Capitolo 14
1
Qiumei viveva nel suo eremo tunisino di Mateur già da un anno. Aveva preso il nome di Fang Chunxiang, un’emigrante naturalizzata della Repubblica del Gambia. La Tunisia, con oltre metà del suolo affacciato sul Mediterraneo, era il paese più ricco, bello e pacifico di tutto il Nordafrica. L’aveva scelto per il clima e per le fattorie, proprio lì, molti anni prima, aveva trasferito dei clandestini. Erano arrivati dalla Cina in Gabon, nell’Africa centrale, e poi, scalo dopo scalo, si erano avvicinati al Mediterraneo. Più di cento si erano radunati in Tunisia, preparandosi a noleggiare un barcone che potesse portarli fino alla costa spagnola. Per sistemare i clandestini Qiumei aveva affittato una fattoria poco lontano dalla costa e ne aveva fatto una stazione di transito. Allora si accorse di quanto il clima e il suolo della Tunisia fossero simili a quelli della sua terra. A Tunisi, poi, in virtù del suo lungo passato coloniale, si trovavano numerosi negozi in stile francese, si parlava francese, parecchi bianchi vivevano lì. I collegamenti con la Francia erano quotidiani. Le coste tunisine erano piene di aziende dove si coltivavano verdure, frutta e ortaggi destinati alla Francia e all’Italia.
Poco dopo il suo ritorno in Tunisia Qiumei aveva incontrato Hakim, un bracciante nero che aveva già assoldato la volta precedente. Grazie a lui aveva rintracciato il proprietario della fattoria e l’aveva nuovamente affittata. Appena vi aveva rimesso piede, la sensazione di non avere un luogo dove nascondersi si era a poco a poco dissolta. Aveva trovato il suo rifugio. La fattoria aveva una superficie di oltre cento ettari e aveva un terreno fertile. Al centro, c’era un laghetto circondato da alberi.
Nei primi tempi dopo il suo arrivo, Qiumei si fasciava la testa con un turbante secondo l’uso locale e passeggiava tra le bancarelle del mercato. Quei cetrioli, quei cavoli e quei pomodori così succulenti le erano familiari: tutti ortaggi che lei stessa aveva coltivato, ne conosceva le proprietà e le caratteristiche. Da bambina, col bilanciere sulle spalle, era andata a venderli al mercato. Quella del contadino era una vita dura: a volte ci si alzava alle due di notte per raccogliere pomodori e cetrioli o estrarre i qingcai alla luce delle stelle, e dopo bisognava andare al fiume a lavare la terra dalle radici e disporli ordinatamente nelle ceste da trasportare con il bilanciere. Con la stadera sui fianchi si portava tutto al mercato per vendere il raccolto alla gente di città, e il contadino era esposto a un’ulteriore prova: far di conto. Al tempo i conti si facevano a mente e non tutti ci riuscivano. Gli ortolani spesso facevano i calcoli seguendo l’ispirazione del momento: a volte ci guadagnavano, altre ci rimettevano.
A partire dai diciotto anni Qiumei smise di vendere ortaggi insieme al papà. L’invasione dei terreni da parte della città era ormai iniziata e il padre, che si era visto confiscare il campo, era stato impiegato in un’industria chimica. Quelli come lui, che al tempo venivano chiamati operai di campagna, non avevano nessuna istruzione e perciò potevano lavorare soltanto in mensa o all’ufficio accoglienza. Qiumei era rimasta a casa due anni: ormai era cresciuta, ma non aveva trovato lavoro.
Verso la metà degli anni ’70, nel braccio di fiume che scorreva vicino a Dongmen, aveva iniziato a fare la sua comparsa nella notte una barchetta munita di baldacchino. Sotto le tende, nella totale oscurità, sedeva una donna, che ispezionava il molo su cui erano accese lampade dalla luce flebile. L’uomo che reggeva il remo a poppa sedeva immobile e con la schiena perfettamente dritta. All’inizio i clienti erano rari. A volte doveva aspettare la mezzanotte perché se ne presentasse con discrezione qualcuno incurante delle convenzioni. Aiutato dal rematore il cliente saliva sulla barchetta malferma, a quel punto la donna accendeva una candela rossa e calava la tenda, mentre il rematore allontanava la barca dal molo, aggiustava la rotta e iniziava a vogare verso il punto del fiume dove faceva più buio. Nessuno sapeva dire come fosse iniziata quell’attività sul fiume nei pressi di Dongmen.
Quando Qiumei si era data alla professione, le barche a baldacchino erano già state messe al bando: da sempre, a Wenzhou, tutto durava poco. Il governo non poteva tollerare la situazione ed immediatamente erano iniziate le retate.
I rematori si erano ritrovati disoccupati, ma le donne dietro le tende avevano continuato la propria attività sulla terraferma, iniziando a frequentare i paraggi di Qingfengqiao. Appena oltre si estendevano a perdita d’occhio i campi della brigata di produzione di Qihu. A praticare la professione erano tutte ragazze che appartenevano alla brigata, e che conoscevano bene quei campi attraversati da mille corsi d’acqua. D’estate venivano eretti ovunque sostegni per fagioli asparago, luffe e pomodori, e le ragazze non dovevano far altro che stendere a terra un telo di plastica. Si diceva che le autorità di Pubblica Sicurezza avesse organizzato diverse retate, ma ogni volta gli agenti si smarrivano o ruzzolavano nei canali, non riuscendo mai a trovare nessuno, uomo o donna, in attività illegali.
Qiumei aveva iniziato a lavorare una notte d’estate, guidata da una ragazza del villaggio. All’epoca le condizioni di lavoro erano davvero difficili: in mezzo ai campi nella totale oscurità, senz’acqua, senza luce, senza preservativi, per ripulirsi solo un vecchio giornale appallottolato. A Wenzhou i rotoli di carta assorbente avrebbero fatto la loro comparsa solo negli anni ’80.
Il nomignolo di Qiumei, l’Infangata, era nato da un episodio che aveva avuto luogo poco più tardi. Era al lavoro in un campo di fagioli alati con un ragazzo di poco più di vent’anni. I suoi clienti erano praticamente tutti sulla quarantina o sulla cinquantina, forse perché erano gli unici ad avere qualche soldo da parte, e per quel ragazzo Qiumei provava una certa simpatia. Una volta sbrigata la faccenda il giovane si era messo a sedere accendendosi una sigaretta; alla luce dell’accendino Qiumei aveva notato il viso devastato dall’acne. Invece di tirare fuori i soldi e pagare il conto come gli altri clienti se n’era rimasto lì seduto e aveva attaccato discorso. «Come ti chiami?».
«Perché diavolo lo vuoi sapere?», aveva risposto lei.
«Te lo volevo chiedere e basta, vorrei conoscerti».
«E perché diavolo vorresti conoscermi?».
«Lavoro alla Società Casearia di Wenzhou», le aveva spiegato. La Società Casearia aveva sede in riva al fiume, poco lontano, ed era un’impresa statale. Per una ragazza con uno hukou rurale, conoscere un giovane lavoratore di un caseificio statale era qualcosa di cui andare fieri, riuscire a sposarne uno era una vera e propria fortuna. E così Qiumei, il cui cuore si era appena appena lasciato increspare dalle onde della speranza, gli aveva rivelato il suo nome.
«Se vuoi, domani ti porto a fare un giro in fabbrica». Aveva usato l’invito come pagamento dei dieci yuan che le doveva, ma per lei quell’invito valeva ben di più.
L’indomani, con indosso il suo abitino migliore, Qiumei si era presentata ai cancelli della ditta. Il giovane operaio la stava aspettando. L’aveva accompagnata a fare il giro dello stabilimento, e nel laboratorio le aveva fatto bere di nascosto una tazza di latte.
Da quel giorno i loro incontri si erano fatti frequenti. Andavano a vedere un film, o a fare uno spuntino, oppure se la spassavano nei campi. Una volta, dietro insistenza di Qiumei, l’aveva portata a casa sua. Era più malmessa del suo porcile, ci vivevano nonna e nonno, papà e mamma, più tre fratelli e sorelle più giovani; l’orinale, non essendoci spazio sufficiente, stava infilato sotto il letto. Qiumei non era turbata, agli operai delle imprese pubbliche, quando si sposavano, veniva assegnata una casa di proprietà statale. Se aveva insistito tanto per fare quella visita era perché desiderava mettere in chiaro davanti ai suoi familiari quali erano i loro rapporti.
Frequentava il ragazzo ormai da tre mesi, ogni giorno più eccitata all’idea di sposare un operaio statale. Si era lasciata alle spalle la prostituzione e ora serviva soltanto lui. Il ragazzo però non scuciva mai un centesimo, anzi, a pagare il cinema e gli spuntini era quasi sempre Qiumei. Lui le aveva spiegato che essendo subentrato al posto di lavoro del padre doveva cedere lo stipendio interamente ai suoi, e non gli restavano che un paio di yuan di paghetta. A volte, quando le diceva di essere rimasto al verde, lei gli dava qualcosa per le sigarette o l’alcool. Non intrattenendo più clienti, però, Qiumei era rimasta senza entrate e in breve si era ritrovata priva di quel poco che aveva risparmiato. La cosa cominciava a metterla in agitazione. Doveva assolutamente definire il loro rapporto, a quel punto sarebbe valsa la pena di patire qualche pena in più.
In un attimo era arrivato l’autunno. Nella campagna, in cui risuonavano insistentemente i versi delle cavallette verdi, dei grilli e delle rane, i sostegni per cucurbitacee e legumi erano ormai stati smantellati, i campi si erano trasformati in una distesa senza fine e le ragazze che vendevano il proprio corpo si erano ritrovate senza lavoro. Soltanto Qiumei e il suo ragazzo continuavano con i loro amplessi campestri.
Si avvicinava la Festa di Metà Autunno, e la luna in cielo era più brillante di un lampione. Nei campi i tralicci erano stati ritirati, Qiumei si sentiva come se non avesse più alcuna protezione. In autunno non pioveva mai, il suolo era diventato un blocco rinsecchito contro cui Qiumei urtava fino ad averne la schiena tutta indolenzita. Il vento, poi, le dava i brividi, e le veniva la pelle d’oca. Ma la cosa più insopportabile era la sua angoscia, perché lui non si era ancora deciso a mettere in chiaro la loro relazione.
«L’hai detto ai tuoi?».
«Perché tiri fuori questa storia proprio adesso? Che palle», aveva risposto lui mentre le stava ancora sopra.
«Gliel’hai detto, sì o no?».
«Sì, gliel’ho detto, ma non sono d’accordo».
«E perché?».
«Dicono che hai uno hukou rurale, se poi facciamo un bambino prende lo status della mamma e diventa un campagnolo anche lui».
«Ma forse, dopo che ci saremo sposati, in quanto tua familiare potrò diventare anch’io operaia nel caseificio. Mi impegnerò, farò di tutto per avere finalmente un lavoro normale, e forse così potrò ottenere uno hukou urbano».
«Impossibile. Mio padre ha detto che se mai la fabbrica assumerà dei familiari, a entrare dovrà essere mia sorella».
Qiumei aveva capito che la situazione era disperata, ma non aveva provato una particolare tristezza. Ormai quel ragazzotto con la faccia coperta di brufoli che parlava in maniera nervosa la disgustava un po’.
«Va bene, allora finiamola qui!». Qiumei se lo scrollò di dosso, mettendosi a sedere.
«Guarda che non ho ancora finito!», aveva preso a sbraitare lui.
«Basta, non lo faccio più. Lo so che mi hai ingannata di proposito». E aveva steso la mano per prendere i pantaloni.
«Fammi finire, mi manca poco».
«Io ho finito. Se vuoi farlo ancora mi paghi».
«Cosa? Vuoi che ti paghi?», aveva iniziato a strepitare come un matto. In preda alla rabbia aveva afferrato una zolla di terra rinsecchita, polverizzandola nel pugno.
«Proprio così, mi devi pagare, come tutti gli altri».
Il ragazzo non ci aveva visto più. Prima di poter reagire, Qiumei aveva sentito quel pugno di terra secca infilarsi brutalmente nelle sue parti intime. «Non ti permetterò di farlo con nessun altro», urlava il ragazzo. «Te la tappo per sempre!».
Sforzandosi di sopportare quella sensazione di bruciore, Qiumei aveva sentito il sapore secco della terra salirle fino alla lingua. Si era rimessa i pantaloni senza fiatare ma non poteva tollerare quell’umiliazione, voleva la sua vendetta. Stava pensando di chiamare certe persone perché dessero una lezione a quell’operaio senza vergogna.
Si era alzata in piedi, facendo per andarsene. Il ragazzo aveva cominciato a chiederle scusa, supplicandola di perdonarlo, ma lei aveva continuato ad allontanarsi senza una parola. Lui cercava di fermarla, chiedendo perdono. A quel punto Qiumei aveva capito: non aveva bisogno di chiedere a qualcuno di vendicarla, doveva farlo lei stessa. Conosceva quei campi come le sue tasche e ricordava dove si trovava il pozzo nero più grande e profondo. Arrivata nelle vicinanze aveva rallentato di proposito, continuando a procedere lungo il sentiero. Il ragazzo l’aveva raggiunta nel tentativo di mettersi di fianco a lei. A quel punto Qiumei gli aveva dato un violento spintone e lui era scivolato con un plop sordo nel grande pozzo nero rivestito da un putridume rappreso, il cosiddetto khiaebai – ovvero «la coperta del letamaio» – ed era andato a fondo senza poter nemmeno chiedere aiuto. Qiumei si era messa a correre, incurante delle scarpe che le si erano sfilate durante la corsa. In preda all’eccitazione della vendetta non provava alcun timore, desiderava che il ragazzo morisse e non la spaventava nemmeno il pensiero di dover ripagare la sua vita con la propria.
Soltanto all’alba aveva iniziato ad avere paura. A mezzogiorno il segretario della brigata di produzione si era presentato alla sua porta chiedendole perché avesse spinto il ragazzo nel pozzo nero. «È morto?». «No, non è morto», rispose il segretario. «Ha solo ingoiato un po’ di merda...». In cuor suo Qiumei aveva tirato un gran sospiro di sollievo.
Quella mattina un contadino, mentre concimava i campi, aveva notato quel tizio che spuntava con la testa dal pozzo nero, lo aveva tirato fuori con il mestolo da letame e lo aveva fatto risciacquare nel fiume. Poi, ancora lercio dalla testa ai piedi, il ragazzo era corso all’Ufficio Sicurezza della fabbrica per denunciare il fatto, raccontando per filo e per segno com’erano andate le cose. L’Ufficio Sicurezza e il commissariato di polizia di Qihu si erano messi in contatto con la sede della brigata di produzione, e le tre parti si erano sedute a un tavolo per ascoltare i dettagli del caso. Il quadro dell’Ufficio Sicurezza non aveva ancora finito la sua relazione che tutti quanti erano piegati in due dalle risate. Non era un caso di prostituzione, né uno stupro, né un tentato omicidio. Non era facile da trattare, avevano convenuto, quindi non c’era altro da fare se non lasciare le cose così com’erano.
Da quel giorno in poi la nomea di Qiumei l’Infangata si era sparsa per tutta la periferia di Wenzhou. Sapeva di essere ormai rovinata, sapeva anche che vivere la vita pacifica di prima sarebbe stato impossibile, ma aveva tenuto duro. Per un anno ancora, nelle notti d’estate, aveva continuato assiduamente a ricevere i suoi clienti e grazie a quel denaro, all’avvicinarsi dell’inverno, era partita al seguito di una testa di serpente. Tre mesi dopo aveva raggiunto l’Europa occidentale.
2
Qiumei decise di acquistare la fattoria di Mateur.
Per un appezzamento tanto grande erano richiesti soltanto un milione e duecentomila dollari. Qiumei aveva conti a lei intestati sotto falso nome presso banche francesi, italiane, arabe e anche alla Citibank. Tutte avevano agenzie in Tunisia: saldare l’intera somma in un’unica rata era stato facile e così si era ritrovata proprietaria della fattoria.
Era un modo per tenere a bada il terrore scatenato in lei dal naufragio dei clandestini. Quelle decine di vite spezzate non le davano pace. Anche le notizie che le arrivavano dai suoi contatti in Europa e nella Cina continentale non erano confortanti: le polizie europee avevano già braccato e arrestato parecchi capi dell’immigrazione clandestina, mentre in Cina il Ministero della Sicurezza di Stato e gli Uffici di Pubblica Sicurezza avevano gettato la loro rete. Era in pericolo e doveva sparire nel nulla. La fattoria era il nascondiglio ideale.
Per tutto l’inverno aveva provato una certa agitazione al pensiero di aver acquistato una fattoria così estesa. Benché l’investimento non riguardasse che una minima parte delle sue finanze, si trattava pur sempre di un terreno enorme, molto più grande di tutti i campi della brigata di produzione di Qihu messi insieme. Cominciò ad accarezzare il progetto di dedicarsi, una volta giunta la primavera, alla coltivazione estensiva di verdure e zucche. Un giorno, mentre visitava una locale azienda di sementi per ortaggi, scoprì che poteva acquistare semi di verdure cinesi. Tutte sementi importate dal sud della Cina, le avevano detto i dipendenti della ditta. Per la prossimità di latitudine tra la Tunisia e la Cina meridionale e la somiglianza tra i climi delle due zone, quelle verdure si potevano piantare anche lì. Erano ortaggi molto ricercati, i ristoranti cinesi in Francia, Italia e Spagna ne avevano bisogno in grande quantità.
Qiumei non stava più nella pelle, aveva rimuginato per giorni cercando di mettere a punto il suo piano. Oltre all’imponente stock di sementi cinesi già acquistate, aveva incaricato la ditta di ordinare appositamente dalla Cina i semi di un tubero caratteristico di Wenzhou, il boetshe.
Il boetshe ha la forma di un disco volante, ma per il resto non è diverso da una rapa: come la rapa, infatti, ha un tubero che germoglia sotto terra e foglie che spuntano dal suolo, e cresce soltanto nell’area di Wenzhou. Ha una polpa deliziosa, d’inverno lo si taglia a fettine e lo si fa bollire fino a ricavarne un brodo, si aggiunge qualche spicchio d’aglio e si ottiene un piatto di straordinaria fragranza. D’estate, invece, lo si può mangiare in salamoia. Se lo si cosparge di salsa di soia o di un altro semplice condimento diventa una pietanza saporita e rinfrescante. Un’altra preparazione tradizionale è quella degli gnocchi di riso sytsenkeo, tortini saltati con boetshe: è un piatto che al banchetto per la Festa di Primavera non può mancare, al punto che a Wenzhou l’anno vecchio si considera passato solo dopo averli mangiati. Agli occhi dei tanti cinesi di Wenzhou sparsi in ogni angolo del mondo il boetshe è il simbolo del loro paese natale.
All’arrivo dell’estate la fattoria di Qiumei era ormai una distesa verdeggiante, una larga porzione riservata proprio a boetshe dalle ampie foglie e dai tuberi pasciuti. Il clima della costa mediterranea meridionale, sole abbondante, venti e piogge, era ideale per la coltivazione. L’agricoltura del posto offriva tecnologie sviluppate, con ditte di gestione estremamente specializzate che si occupavano di semina, irrigazione, raccolta, confezionamento e trasporto. I prodotti, raccolto dopo raccolto, venivano trasportati dai camion fino al porto e poi spediti in Europa.
Qiumei conduceva una vita piuttosto solitaria: attraversava, a cavallo, le sue proprietà, e nonostante i saluti dei suoi braccianti nei campi non riusciva a scacciare un persistente senso di desolazione. Una notte aveva sognato di essere tornata a casa, nei campi di Qihu annaffiava i cavoli mentre accanto a lei si alzavano nugoli di farfalle. Era stato un attimo di felicità perfetta. Poi si era svegliata di soprassalto, non aveva idea di dove si trovasse. Quando si rese conto di essere in Africa, da sola, aveva provato un dolore come quello della morte.
3
Quando Xie Qing si ripresentò per la seconda volta nella fattoria di Qiumei erano passati già cinque anni. La trovò profondamente cambiata: aveva la pelle scura, i fianchi visibilmente più robusti e vestiva come i tunisini. Con i suoi braccianti parlava l’arabo e, quando con Xie Qing parlava in dialetto di Wenzhou, le capitava addirittura di incepparsi su qualche parola.
Xie Qing aveva ottenuto brillanti risultati negli investimenti immobiliari. Il suo progetto più importante, l’albergo a cinque stelle La Maison Royale (di cui la società di Xie Qing deteneva il 60 per cento delle quote), era già operativo, mentre si avviavano alla conclusione altri progetti residenziali di ville e condomini. La riqualificazione della città vecchia era pressoché conclusa e la città nuova stava sorgendo. Terreni che fino a sei anni prima valevano poche decine di migliaia di yuan al mu adesso potevano raggiungere il milione. Xie Qing portò con sé un DVD in cui il canale televisivo di Wenzhou mostrava il nuovo volto della città. Sullo schermo non si vedevano che schiere di enormi edifici nuovi di zecca. Qiumei stentava a riconoscere la sua città, ormai modernizzata fino a sembrare la metropoli di un altro pianeta.
Erano più di otto anni che Qiumei non metteva piede nella sua terra. L’ultima volta aveva notato alcuni palazzi ancora in costruzione e un’unica strada in corso di smantellamento, ora Xie Qing le indicò sullo schermo una distesa di edifici di metallo e vetro nichelato: quelli erano i campi della brigata di Qihu dove aveva vissuto lei. Qiumei non poteva credere ai suoi occhi.
Un’idea iniziò a farsi strada nella sua mente: voleva tornare a casa a vedere com’era. A trasformare in quel modo la sua città natale era stato il potere del capitale, una parte del quale apparteneva a lei. Quando aveva affidato a Xie Qing le sue proprietà di Parigi, il loro accordo prevedeva che lei ne avrebbe conservato il 70 per cento e il restante 30 per cento sarebbe andato a lui. Nel corso degli anni lui aveva mantenuto scrupolosamente la parola rispettando sempre la sua posizione. Adesso aveva voglia di passare qualche giorno nell’albergo La Maison Royale, di cui era socia di maggioranza.
Come un seme di zucca caduto in un terreno fangoso, l’idea iniziò a crescere e a produrre qualche fogliolina. Qiumei sapeva che rischiava di dare frutti spaventosi. Ciononostante, non appena ebbe messo radici, sfuggì completamente al suo controllo. «Dopo tutti questi anni ormai nessuno si ricorderà più di me. Voglio soltanto tornare a dare un’occhiata, nient’altro». Ma sapeva bene che il pericolo non era ancora alle spalle e che non poteva agire d’impulso.
Nei mesi che seguirono Qiumei continuò a essere tormentata dal desiderio di tornare. Più cercava di reprimere quest’idea, più la voglia si faceva intensa. Arrivò l’autunno, i lavori nei campi si fermarono e la terra tornò una distesa silenziosa. Allora Qiumei fece le valigie, affidò la fattoria al suo amministratore Hakim e si mise in viaggio. Con un volo EgyptAir raggiunse Il Cairo, il giorno seguente salì su un aereo della Cathay Pacific e arrivò a Hong Kong. Era una città che amava, ma non aveva intenzione di trattenersi. Procedette subito per Shenzhen: al momento di attraversare la frontiera a Luohu con il suo passaporto del Gambia, un giovane agente le fece qualche domanda a cui rispose con grande calma. Del resto adesso era Fang Chunxiang, non più Qiumei. Andò tutto liscio. Quella sera alloggiò in un albergo a cinque stelle di Shenzhen. Sentì fortissimo il desiderio di chiamare qualche amico, a Shenzhen aveva parecchie conoscenze. Quando lavorava nel traffico di clandestini, la città era uno snodo cruciale per lasciare il paese. Per varcare il confine corrompeva i funzionari doganali, aveva ancora tutti i numeri di telefono, ma si trattenne. Voleva tornare a casa senza dirlo a nessuno. Non aveva avvertito nemmeno Xie Qing.
Nei due giorni che trascorse a Shenzhen si limitò a smaltire un po’ il jet lag cercando di ritrovare la serenità. Il terzo giorno salì su un aereo diretto a Wenzhou. Metà dei passeggeri era composta proprio da suoi conterranei che parlavano ad alta voce con il loro accento pronunciato. Non appena i carrelli posteriori dell’aereo toccarono terra, quelli anteriori ancora a mezz’aria, i passeggeri schizzarono in piedi per aprire le cappelliere e prendere i bagagli. Le hostess continuavano a gridare di tornare ai loro posti. Di fronte al comportamento immutato dei suoi compaesani, Qiumei capì di essere davvero a casa.
L’aeroporto non era cambiato granché. Anche la strada che portava in città era la stessa, ma Qiumei, guardando dal finestrino del taxi, cominciò a notare i mutamenti: una volta la strada dell’aeroporto era costeggiata dai campi, ora non vedeva altro che fabbriche e lo spesso fumo delle ciminiere. L’unico luogo con un po’ di verde era la base della marina militare, in riva al fiume.
4
Arrivò all’hotel La Maison Royale. Una luce abbacinante le impedì di tenere gli occhi aperti. L’ingresso era gigantesco, di alberghi così imponenti ne aveva visti pochi persino a Parigi. Gli uscieri all’entrata non erano cinesi, bensì sikh con il capo avvolto in un turbante rosso. La hall aveva un lussuoso pavimento di granito a specchio dove troneggiava un’immensa colonna di marmo. Xie Qing le aveva accennato che era stata portata appositamente dall’Italia. «Sono davvero io la maggiore azionista di questo albergo?», si chiese guardandosi in giro con occhi spalancati.
Vedendo il suo passaporto gambiano la signorina alla reception le si rivolse in inglese. Qiumei le rispose in cinese. Il fattorino la condusse all’ascensore ad alta velocità, in un attimo raggiunse la sua suite al ventiquattresimo piano.
Non appena il fattorino chiuse la porta Qiumei provò un senso di sollievo: aveva finalmente raggiunto la destinazione del suo viaggio.
Quando scostò le tende ad ammirare dall’alto le luci della città rimase per qualche istante incapace di orientarsi, ma di una cosa era certa: in quei luoghi aveva vissuto da bambina ed era cresciuta. Si accostò al vetro della porta-finestra nel tentativo di aprirla, ma era bloccata. Dopo qualche ricerca individuò una finestrella laterale che si poteva aprire, ma solo uno spiraglio da cui filtrava un vento gelido che portava con sé il puzzo degli scarichi delle auto, completamente diverso dall’odore di terra umida che ricordava.
Di cosa sapeva il vento nei campi della brigata di Qihu? Sprofondata nell’ampio divano Qiumei rivide i tumuli da cui usciva il fumo, sul bordo dei campi. All’interno c’era della paglia di riso che veniva fatta bruciare lentamente, quando aveva finito di ardere si mescolava alla terra producendo una sorta di argilla che serviva per la coltivazione dei qingcai. Qiumei ricordò che in quei mucchi di argilla i bambini di Qihu mettevano ad arrostire le patate dolci. Le infilavano la sera e la mattina, quando si alzavano, erano fragranti e cotte a puntino. Non c’era da preoccuparsi delle talpe, non si sarebbero infilate in un tumulo infuocato, mentre bisognava fare attenzione a non farsi vedere dagli altri bambini, per evitare che si impadronissero del tesoro sepolto.
In primavera i primi a sbocciare erano i fiori dorati delle luffe, seguiti da quelli bianchi dei fagioli cannellini, dai fiori viola delle fave e dalle foglie del taro che diventavano grandi come ombrelli. Negli orti danzavano interi sciami di farfalle, e facevano la loro comparsa anche i vungau, le «mucche nere», insetti scuri con due lunghe antenne sul capo, e le mendan, le «libellule brillanti», con le loro sette stelline sul dorso. La mattina presto coglieva dai tralicci le luffe dalla polpa candida ancora umide di rugiada, mentre sul graticcio poco lontano un serpente dei cavoli, lungo come il bastone di un bilanciere, strisciava via senza fare rumore.
Una volta, guidata da un ragazzino qualche anno più grande di lei, aveva sciolto la corda a cui era legata una barca e avevano remato fino al punto del lago in cui le castagne d’acqua crescevano abbondanti. Quel giorno era terribilmente turbata, non aveva passato gli esami di matematica e grammatica della quarta, avrebbe voluto morire. Prima di morire, però, doveva raccogliere qualcosa da portare a casa, suo padre voleva che l’indomani andasse al mercato a vendere castagne bollite. Aveva tirato su le foglie vicino casa per cogliere i frutti, ma dopo una lunga ispezione ne aveva trovata sì e no qualcuna. Il ragazzo non faceva un bel niente e se ne stava stravaccato a prua a fumare, fissandola con intenzioni tutt’altro che buone.
«Che guardi? Che c’è da guardare?», gli aveva chiesto stizzita.
«Cosa te ne frega di cosa guardo?».
«Beh, io non ti lascio guardare. Fallo ancora e ti cavo gli occhi».
«Se mi cavi gli occhi dovrai diventare mia moglie».
«Fai un po’ come ti pare. Ma intanto, se sei capace, trovami qualche castagna».
Il ragazzo aveva remato fino a un punto del lago in pieno sole dove le castagne sembravano essere più grosse; era il lotto di suo zio, le aveva detto, dovevano sbrigarsi a raccoglierle senza farsi beccare. Qiumei aveva sollevato i fusti e davvero i frutti erano più grossi e maturi. Il ragazzo la aiutava nell’operazione sullo stesso lato della barca. Qiumei stava raccogliendo allegramente le castagne quando a un tratto aveva sentito qualcosa morderle il dito. Era un granchio di fiume arrampicatosi lungo la pianta. Aveva cacciato un urlo e il ragazzo, che non aveva idea di cosa fosse successo, si era spostato verso l’esterno per aiutarla facendo perdere stabilità alla barca. Lo scafo si rovesciò e Qiumei scivolò in acqua. Volevo morire, eccomi accontentata, pensò. Ma entrambi sapevano nuotare e, anche se i fusti delle piante erano tutto un groviglio, non ci avevano messo molto a guadagnare la terraferma. Soltanto dopo due ore sotto il sole i loro vestiti si erano finalmente asciugati.
Qiumei, sul divano della sua suite business deluxe, non riusciva più ad avvertire lo sconforto che aveva provato in quell’occasione. I ricordi, filtrati dalle maglie del tempo, facevano affiorare solo calore e dolcezza. Persino le notti nei campi a vendere il suo corpo si tinsero di una nota malinconica.
La distesa di terra umida e feconda era ormai sparita per sempre, così come molti erano convinti che fosse sparita per sempre anche lei.
L’indomani faceva un tempo meraviglioso. Qiumei scostò la tenda, ora si poteva davvero contemplare la città. Poco lontano vide alcuni stagni sparsi in mezzo agli edifici, li guardò con attenzione, finché si rese conto che si trattava dei sette laghetti di Qihu. Erano circondati da marciapiedi lastricati in cemento e costeggiati da salici, sulla superficie dell’acqua si scorgevano ancora alcune barchette variopinte, probabilmente imbarcazioni turistiche.
Aveva dormito decisamente male, un sogno l’aveva turbata. Prendeva parte a un’assemblea di piazza, forse dalle parti di Dongmen. La piazza non era molto grande, poca la gente. A spiccare erano un edificio grigiastro – non particolarmente alto, una specie di centro commerciale con un discreto assembramento all’ingresso – e i lampioni della piazza illuminati. La cosa strana, però, erano proprio queste luci: i pali dei lampioni si erano attorcigliati l’uno all’altro, fino a oscurare interamente il cielo. Il sogno aveva lasciato in lei una sensazione strana, che non riusciva a scrollarsi di dosso.
Fissando i sette specchi d’acqua circondati da strade cementate Qiumei si chiese dove fossero finiti tutti quelli che un tempo avevano abitato lì a Qihu. Erano felici?
A mezzogiorno scese al ristorante al quarto piano. La signorina in qipao addetta all’accoglienza le si fece incontro per salutarla chiedendo se avesse prenotato una saletta. No, rispose lei. Per quante persone serve il tavolo? Una sola, rispose ancora. La signorina fece un giro del salone, finché trovò un posticino vicino al corridoio dove la fece accomodare: le servì poi il tè e le porse il menù. Qiumei lo scorse dall’inizio alla fine, scoprendo piatti raffinati come orecchie di mare, brodo di pinne di pescecane, serpente e cose del genere, nessuna traccia del tofu alla casalinga e del brodo con polpette di pesce di cui aveva voglia. Chiese alla cameriera se per caso ci fossero anche quei piatti, ma lei rispose di no, pietanze del genere si trovavano soltanto nelle bancarelle di strada. Qiumei ordinò una corvina gialla selvatica al vapore e un piatto di verdura.
A quell’ora, nel ristorante ormai al completo, regnava un’atmosfera vivace. Il tavolo più desolato sembrava essere proprio il suo.
A Wenzhou Qiumei non aveva più parenti, i genitori erano morti anni prima, e già da un pezzo aveva mandato all’estero i fratelli e le sorelle. In un posto come Qihu, però, amicizie o parentele legavano tutti, in condizioni normali, e in quel ristorante Qiumei avrebbe potuto riempire decine e decine di tavoli. Facciamo la prossima volta, pensò. La prossima volta riunirò tutta la gente di Qihu sparsa in giro per il mondo e darò un banchetto che durerà tre giorni.
C’era soltanto una persona di Wenzhou a cui era legata da un rapporto del tutto speciale: Xie Qing. Sapeva che si trovava in città, forse addirittura nello stesso albergo. Più volte aveva pensato di cercarlo, aveva il suo numero di telefono e sarebbe bastato un attimo. Si chiese quale sarebbe stata la sua reazione nel vedersela comparire davanti all’improvviso, e mentre era assorta in questi pensieri gli sembrò di vederlo. Era su un palco poco lontano, davanti a un banchetto con decine di tavoli. In alto era appeso uno striscione che annunciava una conferenza nazionale di qualche genere. Xie Qing, in completo scuro, stava parlando e sollevando il bicchiere. Qiumei ripensò a come, nel suo ristorante di Parigi, anche lei offriva brindisi agli ospiti in quel modo.
Si girò di fianco per timore che Xie Qing si accorgesse di lei. Il cuore iniziò a batterle forte, lui, intanto, passava in rassegna i tavoli per i saluti. Qiumei si alzò e andò in bagno, tornando dopo un bel po’. I clienti nel salone erano spariti e il suo piatto era diventato freddo.
Quel pomeriggio, per scacciare l’angoscia, Qiumei uscì per una passeggiata. Montò su un taxi e chiese all’autista di portarla in via Wuyang, la strada più movimentata di Wenzhou. Gli edifici che vi sorgevano erano stati fatti costruire da mercanti stranieri negli ultimi anni della dinastia Qing; durante la Rivoluzione Culturale era andata distrutta nel grande incendio, poi ricostruita sommariamente, ma era sempre rimasta una via commerciale estremamente vivace. Qiumei la percorse un paio di volte, la maggioranza dei passanti erano forestieri malvestiti che facevano lavoretti di fortuna, c’erano ambulanti dello Xinjiang che vendevano uva sultanina e spiedini di montone, e ovunque si trascinavano accattoni dai piedi purulenti.
Sulla strada del ritorno Qiumei iniziò ad avvertire una certa inquietudine, come se un’auto la stesse seguendo. Quando svoltarono, però, l’auto scomparve. Il tassista era un gran chiacchierone: se era una del posto, le chiese, come mai stava in albergo? Qiumei rispose che aveva lasciato il paese da tanti anni e non aveva più parenti da quelle parti. «Dall’accento», proseguì l’autista, «sembra una di Qihu». «E lei come lo sa?», si stupì Qiumei. «I tassisti sanno un po’ di tutto. I terreni a Qihu sono diventati cari, da qualche tempo dicono che Qihu si trova sotto l’Orsa Maggiore, perciò ha un feng shui ideale, e così negli ultimi anni il valore della terra è schizzato alle stelle». Qiumei raccontò che quand’era piccola, d’estate, all’ombra dei ficus in riva al fiume, i vecchi dicevano che Qihu era il luogo in cui si bagnavano sette bellezze immortali. Il tassista replicò che ormai persino il governo municipale credeva a quelle balle del feng shui. Il Comune si era ritagliato un’ampia porzione di Qihu e ci aveva fatto costruire la Piazza della Nuova Era e il Centro Governativo, gli edifici più monumentali di tutta Wenzhou. «Allora mi porti in questa Piazza della Nuova Era», disse Qiumei.
Scese dall’auto e fece qualche timido passo, controllando che alle sue spalle non ci fossero movimenti sospetti. Quando si accertò che nessuno la stava seguendo tirò un sospiro di sollievo e iniziò a passeggiare per la piazza.
Era uno spazio enorme, cento volte più grande di Piazza del Popolo. Il pavimento era lastricato di granito blu, al centro sorgeva un’enorme fontana con la colonna d’acqua che ricadeva a pioggia. Sul lato sud della piazza tutta pietra e lampioni si alzava una costruzione imponente e maestosa, marmo, acciaio e vetro riflettente, progettata da un estroso architetto australiano. Il palazzo, ancora più grandioso dell’Hôtel de Ville di Parigi, era la sede del governo municipale di Wenzhou. Su entrambi i lati sorgevano altri due edifici: l’Assemblea del Popolo e la Conferenza Politica Consultiva del Popolo Cinese. Qiumei ripensò con nostalgia al tempo in cui lì volteggiavano api e farfalle, nei campi sorgevano i graticci per le zucche e si coltivavano ortaggi. Il sole stava sparendo dietro le montagne, la piazza sembrava cancellarsi nel contrasto di luce, e dalla sagoma dei tre edifici si sprigionavano raggi che parevano lame. Quando il sole scomparve all’orizzonte Qiumei chiamò un taxi per farsi riportare in albergo.
5
Qiumei fu arrestata mentre stava per lasciare Wenzhou a bordo di un aereo diretto a Hong Kong.
La polizia cinese aveva dato il via all’operazione non appena aveva messo piede sul suolo hongkonghese. Il database dell’Interpol aveva già fornito ai cinesi gli estremi del passaporto falso di Qiumei, continuando ad aggiornare le informazioni. Da quando aveva varcato la frontiera a Luohu, aveva sempre avuto gli occhi della polizia puntati addosso. Gli agenti erano convinti che al suo ritorno in patria questa imperatrice del traffico di esseri umani, sparita nel nulla da anni, avrebbe compiuto qualche operazione di una certa importanza. Con loro grande sconcerto, invece, nei cinque giorni passati tra Shenzhen e Wenzhou non aveva incontrato né parlato al telefono con nessuno, limitandosi ad andarsene in giro da sola. L’ultimo giorno aveva preso un taxi, raggiunto l’aeroporto e sbrigato il check-in per Hong Kong. A quel punto la polizia si era convinta che non stava tramando nulla: bisognava gettare la rete. A condurre le operazioni fu un commissario con parecchi anni di servizio alle spalle di nome Dong. Seguì Qiumei fin nella sala d’attesa, sedendosi tre file alle sue spalle. Cinque minuti più tardi una hostess di terra si sarebbe avvicinata a Qiumei dicendole che nel bagaglio imbarcato c’era qualcosa da sottoporre a controllo, pregandola di seguirla in ufficio. In quel momento, però, Qiumei si alzò e si diresse verso il ristorante. L’ufficiale Dong prese il cellulare, intimando alla poliziotta travestita da hostess di non entrare in azione, e la seguì personalmente.
Non erano ancora le otto del mattino e il ristorante aveva appena aperto. Quello di Wenzhou era un aeroporto locale non molto frequentato e la sala era completamente deserta. Quando l’ufficiale Dong varcò l’ingresso notò che Qiumei si era seduta a un tavolino. Si sedette anche lui, accendendosi una sigaretta. Vide una cameriera avvicinarsi e scambiare qualche parola con la donna per poi gridare l’ordine verso la cucina: una ciotola di spaghetti con polpette di pesce.
L’ufficiale Dong sollevò il braccio per guardare l’orologio, mancavano ancora venti minuti all’imbarco. Sapeva che sull’aereo sarebbe stata servita un’abbondante colazione, perché mangiare degli spaghetti proprio lì? La cameriera si accostò anche a lui per prendere l’ordinazione, così chiese una tazza di tè.
Poco dopo l’inserviente tornò con una ciotola di spaghetti con polpette di pesce che sprigionava una gran nuvola di vapore e li posò sul tavolino di Qiumei, all’agente servì una tazza di tè verde non troppo caldo. Il commissario osservò Qiumei mescolare pigramente gli spaghetti con le bacchette per poi aggiungere aceto e pepe. Non dava l’impressione di essere particolarmente affamata, perché rimestava da un pezzo senza mangiare un solo boccone. In quel momento si accorse che aveva il viso coperto di lacrime.
Qiumei mangiò lentamente i suoi spaghetti senza smettere di piangere. Da quando era arrivata in aeroporto era certa che la polizia la tenesse in pugno. Entrare di punto in bianco nel ristorante era stato solo un ultimo test e, quando aveva visto quell’uomo seguirla, aveva capito che da quel locale non sarebbe uscita. Una volta arrivata in fondo alla sua ciotola di spaghetti, il commissario sarebbe entrato in azione, sembrava che stesse aspettando già da un pezzo. Sentì qualcosa venirle su dallo stomaco, ebbe un conato di vomito, ma si costrinse a continuare.
Finalmente terminò la ciotola e ripulì il brodo fino all’ultima goccia. Poi prese un tovagliolino di carta e se lo passò delicatamente sulla bocca. Quando il commissario le si fece incontro non alzò nemmeno lo sguardo.
«Le fanno buone qui le polpette di pesce?», le chiese.
«No, il pesce non è freschissimo e lo zenzero è tagliato troppo spesso».
«Già, per cose come queste bisogna andare nella città vecchia. In aeroporto non si trova niente di buono».
6
Quella mattina alle dieci Xie Qing entrò nel suo ufficio all’hotel La Maison Royale. La testa gli faceva ancora male per l’alcool della sera prima, passata a intrattenere dei clienti. In Cina, una delle regole del gioco vuole che le società tirino fuori il capitale solo alla fine di una bevuta epocale.
Sulla scrivania erano posati alcuni giornali. Xie Qing aveva ormai imparato a leggerli: se vuoi combinare qualcosa in Cina, per quanto poco, ti devi informare. Sulla prima pagina del «Quotidiano di Wenzhou» lesse i servizi sull’operato dei dirigenti locali. Poi, nella seconda pagina, vide il titolo:
L’imperatrice del traffico di clandestini arrestata all’aeroporto
Rimase impietrito. Il servizio proseguiva:
Huang Qiumei, rientrata in segreto in Cina via Hong Kong, ha passato la frontiera con il nome di Fang Chunxiang grazie al passaporto di un paese africano. La polizia, al corrente del documento contraffatto, l’ha segretamente sorvegliata fin dal suo ingresso sul suolo nazionale. Giunta a Wenzhou tre giorni fa, Huang Qiumei ha alloggiato all’hotel La Maison Royale, e durante la sua permanenza, dichiara la polizia, non ha incontrato nessuno. Ieri mattina ha lasciato l’albergo in taxi diretta all’aeroporto, pronta a salire su un aereo diretto a Hong Kong per lasciare il paese. La polizia ha tirato la rete all’ultimo momento, catturando dopo anni di pedinamenti la madrina del traffico di clandestini.
Tutt’a un tratto Xie Qing si sentì girare la testa. Com’era possibile? Aveva alloggiato in quello stesso albergo? Lanciò il gestionale, cliccò sulle informazioni dei clienti, e vide effettivamente il nome in trascrizione in lettere latine di Fang Chunxiang. Due giorni prima le era stata assegnata la suite 2408, al ventiquattresimo piano. Cos’era tornata a fare? Perché è stata qui senza avvertirmi? In un tempo brevissimo Xie Qing passò mentalmente in rassegna tutte le possibili ripercussioni dell’arresto di Qiumei. Doveva lasciare immediatamente il paese, la polizia aveva aspettato l’ultimo momento per tirare la rete ed era chiaro che era stata gettata da tempo. Una volta arrestata Qiumei, sarebbero risaliti a tutti quelli che avevano avuto a che fare con lei. L’anno prima, nell’ambito della campagna «Colpire duro», due teste di serpente erano state condannate alla fucilazione. Il naufragio in Albania aveva fatto decine di vittime e ora, per dirla alla cinese, verso tutte quelle vite Qiumei e i suoi avevano un debito di sangue. Se gli sbirri l’avessero catturato sarebbe andato incontro alla morte. Dei trentasei stratagemmi per sfuggire al nemico il migliore era darsela a gambe: doveva fuggire all’estero e badare a se stesso. Era il solo modo per poter sperare, un giorno, di aiutare Qiumei.
Prima di prendere una decisione definitiva fece in modo che nessuno alloggiasse nella 2408. Dopodiché si recò da solo nella suite e chiese alla cameriera al piano di non disturbarlo. Nella stanza il letto era perfettamente preparato e i fiori freschi, cambiati quotidianamente, diffondevano una fragranza delicata. Xie Qing non trovò nessuna traccia di Qiumei. La immaginò mentre guardava la tv seduta sul divano, in bagno mentre si faceva la doccia o seduta sul water con aria imbambolata, o a rigirarsi nel letto. Doveva sentirsi davvero sola se era rientrata a casa a prezzo di un rischio del genere. Ora capiva perché non lo aveva contattato, aveva protetto la sua sicurezza. Tornò con la mente a quando, appena rilasciato dagli albanesi, l’aveva vista davanti a sé, ai piedi dell’olmo. Era venuta personalmente dalla Francia a Valona per salvargli la vita, nella clinica dell’italiano gli aveva detto sì e no tre frasi prima di andarsene, e di quella storia non aveva più parlato. Quella donna aveva un codice d’onore.
A poco a poco ritrovò la calma. Qiumei non aveva nessuna intenzione di venderlo alla polizia e nulla faceva pensare che avessero messo gli occhi anche su di lui. A Parigi non avevano mai collaborato apertamente, e in Albania aveva avuto una falsa identità. Quando Qiumei, prima di ritirarsi, gli aveva ceduto le sue attività, lo aveva fatto seguendo la trafila burocratica ufficiale: dal punto di vista legale era inattaccabile, e poi i ristoranti li aveva rivenduti ormai da anni. Se la polizia avesse saputo dei loro trascorsi, pensò, si sarebbe mossa tempestivamente, i suoi affari a Wenzhou sarebbero stati bloccati. Per il momento, quindi, non doveva sentirsi in pericolo. Il pensiero lo tranquillizzava ma continuava ad avere i sudori freddi: la polizia cinese non aveva mollato la presa per otto anni.
Per aiutare Qiumei era deciso a mettere in campo tutti i suoi mezzi e tutte le sue forze. Anche se non poteva liberarla, doveva almeno alleviare il suo supplizio. E così, quel pomeriggio stesso, si presentò all’Ufficio di Pubblica Sicurezza cittadino ed entrò nell’ufficio del commissario capo Lü Guohua. Non avevano avuto rapporti particolarmente frequenti, ma grazie alla delicata relazione che li univa e al proprio status personale Xie Qing fu ricevuto senza ostacoli.
«Devo chiederti un favore. Vorrei incontrare quella Huang Qiumei che avete arrestato ieri», disse Xie Qing.
«L’hanno trasferita nel capoluogo della provincia, il suo è un caso importante e lo gestisce il Dipartimento di Pubblica Sicurezza provinciale, noi abbiamo fornito soltanto supporto logistico. Ma perché dovresti avere a cuore il suo caso?».
«Anni fa, a Parigi, Huang Qiumei era una persona molto rispettata. Ha aiutato moltissimi cinesi di Wenzhou residenti in Francia. Adesso che è nei guai non possiamo stare a guardare. Commissario capo Lü Guohua, ho bisogno del tuo aiuto».
«Farò quel che posso. Ma il caso non è più nelle mie mani e non mi è facile fare pressioni sui dirigenti del Dipartimento provinciale. Vai dal vicesindaco Liu Xueping, che è una donna, ha la lingua lunga e conosce bene quelli della provincia. Saprà essere più convincente di me».
Appena fu informata della questione, Liu Xueping si mise in contatto con la provincia.
L’indomani mattina Xie Qing si recò nel nuovo palazzo del governo municipale per incontrarla. L’ufficio misurava oltre duecento metri quadri e comprendeva una sala da bagno, una camera da letto e persino una palestra. Il vicesindaco sedeva alla sua scrivania in mogano su cui svettava la bandiera rossa con le cinque stelle. Dietro quel grande tavolo sembrava estremamente gracile.
«Ma come ti salta in mente di immischiarti in una storia del genere», furono le sue prime parole. «Lo sai quanta gente ha fatto uscire illegalmente dal paese? Oltre mille persone. E quella testa di serpente che si è fatta fucilare l’anno scorso ne aveva fatte uscire poco più di una decina. Dovrebbero giustiziarla cento volte».
«Vicesindaco Liu, se davvero ha portato via tutta quella gente dovresti decorarla con la bandierina di seta! Non passate le giornate a dare la caccia a chi viola la legge del figlio unico? Quando in campagna una donna fa due bambini le legate le tube. Facendo partire più di mille persone non vi ha forse risparmiato un sacco di lavoro?».
«Com’è che sei così bravo a seminare parole?», disse Liu Xueping.
«E non è tutto. Se davvero ha fatto emigrare mille e passa persone ha dato un contributo enorme alla città anche dal punto di vista economico. In molti si sono conquistati una posizione di tutto rispetto, e a quanto ammontano ogni anno le loro rimesse in valuta estera?».
«Ascolta, è un caso troppo importante: nel 1994, in Albania, un barcone di clandestini diretto in Italia è stato speronato da un cacciatorpediniere, è morta un sacco di gente e lei era coinvolta. Ne ho parlato con quelli della provincia, sarà difficile metterci le mani».
«Vicesindaco Liu, non c’è questione in cui tu non possa mettere le mani. Quella donna mi ha sostenuto molto in Francia, è stata la mia benefattrice. E poi, se riuscissi ad aiutarla, potrei guadagnarmi un po’ di prestigio a Parigi».
«Non è che non voglio provarci, è un caso internazionale, una situazione ingarbugliata. Se sei davvero convinto, fatti un giro in provincia e vai dal segretario Qi, del governo provinciale. È un mio caro amico, chiedi a lui di intervenire».
Tre giorni dopo, con l’aiuto del segretario Qi, Xie Qing riuscì a incontrare Qiumei nel Carcere Provinciale. Per mantenere un basso profilo e non attirare l’attenzione il segretario gli aveva consigliato di mettersi in fila insieme ai familiari dei detenuti comuni. Svegliatosi nel cuore della notte Xie Qing aveva aspettato davanti all’ingresso del carcere le prime luci dell’alba in mezzo a un vento gelido, insieme a una folla di parenti. Gli era stato assegnato un numero ed era rimasto in attesa di essere chiamato. A mezzogiorno, finalmente, vide Qiumei. Ai detenuti in attesa di giudizio non era consentito parlare con i familiari, e i due si videro solo attraverso una parete di vetro insonorizzata. Xie Qing notò lo sguardo sconfortato di Qiumei illuminarsi di colpo non appena lo scorse. Poté soltanto farle un cenno con la mano, ma conosceva la sua forza di volontà, bastava darle un briciolo di speranza per vederla aggrapparsi ostinata alla vita.
Il segretario Qi avvertì Xie Qing che le questioni legali dovevano essere risolte dalla legge. Non era più come una volta, quando a un funzionario, per chiudere un caso, bastava dire una parola giusta. Adesso bisognava affidarsi ad avvocati potenti, che non solo conoscessero a fondo il diritto, ma che fossero anche legati alla pubblica accusa e ai giudici da un rapporto di perfetto equilibrio. Il segretario gli suggerì quindi di andare a parlare con uno di loro. Al momento aveva un enorme potere, gli disse. «Il suo onorario è piuttosto salato ma si tratta quasi sempre di soldi ben spesi. Ha un’altissima percentuale di successi».
7
Sei mesi più tardi Qiumei fu trasferita nel Campo di Lavoro 309 nei pressi di Golmud, nel Qinghai, dove iniziò a scontare la pena. Indossava la divisa azzurra del campo con una targhetta sul petto che riportava il codice 309-12-38. Quel 12 nel mezzo indicava la durata della sua detenzione, dodici anni.
Un’eternità, ma era il risultato che Xie Qing aveva ottenuto dando fondo a tutte le sue energie e senza badare a spese. All’inizio il legale aveva insistito nel sostenere che il caso si trovava sotto la diretta supervisione del Ministero della Pubblica Sicurezza, e che sarebbe stato molto difficile insinuarsi tra le sue maglie. C’era una concreta possibilità che le fosse comminata la pena capitale. Xie Qing era sbiancato: avrebbe versato tutto il denaro necessario per salvare la vita di Qiumei. L’avvocato era appositamente volato a Pechino, dove aveva trafficato per due settimane, e alla fine la squadra investigativa speciale del Ministero aveva rivisto le proprie posizioni: in considerazione del fatto che dai reati era trascorso un tempo piuttosto lungo sarebbe stato possibile evitare la pena capitale. Xie Qing aveva profuso ancora sforzi e denaro, fino alla sentenza definitiva di dodici anni di detenzione. Secondo il regolamento dei campi di lavoro, in caso di buona condotta e di un comportamento meritevole si poteva beneficiare di uno sconto di pena. Xie Qing era pronto a battersi per farle ridurre la pena a sei anni.
Qiumei raggiunse il campo di lavoro in Qinghai in un treno riservato ai detenuti, con finestrini minuscoli da cui tuttavia si riusciva a scorgere il paesaggio. Era sempre stata convinta che il Qinghai fosse un luogo senza tracce di vita, un immenso Deserto del Gobi, di certo non si aspettava che il campo di lavoro si trovasse in un’ampia distesa ricoperta di verdissime e lussureggianti foreste. Anche la vita nel campo era meno terribile di come se l’era prospettata: le fu assegnata una cella doppia, che condivideva con una detenuta condannata per peculato.
Xie Qing andò a trovarla due giorni dopo il suo arrivo nel campo di lavoro. Qualche tempo prima aveva inviato un suo uomo a ungere gli ingranaggi, annunciando di voler donare al campo tre jeep Mitsubishi a nome della Camera di Commercio di Wenzhou a Parigi. Quando si presentò, il concessionario Mitsubishi di Golmud le aveva già consegnate. Si incontrarono in una saletta riunioni tutta per loro e senza limiti di tempo.
Qiumei era tornata a condurre una vita semplice, iniziando a lavorare al sorgere del sole e smettendo al tramonto. Sul suo caso le acque si erano calmate, non vi sarebbero stati nuovi sviluppi, né nuove speranze. Non era preoccupata, aveva cibo e un letto e la sua vita non era poi così male. Le pianure del nord-ovest erano infinite, in autunno i campi si ricoprivano di altissime piante di mais che sembravano un mare di grano dorato. A volte si scorgevano grandi distese di girasoli, come in Provenza. Insieme alle sue compagne di carcere Qiumei si occupava di semplici lavori agricoli, non eccessivamente pesanti. Quando sopraggiungeva la stanchezza si sedevano a prendere il sole sulle soffici spighe chiacchierando. In molte erano curiose di ascoltare le storie di Qiumei. Avevano commesso tutte qualche reato e non c’era nulla di cui si vergognassero. Qiumei raccontò loro di quando si prostituiva nei campi e dei suoi anni d’oro a Parigi, della fattoria in Africa. Una di loro, più giovane delle altre, una volta le fece una domanda: «Ma allora dove andrai quando avrai finito di scontare la pena? In Francia, in Africa? O resterai in Cina?».
Qiumei non seppe cosa rispondere. Una volta fuori sarebbero tornate tutte a casa. E lei dove sarebbe andata?