La caposala Annette Lippert aveva iniziato da settantacinque minuti il turno di notte nell’unità di terapia intensiva dell’ospedale in cui aveva conseguito l’abilitazione e trascorso gran parte della sua carriera. Il reparto di neurologia dell’ospedale Schwabing di Monaco era ritenuto, secondo lei giustamente, uno dei migliori in Germania, con un’infermiera per ciascun paziente ricoverato in terapia intensiva.
Come caposala aveva in genere il turno del mattino, perché era allora che avvenivano la maggior parte dei trasferimenti e degli interventi, ma in città era in corso un’epidemia d’influenza perciò mancavano alcune infermiere e c’erano giorni in cui lei doveva lavorare su più turni per coprire le assenze.
Il turno di notte era lungo e noioso, e di solito non succedeva granché. L’unità era attentamente mantenuta alla temperatura costante di ventiquattro gradi centigradi, che a volte dava la sensazione di caldo asfissiante, anche se nessuno dei pazienti che occupavano i quindici posti letto si era mai lamentato. Molti non parlavano mai. Faceva eccezione la donna non identificata in stato comatoso che giaceva nel letto dodici e che sporadicamente diceva parole confuse e isolate.
Nel controllare ciascun paziente, con relativo aggiornamento da parte dell’infermiera assegnata, Lippert giunse al letto dodici, accompagnata da due dottori.
La donna che vi era stesa poteva avere trentacinque anni o poco più, i capelli castani corti e il viso parzialmente coperto da bende. Era in stato semicomatoso da quando era stata investita da un taxi un mese prima, mentre attraversava Widenmayerstrasse, la trafficata strada principale che attraversava uno dei quartieri più eleganti di Monaco lungo il fiume Isar.
Era stata ricoverata come unbekannte frau, «donna sconosciuta».
Un testimone oculare dell’incidente aveva riferito con sdegno alla polizia che, mentre la donna era stesa sulla strada, un farabutto in motocicletta con il casco in testa le si era avvicinato, le aveva rubato la borsetta ed era ripartito.
Per quarantotto ore nessuno aveva avuto idea di chi fosse, poi un ragazzino, di ritorno in lacrime da un ritiro calcistico perché la mamma non era andato a prenderlo, era stato portato lì dalla polizia e l’aveva identificata come sua madre, Frau Lohmann. Ciononostante, la donna restava in un certo senso un mistero. Da quanto riferito dalla polizia, sembrava che si fosse data davvero un gran da fare per cancellare il suo passato. Una perquisizione del suo appartamento, del computer e del cellulare non aveva fornito indizi rispetto alla sua vera identità. Aveva almeno due identità false, con tanto di passaporti contraffatti, numeri di previdenza sanitaria e carte di credito. Possedeva oltre tre milioni di euro su un conto di una banca di Monaco, sempre sotto uno dei suoi nomi falsi, ed era riuscita ad aprirlo circa nove anni prima, eludendo i protocolli antiriciclaggio.
L’Interpol avrebbe impiegato settimane ad avere riscontri con le impronte digitali e il DNA, ed era tutt’altro che scontato che ne trovassero. A causa dell’interesse della polizia, però, la paziente sarebbe stata trasferita in una delle stanze singole del reparto non appena se ne fosse liberata una.
Lippert la guardò. Aveva gli occhi chiusi, ed era così da quando era arrivata. Attraverso il catetere a doppio lume che le emergeva dal torace le venivano costantemente iniettati i liquidi con le varie sostanze nutrienti che la mantenevano in vita.
Chi sei veramente? si chiese Annette Lippert. Dove stavi andando quando sei stata investita? Da dove venivi? Da cosa stavi fuggendo?
La polizia faceva il possibile. Quella donna aveva numerose identità alternative, così era stato comunicato all’ospedale. A un certo punto della sua vita, prima della nascita del figlio, Frau Lohmann aveva cambiato nome almeno due volte. Tuttavia, non si riusciva a capire perché l’avesse fatto. Forse per sfuggire a una relazione da incubo o a un passato criminale? Era una terrorista? La polizia continuava a indagare.
Nel frattempo, Frau Lohmann dormiva, tenuta in vita dalle cannule inserite nel suo corpo.
E Annette Lippert continuava a guardarla, con un senso di profonda tristezza. Una volta qualcuno ti amava. Hai un figlio. Torna da noi, svegliati! Tuo figlio ha bisogno di te.
Di tanto in tanto, Frau Lohmann inspirava improvvisamente e con forza. Gli occhi, però, restavano chiusi.
Sempre chiusi.
Non c’erano parenti, o almeno nessuno che suo figlio Bruno conoscesse. Adesso era da uno dei suoi amichetti, i cui genitori lo accompagnavano in ospedale di frequente.
Cosa diamine è chiuso nella tua mente? E come possiamo accedervi?
Durante il quarto giro del turno, poco dopo la mezzanotte, mentre Annette Lippert la fissava intensamente, la donna all’improvviso, e per un breve lasso di tempo, aprì gli occhi. «Ditegli che lo perdono», disse, e li chiuse di nuovo.
«A chi dobbiamo dirlo?»
Ma tutto quello che ottenne fu il regolare bip-bip-bip dei monitor.
Intrappolata nella sua testa, Sandy sentiva le loro voci. Capiva quello che dicevano. Ma era come se stesse nuotando sott’acqua, in profondità. Non riusciva a rispondere.
«A chi?» insisté Lippert.
Ma la donna se n’era andata di nuovo, ritirata in qualche profondo e inaccessibile recesso della sua mente.
Lippert si trattenne per un po’, poi passò al letto successivo.