Il dottor Edward Crisp era basso, atletico e con la testa pelata, a parte alcuni ciuffi grigi ben curati sulle tempie. Portava occhiali moderni, ma troppo grandi per la sua faccia, che gli davano un’espressione perplessa, come se stesse scrutando il mondo attraverso un binocolo.
Da persona esigente qual era in fatto d’abbigliamento, indossava un abito antracite fatto a mano da Gresham Blake, il sarto dell’alta società di Brighton, una camicia azzurrina, una cravatta di seta rosa di Jermyn Street e un paio di lucidi stivali neri Chelsea di Crockett & Jones acquistati alla Burlington Arcade, a Londra. Il suo trasandato cane bianco e nero, Macchia, che la maggioranza dei suoi pazienti adorava, dormiva accanto alla sua scrivania in una cesta di fil di ferro.
Per i medici di famiglia era ormai frequente esercitare con un gruppo in un centro medico, ma lui preferiva lavorare da solo, nello stesso studio che occupava da venticinque anni. Era un ambulatorio spazioso e imponente, al pianterreno di una casa vittoriana a schiera piuttosto brutta, a Hove, vicino a Church Road. C’era anche una piccola stanza annessa per la sua segretaria, Jenni Acton, che aveva cinquantasette anni, non era sposata e lavorava per lui con servile devozione da un quarto di secolo.
La stanza, impeccabile come il suo abito, rifletteva la sua passione per l’ordine e la precisione. Le sue qualifiche erano appese in fila: tutte ugualmente incorniciate e impressionanti.
Oltre a essere medico di base, possedeva la qualifica di immunologo, rilasciata dall’Istituto Pasteur di Parigi, di omeopata, di esperto di medicina cinese e agopuntura, e poi era fellow del Royal College of Surgeons. A dire la verità, aveva conseguito l’abilitazione come chirurgo prima di decidere che fare il medico di famiglia con uno studio di lusso gli era più congeniale, e la sua legione di pazienti privati era lieta della sua scelta, perché era un medico molto apprezzato e popolare, al punto che da diversi anni la sua lista era chiusa e accoglieva nuovi pazienti solo in base a criteri speciali.
Una di questi, Freya Northrop, era appollaiata nervosamente sul bordo di una delle due sedie in pelle e legno di quercia davanti all’impeccabile scrivania rivestita in pelle, mentre il dottore conversava con grazia e calma con qualcuno di nome Maxine all’altro capo del telefono. L’interlocutrice, da quanto Freya riusciva a sentire, era in ansia per la madre, malata terminale e ormai alle sue ultime settimane di vita.
Nella stanza, l’unico indizio della vita privata del dottore era una cornice d’argento sulla scrivania, con una foto in posa di un’attraente donna bruna sui quarantacinque anni, in mezzo a due belle ragazze adolescenti, sue immagini speculari, su uno sfondo color azzurro cielo. Ridevano tutt’e tre per qualche battuta, probabilmente del fotografo professionista dietro l’obiettivo.
Mentre il dottore parlava, promettendo di far ammettere la madre della donna al Martlets Hospice, Freya Northrop si guardava in giro. La maggior parte degli studi medici in cui era stata in precedenza erano piuttosto anonimi. Quello invece era davvero splendido, sembrava di essere in un museo più che in un posto di lavoro. Sulla parete alla sua sinistra erano appesi foto e ritratti di grandi pionieri della medicina: riconobbe Alexander Fleming, lo scopritore della penicillina, e Madame Curie, pioniera dei raggi X. Ognuno aveva il nome scritto sotto e una breve biografia. Poi c’erano copie incorniciate di disegni anatomici di Leonardo da Vinci.
Una teca era piena di modelli di crani umani e, accanto, si ergeva fiero uno scheletro su un basamento che sembrava sorvegliare la stanza, ostruendo parzialmente la vista dall’unica finestra, con le veneziane aperte, che dava su un parcheggio sul retro.
Il dottore prese appunti su un blocco, con una penna Montegrappa nera, poi scrisse qualcosa al computer, senza smettere di rassicurare la donna di nome Maxine che era in linea.
Sparsi per la stanza vi erano alcuni busti su basamenti, che accentuavano la sensazione di trovarsi in un museo. Freya ne osservò uno: un uomo con una pelata curiosamente ellittica e la barba simile a una fiamma.
«Per prima cosa, non nuocere!» Il tono del dottore era cambiato.
Colta di sorpresa, Freya si voltò e vide che il medico teneva la mano a coppa sul ricevitore e si stava rivolgendo a lei, con una scintilla di umorismo quasi infantile.
«Non nuocere?» chiese lei.
«Ippocrate! Il tizio che stava guardando. Un grande, vecchio saggio. Il giuramento di Ippocrate è pronunciato dai medici di tutto il mondo, che si impegnano a praticare la medicina con onestà e via dicendo. Per la verità, non fu Ippocrate a dire ’Non nuocere’, ma un chirurgo dell’Ottocento, Thomas Inman.»
«Ah.»
«Non la farò attendere troppo», disse indicando il telefono. «Ho una signora molto in ansia e sconvolta. Sto solo aspettando che parli con sua madre. Sì, Ippocrate!» Il dottore, mentre continuava la chiamata, studiava la nuova giovane paziente che aveva di fronte. Sulla ventina, abbigliamento un po’ all’antica, viso dalla bellezza classica, con profondi occhi bruni incorniciati da lunghi capelli con la riga in mezzo. Gli ricordava l’attrice Julie Christie, per cui aveva avuto una cotta da adolescente. E anche qualcun’altra, ma faceva troppo male, quindi ricacciò il ricordo in un angolo della mente. Terminò finalmente la chiamata e le rivolse un ampio sorriso. «Dunque, non ci siamo mai visti prima, giusto?» Guardò il suo nome sullo schermo del computer, facendo un notevole sforzo per mettere a fuoco. «Freya?»
«Sì, è la prima volta che vengo», disse Freya Northrop.
«Nome interessante, Northrop. Uhm. Northrop Frye, l’ha mai letto?»
Lei scosse il capo, inespressiva.
«Fantastico critico letterario! Ha scritto alcuni saggi davvero geniali su T.S. Eliot. Hanno contribuito molto alla sua reputazione. Anche su Milton, specialmente sul Paradiso perduto.»
«Ah», ripeté lei, sempre inespressiva.
«Si chiamava Herman, di nome.»
«Ah», disse ancora, un po’ sconcertata da quella strana conversazione. La sua migliore amica Olivia Harper le aveva detto che il dottor Crisp era un medico favoloso e molto divertente, ma a lei pareva più che altro stravagante. E aveva l’impressione d’irritarlo con la sua ignoranza. «T.S. Eliot, lui sì che l’ho sentito nominare.»
«La terra desolata?»
«Già. Certo.»
«Conosce il poema?»
«No, non lo conosco.»
La mente di Edward Crisp tornò alla sera precedente, quando stava portando a spasso Macchia nel parco di Hove Lagoon. Durante l’inverno si poteva portare a passeggio il cane sul lungomare di Brighton & Hove senza tenerlo al guinzaglio e, a volte, la sera, quand’era buio a sufficienza, poteva lasciare che il meticcio bianco con una macchia nera ai lati del ventre, che aveva acquistato come cane da soccorso dieci anni prima, facesse i suoi bisogni dove voleva senza che lui poi dovesse chinarsi a raccoglierli con un sacchetto di plastica o, come certi padroni cretini, con una di quelle palette con contenitore.
Pensò alla terribile immagine dello scheletro, disteso allo scoperto nello scavo irregolare lungo il vialetto. Non riusciva a levarsela dalla testa.
«La terra desolata?»
Le parole della giovane paziente lo riportarono bruscamente alla realtà. «Divento vecchio. Porterò i pantaloni arrotolati in fondo», disse.
Freya Northrop aggrottò la fronte.
«Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock», spiegò il dottore, sorridendo raggiante. «Ma basta così. Scusi se sono un po’ assente, oggi. Ho visto una cosa terribile ieri sera e sono piuttosto sconvolto. Sono un dottore, cerco di far stare meglio le persone, ma non ho potuto aiutare quella povera donna. Basta parlare di me, però, parliamo di lei. Mi dica, come mai è qui?»
«Lei mi è stato consigliato da Olivia Harper. Mi sono appena trasferita da Londra a Brighton.»
«Ah, sì, bene, una ragazza adorabile, Olivia. Un vero tesoro. Sì, certo. Mi perdoni, sono davvero scombussolato stamattina. Di sicuro, però, non è quello che lei vuole sentirsi dire. Mi dica, cosa la porta qui?» Sorrise, gli occhi improvvisamente vivi e luccicanti di buonumore. Tenne sollevata davanti a sé la sua elegante penna nera e la fissò, come attraverso di essa.
«Be’, non sto male, né niente del genere», disse lei.
«Certo che no. Perché mai si dovrebbe voler vedere un medico, se si fosse malati, giusto?» Fece un sorriso ampio e contagioso.
Lei sorrise di rimando, rilassandosi. «Assolutamente, perché mai si dovrebbe?» replicò.
«Esatto! A me piace visitare solo pazienti che stanno bene. Chi vuole pazienti malati? Portano via troppo tempo e mi mettono in cattiva luce.» Si picchiettò il petto. «Venga sempre a trovarmi ogni volta che sta bene, d’accordo?»
Lei rise. «Affare fatto!»
«Ottimo, piacere di averla conosciuta, Freya!» Finse di alzarsi per salutare, poi sedette nuovamente, ridendo. «Allora, mi dica.»
Erano in sintonia, ormai. «Be’, ho incontrato questo ragazzo, il motivo per cui mi sono trasferita qui...» disse Freya. «È da un po’ che non prendo la pillola, ma vorrei ricominciare.»
Ci fu un lungo silenzio. Lui la scrutava, il suo contegno sembrava essersi irrigidito e improvvisamente Freya provò un brivido di disagio. Aveva toccato un nervo scoperto? Poi il dottore sorrise, un sorriso amichevole che gli accese il viso. «La pillola? Tutto qui?»
«Sì», disse lei.
«Ha in programma di fare sesso con questo... ragazzo?»
«Be’, lo stiamo già facendo. Però...»
Il dottore sollevò le mani. «Attenzione! Troppi dettagli! Se vuole la pillola, io sono la persona giusta a cui chiederla! Non c’è problema. Lei è davvero una ragazza deliziosa. Qualsiasi cosa voglia, venga da me. Dunque, mi lasci prendere alcuni appunti e poi le farò una visita di controllo completa. Prima mi parli un po’ della sua storia clinica.»
Lei raccontò, per quel che riuscì a ricordare, dell’appendicite avuta a tredici anni, della spalla rotta a sedici facendo snowboard, della clamidia a diciotto e, arrossendo, della candida ricorrente in tempi più recenti.
Il dottore scrisse tutto al computer e a lei parve che ricavasse un piacere particolare dalla cronaca delle sue malattie veneree. Poi la indirizzò dietro il séparé perché si spogliasse.
Mentre lei si toglieva i vestiti, lui continuò a digitare alcuni appunti al computer, quindi fissò il séparé verde in fondo alla stanza. Ruotò il cappuccio della penna fino a far fuoriuscire la punta a sfera e la fece rientrare di nuovo.
Quel cadavere al parco lo stava davvero tormentando.
«Sono pronta», disse Freya.
Il dottore continuò a fissare la punta della penna.
«Freya Northrop», disse, quasi senza voce, a se stesso. Gli piaceva quel nome. Che ragazza simpatica! «Arrivederci!» le disse poco dopo, mentre lei se ne andava. Gli piaceva che tutti se ne andassero con un sorriso.