Capitolo 9
1
Valona, sulla costa albanese, si affaccia sull’Adriatico ed è separata dall’Italia solo da un braccio di mare: da Lecce, la città italiana più vicina, dista una manciata di miglia che in motoscafo si possono coprire in poche decine di minuti. È una zona con dense macchie di ulivi, dove crescono limoni, uva e fichi. Grazie alla sua posizione di crocevia tra Europa orientale e occidentale e al fatto che frontiere e dogane ormai esistevano soltanto di nome, il trasbordo illegale di persone verso l’Italia era diventato il settore portante dell’economia cittadina. Dalla Turchia, dall’Europa dell’Est, dall’Asia, a migliaia erano approdati in Europa occidentale attraverso quello stretto. Il business dell’immigrazione clandestina aveva concentrato in quella zona una grande quantità di capitali, alimentando anche il traffico di droga e il contrabbando di armi. Cellule della mafia italiana si erano prontamente sviluppate anche lì, facendo di Valona la Sicilia albanese.
Xie Qing e Aleksander, dopo oltre sei ore di macchina, arrivarono alle porte di Valona, ma non riuscirono a trovare la strada che portava in centro. Si erano ormai spazientiti quando si avvicinò loro un ragazzino che camminava a passo veloce sul ciglio della strada. Aleksander gli chiese se sapesse come arrivare all’Hotel Bregdeti; il ragazzino rispose che poteva accompagnarli. Così montò in auto insieme a loro e iniziò a dare indicazioni: fece imboccare a Xie Qing un sentiero che si snodava lungo il versante di una collina, stretto e ripido, sembrava tutto meno che la strada per la città. La macchina era arrivata quasi in cima alla collina quando il ragazzino disse a Xie Qing di fermarsi, balzò giù dall’auto e schizzò come una freccia verso una casetta a bordo strada, dove una donna con la testa avvolta in un fazzoletto gli faceva dei cenni con la mano. «Mami, mami, sono tornato!». Il marmocchio li aveva fregati per farsi riportare a casa.
Il panorama del lungomare era uno splendore. Le spiagge dorate fitte di oleandri erano piene di ragazze magnifiche e formose, e l’acqua era di un azzurro che riluceva come diamante. Aleksander indicò, su una scogliera in lontananza, un complesso architettonico di cui non restavano che rovine: era la villa dell’ex primo segretario Enver Hoxha. Appollaiata come un nido proprio sull’orlo del precipizio, aveva oltre cento stanze e un ascensore segreto che conduceva direttamente al fondale marino, dove un sottomarino era pronto a prelevare il capo di Stato in qualsiasi momento. Aleksander raccontò che nel 1970 aveva accompagnato alla villa l’allora ambasciatore cinese in Albania, Geng Biao. Quando il Partito del Lavoro aveva perso il potere, nel 1991, lo stupefacente edificio era stato completamente saccheggiato dalla gente del posto, e ora restava solo un cumulo di macerie.
Dopo la fuga del Pechinese, Xie Qing si era dedicato a garantire la sicurezza dei clandestini. Uno dopo l’altro erano stati spediti da Tirana a Valona, una trasferta di oltre trecento chilometri, in attesa di essere traghettati in Italia. Negli ultimi mesi il numero di clandestini accorsi per approfittare della sanatoria era aumentato ulteriormente e la polizia di frontiera e la marina italiana avevano intensificato i pattugliamenti blindando lo stretto. I proprietari di imbarcazioni disposti a mettersi in mare per portare i clandestini sull’altra sponda erano sempre più rari, il canale tra Valona e l’Italia era sbarrato, e fino a quel momento Xie Qing aveva fatto partire meno di un centinaio di «serpenti». Numerosi clandestini si trovavano in una situazione di stallo, costretti ad aspettare, e nel momento dell’attesa è più facile che succedano guai. E non c’erano soltanto i migranti di Xie Qing, ma anche quelli provenienti dall’Europa dell’Est e dall’Asia centrale e occidentale, arrivati fin lì seguendo decine di rotte diverse. Al nervosismo dei clandestini si aggiungeva il disappunto degli abitanti del posto. A Valona gli affari prosperavano anche grazie al turismo: il blocco delle rotte aveva trasformato la città in una belva malata e indolente, che di tanto in tanto si lasciava sfuggire un gemito spaventoso. Spesso, nel cuore della notte, si udiva per le strade qualche isolato colpo di pistola.
I dintorni del porto pullulavano di taverne e caffè. Di giorno questi locali erano per lo più frequentati da disoccupati, depressi e senza il becco d’un quattrino, che per venti lek – circa venti centesimi di dollaro – potevano avere una tazza di caffè, sedersi, fissare inebetiti il mare in lontananza e far passare così la giornata. Di sera, però, gli affari di taverne e caffetterie sembravano ingranare sul serio: i parcheggi fuori dai locali venivano occupati da Mercedes e BMW, e iniziava una processione ininterrotta di clienti con schiene possenti, spalle larghe, braccia coperte di tatuaggi e catene d’oro al collo. A quel punto il prezzo di un caffè era già salito a cento lek, quello di un bicchiere di whisky a seicento. Le caffetterie si riempivano in fretta e un fitto fumo di sigarette offuscava la luce delle lampade. Era questa la gente che portava ricchezza alla città. La maggior parte degli affari segreti di Valona si concludeva proprio in quei ristorantini e caffè. Ma non tutti erano lì per quello, c’era anche chi veniva per piacere, cercando con lo sguardo le ragazze sedute negli angoli poco in vista del locale. Si invitava la ragazza al proprio tavolo, si chiedeva cosa volesse bere. Lei ordinava una bevanda cara, ma non al punto che il suo cliente la trovasse esagerata, per ripagare il padrone del locale procurandogli un profitto. Poi ci si alzava e si andava via, magari dopo appena una sorsata. Le ragazze non avevano un luogo di lavoro fisso, a volte si spostavano a casa del cliente, altre in qualche alberghetto, ma il più delle volte sbrigavano la faccenda sul sedile posteriore di un’auto.
Xie Qing, Cui Zuogao, Guo Linfei e gli altri si incontravano quasi ogni sera in uno di questi ristorantini per un bicchiere. Durante il giorno non mettevano il naso fuori di casa e restavano vicino ai clandestini, la sera si avventuravano a incontrare gli uomini di Fatos nelle taverne per organizzare le spedizioni. Da una decina di giorni, però, non c’era nave disposta a prendere il mare.
«Se andiamo avanti così ho paura che succeda un guaio. Gira voce che le bande locali cominceranno a chiedere il pizzo», annunciò Cui Zuogao.
«Ma non abbiamo già pagato gli uomini di Fatos perché ci assistano finché il lavoro non sarà completato? Perché dovrebbero volerne ancora?», protestò Xie Qing.
«Le cose stanno così. In condizioni normali Fatos avrebbe dato una parte del denaro alle bande di Valona, ma adesso non siamo in condizioni normali, tutti cercano un modo per far soldi, sono nervosi e non seguono le regole», insistette Cui Zuogao.
«Ieri hanno rapito un turco, pare che fosse una testa di serpente anche lui», aggiunse lo Straccione.
«E adesso? Lo hanno rilasciato?», chiese Xie Qing.
«Non si sa. In Albania, quando ti rapiscono, le probabilità di tornare a casa non sono molte».
«Quei tipi lì accanto alla vetrata, li vedete? Ho la sensazione che ci stiano fissando da un pezzo», si intromise Guo Linfei.
Xie Qing si era insospettito già da tempo. Quel gruppetto era una presenza fissa nel locale e non smetteva di osservarli. «Fate molta attenzione», disse, «i nostri uomini sono ormai a un passo dall’Italia. Stanotte restate con loro, se dovesse succedere qualcosa adesso, perderemmo tutto il lavoro fatto finora».
2
All’una di notte Xie Qing si svegliò di soprassalto. Pensò di essere stato scosso da qualche sogno, ma presto si rese conto che si trattava di un rumore reale. Era ancora nel letto, gli occhi sbarrati e la mente perfettamente lucida, la stanza non era del tutto buia perché dalla finestra rivolta verso il mare filtrava una luce fioca. Trattenne il respiro nel tentativo di individuare l’origine del rumore e proprio in quel momento vide un’ombra al di là del vetro. Xie Qing sfilò da sotto il cuscino la sua Tipo 54 già carica e, nel buio, la puntò contro la finestra. Di fronte a quel gesto la sagoma non mostrò alcuna reazione. Comparve un’altra ombra e, un attimo dopo, sparirono entrambe.
Xie Qing, ormai perfettamente sveglio, si rese conto di aver fatto un errore: non avrebbe dovuto ordinare a Guo Linfei e Cui Zuogao di restare con i clandestini, aveva trascurato l’eventualità di diventare lui stesso un bersaglio. Scese dal letto senza fare il minimo rumore stringendo la pistola a cui aveva tolto la sicura, raggiunse di nascosto la finestra strisciando lungo la base della parete. Poco distante udì il motore di un’auto che girava al minimo. Indietreggiò con cautela e raggiunse a tentoni la porta, su una parete divisoria piena di fessure. Vide baluginare le luci delle torce. Ormai erano all’interno della casa. Proprio in quell’istante la porta venne sfondata con un frastuono assordante da uno stivale. Un manipolo di uomini si riversò nella stanza mentre il raggio di luce di una torcia si fissava su di lui. Vide parecchi mitragliatori perfettamente lucidi e posò immediatamente la pistola. Se avesse fatto fuoco i fucili d’assalto lo avrebbero crivellato di colpi fino a ridurlo a un alveare. Gli uomini si impadronirono della sua arma e lo circondarono, le canne dei fucili puntate alla testa. «Mos u leviz!», gli intimarono gli albanesi, ma lui non capiva. Nei giorni che seguirono, sentendoli ripetere di continuo quell’espressione, pensò che dovesse significare: «Non ti muovere». Alla luce delle torce Xie Qing riconobbe nella stanza almeno sei uomini armati di alta statura, tutti con il viso coperto da sciarpe nere che lasciavano visibili soltanto gli occhi.
Per prima cosa lo bloccarono a terra mentre con un nastro spesso e appiccicoso gli bendavano gli occhi, poi la bocca, finché non ebbe tutta la testa fasciata come una mummia. Ne spuntava soltanto il naso, così da permettergli di respirare. Contemporaneamente gli legarono mani e piedi, gli piegarono le ginocchia contro il petto, dopodiché lo impacchettarono saldamente con corde e nastro come uno zongzi, un fagottino di riso glutinoso. Si sentì poi buttare addosso una coperta di lana e udì gli albanesi contare a bassa voce: «Një, dy, tre». Lo sollevarono e dal rumore dei motori capì che lo avevano portato fuori. Fu caricato nel bagagliaio, il cofano si richiuse con un rumore sordo e l’auto si mise in moto. Xie Qing, in preda al panico, respirava affannosamente, temeva di morire soffocato nel giro di pochi minuti.
La macchina procedeva a grande velocità, senza rallentamenti né svolte; si capiva che non si trovavano in centro, quella strada correva fuori città. Solo in quel momento Xie Qing si rese conto che con ogni probabilità quella sarebbe stata la sua fine. Non ce l’aveva con gli albanesi, era arrabbiato con se stesso: come aveva potuto commettere una leggerezza del genere? Era evidente che lo avevano adocchiato da un pezzo e, avendolo visto finalmente solo, erano passati all’azione. Se Cui e Guo fossero stati lì insieme a lui, in tre avrebbero potuto metterli in fuga.
L’auto intanto aveva imboccato una strada di montagna. Dopo essersi faticosamente inerpicata tra le alture per circa mezz’ora, si fermò.
Il bagagliaio fu riaperto e Xie Qing trasferito in quella che, a giudicare dall’umidità, sembrava una grotta con degli scalini in pietra. Sentì gli albanesi che lo trasportavano ansimare per lo sforzo. Venne posato a terra con la schiena contro la parete. Il nastro che gli copriva la bocca fu tagliato, sciolte le corde che lo bloccavano, il suo corpo terribilmente indolenzito poté finalmente tornare a sgranchirsi. Il nastro sugli occhi, invece, rimase. Gli albanesi lo perquisirono ovunque, privandolo dell’orologio e di una busta in cui teneva più di cinquecento dollari. Ebbe la percezione che i suoi rapitori fossero estremamente eccitati: parlavano in continuazione, forse si stavano congratulando gli uni con gli altri per la riuscita del sequestro. Poi si misero a bere, dall’odore Xie Qing capì che si trattava di birra. I suoi occhi non distinguevano nulla, ma la fessura tra la benda e il naso gli permetteva di vedere il suolo debolmente illuminato, probabilmente si trattava di candele o della luce delle torce.
Gli chiesero se capisse l’albanese. Pak, pak, rispose Xie Qing, cioè «un pochino». Furono così divertiti dalla sua pronuncia impacciata che scoppiarono a ridere. Xie Qing ormai aveva preso dimestichezza con le conversazioni di base, e capì cosa gli stavano dicendo. L’avevano rapito per ottenere un riscatto e non volevano ucciderlo, ma avrebbe dovuto comportarsi bene, senza fare resistenza e senza cercare di fuggire. In caso contrario, dissero premendogli la pistola sulla fronte, lo avrebbero fatto fuori.
Lo portarono in un angolo dove gli concessero di pisciare, poi lo legarono ancora, ma stavolta in modo diverso: gli misero le mani dietro la schiena, poi gli legarono i polsi ben stretti con una corda sottile di cotone, morbida ma resistente, e bloccarono ginocchia e caviglie in modo che non potesse alzarsi in piedi. Lo fecero sdraiare su una stretta tavola di legno e lo coprirono con la stessa coperta in cui lo avevano avvolto nel bagagliaio. Di nuovo quell’avvertimento: «Mos u leviz!», poi una porta metallica si richiuse con un clangore seguito dallo scatto di un chiavistello e di una serratura. Subito dopo distinse i passi sui gradini di pietra, il rumore di un’altra porta metallica e di una catena chiusa con un lucchetto, infine quello della macchina che si metteva in moto. Il rombo dell’auto si allontanò rapidamente fino a scomparire.
3
Rimase steso sulla tavola senza muovere un muscolo. Nella grotta non era rimasto più nessuno. Lentamente si rigirò su se stesso, cercò di sgranchirsi le membra e tirò un lungo respiro.
Era finito in un casino che più incasinato non poteva essere. Solo poche ore prima era al ristorante con i suoi compari, a bere e a fumare in tutta tranquillità, e adesso era lì, legato come un animale che avrebbero potuto ammazzare in qualsiasi momento. Non aveva ancora compiuto quarantadue anni, Yang Hong era morta a nemmeno quarant’anni, suo padre di poco più grande, e ora toccava a lui. L’ombra cupa della fine lo spinse a riflettere sulla sua situazione disperata. Con le spalle che sfregavano contro la parete, a poco a poco riuscì a mettersi seduto.
Percepiva che la grotta era immersa nell’oscurità più completa e trasudava un odore di umido. Le gambe legate all’altezza delle ginocchia e delle caviglie gli impedivano di alzarsi e camminare. Si rimise sul fianco e si lasciò rotolare a terra: quando le mani toccarono il suolo lo sentirono umido, ma senza accumuli d’acqua. Iniziò a trascinarsi, strisciando lungo il pavimento, per sei o sette metri, fin quando non toccò una parete. Con le dita delle mani legate dietro la schiena la sentì perfettamente liscia e dura, come se fosse fatta di cemento. Riuscì a raggiungere il punto da cui erano usciti gli albanesi e individuò a tentoni un’apertura quadrata larga circa sessanta centimetri, una porta metallica che si apriva verso l’esterno. Si trascinò avanti e indietro finché non arrivò alla conclusione che non si trattava di una grotta naturale ma di una costruzione rettangolare.
Sentì il bisogno di fermarsi. La corda che gli legava i polsi gli si era conficcata nella carne e le mani iniziavano a gonfiarsi facendogli male. Si rimise a sedere sulla tavola di legno cercando a poco a poco di tornare a respirare normalmente. Teneva gli occhi spalancati sotto lo spesso strato di nastro, ma il buio era totale. In compenso, udito e olfatto si erano affinati. Nella caverna regnava un silenzio assoluto e, oltre a sentire il battito del suo stesso cuore, percepì che da un punto imprecisato del soffitto filtrava una flebile corrente d’aria che portava con sé un profumo di erba e vegetazione. Xie Qing si convinse di essere in montagna. Il suo udito colse lo stormire del vento tra gli alberi, e con l’aumentare del vento sembrò prendere vigore anche la corrente d’aria che penetrava nella grotta. Poi avvertì un rombo sordo e sentì tremare tutta la stanza, pochi istanti più tardi risuonò debolmente il fischio di un traghetto. Doveva trovarsi vicino al mare ed ebbe la pressoché assoluta certezza che il luogo in cui lo tenevano prigioniero era una fortezza militare abbandonata.
Le zone costiere dell’Albania, e soprattutto le città di frontiera come Valona e Durazzo, erano disseminate di fortezze a pianta rotonda in cemento armato. Erano massicce e costruite in punti protetti, per lo più su scogliere a strapiombo sul mare. Si trattava di un prodotto della politica sintetizzata nello slogan «In una mano il fucile, nell’altra il piccone» dell’era di Enver Hoxha, e girava voce che il cemento armato con cui erano fabbricate provenisse dagli aiuti a fondo perduto forniti dalla Cina. A Tirana Xie Qing aveva già visto molte di queste roccaforti trasformate in discariche; soltanto una di queste, di grandi dimensioni, manteneva una certa utilità, perché era stata efficacemente convertita in bagno pubblico. Ricordava che, quando faceva ancora l’autista nell’esercito, un’intera colonna di camion era stata mandata in un cementificio di Zhuzhou, dove per giorni e giorni aveva prelevato cemento da trasportare alla stazione ferroviaria. Gli dissero che si trattava di aiuti destinati all’Albania. Si chiese se anche quella fortezza fosse stata costruita con il cemento che aveva trasportato.
Quelle nuove consapevolezze riuscirono a procurargli un po’ di conforto. Iniziò a riflettere sulle possibilità di uscire vivo da quella situazione. La grotta era solida, le pareti di cemento e la porta metallica estremamente spesse, senza contare che in superficie c’era un’altra porta con una catena. I suoi rapitori avevano fatto di quella fortezza una prigione senza possibilità di fuga. La sua unica via di salvezza, quindi, era che i rapitori ottenessero il riscatto. Avrebbero chiesto senz’altro un mucchio di soldi. Xie Qing calcolò che dovessero essere più o meno le cinque del mattino. Immaginò che Cui Zuogao e gli altri stessero ancora dormendo, si sarebbero accorti del sequestro soltanto a giorno fatto. Ma come avrebbero potuto liberarlo? Non avevano il denaro necessario e il conto di Xie Qing aveva un attivo di appena qualche migliaio di dollari. La sua unica salvezza era Qiumei. Avrebbe scucito tutti quei soldi?
Lo sconforto ebbe presto il sopravvento. Gli sembrava di essere prigioniero da secoli, ma forse ai suoi non era pervenuta ancora nessuna notizia. Cercò di convincersi a non cedere all’impazienza, era solo l’inizio e doveva mantenersi in buone condizioni, far riposare la testa che gli doleva terribilmente, cercare di dormire un po’. Chiuse gli occhi. Agitarsi non serve a nulla, rimproverarsi nemmeno. Smettila di arrabbiarti. Mentre continuava a ripetersi queste parole, iniziò a cedere al sonno. I legacci bloccavano la circolazione del sangue gonfiandogli i polsi. I palmi delle mani erano gonfi e rigidi, le giunture delle spalle intorpidite e doloranti.
Così, la testa piegata da un lato contro la parete, si addormentò più volte, risvegliandosi spesso per il dolore. Nella grotta si stava insinuando dell’aria gelida e si raggomitolò su se stesso per il freddo. Le mani continuavano a gonfiarsi, costringendolo a massaggiarsi la destra con la sinistra e viceversa. Un poco alla volta, nella sua coscienza offuscata, sembrarono separarsi dal corpo e prendere vita propria come due neonati, nudi e disgraziati, che piangevano abbracciati l’uno all’altro. Si destava, tornava ad assopirsi, ma la sua coscienza non abbandonava mai le mani sofferenti, che non smettevano di accarezzarsi e di consolarsi a vicenda.
Si svegliò dopo un tempo imprecisato. Anche se i suoi occhi erano bendati, la totale oscurità si era trasformata in una luce crepuscolare. È sorto il sole, pensò. Ora attraverso le fessure riusciva a intravedersi i piedi, si lasciò andare supino a terra, si sforzò di piegare la testa il più possibile all’indietro, contro il suolo, e fu allora che vide sul soffitto della grotta una bocchetta di aerazione, del diametro di una scodella. Cercò di rimettersi in piedi, così da avvicinarsi alla finestrella. Attraverso la bocchetta avvertì una corrente d’aria che odorava di erba fresca, sentì i versi degli uccelli. Rimase a lungo in mezzo alla corrente d’aria, tremando come una foglia.
Il primo giorno di sofferenza finalmente era giunto al termine. Xie Qing si rese conto che i raggi di luce si stavano lentamente dissolvendo mentre nella grotta tornava a scendere l’oscurità. Poco dopo udì di nuovo in superficie il rumore dell’auto che spegneva il motore, poi il clangore del lucchetto della catena. Si affrettò a sdraiarsi sulla tavola, per evitare che si accorgessero dei suoi movimenti. Quando la porta della grotta venne aperta ebbe la sensazione che gli albanesi non entrassero subito, ma che gli puntassero contro una torcia rimanendo a osservarlo senza far rumore. Si decisero a entrare solo quando si furono accertati che non c’era nulla di anomalo. Dovevano essere in cinque o sei.
«Come ce la passiamo, cinese?», fu il loro saluto.
«Non bene, mi fanno male le mani», disse Xie Qing con le poche parole di albanese che conosceva, prima di mettersi a sedere. Quando tagliarono la corda sottile che gli bloccava i polsi videro che erano ormai ridotti a una poltiglia di carne e sangue. I rapitori gli fecero sbrigare i suoi bisogni anche se se l’era già fatta nei pantaloni, dopodiché gli allungarono un hamburger e una bottiglia d’acqua.
«Vogliamo centomila dollari».
«Qui non abbiamo tutti questi soldi, lo sapete, adesso non ce li ha nessuno».
«Sì, ma se per noi non ci sono soldi tu finisci ammazzato».
«Avrete il vostro denaro, telefonate al mio capo. Centomila dollari però sono troppi, forse ne tirerà fuori cinquantamila. Sta in Francia, vi pagherà subito».
Diede loro il numero di Qiumei. Avrebbe davvero pagato per salvargli la pelle?
4
Xie Qing era certo che, per poter sperare nella propria liberazione, avrebbe dovuto tenere duro fino al quarto giorno. Per un bonifico bancario, infatti, ci sarebbero voluti almeno tre giorni. Trascorso questo tempo, però, era comunque possibile che decidessero di eliminarlo.
«Morirò?». La domanda continuava ad affiorargli alla mente. Come autista gli era capitato spesso di sfiorare la morte. Ogni anno, nella ditta in cui lavorava, rimanevano uccisi in incidenti due o tre autisti; la cifra rientrava nella normalità, e non impediva alla società di continuare a essere qualificata come all’avanguardia nella sicurezza. Pensò che se fosse morto in quella stanza nessuno avrebbe saputo nulla, e con ogni probabilità anche i suoi resti sarebbero andati perduti. Se la notizia della sua scomparsa fosse arrivata fino in Cina, quali sarebbero stati i commenti dei suoi colleghi? Probabilmente i suoi anziani genitori non avrebbero creduto alla sua morte, indugiando dolorosamente in un’attesa senza speranza.
Il tempo scorreva sempre più lento. Gli erano state nuovamente legate le mani, ormai infiammate e purulente. Nel giro di due giorni iniziò ad avere la febbre. In preda a un confuso sopore, sognò Yang Hong che teneva per mano un bambino. La vedeva da dietro un vetro, lei era in mezzo a un bosco, ma il bosco si trovava sul fondo del mare, e mentre camminava i capelli le ondeggiavano nell’acqua. Xie Qing le chiese come mai fosse lì, lei rispose che cercava la sua tomba. Non capiva come potesse parlare sott’acqua, dalla bocca le uscivano bolle e aveva gli occhi chiusi colmi di tristezza. Le domandò ancora che luogo fosse quello, lei rispose di non saperlo. Poi si svegliò. Era stato un sogno paurosamente realistico, come fosse già morto.
Gli albanesi continuarono a fargli visita una volta al giorno, portandogli un tozzo di pane, dell’acqua e permettendogli di orinare. Xie Qing sentiva che le forze lo stavano abbandonando, gli capitava di iniziare a tremare senza più riuscire a smettere. Il nastro intorno alla testa gli irritava la pelle riempiendola di vesciche che gli prudevano in modo insopportabile. Quando iniziava il prurito non poteva far altro che sfregare il cranio contro il muro. In quei momenti faticava a dominare la tentazione di tagliare la corda sui polsi. Procedendo tentoni, aveva scoperto che nei pressi dell’apertura della porta avrebbe potuto strusciare i legacci contro l’angolo della parete; ma se li avesse recisi, pensava, i sequestratori lo avrebbero legato con del filo di ferro.
Era il quinto giorno di prigionia e ormai non aveva nemmeno la forza per pensare. Nel corso dei primi tre giorni non aveva mai smesso di tenere il conto del tempo, in attesa della sua liberazione. Gli albanesi gli avevano detto che i soldi non erano arrivati. Aveva chiesto quando lo avrebbero rilasciato, ma quelli non gli avevano risposto. Così, all’approssimarsi del quinto giorno, era ormai sul punto di crollare. Quella sera, quando udì il rumore della porta, prese a sussultare come un cane. Sperava che avessero messo le mani sul denaro e che lo avrebbero lasciato andare quella sera stessa. Quando i suoi rapitori entrarono avvertì la luce delle torce puntate su di lui. Si mise a sedere a capo chino, il cuore stretto dall’ansia.
Gli tagliarono le corde e gli diedero da mangiare un tozzo di pane duro. Mentre masticava lentamente rimasero a fare la guardia accanto a lui senza fiatare, e così capì che non erano venuti a liberarlo. Ebbe un conato di vomito. Perché non lo lasciavano andare, domandò. Avevano avuto il riscatto, sì o no? Forse domani, borbottarono quelli. A quel punto perse completamente il controllo e iniziò a gridare: «Voglio uscire, voglio andarmene di qui!». In un attimo si ritrovò diverse pistole premute contro la testa. «Non fare casino, cinese», gli intimarono, «ancora uno strillo e ti facciamo fuori». Avevano la voce gelida, si avvertiva che erano sfiniti anche loro.
Pochi minuti più tardi tornarono a legarlo, lo fecero coricare sulla tavola di legno e lo ricoprirono con la solita coperta. Sprofondato ancora una volta nelle tenebre, rimase ad ascoltare la loro auto che si allontanava.
Un poco alla volta si rimise a sedere. Dopo la scenata e le grida di poco prima i sequestratori gli avevano fasciato la bocca ancora più stretta, come se non stessero nemmeno legando una persona viva, ma un cadavere. Xie Qing era ormai in preda alla confusione più completa, sentiva che le possibilità di essere liberato erano praticamente svanite, ad aspettarlo c’era soltanto la morte. Sapeva che la morte è questione di un attimo, ma che la cosa più spaventosa è quanto la precede, il terrore della morte. Percepì qualcosa di freddo e appiccicaticcio strisciargli lungo il viso, doveva essere una lumaca. Non potendo muovere le mani fu costretto a sfregarsi il viso contro la spalla e sentì che la lumaca aveva prodotto un muco dall’odore strano, come di licheni.
Verso la mezzanotte Xie Qing udì un rumore d’auto, sembrava che fossero almeno due. Sentì la porta in superficie aprirsi e il rumore dei passi di un gran numero di persone risuonare nel corridoio. Fu preso da un’angoscia improvvisa, stava per succedere qualcosa. Fu aperta anche la porta interna e la luce delle torce tornò a puntare su di lui. Gli albanesi lo sollevarono in fretta e furia, un nuovo nastro gli fu avvolto stretto intorno alla bocca. Lo fecero uscire dalla grotta e risalirono rapidamente gli scalini di pietra. Una volta fuori Xie Qing sentì soltanto una ventata d’aria fresca investirgli il naso. Poi lo infilarono in macchina, non nel bagagliaio, ma sul sedile posteriore. Due albanesi, uno da ciascun lato, gli si strinsero accanto. L’auto si mise in moto.
«Stanno per ammazzarmi! Presto sarò morto», pensò Xie Qing con un incontrollabile senso di nausea nello stomaco.
Dopo una corsa di una ventina di minuti l’auto si arrestò di colpo. Fu spinto fuori, due uomini lo fecero avanzare a spintoni. Sotto i suoi piedi il suolo pareva piuttosto regolare, non sembrava una strada di montagna. Proseguì per una cinquantina di metri, finché gli uomini alle sue spalle si fermarono. Xie Qing udì distintamente il suono di un coltello a serramanico, che un attimo dopo si ritrovò puntato alla nuca, ma non sentì la lama nella testa. Il coltello recise il nastro che gli bendava occhi e bocca e infine anche la corda che aveva intorno ai polsi. Gli albanesi gridarono: «Hikë!», «Vattene!». Non osava portarsi le mani al volto e strappare il nastro che per tanti giorni gli aveva serrato gli occhi. Tremava per il terrore che alle sue spalle una raffica di proiettili lo abbattesse al suolo. Rimase in piedi immobile per parecchi secondi, finché non sentì la macchina mettere in moto e ripartire. Solo allora trovò il coraggio di lacerare il nastro che aveva intorno alla testa. Vide un sentiero e, di fronte, un ponticello. Lo raggiunse. Sul punto più alto notò che sulla sponda opposta sorgeva un olmo. Poi, da dietro l’albero, vide spuntare le ombre di alcuni uomini, di cui riuscì a distinguere i contorni grazie alla luce della luna. C’era una donna. Fece ancora qualche passo e riconobbe infine la persona che lo aspettava ai piedi dell’albero: era Qiumei.