Verso Porta San Zaccaria
Trovai l’anziano collezionista di strumenti musicali avvolto nella vestaglia colorata, seduto nell’ombroso salone, circondato dai suoi liuti intarsiati e dalle viole da gamba cremonesi, intento a riparare le pagine strappate di un messale miniato mentre la governante, simile a una maga rugosa, tagliava e incollava le etichette su un mucchio di manoscritti posti sopra un tavolo. Fa Diesis, vedendomi, si alzò cominciando a saltellare intorno alla stanza come se fosse in estasi. Avendogli offerto la mia disponibilità, aveva preparato una mezza dozzina di lettere che avrei dovuto consegnare ai vari corrispondenti di Venezia; il mio servizio gli avrebbe fatto risparmiare i francobolli del costo di due centesimi a lettera. Quella figura smilza, arcigna, avvolta in una vestaglia sdrucita, la papalina sul capo e con vicino un gatto imbronciato, circondato da clavicembali, liuti e messali splendidi, mi divertiva più delle altre volte. Mi sedetti vicino a lui mentre stava riparando un messale. Meccanicamente girai le pagine gialle di un libro di musica che si trovava sotto la mia mano in attesa di una etichetta e istintivamente il mio occhio cadde sulle parole del pezzo scritte con inchiostro giallo ormai sbiadito sul bordo in alto; esse indicavano gli esecutori: «Rondò di Cajo Gracco Mille pene mio tesoro, per il signor Ferdinando Rinaldi. Parma 1782».
Sobbalzai all’improvviso; in qualche modo durante la giornata avevo cercato di togliermi di testa quel nome che mi aveva assillato, ma ora esso riappariva.
«Che vi prende?» chiese Fa Diesis con fare sospettoso e, sporgendosi sopra la tavola, tirò bruscamente lo spartito verso di lui... «oh, è solo quella vecchia opera del Cimarosa... Ah, per Bacco, ma come ho potuto fare un errore così marchiano ieri? Vi dissi che Rinaldi era stato accoltellato in una villa fuori Porta San Vitale?».
«Sì», esclamai con ardore, «perché?».
«Perché, non riesco a capire come sia successo, ma forse stavo inconsciamente pensando al benedetto salterio trovato a San Vitale di Guastalla. La villa dove Rinaldi fu assassinato si trova fuori Porta San Zaccaria verso il fiume, vicina all’antico monastero dove vi sono dei pregevoli affreschi di... – non ricordo più il nome dell’artista – è un luogo ricercato dai turisti stranieri. Lo conoscete?».
«Ah», esclamai, «ora capisco». Mi era tutto chiaro, infatti Porta San Zaccaria si trova proprio dalla parte opposta della città e di Porta San Vitale, ecco la spiegazione della mia inutile ricerca di ieri sera. Quindi non era da escludere che la casa fosse ancora in piedi e di nuovo mi colse il desiderio di scoprirla. Mi alzai, presi le lettere che sospettavo ne contenessero delle altre, nascoste all’interno per risparmiare le spese postali. In realtà avrebbero viaggiato come se fossero state trasportate da un vero messaggero e mi accinsi ad andarmene.
«Vi saluto, addio», disse con cordialità il vecchio Fa Diesis, mentre percorrevamo il corridoio per raggiungere le scale. «Continuate, caro amico, a percorrere quei sentieri di saggezza e di cultura che la gioventù dei nostri giorni sembra aver abbandonato miserevolmente, affinché la dolce promessa della felice splendente gioventù si possa realizzare con onore nei vostri più maturi... Ah, forse», interruppe il discorso, «ho dimenticato di consegnarvi un foglietto sulla manifattura delle corde da violino che desidero mandare, come atto di grande considerazione, al mio amico il Comandante della Guarnigione di Venezia». E così dicendo scomparve velocemente. Mi trovavo vicino alla porta fatidica al di sopra dei tre gradini e non seppi resistere alla tentazione di rivedere il ritratto. Spinsi l’uscio ed entrai; un lungo fascio di sole al tramonto, riflesso dal rosso campanile della chiesa vicina, si proiettava sul viso del ritratto, giocando tra i chiari capelli incipriati e le labbra vellutate, ben delineate, formando in fine una tremolante macchia cremisi sul pavimento di assi. Mi avvicinai alla pittura; rilessi il nome «Ferdinando Rinaldi, 1782» sul rotolo dello spartito che stringeva tra le mani; ma le note erano mere imitazioni, chiazze e segni senza significato, sebbene il titolo del pezzo fosse ben leggibile... Sei Regina, io Pastor sono.
«Ma dove siete?» gridò una voce stridula nel corridoio. «Ah eccovi!». E così dicendo mi porse il foglietto, pomposamente indirizzato all’illustre Generale S. di Venezia. Lo presi e lo misi in tasca.
«Non dimenticherete di portarglielo, vero?» mi chiese, poi continuò il discorso che aveva iniziato poco prima: «Lasciate che la promessa della vostra felice, splendente, argentea gioventù vi conduca ad una dorata maturità affinché il mondo incida il vostro nome nell’albo lapillo. Ah», continuò, «forse non ci incontreremo mai più. Sono vecchio, mio caro amico, sono vecchio!» e così dicendo fece schioccare le labbra. «Forse quando ritornerete a M. potrei già riposare insieme ai miei antenati immortali che, come saprete, si legarono in matrimonio con la Casata dei Duca Sforza nell’anno 1490!».
L’ultima volta! Ripetevo dentro di me. Questa sarebbe stata forse l’ultima volta che potevo vedere quel ritratto! Che sarebbe accaduto dopo la morte di Fa Diesis? Mentre stavo uscendo dalla stanza rivolsi un ultimo sguardo a quel volto; un guizzo di debole luce si proiettava sullo struggente volto lievemente opaco. Ebbi la sensazione che, colpita dal bagliore tremolante del raggio di sole, la testa si girasse e mi guardasse. Da quel momento non vidi mai più il ritratto.
Mi misi in cammino con andatura veloce attraverso vie che si immergevano lentamente nell’oscurità della notte, procedevo tra una folla di perdigiorno e di amanti di svaghi verso la Porta di San Zaccaria. Era tardi, ma se avessi accelerato il passo avrei avuto ancora un’ora di luce e la mattina dopo avrei lasciato M. Era questa la mia ultima opportunità e non ero disposto a perderla; così proseguii, non curante del malaugurato alito di aria calda e umida e del cielo che si stava annuvolando rapidamente. Era la vigilia della festa di san Giovanni e qua e là sulle colline circostanti la città apparivano dei falò; palle di fuoco venivano lanciate verso il cielo e la grande campana della cattedrale batteva assordante in onore del santo. Mi inoltrai tra vie polverose, oltrepassai Porta San Zaccaria. Mi muovevo rapido lungo i viali di pioppi che costeggiavano le mura, poi presi una scorciatoia attraverso i campi che mi condusse verso il fiume. Alle mie spalle si inalzava la cinta muraria della città, merlata e frastagliata, davanti a me intravedevo lo snello campanile e i cipressi del monastero dei Certosini; sopra la mia testa incombeva un cielo senza stelle e senza luna, carico di nubi pesanti. L’aria era mite, di tanto in tanto ero avvolto da una raffica di vento caldo e umido che, come un brivido, penetrava tra le fronde rigide dei pioppi argentei e i rami scarni delle viti; cominciavano a cadere gocce pesanti avvertendomi del temporale che si avvicinava e la luce scemava lasciando il posto al buio. Ma ero deciso a continuare la mia ricerca, non era forse questa la mia ultima possibilità? Avanzavo con passi incerti lungo il sentiero accidentato, tra i campi di grano e di bionda canapa profumata, accompagnato da una danza di lucciole che si muovevano in spirali fantasiose davanti a me.