Epilogo
1
Una sera d’inverno del 2003 Xie Qing sedeva nello studio della sua abitazione parigina. La casa si trovava alla Défense, dove viveva una folta comunità di ebrei, taiwanesi e hongkonghesi. Rispetto alla Chinatown del XX arrondissement si trattava di un posto decisamente più raffinato e tranquillo. Xie Qing si era risposato con una shanghaiese, più giovane di lui e laureata, e assieme avevano avuto un figlio e una figlia.
Si sentiva irrequieto, di un’inquietudine che negli ultimi tempi era diventata sempre più pressante. Dell’entusiasmo per la sua folgorante carriera ormai restava ben poco. Non aveva più investito in nessun progetto e a poco a poco aveva riportato i suoi capitali all’estero. Il solo immobile che ancora possedeva a Wenzhou era l’hotel, ma ormai aveva smesso di occuparsi personalmente della gestione. Anche il tempo che trascorreva nella sua città natale era sempre meno. Il timore che a Qiumei venisse inflitta una pena più severa per il naufragio del barcone albanese non lo abbandonava mai e lui spesso cadeva in un’agitazione incontrollabile, dovuta alla paura che la polizia lo tenesse segretamente d’occhio.
Tornava in Cina due volte l’anno, per partecipare alle riunioni del consiglio di amministrazione del suo hotel, ma soprattutto per far visita a Qiumei che stava ancora scontando la sua reclusione nel Qinghai. Anche se negli ultimi anni aveva interrotto gli investimenti in Cina, aveva fatto una donazione per la costruzione di una scuola elementare nel distretto in cui si trovava il campo di lavoro. Lo faceva soltanto per Qiumei, per assicurarle una vita migliore durante la prigionia.
L’estate precedente un altro avvenimento lo aveva colto alla sprovvista. Liu Xueping, il vicesindaco di Wenzhou, era fuggita all’estero.
Non appena la notizia della fuga era stata pubblicata sul portale Sina.com, nel giro di un giorno aveva superato il milione di clic. Xie Qing in quel momento si trovava a Parigi. Era stata la moglie ad annunciargli che Liu Xueping era scappata.
Tutto era cominciato con il direttore di una banca di Wenzhou. In seguito a un’indagine sulla mancata restituzione di un ingente prestito era emerso che aveva ricevuto una mazzetta da ottantamila yuan da un costruttore di nazionalità statunitense. L’Ufficio Anticorruzione di Wenzhou aveva mantenuto il silenzio sulla questione, e quando l’imprenditore aveva messo piede nel paese lo aveva fermato con l’accusa di corruzione. Xie Qing conosceva l’arrestato, per qualche tempo era stato un suo concorrente e aveva rapporti strettissimi con Liu Xueping. Dopo la sua cattura, alcune persone a lei legate erano state fermate. Un lunedì di qualche settimana più tardi, come da prassi, la dirigenza del Comitato di Partito e del governo municipali aveva convocato una riunione e Liu Xueping non si era presentata. Il sindaco aveva chiesto spiegazioni al suo segretario, ma nemmeno lui sapeva dove fosse finita. Passato qualche giorno, i dirigenti avevano informato la provincia, che a sua volta aveva riferito immediatamente alle autorità centrali. A quel punto l’aeroporto di Shanghai-Pudong aveva ritrovato la registrazione della partenza di Liu Xueping per Singapore con il suo passaporto privato. Sina.com aveva ottenuto l’esclusiva solo una settimana più tardi: era stato allora che era stata avvistata mentre spuntava e spariva di nuovo nelle strade di Flushing a New York.
La fuga di Liu Xueping aveva suscitato scalpore non tanto per la quantità di denaro di cui si era appropriata, quanto per il suo passato da venditrice di mantou. Una donna che da una bottega di panini al vapore era diventata vicesindaco e adesso era persino riuscita a scappare negli Stati Uniti costituiva una storia appassionante.
Ma questa fuga lasciava presagire parecchi problemi anche per Xie Qing. In appena quattro mesi, a Wenzhou quasi cento persone erano state arrestate nell’ambito di quel caso. Fortunatamente non si trovava in Cina, altrimenti avrebbe rischiato di essere tra loro.
Era l’una passata quando il telefono si mise improvvisamente a squillare. Prese la cornetta, all’altro capo del telefono non ci fu risposta. Sentiva che l’interlocutore era lì, perché udì il rumore di un’auto. Ripeté pazientemente: pronto? Tutt’a un tratto sentì una risata esplodere nella cornetta.
«Davvero non lo sai chi sono?». Improvvisamente riconobbe la voce rauca di Liu Xueping.
«Dove sei, ancora in America?», chiese Xie Qing. Aveva letto che il suo ultimo avvistamento era avvenuto a San Francisco.
«Ma figurati se resto in America! Quel postaccio non mi piace».
«E allora dove sei?».
«A Parigi. Guarda un po’ fuori, sono qui sulla tua porta». Xie Qing rimase sgomento, fece capolino dalla finestra ma non vide anima viva. Aprì la porta, ma anche il viottolo era deserto. All’altro capo del telefono Liu Xueping scoppiò di nuovo a ridere. «Sei sempre il mio piccolo tisico! Ti ho preso in giro, non ho idea di dove abiti».
«Davvero sei a Parigi?». Xie Qing sentì il senso di panico alleviarsi, in fin dei conti, pensò tra sé, non aveva di che essere nervoso.
«Ma certo che sono a Parigi! Sono all’Auberge de Chine, un ristorante nel XX arrondissement, sto qui a mangiare da sola. Perché non vieni a bere qualcosa con me?».
«Arrivo subito, aspettami». Si vestì e partì al volante della sua Mercedes nera.
Per arrivare dalla Défense alla Chinatown di Belleville ci volevano circa quaranta minuti. Nei pressi del ristorante adocchiò le tre lanterne appese sopra il portico. Il locale proponeva l’autentica cucina di Wenzhou: brodo con polpette di pesce, strisce di pesce battuto, maiale in salsa di gamberetti, boetshe spruzzato di salsa di soia, ma soprattutto certe foglie di senape sotto sale annerite e puzzolenti, fermentate al punto che bastava sfiorarle perché si squagliassero. L’odore fortissimo che sprigionavano era sufficiente ad attirare tutti i cinesi di Wenzhou che capitavano a Parigi. Quando Xie Qing entrò era passata l’una da un pezzo, ma il locale rimaneva aperto tutta la notte e in sala c’erano ancora alcuni clienti. Si voltarono tutti a guardarlo, notò una donna che non conosceva seduta da sola a un tavolo, per il resto solo sparute compagnie di giovani. Di Liu Xueping nessuna traccia. Xie Qing pensò di chiedere al proprietario, che conosceva. Stava attraversando la sala quando sentì alle spalle la voce rauca del vicesindaco: «Xie Qing, sei proprio orbo, ti stavo seduta davanti e non mi hai vista».
Si girò di scatto ma non vide nessuno. Solo la cliente sconosciuta seduta al tavolo. La donna lo guardava senza espressione, il volto di una forma bizzarra, come d’animale. Eppure la voce era la sua: «Che ti prende? Vai avanti e indietro, neanche avessi perso i soldi per strada».
«Come hai fatto a ridurti in questo modo?». Xie Qing si sentì rizzare i peli su tutto il corpo.
«Sono stata in Olanda per un’operazione di chirurgia estetica».
«Ma che diavolo ti hanno combinato al volto?».
«Caro il mio piccolo tisico, sei proprio un cafone, ma senti come parli». Gli occhi di Liu Xueping tradivano il fatto che fosse offesa, ma i muscoli del viso non si spostarono di un millimetro e la sua espressione non cambiò.
«Quando sei arrivata?». Xie Qing si mise a sedere, iniziando a poco a poco a rilassarsi.
«L’altro ieri. Sono venuta direttamente dall’Olanda».
«Le notizie che circolano ti danno negli Stati Uniti».
«Sono rimasta nascosta in America per quattro mesi, ma dappertutto c’erano giornalisti e gente del Ministero della Sicurezza di Stato che mi davano la caccia. Possono mettermi alle calcagna un sicario per eliminarmi, so troppe cose, e il pensiero che ottenga l’estradizione fa paura a parecchi pezzi grossi che stanno in Cina. Così sono fuggita in Europa con un passaporto falso».
«E pensi che l’Europa sia più sicura degli Stati Uniti?».
«Non lo so. Ma ora ho cambiato faccia e identità, Liu Xueping è morta e sono diventata un’altra persona, sono diventata uno spettro. Hai presente, “uno spettro si aggira per l’Europa”...», e rise.
«Qui lo spettro non è uno solo, ce ne sono almeno due. Ora sono uno spettro anch’io, in Cina non ci posso più tornare», disse Xie Qing.
Liu Xueping scoppiò di nuovo in una delle sue risate nervose. «Ma pensa, non sono ancora morta e guarda quanta gente mi sono già portata nella tomba».
«Non parliamone più. Di incontri come questo non ne capiteranno spesso, pensiamo a mangiare e bere». Xie Qing chiamò il cameriere e ordinò qualche piatto da accompagnare all’alcool. Brindarono sollevando un bicchiere di liquore di Shaoxing ad alta gradazione. Non appena l’alcool iniziò a fare effetto anche il loro umore si fece più rilassato. Si misero a parlare di quando la nonna di Xie Qing e la famiglia di lei vivevano in due case attaccate l’una all’altra. Liu Xueping era dieci anni più grande, da bambini non avevano giocato insieme; entrambi, però, si ricordavano dell’orto della famiglia di Jun Fu al centro di vicolo Guijing. Era incredibile che a quel tempo potessero avere un orto nel bel mezzo della città e che sopravvivessero proprio grazie a quello. Nell’orto, poi, c’era un recinto con un muro di pietre grezze e un cane ferocissimo, gli estranei non osavano metterci piede. C’era anche un letamaio, e quando si dava il concime tutta la strada puzzava. Gli abitanti di vicolo Guijing amavano insultarsi dicendo: ma vai a buttarti nel letamaio di Jun Fu!
«Come mi ci vorrei buttare davvero, nel letamaio di Jun Fu», disse Liu Xueping.
Era esausta, aveva la schiena curva, i capelli opachi e ingrigiti. Dopo averla aiutata a infilarsi il cappotto Xie Qing uscì con lei. Aveva iniziato a nevicare. Con la mano tremante le strinse la sua. «Sorella, abbi cura di te». Aprì la portiera di un taxi fermo all’incrocio e la fece salire. L’indirizzo di Liu Xueping era scritto su un cartoncino, l’autista accese la luce, lo esaminò, poi fece un cenno del capo. In piedi, in mezzo alla neve che aumentava di intensità, Xie Qing rimase a guardare il taxi che spariva nella notte.
2
Con il passare dei giorni l’angoscia di Xie Qing crebbe. Era una sensazione di disgrazia incombente. Quando faceva la spesa continuava a guardarsi le spalle nelle vetrine, quando guidava aveva sempre la sensazione di essere seguito. Un giorno, sollevando la cornetta del telefono di casa, si convinse che era sotto controllo. Nelle tecniche di spionaggio, negli ultimi anni, la Cina aveva fatto passi da gigante: tutto quello che un tempo era appannaggio esclusivo del KGB ora poteva farlo anche la polizia cinese.
Non poteva far visita a Qiumei, né partecipare alle riunioni del consiglio di amministrazione. L’impero immobiliare costruito a Wenzhou si era trasformato in una trappola. Ricevette una telefonata dal fratello minore: il padre aveva avuto un’emorragia cerebrale ed era in ospedale con le ore contate. Gli chiedeva di tornare per dargli l’ultimo saluto. Di lui il fratello conosceva soltanto il potere e il successo, non sospettava che adesso si trovasse sotto assedio. I giorni che seguirono furono i più terribili della sua vita: il padre si sforzava di tenere duro aspettando il suo arrivo, ma per lui era ormai impossibile mettersi in viaggio. Se avesse rimesso piede in Cina non avrebbe avuto scampo. Anche una minima parte dei suoi traffici con Liu Xueping l’avrebbe condannato alla galera per il resto dei suoi giorni. Fece la guardia al telefono per tre giorni, finché il fratello non gli diede la notizia più inaspettata: il padre si stava rimettendo, ancora qualche giorno e avrebbe potuto riprendere a mangiare un po’ di pappa di riso. Xie Qing tirò un sospiro di sollievo, ma al tempo stesso ebbe un sospetto: e se la storia del padre fosse stata una messinscena orchestrata dalla polizia per spingerlo a fare un passo falso?
Il giorno del Qingming si alzò di buon mattino per una visita alla tomba di Yang Hong. Le aiuole vicino al cimitero erano già invase dal tarassaco giallo, mentre ai lati del sentiero che portava alla tomba i fiori dei ciliegi giapponesi formavano una nuvola fluttuante. Xie Qing diede fuoco agli oggetti votivi che aveva portato, si sedette su una pietra lì vicino e vi rimase a lungo. Era uno dei pochi luoghi in cui riusciva a scrollarsi di dosso l’angoscia di cui non vedeva la fine.
«Vedi, Yang Hong, tu non puoi più tornare a casa, e io nemmeno», disse tra sé rivolto alla lapide. Mentre fumava una sigaretta ripensò a quando l’aveva spinta dentro al finestrino della corriera. Quel giorno, guardando il traghetto allontanarsi verso il centro del fiume, non aveva provato soltanto l’amarezza dell’addio, ma anche il desiderio intenso di partire per un lungo viaggio. Non avrebbe mai immaginato di seguirla così lontano. Il viaggio di Yang Hong era finito ma lui, che non aveva mai smesso di inseguirla, aveva compreso che anche la sua strada si era interrotta, lasciandolo sul ciglio di un burrone, di un abisso senza fondo.
In quel momento vide a una certa distanza un uomo che portava per mano un bambino. Quando riuscì a distinguerli, si accorse che erano cinesi. L’uomo, in completo nero, aveva la schiena dritta e qualche capello grigio sulle tempie; il bambino al suo fianco aveva il viso chiaro e i capelli accuratamente pettinati con la riga di lato, anche lui in completo nero e cravatta. L’uomo e il bambino, entrambi con un grande mazzo di fiori bianchi, gli si avvicinarono e puntarono verso la tomba di Yang Hong. L’uomo, che guardava dritto davanti a sé, non si interessò a Xie Qing, seduto a poca distanza. Il bambino, invece, si girò verso di lui rivolgendogli educatamente un saluto con lo sguardo. Li vide posare i mazzi di fiori davanti alla lapide, l’uomo disse al bambino di inginocchiarsi e battere tre volte la fronte a terra, secondo il rituale cinese, e lui stesso fece tre profondi inchini. Poi, conclusa la cerimonia, si voltò e si diresse verso Xie Qing.
«Buongiorno. Deve scusarmi se la disturbo, ma io la conosco, Yang Hong mi ha parlato di lei», e lo salutò stendendo il braccio.
«Anch’io so chi è lei. Una volta ho cercato di rintracciarla ma non ci sono riuscito», disse Xie Qing stringendogli la mano.
«Immagino che sappia chi è questo bambino». Il ragazzino lo salutò in cinese: «Buongiorno, zio!».
«Certamente. L’avevo rintracciato ancor prima che lei lo prendesse con sé. All’epoca era affidato a una famiglia francese. Sta ancora studiando in Gran Bretagna?».
«Sì, sta facendo le scuole lì. Vedo che sa proprio tutto».
«Il tempo vola. Quando sono andato ad Angoulins, quel paesino in riva al mare, aveva poco più di un anno, ma adesso è un giovanotto».
«È un peccato che non gli sia rimasto nessun ricordo della mamma. Così ho approfittato delle vacanze e sono andato appositamente a Londra dalla Cina per portarlo sulla sua tomba».
Xie Qing tirò fuori una sigaretta e gliela porse, ma quello scosse la testa.
«Sono contento di averla incontrata qui, in fin dei conti Yang Hong manca a entrambi», proseguì l’uomo. «Forse, se non le dispiace, potremmo fare due chiacchiere».
«La ascolto».
«Penso che un giorno si potrebbe riportare la tomba di Yang Hong in Cina, a casa sua».
«Meglio lasciarla qui, era una a cui piaceva andare lontano, in questo la conosco più di lei».
«Penso sempre a quanto deve sentirsi sola e abbandonata, costretta a riposare in un suolo straniero».
«Sì, sola lo è stata davvero, ma verrò spesso a farle compagnia».
«So che Yang Hong non è stata tenera nei suoi confronti, non mi aspettavo che lei non provasse rancore o rimpianto».
«Un tempo Yang Hong mi chiamava spesso con un nomignolo. Mi chiamava “galoppino”, come i braccianti dei film, quelli che lavoravano nei campi dei latifondisti... D’ora in poi sarò il suo galoppino, le starò accanto io», disse Xie Qing.
Sul suo volto si dipinse un sorriso di felicità.