Un’antica melodia
Quella sera a villa S. tutti gli amici intimi sapevano che Julian Winthrop era un tipo strano, ma sono certo che nessuno dei presenti si sarebbe aspettato di assistere ad un evento così singolare come quello che accadde il primo mercoledì dello scorso mese di settembre.
Winthrop era stato un assiduo frequentatore della villa della Contessa S. fin dal suo arrivo a Firenze e più stavamo con lui e più restavamo affascinati dal suo bizzarro carattere. Nonostante la giovane età, rivelava un autentico talento per la pittura, ma i conoscenti più stretti erano concordi nel ritenere che il suo ingegno non lo avrebbe portato a nulla. Aveva un’indole troppo sensibile per un lavoro costante, si appassionava ad ogni forma d’arte e trovava difficoltà a dedicarsi esclusivamente ad una sola. Aveva una fantasia sfrenata, soprattutto un’eccessiva passione per i dettagli e fissava ed elaborava qualsiasi impressione che provava in una forma artistica; e le idee e la creatività mutavano e cambiavano in continuazione come le figure in un caleidoscopio e la loro varietà e la volubilità erano la fonte principale del godimento. Tutto ciò che faceva, pensava o diceva, aveva una irresistibile tendenza a trasformarsi in arabesco; sentimenti e inclinazioni scivolavano sorprendentemente gli uni negli altri; pensieri e immagini si sviluppavano nei grovigli inestricabili della mente, come quando suonava un pezzo musicale. Lo si udiva allora passare inconsapevolmente da un frammento ad un altro in maniera incoerente e, quando sceglieva di disegnare una figura, dalla punta della matita ne usciva una completamente diversa. La sua mente era come un album di schizzi, piena di chiazze di colore, di disegni stravaganti e leggiadri, indefiniti, gli uni sovrapposti agli altri: foglie che crescevano dai volti, costruzioni in groppa ad animali, pezzi di melodie annotate tra versi di poesie frammentarie, spigolature da ogni dove, tutto gradevole, tutto mescolato in un fantastico insieme. In breve, il genio artistico di Winthrop si sarebbe esaurito per l’amore dell’eccentricità e il successo professionale sarebbe stato soffocato dalla sua attrazione per l’insolito; la sua stessa esistenza era simile ad un’opera d’arte, a un ghirigoro vivente.
Quel mercoledì eravamo a Bellosguardo nella villa S., seduti fuori della terrazza ad ammirare il languido chiarore della luna e a godere della piacevole frescura dopo una giornata di afa opprimente. La Contessa S., un tempo nota musicista, stava provando una suonata per violino con uno degli ospiti, erano nel salotto e le porte-finestre erano aperte sulla terrazza.
Per tutta la sera Winthrop si dimostrò particolarmente allegro, ma all’improvviso tolse dalla tavola le tazze da tè e i piattini e tirò fuori da una cartella l’album degli schizzi. Iniziò a disegnare nel suo tipico modo distaccato ed irriverente: foglie di acanto che si attorcigliavano alle code delle sirene, satiri che spuntavano dalla passiflora, piccoli fantocci tedeschi in marsina con codino di maiale che facevano capolino tra i petali dei tulipani, tutto questo ed altro usciva dalla sua fantasiosa matita mentre distratto ascoltava la conversazione dei presenti.
La Contessa provò più volte la suonata, passaggio dopo passaggio e poi, quando finì, invece di ritornare tra gli ospiti riuniti sulla terrazza, si avvicinò a noi che ci intrattenevamo nel salotto.
«Vi prego di restare dove siete», ci invitò cortesemente, «desidero farvi ascoltare un’antica melodia che una settimana fa ho trovato per caso tra un mucchio di cianfrusaglie nel ripostiglio di mio suocero. Mi sento felice come se avessi scovato un tesoro, bello come un pregiato ornamento di ferro battuto tra un mucchio di chiodi arrugginiti, o prezioso come una ceramica di Gubbio rinvenuta tra scheggiate tazzine da caffè. Mi attrae la sua armonia. Ascoltiamola insieme».
La Contessa era stata una cantante straordinaria, raffinata, una profonda conoscitrice di musica, purtroppo dotata di poca voce, ma aggraziata ed elegante nell’esecuzione. Una melodia da lei giudicata gradevole non avrebbe deluso nessuno dei presenti, ma fin dalle prime battute i suoni che man mano si sprigionavano ci parvero assai diversi da quelli che noi moderni siamo abituati ad ascoltare, sia per i passaggi ritmici squisitamente rifiniti, che per i delicati preziosismi vocali, che per gli ornamenti simmetrici. Ci sentivamo trasportati in un’altra dimensione della sensibilità musicale, un sentimento troppo represso e artisticamente elevato, un’armonia troppo perfetta e equilibrata per farci commuovere in profondo; infatti non era in grado di generare nessuna commozione, perché in realtà non esprimeva nessun tipo di emozione. Era difficile giudicarla triste o allegra, si può solo dire che era straordinariamente dolce e soave.
Con queste parole spero di essere riuscito ad esprimere il piacere che provai, ascoltando il pezzo musicale, di poco minore degli altri ospiti. Distrattamente volsi lo sguardo verso Winthrop e mi stupì la sorprendente emozione che lo aveva rapito fin dalle prime battute della straordinaria melodia. Era seduto presso un tavolo, le spalle rivolte verso me, e notai che aveva smesso di disegnare e ascoltava la musica con ardente avidità. Mi sembrò anche di vedergli tremare la mano distesa sull’album degli schizzi e di percepire il suo respiro che a tratti diventava convulso. Avvicinai la sedia alla sua e a quel punto non ebbi più dubbi, tutto il suo corpo era percorso da un tremito.
«Winthrop», sussurrai per scuoterlo. Ma non mi rivolse la minima attenzione mentre la sua mano involontariamente accartocciava il foglio sul quale aveva disegnato.
«Winthrop», ripetei, scuotendogli la spalla.
«Lasciatemi in pace, per favore», rispose frettoloso, come per liberarsi di me, «voglio ascoltare bene».
Il suo modo di reagire alle mie sollecitazioni era quasi forsennato e la grande emozione che lo aveva colto derivava dall’ascolto di un pezzo musicale che non aveva commosso nessuno di noi e ciò mi colpì come un fatto singolare. Mise la testa tra le mani e restò in questa posizione fino alla fine del brano. La conclusione della composizione fu molto complessa e l’esecuzione efficace e trovai incantevole il ritmo che saliva con note alte e scendeva con note basse, con un passaggio breve e ripetuto come un sospiro ad intervalli più o meno lunghi. L’impressione che ne veniva fuori era insolita e incisiva.
«Brava! Bello!», applaudirono i presenti. «Un vero capolavoro, diverso, elegante e magistralmente cantato!».
Rivolsi lo sguardo verso Winthrop. Con espressione quasi esterrefatta, si rigirava da ogni parte, il volto paonazzo e il corpo ripiegato sul bordo del tavolino, come se fosse vinto da una grande emozione.
La Contessa si stava dirigendo verso la terrazza con aria soddisfatta. «Sono contenta che il pezzo sia stato di vostro gradimento», disse sorridente, «è molto allettante. Santo Cielo! Signor Winthrop!» esclamò all’improvviso, «che vi sta succedendo? Qualcosa vi sconvolge? Vi sentite male?».
Dava infatti l’impressione di star male.
Winthrop si era alzato con gran sforzo e con voce roca ed incerta rispose:
«Non ho niente, all’improvviso ho sentito freddo. Forse è meglio che rientri... o invece è preferibile che resti. Che cosa è... Come si chiama quell’aria che avete appena cantato?».
«Quell’aria?» la Contessa ripeté con lo sguardo assente, colpita dall’improvviso malessere di Winthrop che le aveva vanificato la gioia dell’esecuzione musicale appena conclusa. «Quell’aria? Oh! È stata scritta da un compositore sconosciuto, un certo Barbella, vissuto attorno all’anno 1780». Era evidente che la dama considerava la domanda come l’occasione per sviare l’attenzione dal suo malessere.
«Vi dispiacerebbe mostrarmi lo spartito?» chiese Winthrop in fretta.
«Con piacere. Venite con me nel salotto, l’ho lasciato sul pianoforte».
Le candele del pianoforte erano ancora accese e mentre vi si avvicinavano la Contessa, come me, era intenta ad osservare il suo volto.
Winthrop non rivolse la minima attenzione a nessuno di noi due, con un gesto deciso si impossessò dei fogli e cominciò a guardarli con espressione fissa e smarrita. Quando alzò lo sguardo, notammo che il colore del viso era cinereo e che mi stava porgendo la partitura con un gesto lento e meccanico. Era un vecchio manoscritto ingiallito e macchiato dal tempo, in una chiave musicale oggi in disuso e le battute iniziali, composte in uno stile grandioso e pieno di vigore, erano: Sei Regina, io Pastor sono. La Contessa appariva ancora impressionata dal turbamento che Winthrop aveva cercato di nascondere, fingendo un grande interesse per quel pezzo musicale, ma a me non era sfuggita la sua straordinaria emozione durante l’esecuzione e non dubitavo che egli fosse rimasto sconvolto proprio da quell’armonia.
«Mi dite che il pezzo è molto raro», proseguì Winthrop, «perciò siete certa che nessuno a parte voi ne conosce l’esistenza. Vero?».
«Naturalmente posso confermare solo in parte questa affermazione», rispose la contessa, «ma posso aggiungere che il Professor G., una delle più attendibili autorità in campo musicale, al quale ho sottoposto il brano, mi ha detto di non averne mai conosciuta l’esistenza e neppure di immaginarne il compositore; aggiunse anche che il suo nome non è presente in nessun archivio in Italia o a Parigi».
«Allora», chiesi, «come fate a sapere che è stato scritto nell’anno 1780 circa?».
«Dallo stile; su mia richiesta il Professor G. l’ha messo a confronto con le composizioni di quell’epoca, e i temi musicali sono dello stesso tipo».
«Siete dunque certa», intervenne Winthrop pacatamente, ma contenendo una forte tensione, «che nessun altro, eccetto voi, lo abbia mai cantato in questo periodo?».
«Penso proprio di no; è molto improbabile».
Winthrop restò silenzioso e continuò a guardare la partitura, ma meccanicamente.
Nel frattempo il salotto si era pian piano popolato di varie persone del gruppo.
«Che strano comportamento ha il signor Winthrop», sussurrò una delle signore all’orecchio della Contessa, «che cosa gli è accaduto?».
«Non so. È rimasto impressionato oltre misura, ma non riesco a capire come quel brano possa turbare, è un’armonia dolce e priva di emozione» risposi.
«Quell’armonia!» ribatté la Contessa, «non vi viene da pensare che quella musica abbia qualcosa a che fare con il comportamento del nostro ospite?».
«Comincio anch’io a credere che vi sia un legame tra le due cose. Per dirla in breve, fin dalle primissime note ho avuto la sensazione che in lui si scatenasse un’emozione violentissima».
«Perché allora tutte queste domande sul brano?».
«Mi sono parse perfettamente sincere».
«La sua emozione non dipende dal brano, poiché è improbabile che l’abbia potuto sentire prima di questa sera. È molto curioso. Di certo c’è qualcosa che non va in lui».
Non era possibile affermare il contrario; il volto di Winthrop era di un pallore mortale e, sentendosi oggetto di curiosità da parte dei presenti, una forte agitazione si era impossessata di lui. Desiderava fuggire, ma il timore di compiere un gesto inconsulto lo aveva frenato. Era rimasto immobile dietro il pianoforte, lo sguardo fisso sulla consunta partitura.
«Avevate già sentito questo brano, signor Winthrop?», chiese la Contessa, incapace di trattenere la curiosità.
Quelle parole sembrarono ridestarlo. Volgendo verso di lei lo sguardo molto turbato, dopo un momento di incertezza rispose: «Come è possibile che l’abbia già sentito, se siete voi l’unica persona a possederlo?».
«L’unica a possederlo? Oh! Non l’ho mai detto. Sarebbe improbabile trovarne un’altra copia, ma non impossibile. Forse sapete che esiste un altro spartito. Ditemi, ve ne è forse un altro? Dove avete sentito quel brano prima d’ora?».
«Non ho mai detto di averlo sentito!», aggiunse in fretta.
«Ma siate più chiaro, l’avete o non l’avete già ascoltato?» insistette la Contessa.
«Non l’ho mai sentito prima d’ora», rispose con decisione, sentendosi avvampare di improvviso rossore, come chi è cosciente di rispondere in modo evasivo.
«Non insistete con queste domande», aggiunse in fretta, «mi infastidiscono», e così dicendo se ne andò via.
Ci guardammo l’un l’altro, al colmo dello stupore.
Il comportamento insolito, un misto di reticenza e di inconsueta scortesia, soprattutto l’eccitazione violenta che aveva colpito Winthrop e l’inspiegabile brama di carpire notizie sul brano cantato dalla Contessa, tutto questo messo insieme aveva reso vano ogni sforzo per scoprire la ragione del suo turbamento.
«Cela qualche mistero!», ci ripetevamo, ma oltre questo non potevamo aggiungere altro.
La sera seguente ci ritrovammo seduti nel salotto della Contessa; era impossibile non ritornare sull’argomento e in particolare sull’inconsueto comportamento di Winthrop.
«Pensate che ritornerà tra di noi?» chiese uno dei presenti.
«Credo che preferisca lasciare passare un po’ di tempo e aspettare finché non abbiamo dimenticato il suo assurdo contegno», rispose la Contessa.
In quel momento la porta si aprì e apparve Winthrop.
Sembrava confuso ed incerto nel parlare e indifferente ai nostri commenti malevoli, poi con grande sforzo esclamò all’improvviso:
«Sono ritornato per pregarvi di dimenticare il mio comportamento di ieri sera. Perdonate la scortesia e la mancanza di sincerità, ma in quel momento non sono riuscito a spiegarvi il motivo del mio malessere. Dovete sapere che quel brano mi ha procurato una profonda inquietudine».
«Una profonda inquietudine? Ma come è possibile?» esclamarono i presenti.
«Volete forse insinuare che un pezzo controllato come quello vi abbia emozionato?» chiese la sorella della Contessa.
«Se è così», aggiunse la Contessa, «questo è il più grande miracolo che la musica abbia fatto».
«È difficile spiegare il motivo», continuò con esitazione Winthrop, «ma... in breve,... quel brano mi ha procurato una violenta agitazione, perché fin dalle prime battute ne ho riconosciuto la melodia».
«Eppure mi avete detto che non lo avevate mai sentito prima di ieri sera!», esclamò la Contessa indignata.
«Avete ragione, ho mentito, ma solo in parte. Posso solo affermare che conoscevo il brano anche se non ero certo di averlo sentito, eppure lo conoscevo...», continuò affannosamente, «mi considererete pazzo, ma sono rimasto a lungo incerto chiedendomi se il pezzo esistesse o meno. Mi sono sentito turbato quando la vostra magistrale esecuzione ha dimostrato che esisteva davvero. Guardate qui», e tirò fuori un album di schizzi dalla tasca. Ma al momento di aprirlo si fermò chiedendo secco, «avete le note del brano?».
«Eccole», disse la Contessa porgendogli il vecchio spartito.
Non lo guardò, ma girò i fogli del suo album di schizzi.
«Signori, vi prego», aggiunse, «osservate», e spinse l’album di schizzi attraverso la tavola verso di noi. Vi erano diversi disegni e in un foglio, su righe tracciate a mano, delle note musicali scarabocchiate con la matita e le parole Sei Regina, io Pastor sono.
«Ma questo è l’inizio della stessa aria!», esclamò la Contessa. «Come l’avete trovato?».
Incuriositi confrontammo le note dell’album di schizzi con quelle della partitura: erano identiche, ma in un’altra chiave.
Winthrop era seduto dinanzi a noi osservandoci con insistenza. Dopo pochi minuti affermò:
«Sono le stesse note, vero? Queste scritte con la matita sono state scarabocchiate lo scorso luglio, mentre l’inchiostro di questa partitura è secco da più di novanta anni; ma quando ho trascritto queste note musicali, non immaginavo minimamente che esistesse uno spartito con la stessa armonia».
«Quindi», commentò uno del gruppo, «vi sono solo due spiegazioni, o voi stesso avete composto quell’aria senza sapere che qualcuno altro l’aveva composta novanta anni prima, o avete sentito quel brano senza sapere che cosa fosse».
«Che bella spiegazione!» gridò sprezzante Winthrop, «come non capire che questo è precisamente ciò che devo risolvere? O l’ho composto io o l’ho sentito suonare, ma quale delle due è la spiegazione vera?».
Restammo tutti mortificati dal tono della sua voce e non fummo più in grado di parlare.
«Sembra uno stupefacente rompicapo», osservò la Contessa, «e trovo che sia inutile spremerci il cervello poiché il signor Winthrop è l’unica persona che può risolvere il dubbio. Ciò che noi non possiamo capire, lui può e deve spiegarlo. Io non so», aggiunse la gentile dama, «se esiste qualche motivo che vieti di chiarire il mistero, ma se non c’è, mi farebbe piacere che voi ce lo risolveste».
«Non vi è una vera ragione, solo che potrei essere considerato un pazzo. La storia è così assurda e uno... potreste non credermi, eppure...».
«Quindi c’è sotto una storia!» esclamò la Contessa, «di che cosa si tratta? Non potete raccontarcela?».
Winthrop dette una scrollata di spalle per esprimere il suo disdegno, prese a gingillarsi con un tagliacarte e a fare nervosamente le orecchie sulle pagine dei libri che trovava sul tavolo.
«Ebbene», rispose infine, «se desiderate veramente sapere... il perché... forse potrei anche raccontarvi l’accaduto; ma non dovete giudicarmi pazzo. Niente può mettere in discussione il fatto che esista quel brano; e se continuate a considerarlo come unico, non posso fare altro che ritenere vera la mia avventura».
Tememmo per un istante che, soffocato dal peso di tutte queste premesse, preferisse fuggir via, privandoci della storia, così lo invitammo ad iniziare subito il racconto e lui, tenendo il volto nascosto nell’ombra del paralume e scribacchiando come era solito nel suo album di schizzi, cominciò a narrarla, all’inizio lentamente e con qualche incertezza, interrompendosi di continuo, ma poi, immergendosi sempre più nel fatto, divenne più rapido ed espressivo, estremamente particolareggiato nei dettagli.