato nella doppia sciabola nella squadra provinciale di arti marziali del Fujian, e da giovane era stato anche campione nazionale; poi, una volta lasciato il paese, aveva lavorato in un ristorante a Vienna per un anno, senza però guadagnare granché. Quando il padre, per una malattia improvvisa, aveva avuto bisogno di sostenere ingenti spese mediche, aveva rubato dei soldi a un compatriota in procinto di tornare a casa per la Festa di Primavera, e spedito i pochi contanti nel Fujian. Tallonato dalla polizia viennese, era fuggito in Jugoslavia. Ora lavorava per Qiumei scortando i clandestini dalla Russia fino in Bulgaria. Si trovava in Albania come apripista.

Per i clandestini in cammino sulle varie rotte il viaggio stava filando liscio, solo un gruppo di passaggio in Ucraina aveva avuto dei guai. Mentre attraversavano le montagne tra ghiaccio e neve il loro camion era rimasto in panne, nessuno era accorso ad aiutarli, e se l’autista non li avesse guidati a piedi fino al villaggio più vicino sarebbero morti assiderati. Quei clandestini non avevano stivali sufficientemente caldi, a molti di loro i piedi erano diventati neri per il gelo fino ad andare in necrosi; erano stati presi dalla polizia e sottoposti ad amputazioni in ospedale. Erano già stati rimpatriati a Wenzhou, e a quanto si diceva alcuni di loro avevano voluto portarsi a casa anche le gambe mutilate.

«Ma come hanno fatto a portarsi in Cina le gambe?», chiese Xie Qing con i peli ritti per l’orrore.

«Non ne ho idea, forse le hanno trattate come prosciutti o qualcosa del genere. A quanto ho sentito ci hanno messo sopra un bel po’ di sale», sghignazzò Cui Zuogao.

Ma c’era dell’altro. Proprio come nella savana gli gnu o le antilopi che migrano vengono inseguiti da branchi di leoni o iene, anche il gruppo di clandestini in viaggio verso l’Italia era pedinato da una banda di criminali. Si trattava di gente per lo più originaria della Cina del Nord capeggiata da un tipo che si faceva chiamare «Li il Pechinese». La banda aveva imperversato per anni a Mosca finché, l’anno prima, era stata smantellata dalla polizia e aveva iniziato a vagabondare nell’Europa dell’Est. Si erano specializzati nel derubare i clandestini sulle rotte dell’emigrazione. Una volta che avevano tra le mani la loro vittima la costringevano a chiamare a casa esigendo un riscatto, oppure cedevano i «serpenti», cioè i migranti, a un’altra «testa di serpente», cioè un trafficante. Le donne che finivano nelle loro mani venivano regolarmente stuprate. Una volta avevano costretto un poveraccio a scavare una fossa, mettersi in piedi sul bordo e telefonare a casa dicendo alla famiglia di essere in Italia e chiedendo di versare del denaro sul conto indicato dalla banda: appena aveva riattaccato lo avevano ucciso e sepolto nella fossa.

«Qualcuno dei nostri è stato rapito?», chiese Xie Qing.

«Per il momento no, gli uomini sono tutti suddivisi in piccoli gruppi. Quelli, però, li braccano ovunque come lupi. Temo che il Pechinese raggiungerà presto l’Albania».

«E cosa pensi che dovremmo fare?».

«Dobbiamo continuare a tenere i nostri sparsi qua e là, cercare sistemazioni più discrete, fare in modo che non mettano il naso fuori. Poi dovremo procurarci delle armi. In Albania puoi comprare qualunque cosa, anche mitragliatori e lanciarazzi. Quando Li il Pechinese e i suoi arriveranno qui, stanne certo, non riusciremo a evitare lo scontro».

«Bene, allora prepariamoci», disse Xie Qing. Era molto turbato, il pensiero di diventare un criminale lo spaventava ma sentiva che non aveva alternative, non poteva tirarsi indietro.

3

Pochi giorni dopo Xie Qing comprò una macchina. Nonostante le Mercedes fossero a buon mercato scelse una Opel diesel che non desse troppo nell’occhio. Lo aspettavano giorni pieni di incognite. Accompagnato da Aleksander, si presentò in commissariato con la nuova macchina per l’immatricolazione. La sede preposta alle pratiche automobilistiche si trovava nella zona orientale di Tirana. Gli organi municipali erano di una lentezza esasperante: per immatricolare un’auto ci voleva un’eternità, così attesero in un caffè nei paraggi. Lo sguardo di Xie Qing cadde su un edificio sul lato opposto della strada, il cui ingresso, con quattro colonne interamente in marmo, aveva un’aria piuttosto solenne. Aleksander gli spiegò che si trattava del Kinostudio di Tirana: tempo addietro era l’unica casa cinematografica albanese, ma ora era chiusa da anni. Xie Qing si mise a raccontare dei film albanesi che aveva visto in passato. Aleksander, che li aveva visti tutti, gli disse di conoscere parecchi di quegli attori.

«Ma allora conosci anche l’attrice che interpretava Mira in Trionfo sulla morte».

Certo che la conosceva. Era originaria di Saranda, nel sud, per un certo periodo aveva goduto di enorme popolarità ma ormai non viveva più in Albania; correva voce che si fosse trasferita in Ungheria, a Budapest.

«Se dovesse tornare a Tirana», fece Xie Qing, «pensi di potermela far incontrare? È il mio idolo di gioventù, quella che ricordo con più nostalgia».

«Senza alcun dubbio», lo rassicurò Aleksander.

Xie Qing non dette troppo credito alla sua promessa: nella sua mente l’immagine di Mira era quella di una dea, qualcosa che non esisteva nella realtà. Apprezzava l’ottimismo e lo spirito del caro vecchio Aleksander, ma parecchi dei suoi racconti lo lasciavano scettico.

Aleksander aveva studiato all’Istituto di Sericoltura di Hangzhou per otto anni, e ricordava ancora un buon numero di espressioni in dialetto locale. Grazie alla sua straordinaria preparazione sulla seta era diventato un esperto a livello europeo. Lavorava anche come rappresentante commerciale per una ditta di sericoltura italiana. Viaggiava da un capo all’altro del globo partecipando a ogni genere di incontri. Era stato a lungo a capo dell’Ufficio per il Cotone e la Seta del Ministero dell’Agricoltura albanese. Diceva di essere stato addirittura nominato ministro ma aveva rifiutato perché in quella veste avrebbe perso la sua libertà. Sosteneva di aver incontrato Mao Zedong, Lin Biao, Jiang Qing. Raccontò che Zhou Enlai aveva visitato l’Albania tre volte per incontrare i presidenti Tito e Hoxha e che stavano studiando la possibilità di fondare una Repubblica dei Balcani che facesse concorrenza al revisionismo dell’Unione Sovietica. Lui era stato uno degli interpreti in occasione di vari incontri. Provava poi un piacere particolare nel narrare le sue imprese da dongiovanni, e gli raccontò che all’epoca, a Hangzhou, aveva vissuto con un’operaia della seta, una certa Zhang, che per lui era sempre rimasta nubile e che aveva rivisto proprio l’anno prima, in occasione di un congresso in Cina. Diceva di avere una ragazza anche a Mosca con cui aveva avuto un figlio illegittimo che sentiva spesso. In compenso non menzionò alcuna amante in Albania. La moglie era un’insegnante di pianoforte, Xie Qing aveva avuto modo di incontrarla, sembrava la signora Thatcher.

Aleksander diceva di possedere un’enorme proprietà. Nel corso del processo di privatizzazione seguito al declino del Partito del Lavoro d’Albania, aveva speso oltre ventimila dollari per acquisire una fattoria sperimentale per l’allevamento di bachi da seta e la coltura di gelsi. Con oltre cinquecento operai, strutture gigantesche, macchinari di produzione cinese, poteva contare su quasi venti ettari di gelsi di montagna. Aveva sperato di potersi dedicare alla gestione della produzione e di rivendere la seta in Europa occidentale. La rivoluzione economica, però, aveva subito uno shock, i paesi dell’Est si erano ripresi, almeno in parte, mentre l’economia albanese era definitivamente morta. La fattoria di Aleksander aveva fatto bancarotta: all’inizio era rimasto qualche operaio di guardia, ma poi non c’era stato più bisogno nemmeno di quello. Si trovava a duecento chilometri da Tirana, ma Aleksander ormai aveva perso ogni speranza e non aveva voglia di andarci.

Quel pomeriggio si recarono assieme a incontrare una persona.

Il suo nome era Fatos. Aveva una casa fuori città, alle falde del Monte Dajti, con una distesa di filari di viti nel giardino. Quando arrivarono trovarono il padrone di casa seduto all’ombra di una vite con un bicchiere di vino in mano, intento a fissare i tralci sopra la sua testa. Era un tipo tarchiato e robusto, con una testa di capelli grigi e ricci e gli occhi iniettati di sangue: tutto faceva pensare che avesse già alzato parecchio il gomito. Accolse i suoi ospiti spalancando le braccia con un gesto esagerato e strinse la mano a Xie Qing come per dimostrargli la sua forza, poi lo afferrò per le spalle e gli stampò un bacio su entrambe le guance. Non appena si furono accomodati arrivò la moglie con un vassoio e due bicchierini di grappa d’uva, quella che i locali chiamavano raki. Subito dopo la padrona di casa arrivò con un nuovo vassoio, stavolta portando due tazzine di caffè nero come la pece. Al bar gli albanesi prendevano l’espresso all’italiana, ma in casa lo facevano alla turca. Fatos sembrava felice di avere un cinese come ospite e mostrò a Xie Qing un oggetto ereditato dai suoi antenati, un manufatto cinese ricavato da un’intera zanna d’elefante, su cui erano incisi draghi e fenici, generali a cavallo e donne di corte che suonavano il qin. Doveva risalire a prima della dinastia Ming. Fatos sosteneva che appartenesse al nonno.

Passarono poi a discutere della questione che li riguardava più direttamente. Xie Qing disse a Fatos che il mese successivo oltre trecento clandestini sarebbero arrivati alla spicciolata, e voleva che fosse proprio lui a occuparsi di gestire il loro transito attraverso l’Albania e, dal porto di Valona, fino in Italia.

Fatos espresse subito le sue perplessità. Negli ultimi tempi le cose erano diventate sempre più difficili. Tre anni prima, quando il primo barcone stracarico di albanesi aveva raggiunto l’Italia eludendo la sorveglianza del governo, i migranti erano stati accolti a braccia aperte. Ora, invece, la marina italiana pattugliava lo stretto come se volesse difendersi da un attacco nemico. Per i paesi dell’Europa occidentale, quelle centinaia e centinaia di clandestini erano diventate un fardello insostenibile. Erano soprattutto i curdi in fuga dall’Iraq a essere oggetto di grandi dibattiti politici. Ora anche la polizia e la mafia albanese davano la caccia ai clandestini in viaggio, non per bloccarli, ma per esigere il pizzo. Per questo motivo trovare qualcuno che si occupasse di far attraversare prima la frontiera e poi il mare ai fuggiaschi era diventato tremendamente complicato. Certo, non era del tutto impossibile, costava solo di più. Almeno mille dollari a persona.

Xie Qing sapeva che il prezzo di mercato era di circa ottocento dollari a testa ma decise di non mercanteggiare. «Per mille dollari», disse, «dovrai assicurare la sicurezza degli uomini lungo tutto il tragitto. Da un momento all’altro arriverà una banda cinese che li ha braccati fin qui. Dovrai fare in modo di respingerli».

«Questo non posso farlo», replicò Fatos. «La mafia cinese è tremenda».

«E se ci mettessi altri cento dollari a testa?».

«Niente da fare, non lo farei nemmeno per altri duecento», tagliò corto Fatos. «Però posso vendervi armi di ogni tipo».

«Va bene, allora facciamo così. Le questioni con i cinesi ce le sbrighiamo noi», disse Xie Qing mentre Aleksander traduceva per Fatos. Vide il tizio scuotere la testa. «Che c’è? Non è contento?».

«No, al contrario», spiegò Aleksander. «In Albania per dire che si è d’accordo si scuote la testa, così come voi cinesi annuite».

Che cazzo di stramberia, pensò Xie Qing.

4

Una settimana dopo Cui Zuogao riferì a Xie Qing che il gruppo sotto il comando del Quarto e dello Straccione, suoi uomini fidati, si era lasciato la Bulgaria alle spalle per penetrare in Macedonia e l’indomani sera avrebbe passato la frontiera raggiungendo l’Albania. Era formato in tutto da ventisette persone, che una volta in Albania sarebbero state caricate su un camion di Fatos e portate a Tirana in attesa di essere trasferite a Valona. Aleksander ordinò a Fatos di preparare il camion. Xie Qing avrebbe guidato personalmente fino al confine insieme ad Aleksander e Cui Zuogao. Alla frontiera il servizio di accoglienza era già stato approntato: Aleksander fece un colpo di telefono al suo contatto indicando il luogo in cui si sarebbero incontrati, un villaggio di montagna nella prefettura di Coriza.

Xie Qing e il resto del gruppo lasciarono Tirana di buon mattino e iniziarono la scalata: erano monti decisamente alti, con stradine strette e ripide e spesso procedevano in mezzo alle nubi. Superata la prima altura si incontrava la città di Elbasan. Un tempo era uno dei centri metallurgici dell’Albania, gli impianti erano stati donati dalla Cina a titolo totalmente gratuito. Doveva essere un luogo molto famoso, perché Xie Qing ricordava di averne letto il nome negli articoli di giornale che parlavano dell’Albania. Mentre il camion si avvicinava alla cittadina scorse, al di sotto della strada, un impianto industriale le cui fornaci e torri di raffreddamento sembravano dismesse ormai da tempo: la fabbrica, ricoperta dalle erbacce, era sprofondata in un silenzio funebre.

Aleksander era uno che adorava chiacchierare. Continuava ad additare tra le montagne certi vecchi castelli in pietra, parlando delle gesta di Skanderbeg, l’eroe nazionale che aveva combattuto contro l’invasore turco. Quando ebbero oltrepassato Elbasan disse che la sua fattoria si trovava tra i colli poco più avanti. Chiese a Xie Qing se fosse interessato a darci un’occhiata, e poiché era ancora presto decisero di andarci.

In breve tempo, seguendo le indicazioni di Aleksander, raggiunsero una vallata dal paesaggio incantevole. La fattoria esisteva davvero. Il camion superò un cancello ormai sfondato, ma gli edifici non erano caduti in rovina: attraverso le finestre in frantumi si scorgevano ancora le macchine per la trattura della seta, mentre in un altro fabbricato c’erano grandi ceste di bambù ricoperte dai bozzoli dei bachi. Tutt’intorno, nella vallata, boschi di gelsi si stendevano a perdita d’occhio. Solo in quel momento Xie Qing si convinse della verità del racconto di Aleksander. Sembrava piuttosto nervoso, con la faccia attaccata alle finestre socchiudeva gli occhi per guardare all’interno, mentre nella sua mente i macchinari coperti di polvere e ruggine riprendevano piano piano a girare, le operaie azionavano i telai pigolanti, e sotto strati di foglie di gelso i bachi le sbocconcellavano con il loro caratteristico scic scic. Dopo essere «saliti al bosco», ovvero essersi arrampicati su mazzi di frasche secche dove costruire il bozzolo, i bachi iniziavano a secernere il filo di seta, finché i loro gusci candidi come la neve riempivano lo stanzone. Insieme a quei bachi Aleksander aveva passato la vita, per lui la piana compresa tra Hangzhou, Jiaxing e Huzhou, la pianura salentina, la penisola balcanica erano tutte legate da un filo di seta. Sembrava veramente emozionato: ne era certo, il legame che aveva unito Cina e Albania negli anni ’60 e ’70 sarebbe tornato a vivere.

Raggiunsero la frontiera prima del buio. Il confine era un’imponente catena montuosa dal picco innevato dove volteggiavano le aquile. Guardando in alto dai piedi del monte, le case in pietra del villaggio che si trovava a metà del fianco offrivano uno spettacolo stupendo. Quando arrivarono in paese trovarono il loro contatto. In quel momento si stava celebrando un matrimonio e la piazza era piena di gente che ballava, così Xie Qing e i suoi rimasero in disparte a godersi i festeggiamenti. Riuscì a distinguere in mezzo alla folla lo sposo e la sposa, non solo perché sfoggiavano l’abbigliamento più vistoso, ma anche perché continuavano a farsi loro incontro dei tizi con una banconota in mano: ci sputavano sopra e poi la incollavano al viso della ragazza. Non era chiaro se fosse un regalo degli ospiti alla novella sposa o un premio per la sua bravura nel ballo. Xie Qing rimase in un angolo, dove qualcuno lo raggiunse con un vassoio offrendogli raki e caffè.

Il loro contatto li rassicurò: tutto procedeva secondo i piani, i loro uomini erano già in attesa sull’altro versante della montagna, in Macedonia, e una volta calate le tenebre avrebbero aspettato il momento propizio per valicarla e raggiungere così il villaggio. Non c’erano alberghi, perciò dormirono da un paesano per soli duemila lek, una ventina di dollari. La casa era enorme e il padrone riservò loro tre camere. Sotto quel tetto vivevano tre generazioni: la nonna, il padrone di casa con la moglie, il figlio e la nuora. La famiglia offrì loro una cena eccellente, costolette d’agnello, zuppa di fagioli e vino fatto in casa. Dopo l’estenuante giornata di viaggio avevano un grandissimo appetito. Prima di coricarsi, Aleksander raccontò una storia bizzarra e spassosa al tempo stesso. Si diceva che un tempo, in certe zone dell’Albania sperdute come quella, vi fosse questa usanza: quando un padrone di casa aveva un ospite per la notte, a mezzanotte una delle donne di casa tra quelle già sposate si infilava nella sua stanza senza accendere la luce e passava un’ora a letto con lui. L’ospite non era tenuto a fare complimenti ma non poteva nemmeno rifiutare, chiunque fosse la donna di casa che gli faceva visita. Speriamo che venga la ragazza giovane, si affrettò a dire Xie Qing. Non era detto, rispose Aleksander, poteva essere la nonna come la nuora. Quella notte, però, non successe niente del genere. Forse l’usanza era ormai caduta in disuso.

Xie Qing non riuscì a chiudere occhio, continuava a rimuginare su come affrontare la banda di Li il Pechinese. Quando, alle tre passate, riuscì finalmente a prender sonno, fu svegliato dal loro contatto: annunciava che gli uomini sul versante opposto si stavano avvicinando alla frontiera e si apprestavano a varcare il passo per raggiungere il villaggio. Allora si diressero verso il confine, in mezzo a un ventaccio che li faceva tremare. Poi, sulla cresta illuminata dalla luce del primo mattino, scorsero tanti puntini neri che si muovevano. Non passò molto prima che i puntini si facessero più grandi, finché a poco a poco iniziarono a distinguersi delle figure umane. Dopo tante peripezie i clandestini scendevano dal crinale in fila indiana, con il viso segnato dalla stanchezza e uno strano bagliore negli occhi. Ben presto furono caricati nel camion container di Fatos e si misero in viaggio verso Tirana. Non avevano idea del paese in cui si trovavano, molti di loro erano convinti di essere già in Italia.

5

Secondo i piani, una volta passati dalla Macedonia in Albania, avrebbero dovuto trasferire i clandestini a Valona e di lì raggiungere via mare l’Italia. Fatos, però, avvertì Xie Qing che la marina italiana aveva blindato lo stretto e il governo albanese aveva inviato pattuglie a Valona per catturare i clandestini. In quel momento non potevano far altro che aspettare a Tirana.

Nel frattempo erano arrivati altri gruppi di migranti, ormai erano più di cento. Xie Qing, sbalordito dalla quantità di persone gestite da Qiumei, scoprì presto che in molti dei paesi di emigrazione dello Zhejiang e del Fujian il suo nome reale era del tutto sconosciuto, ma lo pseudonimo «A Chun» che usava negli affari equivaleva a una sorta di marchio di fabbrica. Nello Zhejiang e nel Fujian la buona reputazione di Qiumei era proporzionale all’alta percentuale di successo e alle garanzie di sicurezza. E proprio la sicurezza era il suo punto di forza: se necessario non badava a spese per assoldare qualche affiliato alla mafia che garantisse l’incolumità dei suoi clienti fino alla destinazione finale. Gli affari di Qiumei coprivano una rete di grandi dimensioni, dalla gestione delle fonti di clienti nelle zone costiere della Cina, attraverso la corruzione delle autorità doganali e la contraffazione dei passaporti, fino al trasporto dei passeggeri e alla loro accoglienza a destinazione. Era una filiera impegnativa e complessa, forse più del traffico di droga o del riciclaggio di denaro.

Per le strade di Tirana i cinesi erano diventati sempre più numerosi, e la cosa insospettiva Xie Qing. Li il Pechinese doveva essere in città, qualche giorno prima si era imbattuto in un gruppetto di cinesi che davano l’impressione di essere del nord. Tra loro ce n’era uno con la faccia pallida e i capelli a spazzola. Xie Qing era passato accanto al gruppo e si era voltato a guardare, e anche il tizio si era girato a fissarlo. L’auto di Xie Qing era parcheggiata sul ciglio della strada, ci montò sopra e mise in moto. Nello specchietto retrovisore vide che non lo perdevano di vista.

Quella sera Xie Qing invitò i suoi compari a cena allo Shanghai. Anche se non avevano mai visto A Chun, per anni il Quarto, lo Straccione, Cui Zuogao e gli altri avevano lavorato per lei ricevendo sempre un giusto compenso. Per questo Xie Qing era stato accolto così bene. Per ravvivare un po’ l’atmosfera aveva chiesto a Cui Zuogao di invitare anche due donne del gruppo dei clandestini. Al ristorante gli fu riservato il posto a capotavola, ormai lo trattavano come un piccolo boss.

Parlarono a lungo del Pechinese. Secondo lo Straccione, dovevano prendere l’iniziativa e attaccarlo. Il Quarto invece temeva che da uno scontro diretto tutte le parti sarebbero uscite sconfitte e consigliava di aspettare. Xie Qing si limitò ad ascoltare senza dire una parola.

Dopo aver mangiato, passarono a tracannare il fortissimo baijiu cinese del ristorante. Nel locale c’era anche un impianto per il karaoke di pessima qualità, ma grazie all’alcool trovarono la forza di intonare qualche canzone.

Poi Cui Zuogao ricevette una telefonata: la casa in cui era alloggiato l’undicesimo gruppo, nei pressi dell’ospedale generale, era stata circondata. C’erano soltanto due uomini di guardia che in quel momento difendevano la porta, gli aggressori stavano tentando di forzarla e cercavano di fare lo stesso con le finestre. Lasciarono immediatamente il ristorante, montarono sulle auto e corsero a dare aiuto ai compagni. Appena furono sul posto gli uomini dello Straccione tirarono fuori le pistole e spararono qualche colpo in aria. I tirapiedi di Li il Pechinese erano in avanscoperta ma, una volta individuato il luogo in cui si nascondevano i clandestini, avevano cercato di approfittare della situazione. Vedendoli arrivare, si diedero immediatamente alla fuga.

Quando Xie Qing entrò nella casa si trovò davanti alle facce terrorizzate dei suoi inquilini. Lo colpirono soprattutto alcune ragazzine, una aveva una manica strappata, altre due il viso graffiato e sanguinante. Raccontarono che la banda era riuscita a sfondare le finestre, le aveva aggredite per trascinarle via. Capì che lo scontro era ormai inevitabile. In caso contrario avrebbe perso la fiducia e il rispetto dei suoi uomini e soprattutto di Qiumei.

Iniziò subito i preparativi. Cui Zuogao, lo Straccione, il Quarto e gli altri in fondo erano soltanto dei trafficanti di uomini, non dei soldati, e non sarebbero stati in grado di tener testa alla banda di Li il Pechinese. Doveva trovare qualcuno che avesse esperienza militare. Forse Aleksander aveva l’uomo che faceva al caso loro: un cinese che si trovava nel carcere di Tirana, noto per la spregiudicatezza e la violenza con cui portava a termine le sue rapine. Xie Qing affidò ad Aleksander cinquantamila lek, ordinandogli di fare tutto il necessario per permettergli di visitarlo in prigione.

Si presentò in carcere con due stecche di Marlboro, salsicce italiane e cioccolato. Il nome dell’uomo era Guo Linfei, aveva i capelli rasati, il viso cereo, lo sguardo perso, le labbra curvate in un sorriso appena accennato.

«Chi sei? Che cosa vuoi da me?», chiese a Xie Qing.

«Sono un uomo d’affari; si parla parecchio di te e ho pensato che sei uno che merita rispetto, per questo sono qui».

«In che campo lavori?».

«Più o meno lo stesso in cui lavori tu».

«A occhio te la passi bene».

«Non mi lamento, ma abbiamo tutti le nostre rogne».

«Cosa vuoi da me?».

«C’è un lavoro da sbrigare. Per prima cosa cercherò di tirarti fuori di qui. Questo è il mio numero di telefono, quando esci fammi un colpo».

Xie Qing affidò ad Aleksander il compito di corrompere a suon di dollari chiunque potesse farlo uscire su cauzione. Pochi giorni più tardi ricevette una telefonata di Guo Linfei in cui gli annunciava di essere libero e pronto a lavorare per lui.

Xie Qing nel frattempo aveva raccolto qualche informazione. Guo Linfei era originario di Mianyang, nel Sichuan, aveva prestato servizio presso il Comando della Guarnigione di Pechino; congedatosi, aveva lavorato come guardia del corpo tra Shenzhen e Hong Kong e infine, tallonato dalla polizia perché coinvolto in un caso di omicidio, era fuggito dal paese per ritrovarsi chissà come nei Balcani.

6

Lo scontro con Li il Pechinese ebbe inizio la seconda domenica di ottobre, di sera. Il teatro del combattimento fu il quartiere di Kombinat, nella periferia sud-ovest di Tirana, un tempo il distretto delle industrie tessili, disseminato di fabbriche e stabilimenti in disuso. Lì la polizia aveva ben poca giurisdizione. Xie Qing era riuscito a mettere insieme oltre quaranta uomini, più di quelli su cui poteva contare Li il Pechinese. Guo Linfei aveva fatto arrivare dalla Bulgaria una decina di compagni. Avevano adottato la procedura delle società segrete di Hong Kong e Taiwan, lanciando prima una dichiarazione di guerra per iscritto, designando poi il luogo dello scontro di concerto con gli avversari e definendo infine le regole di ingaggio. Xie Qing aveva portato Guo Linfei, Cui Zuogao e il resto della truppa a casa di Fatos. L’uomo aveva aperto il suo magazzino dell’artiglieria, tutta proveniente dai depositi dell’esercito nazionale. Davanti ai loro occhi si aprì una distesa di armi e munizioni, quasi tutte di produzione cinese: pistole Tipo 54, fucili semiautomatici, fucili d’assalto Tipo 56, mitragliatrici di squadra, lanciagranate 40 mm, persino pistole lanciarazzi da segnalazione. Con quindicimila dollari Xie Qing acquistò tanta merce da armare un intero reparto di fanteria, e persino elmetti e kit di soccorso. Una volta procurato l’equipaggiamento, aveva portato i suoi uomini sul Monte Dajti e ordinato a Guo Linfei di addestrarli nell’uso delle armi automatiche. Nonostante molti di loro avessero una lunga esperienza in fatto di sparatorie, non avevano mai toccato armi come quelle in dotazione ai militari. Il problema era che le avrebbero avute anche i loro nemici. A Tirana procacciarsi un mitragliatore non era più difficile che comprare un pomodoro.

Lo scontro era ormai imminente. Xie Qing sapeva che combatteva soprattutto per se stesso. Nella sua mente continuava a ripresentarsi una scena, quella di un obeso ufficiale tedesco che gridava: giovanotti, arrendetevi, resistere non servirà a niente! Poi sulla strada irrompeva un carro armato che iniziava a fare fuoco, ma un guerrigliero saltava giù da un edificio, apriva il coperchio del tank e ci lanciava dentro una granata anticarro. A quel punto scattava un fermo immagine, partiva la musica e si leggeva il titolo del film, Unità di guerriglia.

Proprio il giorno dello scontro Aleksander portò a Xie Qing una notizia: Manjola, l’attrice che impersonava Mira in Trionfo sulla morte, era tornata da Budapest e si sarebbe fermata a Tirana prima di ripartire l’indomani per Roma. Gli disse che avrebbe potuto organizzare una cena per quella sera stessa, in modo che potessero incontrarsi. Secondo i piani sarebbero stati Guo Linfei e Cui Zuogao a guidare gli uomini sul campo di battaglia, lui sarebbe rimasto al quartier generale in attesa. C’era tutto il tempo per una cena con la donna dei suoi sogni.

La cena si sarebbe tenuta al Bujtina e Gjelit, la Locanda del Gallo, un ristorante nella periferia nord-ovest di Tirana che era stato un allevamento statale di polli. Dell’allevamento non restava traccia, ormai appariva come un tradizionale complesso in stile albanese, con un tetto orientaleggiante rivestito di tegole nere. All’interno si apriva un ampio cortile in cui crescevano piante e fiori tra una ruota idraulica che girava a turni regolari e una meridiana al centro dello spiazzo. Quando Xie Qing arrivò alla locanda, alle sei e mezza, sulla meridiana non si distingueva più l’ombra proiettata dalla luce del sole. Xie Qing e Aleksander scelsero un tavolo ricavato da tronchi d’albero vicino alla finestra. Nel ristorante c’era un gigantesco forno a carbone in cui bruciavano fiamme scarlatte e si arrostivano le costolette d’agnello. Nella sala si spandevano le spirali di fumo sprigionate dal grasso che sfrigolava.

In quel momento, nel quartiere industriale di Kombinat, continuava a regnare una calma funerea. A fare compagnia alle file di macchine per la tessitura arrugginite solo una distesa di polvere senza fine. Negli impianti all’aperto, invece, alcuni reattori di sintesi per la fabbricazione di fibre artificiali erano ancora in piedi e si intrecciavano con un’infinità di tubi di ogni dimensione. Guo Linfei e Cui Zuogao entrarono dai cancelli ovest alla testa dei loro uomini, ma non videro anima viva; gli uomini di Li il Pechinese avevano già raggiunto il luogo dello scontro attraverso i cancelli a est.

Xie Qing fumava una sigaretta dopo l’altra. Secondo i suoi calcoli gli uomini dovevano essere già schierati nel luogo dello scontro. La ruota nel cortile iniziò a girare; sul quadrante della meridiana, la luna appena sorta nel cielo proiettava un’ombra. All’interno del ristorante non c’erano orologi, solo una clessidra di bronzo e vetro. E Mira ancora non si vedeva.

«Verrà senz’altro», lo rassicurò Aleksander. In cuor suo, però, era preoccupato. Per alleggerire la tensione si mise a raccontare un aneddoto che lo aveva visto protagonista non molto tempo prima a Bombay, dove era andato per l’annuale Congresso Mondiale di Sericoltura. Il suo ospite indiano gli aveva consegnato uno strano insetto con il consiglio di appoggiarlo sul pene prima di andare a letto. L’insetto tropicale aveva una passione innata per il glande e, strisciandovi sopra con le sue innumerevoli zampette pelose, era capace di procurare un piacere ancora più intenso di un vero rapporto sessuale.

Finalmente Xie Qing vide una donna varcare l’ingresso della locanda. Gli bastò un’occhiata: anche se aveva i capelli ingrigiti e il viso segnato, dal neo sulla guancia e dall’espressione degli occhi riconobbe la magnifica dea dei film in bianco e nero di cui si era infatuato. Aleksander spalancò le braccia da lontano, Mira si diresse a passi rapidi nella sua direzione. Quindi il vecchio Aleksander era davvero in intimità con lei: a poco a poco le storie del suo compare, a cui sulle prime non dava mai credito, si stavano rivelando vere, e magari era vero anche l’aneddoto dell’insetto indiano. Aleksander e Mira si abbracciarono scambiandosi lunghi e calorosi convenevoli, poi la aiutò a sfilarsi il cappotto e lo appese all’appendiabiti. Xie Qing non poté fare a meno di ammirare il suo stile da attempato gentleman.

Finalmente Aleksander gli presentò Manjola: di sicuro lo stava incensando a non finire, perché di tanto in tanto Xie Qing vedeva gli occhi di Mira illuminarsi. Erano azzurri come quelli dei nordici. Guardando i suoi film si era convinto che avesse gli occhi scuri, per via del bianco e nero. La considerava la donna più affascinante del mondo. Per poter vedere i suoi film aveva speso in biglietti del cinema tutti gli spiccioli che era riuscito a raggranellare, e ne ricordava ancora a memoria alcune battute e qualche scena: «Caramelle, caramelle, caramelle al cioccolato!», «Mussolini ha sempre ragione!». E poi la scena in cui l’ufficiale tedesco getta un fiore bianco nella fossa scavata per lei prima di ordinare alla spia di fucilarla, ma la spia, proprio quando sta per fare fuoco, punta la canna verso il tedesco. Manjola gli domandò quale fosse la sua scena preferita. Xie Qing non ebbe esitazioni: quella in cui, mentre ti cambi la benda sulla ferita, l’uomo accanto a te suona la chitarra. Manjola alzò gli occhi al cielo e rimase a lungo pensosa. «La scena in cui mi tolgo la giubba e scopro la spalla, giusto?». «Esatto, ma non ti sei limitata a scoprire una spalla, si vedeva anche un lembo del reggiseno. Non sai quanti sogni felici hai regalato a tanti ragazzi cinesi grazie a quella splendida ferita!». Nonostante fossero passati molti anni, non aveva mai dimenticato quella canzone. E così dicendo non poté trattenersi dall’intonarla: «Presto, o prodi, salite sulle montagne / in primavera ci uniremo alla guerriglia...».

Manjola aveva il volto rigato di lacrime. Nel ristorante c’erano alcuni suonatori di chitarra e di cornamusa, Aleksander chiamò uno dei chitarristi e gli disse qualcosa. Quello annuì e al primo tocco delle sue dita sgorgò un fiume di note: «Presto, o prodi, salite sulle montagne / in primavera ci uniremo alla guerriglia. / Sta suonando l’ora dei nostri nemici / la nostra vita di lotta è come una poesia». Cantava Mira, cantava Aleksander, cantavano i musicisti, cantavano alcuni clienti del locale, si sgolava persino un cameriere con un vassoio tra le mani.

Manjola raccontò a Xie Qing che quella di Mira era una storia vera accaduta durante la Seconda guerra mondiale. La vicenda risaliva al 1944. Gli disse che doveva assolutamente andare in visita ad Argirocastro, sul confine greco. Nella piazza circolare di quella città di montagna, costruita interamente in pietra bianca, sorgeva un imponente albero di fico ai cui piedi si trovava una statua di marmo. La statua raffigurava una ragazza dallo sguardo addolorato e severo, impiccata a quello stesso albero dai tedeschi quando aveva soltanto diciotto anni. Era una studentessa unitasi alla resistenza clandestina che lavorava come staffetta per la guerriglia. Tradita, era stata catturata dai tedeschi. Poco dopo la sua morte, le truppe dei partigiani avevano valicato le montagne ed erano entrate nella città per vendicarla.

Xie Qing rimase pensieroso, la sua mente andò ai suoi uomini, la luna era ormai alta sopra il Monte Dajti. Le truppe di Guo Linfei e Cui Zuogao si erano disposte sulle linee di combattimento e avanzavano guardinghe dietro file di macchinari in disuso avvicinandosi al luogo dello scontro. La scia rossa di un razzo segnalatore squarciò il cielo notturno: la mitragliatrice di Guo Linfei iniziò a fare fuoco, e subito prese a rimbombare assordante il rumore dei colpi. Sfruttando come riparo le valvole dei tubi, da entrambe le parti si sparava con violenza e si lanciavano granate. I proiettili colpivano tubi e scale a chiocciola sprigionando scintille ovunque. Poiché l’area non era illuminata, per individuare il bersaglio si poteva fare affidamento soltanto sul chiarore lunare. La fine del primo scontro vide il territorio controllato dalle due fazioni pressoché invariato. Quando fu sferrato il secondo attacco, però, gli uomini di Xie Qing ebbero la meglio. Alla lotta avevano voluto prendere parte anche alcune delle donne del gruppo dei clandestini: ricaricavano le armi per gli uomini, accendevano loro le sigarette, portavano acqua. I combattenti di Guo Linfei ricacciarono indietro quelli di Li il Pechinese di almeno un centinaio di metri: una volta conquistato il reattore, che garantiva una posizione sopraelevata, Guo poté monitorare dall’alto i movimenti in ogni parte del campo. Poi appoggiò la mitragliatrice e iniziò a bersagliare il fronte nemico. Ben presto gli avversari non riuscirono più a mantenere le posizioni e si rintanarono all’interno di un fabbricato pieno di macchine per la tessitura. Guo Linfei non diede loro un attimo di respiro, ordinò di continuare a fare fuoco. Gli uomini di Li il Pechinese furono costretti a ritirarsi trascinando i feriti e dandosi alla fuga sulle colline dietro la fabbrica.

Quando Xie Qing guardò fuori la luna aveva oltrepassato il cornicione e sulla meridiana non si allungava più alcuna ombra. Uno dei camerieri venne a capovolgere la clessidra del ristorante. Xie Qing, Manjola e Aleksander avevano già consumato una densa zuppa, costolette d’agnello e insalata, avevano finito due bottiglie di un vino rosso spagnolo e una di un bianco italiano. Nel forno a carbone che bruciava allegramente, una sfilza di costolette continuava a sfrigolare e ad arrostire. Mentre sorseggiavano un caffè forte e profumato continuarono a ricordare il bel tempo andato.