Capitolo 10
1
All’inizio della primavera del 1990 Yang Hong arrivò a Parigi.
Il suo modo di fare composto e sofisticato fu una sorpresa per i membri del club. Al loro primo incontro si presentò con un vestito lungo nero e senza trucco, faceva pensare alla Lin Daojing del romanzo La canzone della giovinezza. Anche se era cresciuta in un posto volgare come Wenzhou, quello che le scorreva nelle vene era il sangue puro di un rivoluzionario del nord.
In onore di Yang Hong il club organizzò un ricevimento di benvenuto che si tenne in riva alla Senna, al Bar Creux. Il locale dalle luci soffuse la colpì: le sembrò, pur nelle sue conoscenze limitate, che avesse i toni dei quadri a olio di Rembrandt. Al rinfresco parteciparono tredici persone disposte a un tavolo, come in un altro celebre dipinto, L’ultima cena. Al posto centrale, quello che avrebbe dovuto essere riservato a Gesù con la sua aureola, ora sedeva Tang Tan, un economista con una gran testa pelata. Il padre, che era stato un alto dirigente del paese, aveva studiato in Unione Sovietica, e forse per questo il figlio padroneggiava alla perfezione le teorie di Lenin. Tang Tan amava ripetere «ben scavato, vecchia talpa!», citando un passo di Marx che aveva trovato in Stato e rivoluzione di Lenin.
«Vogliamo esprimere alla compagna Yang Hong il nostro più sincero benvenuto qui a Parigi. Il suo arrivo è per noi vitale come un treno carico di cereali ai tempi della Rivoluzione d’Ottobre». Benché Tang Tan tenesse il suo discorso con aria solenne, nelle sue parole Yang Hong colse una punta di umorismo. «Eppure a noi i cereali non mancano affatto. Ma allora cosa ci manca? Per quanto ci lambicchiamo non ci viene in mente nulla. Ma ora lo vedo: è proprio perché non ci manca nulla che siamo diventati così apatici. Ecco cos’è che ci manca».
«Per come la vedo io, l’arrivo di Yang Hong a Parigi e il suo ingresso nel nostro club sono il riflesso di un mondo di sogno. La teoria ci dice che è sufficiente avere due specchi per poter creare un numero illimitato di immagini che si riflettono l’una nell’altra. Bene, io trovo che la rivoluzione e il sogno siano due specchi come questi», dichiarò l’ospite seduto al terzo posto da destra. Yang Hong non sapeva ancora chi fosse.
«Ma parli di specchi concavi o convessi?», si alzò a sfidarlo Tang Tan, le mani infilate nelle tasche della giacca sotto le ascelle. Yang Hong trovò la sua posa familiare.
«Sono specchi piatti», si affrettò a precisare l’interpellato. «Non trovi che l’arrivo di Yang Hong a Parigi sia una specie di riproduzione, un riflesso della partenza di suo padre da Shanghai, quando a suo tempo lasciò l’Università Jiao Tong per raggiungere Yan’an e unirsi alla rivoluzione? Ma a ben guardare anche la partenza di suo padre per Yan’an fu una copia di quella di Chen Duxiu, Li Dazhao e Zhou Enlai, che anni prima erano venuti in Francia nell’ambito del programma governativo che combinava studio e lavoro. Potresti addirittura scoprire delle somiglianze sorprendenti anche tra due luoghi così diversi come Yan’an e Parigi. Per esempio, Yan’an ha il Fiume Yanshui e Parigi la Senna; Yan’an ha la Collina Baota, con la sua pagoda, e Parigi sai cos’ha? La Tour Eiffel!».
«Ma Yan’an è piena di grotte, mi dici a Parigi dove sono?».
«Ma certo che ci sono! Come si chiama questo bar, di grazia?».
«Lo sanno tutti, si chiama Bar Creux», rispose Tang Tan.
«E cosa significa creux? Aprite il vostro dizionario di francese: creux non significa forse “cavità”? E le cavità non sono forse grotte? Ci siamo dentro in questo momento!».
«Stai facendo solo dei sofismi. In francese i creux indicano le caverne in cui vivevano i selvaggi, non hanno niente a che vedere con le grotte dove si accampò l’Ottava Armata di Terra».
«Dalla posizione in cui si trovano coloro che detengono il potere, chi si ribella per fare la rivoluzione è precisamente un selvaggio. E i creux abitati dai selvaggi erano proprio le grotte di Yan’an!».
«Non ti sembra che la tua tesi sia permeata di idealismo trotzkista?». Tang Tan tornò a infilare entrambe le mani nelle tasche della giacca con i pollici tesi verso l’alto. Yang Hong finalmente ricordò: era il gesto tipico di Lenin nel film Lenin in ottobre.
«È esattamente il contrario, invece. Guardiamo i fatti: i primi rivoluzionari – Chen Duxiu, Li Dazhao e Zhou Enlai – vennero in Francia per studiare la teoria marxista. La seconda generazione di rivoluzionari, quella incarnata essenzialmente dall’esperienza di Yan’an, si dedicò ad applicare la teoria alla pratica. E ora la terza generazione – ammesso che tu e io possiamo dire di farne parte – è tornata a Parigi. Il nostro, però, non è uno scimmiottamento della prima generazione, bensì un processo di costante sublimazione, un progresso a spirale: questa è l’orbita che percorre la storia, perfettamente in linea con il ben noto ragionamento che, nella dialettica materialistica, procede per negazione della negazione».
Yang Hong ascoltava i due oratori darsi battaglia a colpi di finezze verbali sorseggiando il suo caffè. Tra i partecipanti l’atmosfera era piuttosto libera e distesa, non tutti erano intenti ad ascoltare il dibattito, molti si facevano gli affari loro. C’era chi sfogliava un libro che aveva portato con sé, chi si curava le unghie, chi fumava un sigaro, chi beveva assorto in meditazione, e poi c’era Jiang Xiaojun che disegnava. L’unica ad ascoltare la discussione in religioso silenzio era proprio Yang Hong, la nuova arrivata. Ora sapeva che l’uomo che stava battibeccando con Tang Tan si chiamava Zhu Ning.
Non c’era niente da fare, fin dai primi anni della scuola quella generazione si era ritrovata il cervello completamente imbevuto di queste cose, tanto che ormai anche il loro modo di ragionare seguiva uno schema fisso. Era proprio come aveva detto Jiang Xiaojun: in confronto all’audacia, alla forza e al pensiero elevato che avevano caratterizzato i padri, loro erano davvero simili a dei semi di patata, la cui seconda generazione non può che regredire. Eppure quei ragionamenti erano incredibilmente vicini al modo di pensare di Yang Hong.
2
Le Vésinet era una cittadina satellite nell’immediata periferia di Parigi, un paesino di poco più di diecimila abitanti. Il centro ospitava un ufficio postale, una chiesa e una banca. Il Comune aveva sede in un edificio di appena cinque stanze ed era rappresentato da sole tre persone: il sindaco, il segretario e l’usciere. Non c’erano alti palazzi, soltanto una grande zona residenziale sparpagliata tra alberi e laghi. Trecento anni prima Le Vésinet era ancora una foresta vergine e selvaggia, zona di caccia di Enrico IV, Luigi XIII, Luigi XIV, e della loro nobile discendenza. Poi, proprio per le esigenze della caccia, iniziarono a costruire le ville e le case aumentarono di numero, incarnando la quintessenza dello stile architettonico europeo. Poco più di un secolo addietro, i più affermati pittori impressionisti usavano radunarsi proprio lì. Grazie alle loro opere, i suoi paesaggi avevano raggiunto l’intera Europa. Col tempo, anche per la presenza di ville aristocratiche, il posto era diventato sempre più esclusivo.
A Le Vésinet Yang Hong viveva in un’enorme casa di quasi mille metri quadri. Il giorno in cui Jiang Xiaojun era andato a prenderla all’aeroporto e l’aveva condotta lì non era riuscita a capacitarsi che quella sontuosissima villa sarebbe diventata la sua abitazione. Quell’immobile era appena stato comprato dal club che lì aveva registrato la sua sede, così le aveva detto Jiang Xiaojun. Al momento, però, la casa era vuota, a parte il giardiniere nero che si prendeva cura delle piante, dei fiori e del prato.
Poco dopo il suo arrivo a Parigi cadde una fortissima nevicata che lasciò a terra una spessa coltre bianca. Ma la primavera era alle porte, la terra iniziava a riscaldarsi, e la neve prese a sciogliersi dall’interno, in segreto, sicché nessuno se ne accorse. Poi, una mattina, Yang Hong udì nella strada un rumore d’acqua corrente: era il ruscelletto nato dalla neve ormai squagliata, che colava fin dentro i canali di scolo ai bordi della via. Lo strato di neve iniziò ad assottigliarsi, i primi a fare rapidamente capolino dalla coltre bianca furono gli steli dei tulipani, con i loro boccioli a malapena visibili. Era il momento in cui, alzando il capo, si poteva vedere la fitta macchia di vegetazione svegliarsi dal sonno e radunare le energie per germogliare.
Le Vésinet risuonava dello scorrere della neve sciolta, l’acqua confluiva in un fiumicello che acquisiva vigore, scorrendo impetuosamente verso la Senna. Sul terreno divenuto soffice come spugna le aiuole si erano colorate di un verde intenso. Yang Hong vedeva le imponenti betulle che crescevano fuori dalla sua porta rinvigorirsi ogni giorno di più, le radici ormai sazie della neve sciolta, tanto che tutt’intorno alla base delle piante restavano le bollicine di una schiuma marrone, come le tracce che restano sulle labbra quando si esagera con la birra.
Gli scoiattoli ricominciarono a saltare in mezzo ai rami, mentre negli stagni nuotavano cigni, oche e germani reali. Tutte le mattine veniva svegliata dal piacevole canto degli uccelli.
Yang Hong provava un amore particolare per quelle betulle, che le ricordavano i sei anni trascorsi a Daxing’anling. In mezzo ai pini del nord-est che crescevano nelle foreste vergini di quei monti, qua e là si scorgeva sempre qualche macchia di betulle. Non sapeva perché quegli alberi le piacessero tanto. Forse per i libri russi e sovietici letti in gioventù, romanzi in cui le betulle spuntavano a ogni passo ed erano sempre collegate a immagini felici. Nelle foreste la vita era terribilmente difficile, ma almeno lo spirito era libero. Lasciarsi alle spalle la città di Wenzhou che aveva ucciso suo padre, lasciarsi alle spalle l’opprimente Residenza 118, aveva avuto un effetto straordinariamente benefico sulla sua crescita: tra le foreste del nord-est Yang Hong si era sentita felice, rimanendo a lungo a fissare le betulle nane ed esaminando le foglioline appena spuntate che nel giro di pochi giorni si sarebbero trasformate in chiome rigogliose.
Ora, a Le Vésinet, ecco di nuovo quelle betulle che per tanti anni non aveva più rivisto. Non erano alberi selvatici, erano stati trasportati fin lì e cresciuti con cura dall’uomo.
«Perché dovrei abitare in questa casa?», si chiedeva Yang Hong. In piedi alla finestra osservava il giardiniere mentre rimuoveva il telo di juta che copriva il roseto per evitare che congelasse. Da quando quel dossier nascosto con tanta cura sull’isola di Gushan le era finito tra le mani la sua vita aveva conosciuto cambiamenti straordinari, tante cose difficili da immaginare erano divenute possibili, una mano possente e miracolosa le aveva aperto una porta dopo l’altra. Eppure era stato tutto troppo facile: da qualche parte, le rimaneva la sensazione che non fosse vero.
Soltanto due settimane dopo il suo arrivo a Parigi Yang Hong scoprì che non tutti i membri del club godevano di sistemazioni altrettanto principesche. Tang Tan, per esempio, viveva in un vecchio attico nel Quartiere Latino, non aveva un letto, soltanto un materasso gettato a terra, libri ovunque ma nemmeno un mobile, come in una tenda da campeggio. Si sentì seriamente a disagio: come mai le aveva riservato una casa del genere, chiese a Jiang Xiaojun, quando loro stessi vivevano in condizioni tanto spartane? Le rispose che ai membri del club non importava granché delle dimensioni e delle condizioni delle proprie case, si accontentavano che fossero comode e confortevoli. Lei era appena arrivata, è vero, ma la casa di Le Vésinet aveva bisogno di qualcuno che la abitasse, perciò poteva rimanerci senza patemi.
Yang Hong moriva dalla voglia di vedere dove abitasse Jiang Xiaojun. Sapeva che viveva nella sede della Dongfeng, società commerciale che aveva alle spalle l’esercito. Aveva ormai concluso il suo periodo di studio all’estero e iniziato a lavorare presso la ditta. Ma poiché alcune attività particolari della Dongfeng richiedevano una certa segretezza, nel palazzo non erano ammessi estranei, e anche Yang Hong ne era esclusa.
Quand’era con Jiang Xiaojun, provava un senso di gioia mista a tristezza, una sensazione che si era già manifestata in occasione del loro primo incontro. La simpatia che provava per lui era nata al primo sguardo, e i giorni trascorsi a Pechino erano tra i suoi ricordi più cari. Da allora non aveva mai smesso di pensare a lui, finché non lo aveva ritrovato a Parigi. Nei giorni successivi al suo arrivo Jiang Xiaojun l’aveva accompagnata in un sacco di posti e, mentre a bordo del suo Hummer attraversavano gli infiniti luoghi storici della città, Yang Hong pensava quanto fosse appassionante stare al fianco di un uomo come lui.
«Vedi, alla fine eccoti qui insieme a tutti gli altri», disse Jiang Xiaojun.
«Già, è come in un sogno. Quando l’anno scorso a Pechino mi hai chiesto se mi sarebbe piaciuto venire a Parigi ho pensato che scherzassi, e invece ora eccomi qua».
«Non è stato difficile», continuò Jiang Xiaojun. «Spero soltanto che apprezzerai la vita qui».
«Mi hai chiesto di venire solo per ripagare quello che ha fatto mio padre?».
«No, te l’ho già detto. Eri come una sorellina dispersa, e finalmente ti abbiamo ritrovata».
Yang Hong avvertì tutta la componente sensuale di quel vezzeggiativo «sorellina». Benché avesse conosciuto il matrimonio, non aveva mai amato davvero una persona. E quando ritrovava la calma, la sua mente si riempiva dell’immagine di Jiang. Era un sentimento pieno di fantasticherie. Si vedeva al suo fianco ai tempi della Lunga Marcia, si immaginava con lui vestita di abiti grossolani, mentre scalavano il Monte Jiajin nell’aria rarefatta. La neve cadeva a grandi fiocchi ma lei, stringendo forte la sua mano, avanzava passo dopo passo. Spesso, in queste finzioni della sua mente, Yang Hong aveva la sensazione di rimanere indietro, le sembrava di procedere in una distesa paludosa, le gambe fiacche e intirizzite, senza più la forza di andare avanti, mentre il resto della truppa diventava un puntino lontano fino a scomparire completamente.
La realtà che stava vivendo aveva qualcosa di simile. Yang Hong scoprì che i membri del club, gli stessi che all’apparenza passavano le giornate a non far nulla se non discutere all’infinito, avevano in realtà tutti un grandissimo potere. E questo potere non veniva soltanto dal retaggio familiare, ciascuno di loro aveva ormai raggiunto i massimi livelli del perfezionamento personale. Tang Tan studiava gestione macroeconomica in un’università parigina; Zhu Ning era il responsabile per la Francia dell’Ufficio Investimenti Esteri; la società in cui operava Jiang Xiaojun, infine, acquistava dall’Europa armi sofisticate di grandi dimensioni. Accanto a rappresentanti di un’élite così potente, a volte Yang Hong perdeva completamente fiducia in se stessa.
Secondo i piani di Jiang Xiaojun, una volta a Parigi sarebbe dovuta diventare segretaria a tempo pieno del club, nonché sovrintendente alla gestione della sua sede. Il club, però, non prevedeva alcuna attività concreta e se si escludevano le serate al Bar Creux sulla Senna non aveva mai organizzato eventi di sorta.
«Cosa posso fare?», chiese a Jiang Xiaojun.
«Beh, qui possiamo tutti plasmare noi stessi in assoluta libertà».
«Ma plasmare come? Suggeriscimi un modo».
«Ciascuno deve percorrere la propria strada. La tua, però, è una situazione un po’ particolare, devo farmi venire qualche idea. Sono o non sono tuo fratello? Forse potresti studiare un po’, andare a scuola, intendo. Acquisire le basi della lingua. E poi passare a una scuola di grado superiore, prendere un diploma francese».
«E dopo il diploma?».
«A quel punto forse dovrai tornare in Cina. Sai, alla fine tutti i membri del club tornano a casa. Ma naturalmente non dovrai tornare a Wenzhou, andrai a Pechino o a Shanghai. Se vuoi rimanere nel campo del giornalismo potresti lavorare in un’agenzia di informazione, in una casa editrice, alla CCTV, oppure in un grande giornale».
«Sono tutti posti in cui entrare è praticamente impossibile, figuriamoci se mi vorranno».
«La questione non è se loro ti vogliono o meno, è se tu ci vuoi andare oppure no», ribatté Jiang Xiaojun.
3
Trascorso un po’ di tempo dal suo arrivo a Parigi, Yang Hong continuava ad essere priva di qualsiasi occupazione. Il corso di francese a cui si era iscritta sarebbe cominciato soltanto un mese più tardi. La vita iniziava a diventare noiosa. Aveva preso l’abitudine quotidiana di sfogliare l’edizione cinese del «Journal d’Europe» e le capitò di leggere un servizio che parlava dell’operaia di un laboratorio tessile che, per restituire il denaro preso in prestito per espatriare, passava sedici ore al giorno alla macchina da cucire. Finché un giorno le colleghe l’avevano vista accasciata sul bancone. Alla fine del turno non si era svegliata, era morta di fatica.
La notizia la scosse profondamente: come potevano esserci, in Europa, fabbriche in cui gli operai erano ridotti in schiavitù? Ebbe il desiderio di fare un’indagine più approfondita. Ma quella non era la Cina, non poteva mettersi a fare interviste. Ebbe un’idea: avrebbe potuto farsi assumere nel laboratorio tessile. Quando raccontò le sue intenzioni ai compagni del club, molti di loro si dichiararono entusiasti. Tang Tan disse che fabbriche capitalistiche come quelle di cui parlava Marx sarebbero esistite ancora per secoli e che per conoscere il sapore della pera bisognava assaggiarla personalmente.
«Stai iniziando la tua vita parigina in modo decisamente poco convenzionale», disse Jiang Xiaojun mentre con la sua jeep la portava al laboratorio per il turno.
«Non era affatto mia intenzione. Volevo semplicemente sfruttare questo tempo libero prima dell’inizio dei corsi per trovare qualcosa da fare. Voglio scoprire se a Parigi, oltre al Louvre e all’Arco di Trionfo, esiste anche qualcos’altro».
«Ottima idea! Però in un laboratorio come quello, dove non c’è nessuna garanzia di sicurezza, dovrai fare attenzione».
«Questo non è un problema. Ho passato alcuni anni a Daxing’anling, ho fatto di tutto», lo rassicurò Yang Hong.
«Continuo a pensare che questa tua iniziativa sappia un po’ di radicalismo piccolo borghese», la stuzzicò lui.
Yang Hong entrò nel laboratorio che rimbombava del rumore delle macchine. Il supervisore le fece lasciare dieci franchi di cauzione e le affidò un lucchetto a combinazione dicendole di mettere la sua roba nell’armadietto, poi la portò nell’officina e la fece sedere accanto a un’operaia del Fujian di nome A Fang che le avrebbe insegnato a cucire a macchina. Negli anni passati nel reparto genieri a Daxing’anling Yang Hong era stata assegnata alla logistica, e più precisamente al confezionamento di vestiti. Aveva già usato la macchina da cucire elettrica e imparò in fretta. Mentre il tessuto che teneva tra le mani passava rapido nella macchina ripensò ai giorni trascorsi nelle foreste del nord-est, mentre nel suo cuore riaffiorava la tenerezza per il tempo passato.
In breve venne a sapere che il posto dell’operaia morta era quello alla macchina n. 4 della prima fila. Per poter espatriare aveva preso in prestito una forte somma di denaro – probabilmente facendo ricorso all’usura – e nel tentativo di ripagare il debito si era ammazzata di lavoro. Yang Hong notò che al suo posto si trovava una nuova operaia che, china sulla macchina, lavorava a folle velocità. Non ci mise molto a conoscere la vita che facevano le sue compagne: erano tutte uguali perché erano tutte povere. L’unica a trovarsi là per curiosità o per noia era lei. Ma dopo pochi giorni di lavoro si accorse di aver perso interesse per i servizi di indagine sociale, lo spirito che l’aveva animata quando faceva la giornalista in Cina sembrava scomparso. Eppure, per il momento, non aveva nessuna intenzione di rinunciarvi. Si rese conto che anche lei stava subendo una pressione insopportabile. In confronto all’usura a cui era ricorsa quell’operaia pur di lasciare la Cina, quale prezzo aveva avuto la sua partenza improvvisa? Al mondo tutto ha un prezzo: in un certo senso, quello per la sua partenza era stato pagato dal padre, che – insieme al gruppo di cui faceva parte – aveva già messo da parte una quantità sufficiente di risorse di cui lei non aveva fatto altro che godere. Eppure non voleva credere a questa favola: continuava ad avere la sensazione di essere, per certi versi, come l’operaia che aveva perso la vita, di aver ricevuto come lei un anticipo, forse addirittura a interessi da usura. La sua decisione di lavorare nel laboratorio tessile non era affatto un vezzo piccolo borghese, come aveva insinuato Jiang Xiaojun, ma nasceva da una riflessione economica reale. Da quando era a Parigi le sue spese erano state interamente prese in carico dal club. Per questo volle continuare i turni nel laboratorio: era pur sempre un esperimento, magari non un’indagine sociale ma comunque un modo per verificare se fosse in grado di guadagnarsi il denaro necessario affidandosi soltanto alle sue forze.
Un mese più tardi Yang Hong riscosse il suo stipendio e decise che l’esperimento era terminato. Smise di lavorare nella fabbrica e iniziò il corso di francese.
4
Quando lavorava ancora al giornale Yang Hong aveva intervistato alcuni cinesi emigrati a Parigi e sapeva che in Francia ce n’erano molti originari di Wenzhou. Scoprì che, effettivamente, diverse zone della città erano quartieri pieni di gente di Wenzhou. Al ristorante, al mercato si parlava quasi esclusivamente il suo dialetto. Se incrociavi un cinese, quello ti parlava in dialetto. Passava al mandarino soltanto se non capivi.
Una domenica andò a fare compere dalle parti di Belleville. Notò una pelletteria dalla facciata piuttosto grande in cui si vendevano borse dai modelli accattivanti. Non appena mise piede nel negozio e si trovò faccia a faccia con la proprietaria, riconobbe immediatamente la sua ex collega del «Quotidiano di Wenzhou», Ye Changwei, emigrata ormai da alcuni anni.
«Chi avrebbe mai detto che avresti lasciato la Cina anche tu». Ye Changwei sembrava molto stupita. Quella che emigrava da Wenzhou era sempre gente del posto con una certa inclinazione al piccolo commercio ed era quindi piuttosto sorpresa di trovare a Parigi Yang Hong, la figlia di un funzionario proveniente dal nord.
«Cosa posso dire? A volte succedono cose che nemmeno tu sai spiegarti», replicò Yang Hong. Avrebbe voluto chiarire che il suo obiettivo era diverso da quello di molti emigrati da Wenzhou, che puntavano solo a far soldi, ma tenne il commento per sé.
Quella sera andarono a cena insieme. Al giornale Ye Changwei scriveva spesso dei pezzi il cui fine era attirare investimenti esteri e a volte pubblicava nel supplemento del giornale dei versi ispirati alla Poesia Oscura. Poi grazie a un’intervista aveva conosciuto un cinese d’oltremare, e ben presto questa conoscenza aveva portato a un matrimonio. In redazione si diceva che prima del matrimonio fosse stata ricoverata diverse volte per abortire, ma Yang Hong non sapeva quanto questa voce fosse attendibile. Ai suoi occhi Ye Changwei, che aveva lasciato la Cina quattro anni prima, era ormai un’emigrante storica.
«Comunque stiano le cose sono convinta che lasciare il giornale sia stata la scelta giusta. Non so proprio che senso avesse quello che facevo al tempo. Ero una supplente di scuola elementare, e per entrare in redazione sono dovuta andare a letto con il redattore capo e pure con il suo vice. Nonostante l’impegno che mettevo nel lavoro, in realtà provavo un disgusto che non puoi immaginare», confessò Ye Changwei.
«E adesso te la passi bene?», chiese Yang Hong.
«Bene, male, cosa significano? Due anni dopo essermene andata ho divorziato. Ma non fa niente, volevo solo sfruttare mio marito per poter partire. E sai perché ho scelto Parigi? Perché scrivevo poesie e adoravo Sartre, mi piaceva il suo esistenzialismo. In realtà anch’io, come la maggior parte dei cinesi, di Sartre ho letto giusto qualche citazione qua e là, come la storia secondo cui l’uomo è stato messo da Dio su un’isola lontana da tutto, e che deve prendersi la responsabilità delle sue scelte, e che per natura è libero, quella roba là. Le sue parole sembravano una chiave universale capace di risolvere tutti i nostri problemi. Se ho scelto di sposarmi per emigrare a Parigi allora posso scegliere anche di divorziare, basta che mi assuma la responsabilità della mia scelta. Ora sono sola, ma almeno possiedo due cose. Una è la libertà, nessuno mi può comandare, sono cittadina francese e posso andarmene dove mi pare nel mondo. L’altra è il denaro: ho il mio negozio, anche se è un lavoraccio e non diventerò mai ricca, ma se non altro in questa vita non dovrò preoccuparmi dei soldi. Una donna che possiede queste due cose può ben dirsi soddisfatta. Quindi devo ringraziare Sartre», disse Ye Changwei.
«Ma come ti sei messa in affari?», chiese Yang Hong con un sorriso.
«Ho cominciato facendo la chima. Sai cosa significa? Vuol dire fare la venditrice ambulante con la cesta al braccio. All’inizio vendevo accendini, quelli che girano in Europa ormai sono tutti prodotti a Wenzhou. Li compravo all’ingrosso a cinque franchi e li rivendevo a venti. Un giorno sono entrata in un bar, c’era un sacco di gente che fumava sigari e sigarette, quindi ho fatto ottimi affari. Ci sono tornata parecchie volte, finché il proprietario non mi ha detto di posare la cesta sul bancone lasciando che li vendessi lì. Poi mi ha invitato a sedermi e prendere un caffè, ed è rimasto a chiacchierare con me. In quei giorni il mio francese è migliorato rapidamente, e ovviamente ho venduto anche parecchi accendini».
«E il francese l’hai imparato così? Lo sto studiando anch’io a scuola, ma è un casino», disse Yang Hong.
«L’ho imparato facendo la venditrice, sì. Ci sono cose, però, che si imparano in altre situazioni. Tutto quello che serve per parlare d’amore, per esempio, non lo impari in negozio, devi trovarti un francese, andarci a cena, portartelo a letto. Così impari in modo naturale e senza nemmeno un po’ di fatica».
5
Senza che quasi Yang Hong se ne fosse resa conto, dal suo arrivo a Parigi erano trascorsi quattro mesi. Era ormai estate.
Un giorno, alle cinque del mattino, Yang Hong si trovava su un treno diretto verso la costa. Le girava un po’ la testa ed era continuamente scossa dai brividi. Il ritmo delle ruote le fece venir voglia di dormire. In quel momento, nella sua mente affiorarono dei versi di Victor Hugo, che aveva letto nella rivista «Poesia»: «Domani, all’alba, nell’ora in cui biancheggia la campagna / partirò. Vedi, so che mi aspetti...». Rivolgendosi alla figlia prematuramente scomparsa Hugo le diceva teneramente che l’indomani, alle prime luci dell’alba, sarebbe partito per andare a trovarla nel paesino che ospitava la sua tomba. La poesia contava appena una dozzina di versi ma era straordinariamente commovente. Sulle prime la coscienza un po’ annebbiata di Yang Hong si sforzò di concentrarsi su queste riflessioni, ma finì per sprofondare nel dormiveglia. Le sembrò di seguire Hugo mentre si addentrava in un’isoletta coperta da foreste, alla ricerca di una lapide su un sentiero bagnato dalla pioggia. «Non guarderò né l’oro della sera che tramonta, / né le vele che in lontananza discendono verso Harfleur / e quando arriverò, metterò sulla tua tomba / un mazzo di agrifogli verdi e di erica in fiore». In quegli attimi sospesi tra sonno e veglia la sua mente andò alla tomba della madre, sul Colle Gushan a Hangzhou.
Il capo appoggiato al finestrino, Yang Hong si appisolò con una sensazione di malinconia mista a felicità. Si svegliò soltanto quando il sole fu alto all’orizzonte e i raggi dorati penetrarono i suoi occhi chiusi.
La testa non le doleva più. Il mento poggiato su una mano, si mise ad ammirare il paesaggio fuori dal finestrino.
Ai lati delle rotaie dell’alta velocità c’era quasi soltanto pianura. In quella zona, dove il sole non mancava, si concentrava la produzione di vino, soprattutto bianco. Il paesaggio, però, cambiava in continuazione: ora compariva un grande pascolo, dove mandrie di frisone brucavano pigre l’erba; ora spuntava un fiume, sulle cui rive sorgevano imponenti castelli, e una montagna con uno strapiombo da cui scendeva una cascata.
Poi il treno iniziò a costeggiare il mare, la costa atlantica. L’acqua sembrava più azzurra che in Cina, e molto più vasta. Sulla superficie si scorgevano yacht e candide vele.
In quei quattro mesi gioia e amarezza si erano alternate nel cuore di Yang Hong. Sentiva la tensione: anche se nessuno la costringeva a fare alcunché continuava a svegliarsi ogni mattina di buon’ora, il respiro mozzato da una sorta di senso di soffocamento. Non aveva intenzione di passare le giornate chiusa nella sua villa ad aspettare la riunione serale del fine settimana, o in attesa che Jiang Xiaojun la chiamasse per un appuntamento. Doveva trovare qualcosa da fare. Di fronte alle grandi imprese degli altri membri del club si sentiva una totale inetta. Il suo francese, poi, era praticamente inesistente.
A mezzogiorno arrivò a destinazione. Con un pesante zaino sulle spalle uscì dalla stazione ferroviaria e scoprì un paesino di villeggiatura. Era un luogo noto per i bagni di sole; per gli occidentali, infatti, uno dei modi più comuni di passare le vacanze è starsene sdraiati sulla sabbia a scurirsi la pelle. Yang Hong attraversò il paese e puntò verso il mare affidandosi all’intuito, lo zaino era talmente enorme da risultare sospetto, per non parlare del suo sguardo un po’ spaurito. Si addentrò in un boschetto vicino la riva, infilandosi un cappellino parasole e un paio di occhiali scuri, dopodiché dallo zaino estrasse una cesta piena di occhiali da sole e accendini metallici. Poi tirò fuori un mucchio di pigiami di seta completi di appendiabiti, che dovette reggere tenendo il braccio sollevato per evitare che strisciassero per terra. Inspirò un’ultima volta e, lanciandosi fuori dal boschetto, si diresse verso la spiaggia.
«Madame et Monsieur, voulez-vous acheter des lunettes? Le briquet? Pyjama de soie?». Fu il primo grido da ambulante della sua vita, nonché la prima volta in assoluto che usava il francese. Attraverso gli occhiali scurissimi, l’ammasso dei corpi dei bagnanti sdraiati sulla sabbia non le sembrava molto diverso da un branco di foche dell’Antartico. Parlava in modo impastato e procedeva a passi troppo rapidi, senza nemmeno aspettare la reazione dei clienti. Ma non c’era motivo di agitarsi, l’importante era buttarsi.
Per pianificare questa operazione Yang Hong aveva impiegato oltre due mesi. L’ispirazione, ovviamente, le era venuta dall’incontro fortuito con Ye Changwei nella Chinatown parigina, da cui era rimasta profondamente colpita. Aveva già iniziato a seguire le lezioni presso una scuola per adulti i cui corsisti erano per metà cinesi e per metà arabi. Nelle pause tra le lezioni i cinesi parlavano cinese e gli arabi arabo e, al di là delle poche parole imparate in classe, non aveva alcuna occasione di praticare la lingua. Le parole di Ye Changwei, quindi, le avevano suggerito una via più interessante. Ci aveva riflettuto a lungo, senza però riuscire a capire come procedere. Finché un giorno, in una guida turistica della Francia, aveva letto di quel paesino chiamato Angoulins e di colpo si era detta che andare lì, dove nessuno la conosceva, e seguire l’esempio di Ye Changwei con la sua cesta forse non era una cattiva idea.
«Un accendino? Signorina, che le sembra di questo bel pigiama di seta?». Il suo tono si era fatto gentile. Non provava più quella sensazione di vergogna, tanto che si sfilò gli occhiali per scoprire il viso. Ben presto riuscì a piazzare il primo pigiama: la signora che lo aveva comprato era così soddisfatta che non la smetteva di gesticolare provandoselo sul corpo, dispiaciuta di non poterlo indossare subito.
Mosso dalla curiosità, un ragazzino bianco che spingeva pedalando un carrettino di gelati Häagen-Dazs prese a seguirla senza fretta. Quando lo sguardo di Yang Hong incrociò il suo, avvampò di colpo e guardò da un’altra parte. Lei, però, ricordò che il suo obiettivo era quello di parlare francese, perciò prese l’iniziativa e gli rivolse la parola: «Bonjour!». «Bonjour», rispose il ragazzino.
Il sole di mezzogiorno bruciava tanto da rendere la sabbia rovente. La spiaggia si estendeva per oltre dieci chilometri, e senza accorgersene Yang Hong ne aveva percorsi la metà. Il caldo era insopportabile e intorno non c’erano alberi o edifici per ripararsi. La gente sdraiata correva in acqua o si ritirava sotto gli ombrelloni. Sembravano tutti in preda a una gran fiacchezza.
«Se Jiang Xiaojun sapesse cosa sto facendo di sicuro mi coprirebbe di insulti», pensò Yang Hong. «Perché sono venuta fin qui? Davvero è solo per esercitare il mio francese? Si muore di caldo, avrei una gran voglia di buttare via questa maledetta cesta e questi pigiami, tuffarmi in acqua e nuotare lontano, guarda com’è azzurra», pensava Yang Hong mentre andava avanti continuando a tergersi il sudore. Eppure si sentiva di buon umore.
Non appena il sole cominciò a battere obliquo gli affari subirono un’impennata: i clienti accorrevano a scegliere la merce, costringendola a rimpolpare le scorte dallo zaino. Nel giro di un’ora, però, le vendite cessarono del tutto, i bagnanti cominciarono a radunare le proprie cose e tornarono a prepararsi per lo svago della sera.
Yang Hong si rimise in spalla lo zaino ormai alleggerito, le tasche piene di banconote di piccolo taglio, ma quando raggiunse la stazione per rientrare a Parigi scoprì che l’ultimo treno era partito da mezz’ora. Avrebbe trascorso la notte lì.
Dopo la cena in un ristorante dall’aria storica le fu presentato un conto salato da rimanere a bocca aperta: duecento franchi mancia compresa, il triplo che a Parigi. La sera il paesino era piuttosto animato, c’erano un sacco di piste da ballo all’aperto, con gruppi e cantanti. La gente riempiva i bar con grandi boccali di birra. Yang Hong cercò un albergo per la notte, ma li trovò tutti al completo: in alta stagione bisognava prenotare con largo anticipo. Erano quasi le dieci e ancora non aveva trovato una stanza. Cominciò a preoccuparsi: forse le sarebbe toccato passare la notte all’aperto. La temperatura era scesa di colpo, tanto da farle battere i denti. In lontananza scorse su un alto edificio una fila di luci al neon che componevano la scritta HOTEL. Trascinando le gambe ormai sfinite si spinse fin lì: le camere erano terminate, restava soltanto una lussuosa suite lasciata libera da un cliente che all’ultimo momento aveva annullato la prenotazione. La tariffa superava i duemila franchi a notte. In una giornata di lavoro Yang Hong aveva incassato circa cinquecento franchi, trecento di profitto. Se non avesse preso la camera avrebbe dormito in strada. Non aveva scelta.
La suite aveva una grande porta-finestra che guardava sull’oceano, mentre la fresca brezza marina scuoteva leggermente la tenda. A dispetto della stanchezza provava ancora un’eccitazione che le impedì di prendere sonno. Così, dopo la doccia, rimase seduta di fronte al mare avvolto nell’oscurità, lasciando che il vento le asciugasse i capelli ancora umidi. In quel momento, in lontananza, scorse un faro che si illuminava. Non poté fare a meno di ripensare all’isola di Gushan, nel Mar Cinese Orientale, a quel faro che le era sembrato così familiare. Ebbe quasi l’impressione di scorgere il padre. «Papà», disse a se stessa. Era in ogni luogo, pensò, a mostrarle la strada, a illuminarla con la sua luce.