Bodleian Library, Oxford Stazione di ricerca Halley VI, Antartide
Ma abbiamo bisogno di libri che agiscano su di noi come una disgrazia che ci fa molto male, come la morte di uno che era più caro di noi stessi, come se fossimo respinti dai boschi, via da tutti gli uomini, come un suicidio. | |
Franz Kafka, lettera a Oskar Pollak, 19041 |
Qualche mese dopo essere tornata dall’Artico, sono seduta in una nicchia in legno nell’Upper Reading Room. Al di là delle vetrate piombate il cielo pomeridiano è fosco. Stamattina le previsioni davano brutto tempo: pioggia in arrivo. Le nubi che incombono sopra le guglie dell’All Souls hanno una sfumatura bianca così piatta che l’edificio gotico sembra una sagoma di cartone ritagliata su un foglio. La banderuola, una freccia in ghisa decorata con le iniziali dei punti cardinali, non si muove.
La mia visuale è ostruita da rosette decorative inserite nei pannelli delle vetrate. Mostrano figure umane impegnate in occupazioni sacre e mondane: pregare, accudire animali, attingere acqua. Anche le meridiane erano fatte così, tondi di vetro appesi alle finestre con linee dipinte attraverso cui cadeva la luce. Per sapere l’ora si guardava fuori dalla finestra.
L’antica vetrata distorce la visuale, come se stesse già piovendo, come se sulla sua superficie scrosciasse acqua. Alcuni studenti infilano il portatile nella custodia e vanno a pranzo.
Col ritorno della primavera incomincio a rivisitare mentalmente Upernavik: perfezionando i miei schizzi degli iceberg, mescolando gli inchiostri per evocare il colore del cielo. Non posso ignorare la clausola condizionale del museo, e cerco di raccontare la storia del ghiaccio usando il minor numero possibile di parole. Lo studio che ho preso in prestito è ancora in costruzione, e al momento ha i muri solo su tre lati e un telone come tetto, ma il torchio e i cassetti con i caratteri mobili sono già al loro posto. Ruoto la manovella del cilindro avanti e indietro per stampare ogni pagina mentre accanto a me i muratori trapanano i muri. La loro radio trasmette vecchie canzoni d’amore e il bollettino del traffico. Non sono certo le condizioni in cui normalmente si stampa un’edizione di pregio, ma nel giro di poche settimane sono riuscita a completare il libro che spedirò a Upernavik per la collezione del museo.
Anziché segnare la conclusione delle mie ricerche, questa nuova pubblicazione ne costituisce l’inizio. La mia curiosità aumenta. Vivere nell’Artico mi ha suggerito nuovi spunti di riflessione sul linguaggio, il paesaggio e il tempo, ma voglio dare solide fondamenta a queste idee. Una padronanza scientifica della materia mi permetterebbe di comprendere più a fondo le formazioni glaciali che ho visto intorno a Upernavik e in che modo stanno cambiando. Mentre spulcio le voci del catalogo della biblioteca, mi trovo ad ammirare le schede informative: ognuna è un libro a sé in miniatura composto da un autore anonimo. Un lungo elenco di campi: titolo; autore; editore; data di pubblicazione; formato; lingua; identificatore; materie; numero di sistema Aleph; note varie; collocazione. Un codice per ogni libro stampato in Inghilterra, a prescindere dalla probabilità che trovi o non trovi un lettore. Un registro per ordinare questo vasto assembramento d’informazioni, sepolto sotto le volte del vetusto edificio.
Ordino The White Planet dagli scaffali. Sulla copertina del libro c’è la fotografia di un brullo paesaggio glaciale. Il risvolto m’informa che si tratta del ghiacciaio Fox, sull’Isola del Sud in Nuova Zelanda, all’altro capo del mondo rispetto a Upernavik. Il mare ghiacciato ha un aspetto violento, e in qualche modo invita alla violenza. Mi viene in mente Kafka, il quale disse che un libro deve destare emozioni dolorose, ferire la coscienza, svegliarci “con un pugno sul cranio”.
Leggendolo, quasi non ci si accorge che il libro è stato tradotto dal francese. Solo in alcuni punti la scelta dei vocaboli mi fa aggrottare le sopracciglia. Devo leggere alla svelta – stamattina avevo un appuntamento dalla parrucchiera e sono arrivata tardi in biblioteca. Di solito vado a tagliarmi i capelli ogni sei settimane circa, non appena il mio taglio corto perde forma. In Groenlandia il mio stile si è inselvatichito. Ora mi sento rassicurata dal monotono rituale: le forbici della parrucchiera che orbitano attorno al mio cranio, scorciando la chioma in eccesso. Sempre più capelli grigi ultimamente, sottolinea, sperando che prenoti per una tinta.
Scuoto la testa, avvertendone tutta la leggerezza. Minuzzoli di tosatura cadono sulla pagina mentre leggo, e rimangono sedimentati sul margine interno finché non li soffio via.
“Ma abbiamo bisogno di libri...” Inizio a trascrivere le parole che citerò in apertura di capitolo. Precedono la celebre affermazione di Kafka: “Un libro deve essere la scure per il mare congelato dentro di noi.” Trascrivo anche questa frase, dopodiché mi fermo. Sono la sola che apprezzi l’idea di essere posseduta da un mare congelato, anziché dall’ascia che lascerebbe sgorgare l’acqua? Ne dubito: altrimenti la metafora non sarebbe diventata così famosa. Torno indietro col cursore e la cancello. Sono sicura che Kafka – il quale chiese che dopo morto i suoi diari e le sue lettere venissero bruciati senza essere letti da nessuno – capirebbe.
The White Planet menziona le carote di ghiaccio, e voglio vederne una. Online, trovo un breve documentario, che guardo senz’audio per non disturbare gli studiosi rimasti. Leggo i sottotitoli.
La dottoressa Nerilie Abram parla del suo lavoro con il British Antarctic Survey, che consiste nell’analizzare carote di ghiaccio nel tentativo di ricostruire i climi del passato e prevedere quelli del futuro. Ha un paio di minuti a disposizione per spiegare a uno spettatore profano la scienza complessa che sta dietro alla sua ricerca.
L’immagine iniziale mostra la dottoressa Abram che regge un cerchio di ghiaccio tagliato da una carota. Per un attimo è completamente immobile; ha l’aspetto di una santa dipinta in un’icona, o di un imperatore romano con l’orbis terrarum, il simbolo di chi ha la Terra – e tutto il potere terreno – nelle proprie mani. Finché non sbatte le palpebre. Indossa un impermeabile rosso brillante; è lo stesso colore delle tende da spedizione assiepate sulla calotta glaciale antartica, che sono già coperte da un sottile strato di neve. Il colore del suo giubbotto affiora dalla sottile sezione trasversale di ghiaccio, iniettata di minuscole bolle d’aria. Inclini a individuare schemi geometrici nelle cose, i miei occhi si concentrano sulle bolle. Ora il ghiaccio sembra contenere un fiore campestre – cerfoglio dei prati, forse, o merletto della regina Anna. La dottoressa Abram regge il disco con la trepidazione di un bimbo che regge una palla di vetro con la neve, ma, per quanto possa agitarlo, il paesaggio di neve rimarrà immobile.
Da piccola sognavo di possedere un fermacarte che una volta mi era capitato di vedere, una cupola di vetro in cui era intrappolato un soffione. Raccoglievo spesso i soffioni nel giardino e soffiavo via i semi insieme alla loro fine peluria. Non ho mai creduto per davvero che il numero di sbuffi fosse un modo per sapere l’ora. Non era più verosimile che indicassero la potenza del mio respiro, come il tubo dentro il quale il medico mi faceva soffiare per misurare la mia capacità polmonare? Forse i soffioni mi avrebbero detto quanto tempo mi restava da vivere? Ma questo soffione era perfetto e si sarebbe conservato sotto vetro per sempre. Non sarebbe cresciuto, né appassito, e non avrebbe lasciato cadere i suoi semi. Mi avrebbe proiettato fuori dal tempo.
Denti di leone, cerfoglio dei prati, merletto della regina Anna: piante sconosciute nell’angolo di Antartide dove fu prelevato questo ghiaccio. Zoom della telecamera. Senza le dita della dottoressa Abram a definire le proporzioni nel fotogramma, il disco potrebbe essere piccolo come un’ostia per la comunione o grande quanto un pianeta.
Sullo schermo appare una veduta aerea dell’Antartide. Quel familiare cerchio irregolare. La sua armoniosa circonferenza è interrotta da un’esile appendice peninsulare che sporge sull’oceano, esattamente come se a schizzarla fosse stato il dottor Seuss. L’aspetto circolare del continente è dovuto alle piattaforme di ghiaccio che costituiscono i tre quarti della linea costiera, coprendo le molteplici baie e insenature. Alcune di queste piattaforme hanno iniziato a disintegrarsi; dall’alto si vede che qua e là l’oscura eclissi dell’oceano s’incurva in direzione della calotta glaciale.
Le piattaforme glaciali antartiche si disperdono in molti modi. Gli iceberg si distaccano dal bordo esterno, il ghiaccio si scioglie nell’oceano sotto la piattaforma e i forti venti erodono la superficie. Ma la neve che cade sulla calotta di ghiaccio centrale non si dissolve. I fiocchi di neve, inverno dopo inverno, vengono sepolti dalle nevicate successive. Nel corso dei millenni, questi strati si comprimono formando il firn, una sostanza granulosa contenente sacche di gas atmosferici e persino materia solida: infinitesimali granelli di polvere, cenere e particelle radioattive. Nelle profondità glaciali il firn si compatta, assottigliandosi. Gli esigui interstizi tra i fiocchi di neve racchiudono la testimonianza delle condizioni ambientali del momento in cui caddero.
Nelle stazioni di ricerca sparse lungo la calotta glaciale antartica – Halley VI, Dome F, Lago Vida, Vostok – gli scienziati hanno iniziato a calare trivelle a migliaia di metri di profondità per estrarre cilindri di questo ghiaccio antico. La dottoressa Abram controlla un dispositivo di rilevamento, che con un clic-clic segna la profondità della lettura, e prende degli appunti a matita. Ha le mani coperte dai guanti (anch’essi rossi) per proteggerle dalle temperature sottozero. La trivella viene abbassata con un argano. Si estrae una carota di ghiaccio e la si dispone su una canaletta dove viene marcata con dei segni a intervalli precisi, e poi tagliata in corrispondenza degli stessi con una sega rotante. Una volta che la sezione è stata tranciata e immagazzinata in celle frigorifere scavate sotto la calotta glaciale, viene effettuata una seconda trivellazione.
E poi un’altra, e un’altra ancora. I cilindri, di un metro e mezzo, continuano a essere portati in superficie finché l’ultima trivella tocca la base della calotta – o si rompe. Non c’è modo di recuperare le parti rotte della trivella intrappolate nel ghiaccio. È un lavoro estenuante che può protrarsi per diverse estati polari. Polo Sud: il nome evoca un lungo cilindro conficcato al centro della Terra, quasi che gli scienziati potessero estrarre l’essenza stessa del Polo. I primi esploratori piantavano una bandiera nel ghiaccio come prova della loro conquista; oggi, dietro di sé, la scienza lascia solo un’assenza cilindrica, mischiata con tracce chimiche.
Questi giganteschi ghiaccioli sono la testimonianza del clima globale e della sua storia. Fungono da spie della temperatura passata, della composizione gassosa della bassa atmosfera, della variabilità solare, del volume degli oceani, delle eruzioni vulcaniche, delle precipitazioni, dell’estensione dei deserti e degli incendi boschivi. Sotto la lente d’ingrandimento, le sezioni trasversali della carota brillano come lastre di una lanterna magica. In estate e in inverno la neve ha un aspetto diversissimo: il manto estivo a grana grossa viene densamente compattato dai venti invernali, assumendo una consistenza fine. Questa distinzione è nota agli scienziati come “distico brina di profondità / neve ventata”. È un termine sorprendentemente poetico, che richiama alla mente i nitidi versi conclusivi di un sonetto. Il distico costituisce un indicatore annuale – come gli anelli di accrescimento degli alberi – grazie a cui è possibile datare la carota. Il ghiaccio di una delle carote più lunghe mai estratte, nella base Vostok, risaliva a quattrocentoventimila anni fa. Aveva assistito a quattro cicli glaciali – sopravvivendo tutte le volte che sulla superficie del pianeta si è formato il ghiaccio, per poi sciogliersi.
Gli esseri umani, alloggiati sulla sottile crosta terrestre, devono trivellare in profondità o alzarsi in volo per capire il loro ambiente. La conoscenza ha origine molto al di sotto dei nostri piedi, o dallo spazio infinito. Il ghiaccio antartico risale a un periodo anteriore alla guerra fredda, al conflitto ingaggiato dalle nazioni per raggiungere i poli, e antecedente alla stessa epoca delle esplorazioni. Scavando in un unico punto sotto i ghiacci, gli scienziati viaggiano indietro nel tempo e in luoghi al di là della memoria umana, quando ancora non era stato scritto nessuno dei libri della Bodleian Library qui accanto a me. Il ghiaccio polare è l’archivio primordiale, un racconto compresso di tutte le epoche in una lingua che gli umani hanno appena iniziato a comprendere. Solo una sparuta minoranza la padroneggia: confidiamo negli scienziati perché leggano per noi l’alfabeto degli elementi e degli isotopi. Mi immagino la dottoressa Abram intenta a redigere la sua ricerca e a compilare grafici dalle linee ascendenti e discendenti come formazioni glaciali. Plin, plin. Il lento ammassarsi dei dati, il meticoloso accumulo della scienza.
“Infatti il Signore disse a Giobbe: ‘Sei forse entrato nei serbatoi della neve? Dal seno di chi è uscito il ghiaccio?’”2
Nessuno scienziato contemporaneo si sognerebbe mai di citare la Bibbia in un proprio scritto. Il mio interesse nei confronti degli schemi morfologici del firn mi ha indirizzato verso uno dei primi studi sui fiocchi di neve. Il suo autore, Giovanni Keplero, si descrive come un uomo “che non ha nulla e non riceve nulla”. Il matematico e astronomo seicentesco era affascinato dal problema dell’armonia nella natura, e compì importanti scoperte nel campo dell’ottica, inventando – tra le altre cose – una versione migliorata del telescopio rifrattore, che porta il suo nome.
Keplero non indagò solo le vastità del sistema solare. Esaminò anche le forme minuscole a portata di mano, sfruttando la sua comprensione delle stelle per osservare la neve, che “cade dal firmamento e assomiglia alle stelle”. Il suo trattato sulla configurazione spaziale dei fiocchi di neve prospettava una nuova teoria della tassellazione delle sfere, ma rimase allo stadio di mera congettura, e col tempo si guadagnò il dubbio onore di essere il più antico problema in ambito geometrico. Nel 1900 David Hilbert lo incluse nella sua famosa lista dei ventitré problemi matematici insoluti. Alla fin fine, più di quattrocento anni dopo la pubblicazione della sua opera, mentre scrivo queste parole, la BBC News annuncia che il progetto “Flyspeck” di Thomas Hales ha fornito la dimostrazione formale della congettura di Keplero.
La ricerca di Keplero iniziò in maniera piuttosto spensierata. Il De nive sexangula nacque durante una passeggiata invernale a Praga. “Mentre scrivo, infatti, è ripreso a nevicare, e più fittamente di un attimo fa. Mi sono prodigato a esaminare i piccoli fiocchi. Il vapore acqueo si è trasformato per via del freddo in neve, e uno a uno sono caduti sul mio cappotto piccoli fiocchi di neve, avevano tutti sei angoli e raggi piumati [...]” Keplero s’interroga sulla loro simmetria. Perché avevano tutti sei angoli, si domandò? Non posso proseguire la lettura, perché la pagina successiva è intonsa. Poi noto che sono intonse una pagina sì e una no del libro – in parole povere questa copia, prima di me, non è stata letta da nessuno. In biblioteca esistono specifiche linee guida per situazioni del genere. Raggiungo la postazione del bibliotecario, che mi dà un tagliacarte d’argento. Rimango sbalordita nello scoprire che mi è consentita libertà d’azione a questo riguardo – quando mi ero iscritta alla biblioteca avevo dovuto firmare un modulo dichiarando che non avrei mai “acceso una fiamma” nell’edificio – ma torno alla mia scrivania col coltello. Mi sento una ladra mentre faccio scivolare la lama sulla piegatura e taglio lungo il bordo superiore della pagina con due colpi veloci. Nel farlo, svelo un segmento d’informazione che prima potevo solo guardare di sbieco. È un privilegio essere la prima persona ad avere accesso a queste pagine – ma non inizio a leggerle subito. L’azione distruttiva causa dipendenza. La carta sospira: riesco quasi a sentire il testo che evade.
Ora una lieve lanugine avvolge la cima di ogni pagina in cui è passato il mio coltello. Nel suo testo, Keplero – a volte spavaldo, altre schivo – disquisisce non solo sui fiocchi di neve, ma anche sulle celle degli alveari, sulla forma dei semi della melagrana, sulla disposizione dei piselli in un baccello, sui fiori a tre e sei petali, sui solidi platonici regolari, sui solidi semiregolari archimedei, sulla piastrellatura dei piani e sul riempimento degli spazi. Keplero riflette su quale sia il modo più efficace per accatastare delle palle di cannone occupando l’area minore. Palle di cannone e fiocchi di neve: inopinata combinazione.
Un altro dilemma affrontato da Keplero – uno che anch’io sono in grado di comprendere – verte sulla capacità o meno della lingua di catturare qualcosa di così effimero come un fiocco di neve, in modo da poter dare conto del suo studio. In definitiva, la neve simboleggia la precarietà della sua stessa vita. Keplero spera di riuscire a portare il fiocco di neve che gli è caduto sulla giacca al suo protettore, nonché dedicatario del trattato, il consigliere imperiale barone Johannes Matthäus Wackher von Wackhenfels, ma non fa in tempo a scorgerlo che subito si scioglie. Paradossalmente è il suo stesso esistere – il calore del suo corpo – a distruggerlo. “Adesso porta rapidamente il regalo al mio benefattore, finché esiste, finché non si dissolve nel nulla a causa del calore corporeo.” Ma si è già dissolto nel nulla. Come descrizione bisognerà accontentarsi delle parole contenute nel suo trattato.
Qualche settimana fa, a Londra, in occasione di una conferenza sul clima, durante il minuto di tempo per presentarsi ho conosciuto un affabile scienziato barbuto, il quale mi ha detto di aver tenuto sul palmo della mano un pezzo del ghiaccio di Vostok. Chris ha usato tutto il minuto a sua disposizione per descrivermi l’esperienza. “Il punto è che sfrigolava,” ha precisato. “Si scioglieva a contatto con la mia pelle, e l’aria era sottoposta a una pressione tale da esplodere fuori dalle sacche di ghiaccio. Sfrigolava,” ha ripetuto, “poi si è sciolto, e così mi sono asciugato il palmo sulla camicia.” Si passa la mano lungo il cotone a scacchi che gli copre il petto, con un’espressione di tenue stupore sul viso mentre rivive l’incontro kepleriano con quel pezzo di ghiaccio vecchio di ventimila anni.
Scarico un saggio sulla carota di Vostok da una rivista scientifica, nella speranza che mi aiuti a capire il lavoro dei criologi. Va ad aggiungersi ad altri pdf, capitoli di tesi di dottorato sui modelli di flusso del ghiaccio, rapporti ambientali dell’UNESCO che si susseguono a cascata sul mio schermo, lunghe schegge di testo su un fulgido sfondo bianco.
Apro il file con un singolo clic e scorro il testo, stipato in due colonne tra un elenco di svariati autori e le dense note. La scienza ha così tanti autori! Il tono è meno personale rispetto a Keplero: oggigiorno gli scienziati devono attirarsi i loro patrocinatori non con l’amicizia o uno spirito arguto, ma con altri mezzi. Questo studio descrive epoche temporali che sfuggono alla numerazione convenzionale e devono essere rappresentate da cifre che si accovacciano sopra la riga come piccole divinità. La lingua non sa restituire le proprietà del ghiaccio: i simboli – lettere greche, forme geometriche – fanno le veci delle parole. Diagrammi seghettati zigzagano su e giù per la pagina, registrando le variazioni nel tempo, silenzioso sonografo incorniciato del testo con la sua regolarità lineare.
Qualcosa mi spinge ad alzare lo sguardo dal mio pc. Ha iniziato a piovere. Dopo un minuto il mio schermo, per l’inattività, si offusca. Telescopi del tempo. Sono richiamata dall’era glaciale al presente, l’Antropocene. Anziché sforzarmi di abbracciare con l’intelletto i millenni, guardo le gocce di pioggia che bagnano il vetro mentre il loro ritmo accelera.
Da qualche parte in Antartide sta cadendo la neve che potrebbe non sciogliersi mai, serbando la prova isotopica delle mie azioni quotidiane. A distanza di anni, uno scienziato non ancora nato potrebbe leggere questa storia nel ghiaccio.
La luce solare filtra nel museo universitario dal soffitto a volta in vetro, i cui sostegni furono progettati in modo da creare un parallelismo con gli scheletri degli animali al piano terra. Durante la mia pausa pranzo non sono venuta a vedere delle ossa, ma una pelle del tutto speciale. Mi affretto verso il retro dell’edificio, qui un’arcata seminascosta immette nella collezione attigua – il Pitt Rivers Museum. Scendo nella galleria dove sono esposti gli oggetti provenienti dall’Artico. Ci ero già venuta prima del viaggio in Groenlandia, sperando di imparare qualcosa sul luogo in cui stavo per andare. Sono tornata per vedere un reperto che non riesco a togliermi dalla testa: la pelle di una foca su cui è stato dipinto un abbozzo dello stretto di Bering.3 La forma irregolare della pelle aveva forse suggerito all’artista l’idea di una mappa? Le linee costiere di Russia e America seguono quasi il suo bordo, con uno scarto di meno di tre centimetri in qualche punto, di più in altri – quanto basta per farci entrare una vignetta di figure che scoccano frecce contro un orso, o un mandriano che guida la sua renna.
È inverno, e il mare è coperto di ghiaccio. Lo sappiamo perché l’uomo al centro della pelle ingiallita sta arpionando una foca dal suo foro per la respirazione. La linea di ancoraggio di una nave si estende per diversi centimetri in direzione della linea costiera, una precauzione adottata di frequente quando si doveva svernare in un porto col ghiaccio in assestamento. Due mute di cani che trainano slitte si dirigono verso il vascello a tre alberi. Non si potrebbe svolgere nessuna di queste attività se il mare non fosse ghiacciato. La pelle di foca non è solo una mappa dei territori di caccia invernali: ritrae anche la storia degli europei giunti nella regione nel sesto e settimo decennio dell’Ottocento, il che fa di questa carta un reperto storico, oltre che geografico.
Cronologie e cartografie un tempo erano molto simili anche in Europa. Mentre i cartografi cinquecenteschi compivano enormi progressi nella raffigurazione del globo, gli storici affrontavano l’annosa questione del come dare forma al tempo. Sapevano che il modo in cui presentavano la cronologia avrebbe influenzato la percezione stessa del tempo. Una soluzione era un diagramma in cui suddividere eventi individuali, regni e crociate in tabelle distinte. Queste mi ricordano le pagine della mia agenda che mostrano i chilometri di distanza tra le stazioni dei treni, o le ore tra gli aeroporti. O addirittura la tavola periodica. Nel mondo reale, gli elementi chimici non se ne stanno chiusi in compartimenti stagni come le distanze: si combinano e mutano – e nemmeno il tempo si comporta sempre come ci si aspetta.
Allo scopo di esprimere le peculiarità del passare del tempo, alcuni cronografi iniziarono a produrre grafici che avevano l’aspetto di mappe del globo, con aree differenti per differenti epoche. Questa moda culminò con Friedrich Strass e il suo Der Strom der Zeiten (1804), che mostra la storia come una “Corrente del Tempo”. Si tratta di un’opera straordinaria, è persino pieghevole come una mappa. In cima al documento si addensano nuvole da cui sgorgano dei fiumi. Di fatto, questo paesaggio non è altro che acqua, con pochissimi banchi di sabbia tra gli affluenti, le cascate e i laghi – raffiguranti dinastie e nazioni – che affollano il foglio, più simili a radici assetate di piante costrette in vasi troppo piccoli che a fiumi. Il traduttore inglese del diagramma, William Bell, scrisse:
Per quanto possa essere naturale aiutare la facoltà percettiva, nella sua concezione del tempo astratto, con l’idea di una linea [...] stupisce che [...] l’immagine di una corrente non si sia mai presentata a nessuno [...] Le espressioni dello scorrere o dell’incalzare; oppure quella della rapida corrente, applicate al tempo, ci sono altrettanto familiari di quelle di lunghezza e brevità.4
Che passo breve, quello che separa un fiume del tempo da una carota di ghiaccio. Ben prima che la tecnica delle perforazioni usata per raccogliere carote di ghiaccio venisse inventata (per facilitare le trivellazioni petrolifere, paradossalmente), l’uso di una linea per ordinare la storia mondiale era già argomento di dibattito tra gli studiosi. Uno dei primi esempi di utilizzo di una struttura narrativa lineare per rappresentare il passaggio del tempo fu una magnifica opera senza titolo di trecentotrentasei pagine pubblicata nel 1493, solo pochi decenni dopo l’invenzione dei caratteri mobili in Europa. Il libro, noto come Cronaca di Norimberga, ripartisce la storia in otto età. Il suo autore, Hartmann Schedel, fissò la Prima età del mondo nel periodo compreso tra la Creazione e il Diluvio. “Desideriamo scrivere brevemente di questi primi giorni e degli inizi,” scrisse, “nella misura che si confà a cose risalenti a un passato tanto lontano.”5 Schedel optò per la brevità forse perché consapevole che qualsiasi accurata datazione di quei “primi giorni” era impossibile: i libri sacri in ebraico e greco antico differivano di seicento anni nell’intervallo tra la Creazione e il Diluvio. Schedel poté muoversi su un terreno più sicuro con gli eventi più recenti, e quindi meglio documentati. La sua Sesta età culminava in un dettagliato resoconto dell’elezione di Massimiliano a sacro romano imperatore nel 1486. Tra il 1486 e la fine del mondo Schedel lasciò tre pagine vuote, in modo che i lettori potessero riempirle con qualsiasi avvenimento significativo si fosse verificato tra la pubblicazione e l’Apocalisse.
Il primo avvistamento della Giamaica da parte di Cristoforo Colombo nel 1494, il viaggio di Giovanni Caboto a Terranova nel 1497, Vasco da Gama che sbarca in India nel 1498: tutto ciò doveva ancora accadere. Quando penso a tutte le cose che sono successe da allora, le tre pagine della Cronaca sembrano una risibile concessione. Nemmeno il più talentuoso degli scrivani saprebbe condensarle in un racconto esauriente degli ultimi cinque secoli – e se gli esseri umani hanno fortuna, potranno contare su qualche altro decennio. (Ah, se solo Schedel avesse potuto sfruttare le dimensioni apparentemente infinite di Internet...) Anche se non conosceva l’immediato futuro, lo rassicurava sapere che gli eventi dell’Apocalisse erano stati preordinati dai racconti biblici. L’Ottava età si sarebbe conclusa con il Giudizio universale. Scrisse Schedel:
Il primo giorno il mare si alzerà di quaranta cubiti sopra la montagna più alta, sostituendola come un muro. Il secondo giorno si ritirerà fino a diventare pressoché invisibile. Il terzo giorno i mostri marini appariranno sulle acque, e i loro gridi e latrati raggiungeranno i cieli. Il quarto giorno il mare sarà in fiamme.
Gli storici non sono più obbligati a predire il futuro. Insieme alle cartoline di teste rimpicciolite e pesci palla, il negozio del museo vende un gadget chiamato “History by the Metre”, un metro a stecche che elenca i principali eventi storici degli ultimi duemila anni. (Ma non comprende l’adozione abbastanza tarda – posteriore alla Rivoluzione francese del 1789 – del metro come unità di misura.) Aprendolo a metà, mi imbatto nell’invenzione della stampa a caratteri mobili (1448), seguita nel righello successivo dalla pubblicazione da parte di Keplero delle leggi sul moto dei pianeti (1609). Le ere si susseguono rapide quando ciascun centimetro rappresenta un decennio e ogni anno è lungo soltanto un millimetro. Ma nemmeno un metro del genere può abbracciare l’eternità: si ferma allo scadere del millennio, e l’ultimo importante evento è la caduta del muro di Berlino, del 1989. È un comodo bigino per i compiti in classe di storia. La rappresentazione grafica del tempo come una linea – retta o storta che sia – su cui viaggiamo, anziché come uno spazio abitato, è una convenzione alla quale siamo arrivati dopo secoli di esperimenti, talmente radicata che è finita addirittura su un gadget. Ma, come scoprì Keplero, la linea retta non è la prima forma in natura. Il nostro pianeta ha sempre ruotato intorno al sole descrivendo un’ellissi.
Il metro sarà anche un giocattolo, ma mi ricorda che il tempo stringe – devo sbrigarmi con la mia ricerca. Oltrepasso la Radcliffe Camera, un’ex biblioteca scientifica che oggi ospita volumi di letteratura e storia. Scendo sui ciottoli umidi del marciapiede per evitare di passare tra due turiste, una delle quali ha in mano un telefono per scattare una foto all’altra di fronte alla cupola neoclassica. Sul lato opposto di High Street, dietro i muri merlati dello University College, si erge un’altra cupola. Su questo sito sorgevano le stanze affittate a Robert Boyle, uno dei fondatori della chimica moderna. I suoi appartamenti di Cross Hall sono scomparsi da un pezzo, come anche i soci del misterioso “collegio invisibile” che Boyle cita in maniera evasiva nelle sue lettere. Nato in una famiglia benestante a Lismore, sulla costa orientale dell’Irlanda, a metà del XVII secolo Boyle si trasferì a Oxford per avvicinarsi a un gruppo di filosofi accomunati da interessi simili che si proponeva di conoscere la natura attraverso indagini sperimentali. Era un’epoca in cui chimica e alchimia sembravano integrarsi a vicenda: la conoscenza poteva portare alla ricchezza, e al contempo la ricchezza era definibile come conoscenza. La trasmutazione del piombo in oro, la creazione dell’elisir di lunga vita, non erano più l’unica attività del laboratorio. Boyle rimase a Oxford per oltre un decennio, fino al 1668. Me lo immagino mentre passeggia per Catte Street, la viuzza asfaltata che percorro ogni giorno. La strada medievale sarà parsa vecchia già allora in confronto al quadrangolo in arenaria della Bodleian Library, costruita giusto cinquant’anni prima. Il fulcro del commercio librario sorgeva in questa parte della città: rilegatori, stampatori, copisti, si trovavano tutti a pochi passi da Boyle.
Ma fu a Londra, al Sign of the Ship (Insegna della Nave), presso il cimitero della cattedrale di St Paul, che i New Experiments and Observations Touching Cold (Nuovi esperimenti e osservazioni sul freddo) di Boyle videro la luce. Consulto un’edizione del 1665. È un volumetto piccolo ma grassottello. Le cerniere in cuoio sono così consunte dall’uso che il piatto anteriore e posteriore, essendosi staccati dal dorso, sono tenuti assieme con un nastro legato attorno al libro; lo sbiadito capitello, al piede, pende da un filo di seta. Sistemo con attenzione il libro su un supporto in gommapiuma. Tutti i bordi sono dorati, proteggendo così le pagine dalla polvere; una mano antica ha vergato in inchiostro nero la segnatura 8°B.16.art.BS sul luccicante taglio di testa.
Povero Robert Boyle. Fu uno dei primi libri pubblicati da lui, che a quanto pare era impreparato alle tribolazioni derivanti dal vedere le sue ricerche affidate al torchio. C’è una nota introduttiva dell’editore: “Il nobile autore, trovandosi a Oxford, quando il libro veniva dato alle stampe a Londra, si augura che il lettore non gl’imputerà gli errori di stampa, che comunque è convinto non siano molti.”6 Potrebbe sembrare il solito avvertimento dell’editore, ma la storia si complica. L’editore avvisa il lettore di aspettarsi di trovare una o due sezioni vuote, e spiega che:
poiché i saggi dell’autore furono affidati per la trascrizione quasi due anni fa a un tale, la cui abilità nello scrivere era di molto superiore (come poi risultò) alla sua conoscenza di ciò che era, o non era, il buonsenso, o l’inglese vero; e poiché costui, partito improvvisamente per l’Africa prima che la trascrizione fosse stata esaminata, non ebbe cura di lasciare tutta la prima copia, l’autore trovò (oltre a diverse lacune, che dovette colmare con la memoria, o ripetendo i relativi esperimenti) uno o due punti in cui non fu in grado di rimediare alle omissioni del copista.
I “copiosissimi brani così maldestramente maneggiati” costrinsero quasi Boyle a riscrivere il libro daccapo.
Quest’incidente non fu l’unica causa di ritardi. L’editore avverte il lettore che l’affermazione secondo cui “alcuni brani sono stati scritti lasciando intendere che il libro sarebbe stato pubblicato all’inizio dell’inverno” è fuorviante. Il grosso del libro fu mandato in stampa, ma Boyle ne trattenne una parte. Sperava di avere l’opportunità di portare a termine un esperimento che riteneva essenziale ai fini del tema in questione – ma non ci riuscì per via delle condizioni atmosferiche. Il problema del fare ricerca sul freddo in un’epoca precedente alla refrigerazione artificiale era che il lavoro dipendeva totalmente dal clima. “Pregustavo l’arrivo e la possibilità di approfittare di un po’ di tempo gelido (rarità già da lungo tempo),” scrisse, “con la stessa sollecitudine con cui i piloti [delle navi] tengon d’occhio e migliorano i venti.” Le gelate invernali, tuttavia, arrivarono a stagione inoltrata, e per giunta “il freddo raggiunse nel volger di poco un tal grado che, agendo sulla carta umettata, a lungo bloccò le fasi della stampa”. (La carta fabbricata a mano veniva inumidita in modo da renderla più morbida, la soluzione migliore per compensare le irregolarità nello spessore e aumentare la presa dei caratteri e l’aderenza dell’inchiostro. Ma non appena l’umidità della carta avesse iniziato a congelarsi, sarebbe diventato impossibile stampare.) Per assurdo, gli esperimenti e la loro pubblicazione esigevano condizioni opposte. Boyle, tuttavia, era determinato a rispettare la data di consegna, e, alla fine del 1664, “nella prima o seconda settimana di gelo”, regalò alcune copie della versione incompleta della History of Cold (Storia del freddo) alla Royal Society, “benché la stampa non fosse del tutto ultimata”. Su ventuno sezioni, il tipografo ne aveva completate circa diciannove, e Boyle ribadì di avere il manoscritto della ventesima tra le mani, dichiarandosi pronto a fornirlo non appena il tempo avesse permesso di riprendere a stampare.
“Quello del freddo è un argomento assai arido,” esordisce il libro di Boyle in maniera poco promettente, “e consente pochissimi esperimenti che risultino piacevoli per la loro sorprendente bellezza o si segnalino per la loro utilità immediata.” Brutti e inutili, insomma, ma meritevoli forse di essere condotti per il loro valore intrinseco? Con toni da dissertazione accademica contemporanea, Boyle sottolinea l’importanza di investigare i “fenomeni del freddo”, e condanna la scarsa attenzione che è stata loro dedicata dai precedenti studiosi – “di solito liquidano sbrigativamente l’argomento, quasi che non meriti altro approfondimento di quello concesso da poche righe”. Tre secoli dopo, trovo alquanto affascinanti i suoi modi irritabili.
Dopodiché, Boyle si scusa per non aver applicato in modo sistematico il metodo sperimentale, e previene eventuali critiche alla natura diseguale delle sezioni del suo libro rilevando come, data la disomogeneità della materia trattata in ciascuna di esse, per forza di cose alcune saranno lunghe e altre corte. Non vuole espandere quelle brevi “con menzogne o digressioni non pertinenti”. Giustifica la prolissità di alcuni passaggi: vuole registrare nel dettaglio “il metodo degli esperimenti”, così che i lettori possano ripeterli, o quantomeno ritenersi soddisfatti della loro veridicità – perché spesso non li si può eseguire “se non con l’ausilio di vetri abilmente costruiti, ed ermeticamente sigillati, e di altri strumenti e operazioni che richiedono più attrezzi, e più destrezza manuale, di quelli di cui ogni uomo d’ingegno è padrone”. Boyle si scusa anche per le sue modalità di lavoro, perché “talora avevo bisogno di vetri appositamente modellati, talaltra di mezzi necessari per sigillarli ermeticamente, talaltra ancora degli ingredienti con cui iniziare tale lavoro, spesso del tempo gelido [...] e non di rado di ghiaccio e neve per i congelamenti artificiali; talvolta di termoscopi, soprattutto quelli sigillati”. Lo sfortunato scienziato ruppe due termoscopi in rapida successione, mandando così all’aria diversi esperimenti.
Boyle, che è talmente sicuro di sé da non sottacere le imperfezioni contenute nella sua opera sul freddo, confessa che se avesse la possibilità di riscrivere il libro, non lo farebbe. “Ho già altro lavoro a sufficienza, e di tutt’altra natura tra le mie mani; la verità è che sono francamente stanco di scrivere di questo argomento, perché mai nessuna branca della filosofia naturale si è rivelata tanto molesta e piena di difficoltà, come questa.”
La scienza può ancora oggi essere molesta. Stamattina il Guardian riferiva che presso la sede dell’Università dell’Alberta, a Edmonton, il malfunzionamento di un congelatore ha provocato lo scioglimento della più grande collezione al mondo di carote di ghiaccio. Un campione proveniente dalla cappa di ghiaccio Penny sull’isola di Baffin ha perso circa un terzo della propria massa, l’equivalente di circa ventiduemila anni di storia, e una carota trivellata sul monte Logan, la più alta montagna del Canada, ha visto sciogliersi sedicimila anni. Le carote – una dozzina, per un totale di millequattrocento metri di ghiaccio – erano state da poco acquistate dall’università, e solo alcuni giorni prima trasferite in una struttura multimilionaria nuova di zecca, costruita appositamente per loro. Poi uno dei freezer ha attivato un allarme di temperatura elevata.
“Il guasto alla cella frigorifera ha fatto sì che l’impianto iniziasse a pompare calore,” spiega il glaciologo Martin Sharp. “Per cui non si è trattato di un semplice riscaldamento graduale [...] In men che non si dica la temperatura è schizzata a quaranta gradi. Più che un congelatore, era diventato lo spogliatoio di una piscina...”
“Be’, diciamo che ho avuto giorni migliori.”
Robert Boyle intendeva, con la sua franchezza, incoraggiare gli altri scienziati, dimostrando che si può fare un buon lavoro anche senza una strumentazione sofisticata e, “laddove la misurazione delle cose per once e pollici sia sufficiente, senza determinarne linee o grani”. La ricerca dilettantesca era preziosa, disseminando “indizi” su cui altri e più accurati esperimenti avrebbero poi investigato. Boyle apparteneva all’avanguardia dell’illuminismo scientifico, e il suo laboratorio era una fucina dove la natura poteva essere manipolata. Nutriva la convinzione che “la storia della natura compirebbe un progresso troppo lento, se si presumesse che solo i geometri e i meccanici debbano attendere alla scrittura di qualsivoglia parte di quella storia”. Non essendo né geometra né meccanica, simpatizzo con la sua tesi.
La trasformazione dell’acqua in ghiaccio potrà apparire scontata, scrive Boyle, ma in alcune parti del mondo dove il clima è più caldo certi uomini sono stati considerati dei bugiardi per aver suggerito una simile possibilità. “E certamente, se l’abitudine non la privasse di tutta la sua stranezza, ci meraviglierebbe assai che un così grande cambiamento di consistenza avesse a prodursi con tanta facilità e in modo non artificiale.” Nelle sue investigazioni Boyle non formulò alcuna ipotesi sulla formazione o il comportamento del ghiaccio. (Dopotutto, solo in tempi recentissimi Robert Hooke aveva teorizzato che il ghiaccio fosse causato dal vento.) Studia i corpi capaci di congelarne altri; corpi che sono suscettibili, o non suscettibili, al congelamento; la tendenza del freddo a spostarsi verso l’alto o verso il basso; si chiede: il grado di freddo modifica la compattezza del ghiaccio? (Si mette inoltre sulle tracce di “una persona intelligente che visse per qualche anno in Russia”, la quale lo informa che il ghiaccio in Russia è molto più duro che in Inghilterra.)
Leggere Boyle è una lezione di perseveranza, osservazione minuziosa e immaginazione: lo scienziato diventa poeta. Conduce esperimenti su varie forme e dimensioni di ghiaccio. Prepara cilindri di ghiaccio (gli antenati delle carote) congelando l’acqua dentro un tubo di metallo. Usa lastre piatte di ghiaccio di spessore uniforme con i lati paralleli e focacce di ghiaccio di spessore compreso tra un ottavo e un quarto di pollice (3,175 e 6,35 millimetri). Aggiunge del sale sulle superfici, più aqua fortis (acido nitrico) e olio di vetriolo (acido solforico), e annota i loro rispettivi effetti. Calcola quanto peso può sopportare il ghiaccio, e constata perplesso che, pur essendo così resistente da non rompersi né facendo leva né standoci sopra in piedi, una scheggia di vetro “agevolmente lo incide in profondità” e persino “i comuni coltelli lo tagliano, e con grande facilità”. Si stupisce nello scoprire che, spargendo del sale su una lastra di ghiaccio stesa su un tavolo, quest’azione porta il ghiaccio a sciogliersi ma anche a ricongelarsi nel legno sottostante. Arriva addirittura ad ascoltarlo, il ghiaccio: “Una volta feci portare vari pezzi di ghiaccio spesso da un luogo fresco in una stanza tiepida, e rimanendo in ascolto, osservai un rumore provenire da essi, come fosse stato prodotto dal gran numero di crepe ivi formatesi.”
L’acqua non è l’unico liquido che Boyle tenti di congelare; fa esperimenti con “urina, birra, cervogia, latte, aceto, e vin francese e renano”, appurando che il vino è il più lento di tutti a solidificarsi. Prende nota perfino dell’effetto che l’aria fredda ha su “una soluzione forte di gomma arabica, e un’altra di zucchero bianco, di allume, vetriolo, salnitro e sale marino, una soluzione forte di verderame in acqua schietta (che perciò s’era intensamente colorata)”.
Se da un lato Boyle si premura di precisare che i suoi esperimenti sono quasi interamente nuovi, e non opera di altri, su un punto dovette affidarsi a fonti di seconda mano. Non riuscì, infatti, a spingersi fino all’estremo nord per vedere coi suoi occhi le formazioni glaciali descritte nei libri degli esploratori. Le dimensioni di queste “grandi isole di ghiaccio” hanno quasi dell’incredibile, dice, ma non insinua mai che i suoi lettori non dovrebbero credere nella loro esistenza. La sezione XV, intitolata “Esperimenti e Osservazioni sul Ghiaccio”, contiene alcune “Notizie ricavate da viaggiatori, e navigatori, recatisi in quelle regioni fredde, che offrono osservazioni concernenti il ghiaccio assai più considerabili, o per lo meno più insolite, di quelle che si incontrano in un clima temperato qual è il nostro”. Boyle giustifica la sua pratica di citare altri autori sostenendo che è preferibile all’ignorarne il materiale in tronco – specie in quanto sarebbe stato arduo procurarsi molti di questi libri, da tempo esauriti, persino nei principali centri del sapere inglesi. Inoltre, aggiunge, se anche il lettore avesse la ventura d’imbattersi in questi volumi, prima di rintracciare le informazioni utili avrebbe dovuto sorbirsi tutta una serie di “malinconici ragguagli su tempeste e calamità, e sul ghiaccio e gli orsi e le volpi”.
Sorrido. I miei diari pullulano di simili ragguagli.
Boyle vaglia quanto ha letto sugli iceberg. Sebbene queste “grandi isole di ghiaccio” galleggino sul mare, esclude che siano composte di acqua marina congelata, e, a ragione, sospetta che provengano dall’entroterra, create forse “dal disgregamento del ghiaccio nelle baie e negli stretti, in parte dal calore del sole, in parte dalle maree, e forse dai venti e dalle correnti sospinte poi su e giù per i mari, in plaghe distanti dalla riva”. La sua supposizione è corroborata dai racconti dei viaggiatori, che sciolsero il ghiaccio, scoprendo che si trattava di acqua dolce e buona da bere. Equipara l’altezza degli iceberg alle finestre piombate dell’abbazia di Westminster, alle cime dei colombieri delle navi, alle torri campanarie, e nota che la loro superficie può essere varia: “piatte in taluni punti come vaste distese, in altri eminenti come spaventosi clivi”. Crede che il ghiaccio aumenti con l’accumularsi della neve (come dimostreranno gli scienziati che studiano il firn). Si domanda se “questi clivi di ghiaccio” siano interi o solidi, o se non formino piuttosto “vaste pile ovvero agglomerati, e masse di ghiaccio, accidentalmente e rozzamente ammonticellate e cementate dal freddo eccessivo, che li congela compattandoli per intervento dell’acqua che li bagna; le quali pile di numerosi pezzi di ghiaccio, non sono prive di grandi cavità interrotte e riempite dall’aria soltanto, tra le più solide focacce ovvero agglomerati”. Si chiede se il colore azzurro osservato nel ghiaccio della Novaja Zemlja e di altre regioni sia inerente o permanente, “o uno di quelli che vengono detti enfatici”.
Mi chiedo a quali biblioteche abbia avuto accesso nel predisporre la sua selezione di resoconti. La Bodleiana, in quei giorni, era appena nata, e ben lungi dall’essere la collezione enciclopedica che oggi conosciamo. Le sue fonti spaziano dall’opera in latino dell’ecclesiastico svedese Olao Magno (il cui sottotitolo nella traduzione italiana del 1565 recita: “Opera breve, la quale demonstra, e dechiara, overo dà il modo facile da intendere la charta, over delle terre frigidissime di Settentrione”) alle sensazionali narrazioni dell’esploratore olandese Gerrit de Veer – due scrittori che a loro modo hanno influenzato moltissimo la nostra percezione dell’Artide, e i cui nomi incrocerò spesso procedendo nella lettura.
Se mi incuriosisce sapere come Boyle riuscì a condurre una ricerca di così ampio respiro, quando Internet era ancora di là da venire, il suo aver compilato appunti senza la comodità di una scrivania digitale m’intriga ancora di più. Quasi non faccio in tempo a stampare un articolo che subito finisce, tutto stropicciato, dentro la mia borsa; quando arriva il momento di mettere in ordine la stanza, a farne le spese sono proprio questi cumuli di carta. I documenti sono al sicuro solo se li salvo sotto forma di minuscole icone sul desktop. Nel periodo in cui Boyle sondava i limiti della chimica, altri aspetti della conoscenza erano oggetto di dibattito: persino il metodo migliore per studiare. Per lungo tempo, dotti ed eruditi avevano aderito all’idea che prendere appunti fosse segno di pigrizia, che trascrivendo annotazioni la memoria diminuisse. A un suo amico che si lamentava con lui per aver perso gli appunti, il filosofo greco Antistene replicò senza troppa compassione: “Dovevi scriverli sull’animo, non sulle carte.”7 I pensatori dotati di una memoria prodigiosa venivano ancora celebrati all’epoca di Boyle. John Aubrey, nei suoi Brief Lives (Vite brevi), riferisce che John Birkenhead, fondatore dell’effimero Mercurius Aulicus, giornale di matrice realista stampato a Oxford, “possedeva l’arte della memoria locale; e i suoi luoghi erano le camere, eccetera, dell’All Soules Colledge (circa cento), sicché ricordava con facilità fino a cento commissioni, eccetera”. Gli edifici sono un ottimo strumento mnemonico, specie se il palazzo in cui si vive e lavora è labirintico come un college di Oxford. Ma le camere non si sarebbero riempite? Come avrebbe reagito Birkenhead se avesse avuto più di cento cose da ricordare? Alcuni studiosi umanisti credevano che l’atto stesso di scrivere appunti aiutasse a imprimere le idee nella memoria, e che gli appunti, inoltre, fungendo da stimoli, liberassero spazio nella mente – e quest’ultima, per quanto la si allenasse, aveva una capienza finita.
Boyle era dotato di una buona memoria e di una vista difettosa. Scelse di prendere appunti pur non avendone bisogno, anche se in vecchiaia dovette ricorrere ai servigi di un amanuense. In un’epoca in cui un sistema ordinato incarnava la coerenza del pensiero, la mancanza di sistematicità di Boyle sembra quasi il frutto di una fiera ostinazione. Mentre gli umanisti consigliavano agli studiosi di redigere metodicamente delle raccolte di passi scelti, Boyle buttava giù idee e stralciava citazioni su fogli volanti. A volte si poteva dare ordine a questi pensieri rilegandoli insieme a casaccio, o persino, come faceva il suo contemporaneo Francis Bacon, organizzandoli per gruppi di cento unità o “centurie”. Alcuni degli esperimenti sul freddo, raccontò in seguito a un amico, finirono “in una specie di taccuino, dove li avevo schizzati per mio uso privato”. Il suo tono è sbadato, come gli appunti. Dopo la morte di Boyle, John Evelyn riferì a William Wotton, un conoscente comune, che la stanza da letto di Boyle era ingombra di “scatole, vetri, vasi, strumenti chimici e matematici; libri e fastelli di carte”. Dopo attenta ispezione, lo stesso Wotton convenne che “le sue carte, quelle che lui stesso chiama i suoi tanti fastelli, erano un vero caos, grezze e informi Dio sa quanto”.
Anche i miei pensieri sono un caos di dati desunti da cinque secoli di scienza. Il ghiaccio è lo stato solido dell’acqua, leggo. Quando l’acqua si congela aumenta di volume. Il ghiaccio è un solido inorganico. Il ghiaccio assorbe la luce nell’estremità rossa dello spettro. Il ghiaccio si trova allo stato naturale. Il ghiaccio non viola la terza legge della termodinamica. La densità del ghiaccio è pari a 0,9167 g/cm3 a 0°C. La sua formula chimica è H2O.
La molecola dell’acqua, scopro, è una delle più semplici che esistano: è costituita da due atomi di idrogeno legati a un singolo atomo di ossigeno, e ha una forma simile alla lettera “v”. Semplice o complicato che sia, il suo comportamento mi lascia stupefatta.
Esco dalla biblioteca attraversando l’Old Schools Quadrangle. Gli elementi decorativi e le merlature del tetto si stagliano contro il cielo del crepuscolo. Un bagliore si riversa sulle pietre del lastricato dalle alte finestre. Nelle sale di lettura i bibliotecari, ancora al lavoro, ricollocano i volumi sugli scaffali e catalogano le nuove pubblicazioni. So che nei seminterrati della biblioteca si susseguono delle camere segrete ricavate sotto la città in modo da accogliere un numero sempre maggiore di libri.
Sto fissando diagrammi di ghiaccio da troppo tempo – anche la biblioteca si sta cristallizzando.
Una volta che conosci la struttura di una piccola parte di un cristallo simmetrico, scopro, puoi prevederne la struttura all’infinito. Gli scienziati hanno elaborato dei modelli tridimensionali dei cristalli di ghiaccio, che mostrano reticoli contenenti sfere colorate in ogni intersezione. Le sfere mi ricordano le chiavi di volta ornamentali in pietra che coronano le ripide nervature perpendicolari sul soffitto della biblioteca – con la sola differenza che queste sfere rappresentano particelle che, pur essendo più resistenti della pietra, sono invisibili a occhio nudo. Mi meraviglia la capacità dei fisici di dipingere atomi di idrogeno e ossigeno che – sebbene ci riguardino da vicino – solo pochissime persone hanno visto e di delineare i legami che li uniscono. Ingigantiscono i corpi infinitesimali rendendoceli visibili e ci permettono di comprendere forze altrimenti imperscrutabili. Faccio perfino fatica a immaginarmi che aspetto abbia un’apparecchiatura da laboratorio, per non parlare degli oggetti analizzati: un termometro talmente sensibile da misurare il calore sviluppato in una reazione chimica, un microscopio elettronico capace di ingrandire gli oggetti fino a dieci milioni di volte. Un’attrezzatura così sofisticata avrebbe fatto l’invidia di Boyle e di Keplero, alla mercé com’erano di fragili strumenti di vetro?
Il vetro, dal punto di vista strutturale, è strettamente associato a una forma “amorfa” dell’acqua ottenuta tramite un raffreddamento velocissimo di quest’ultima: in entrambi i casi i fisici parlano di “materia condensata disordinata”. M’immagino uno scienziato che inserisce un campione di questo tipo di ghiaccio in una beuta, dove un potenziale disordine va a sommarsi a un disordine ancora più potenziale, creando un caleidoscopio di caos in potenza. Sono sorpresa dalla frequenza con cui, leggendo, incontro il termine “disordine”. I fisici, mi accorgo, lo usano in maniera più precisa rispetto a me, non per indicare caos e confusione, quanto piuttosto un’assenza di simmetria in un sistema formato da molte particelle.
La stragrande maggioranza del ghiaccio presente sulla Terra e nella circostante atmosfera è caratterizzata dalla struttura cristallina simmetrica a sei punte che osservò Keplero. Prende il nome di ghiaccio Ih – dove h sta per hexagonal (esagonale) e I segnala che si tratta solo della prima di molte possibili fasi di ghiaccio. In condizioni di alta pressione e di temperature sufficientemente basse, la struttura del ghiaccio Ih si disintegra. I legami a idrogeno assumono una nuova disposizione, e viene a formarsi un reticolo romboedrico. Questa fase, nota come ghiaccio II, non si trova allo stato naturale sulla Terra – lo stesso peso del ghiaccio della calotta antartica esercita solo un quarto della pressione necessaria per crearlo. Il ghiaccio II potrebbe esistere nel sistema solare esterno, forse sulle lune ghiacciate, come Ganimede, il satellite di Giove. E la scienza ci dice che nello spazio potrebbero esistere altre fasi del ghiaccio, ciascuna con una sua struttura cristallina: il reticolo tetragonale del ghiaccio III e quello romboedrico del ghiaccio IV. Quando viene portato a una temperatura di -213°C, il ghiaccio Ih si trasforma in ghiaccio XI, e gli idrogeni del legame a idrogeno, che nel ghiaccio Ih sono disposti in maniera casuale, danno infine vita a una struttura ordinata.
Da oltre trent’anni un gruppo di ricercatori dello University College London studia la possibile esistenza di nuove fasi del ghiaccio, testando il comportamento dei legami della molecola dell’acqua a pressioni altissime e temperature bassissime. Nel 1996 hanno scoperto il ghiaccio XII, che può essere creato in vari modi, per esempio riscaldando con precisione i ghiacci amorfi, privi di una struttura cristallina. Vent’anni più tardi, gli scienziati hanno identificato le strutture cristalline del ghiaccio XIII e XIV, e riconosciuto il modello di diffrazione del ghiaccio XVI. Un membro del team, John Finney, ha paragonato questo processo alla realizzazione di un’opera d’arte, e nella fattispecie di nuove “strutture di ghiaccio scolpito”. “Un buon falsario può riprodurre la struttura,” scrive Finney, “ma il pittore crea qualcosa di nuovo e originale che non è mai esistito prima. In nessun luogo. Forse col ghiaccio XII è successa una cosa simile. Forse era la prima volta che le molecole dell’acqua venivano spinte a legarsi in questo modo particolare formando questa struttura? Se ne potrebbe facilmente dedurre che è molto improbabile che la stessa pressione, la stessa temperatura e la stessa velocità di raffreddamento da noi utilizzate per ‘creare’ il ghiaccio XII si trovino in qualsiasi altra parte dell’universo. Se è così, forse potremmo considerare la prima realizzazione del ghiaccio XII come un atto creativo originario. Quante altre forme può assumere il ghiaccio?”8
Mentre Finney e i suoi colleghi scienziati si sforzano di ricreare in laboratorio le condizioni dello spazio cosmico, e di prevedere le fasi del ghiaccio su lune lontane, quest’inversione di prospettiva – dallo spazio alla Terra – sta aiutando gli scienziati a capire il perché dei cambiamenti nella composizione del ghiaccio sul nostro pianeta. I viaggi spaziali hanno modificato la nostra visione del mondo, a partire dal momento in cui, nel 1969, gli astronauti misero piede per la prima volta sulla luna, mentre platee di telespettatori, sulla Terra, ammiravano incantate le immagini del pianeta scattate dallo spazio – acquisendo una maggiore consapevolezza della sua fragilità.
Per tutti gli anni settanta i satelliti Nimbus viaggiarono in orbita quasi polare attorno alla Terra. Questi veicoli spaziali dovevano registrare il livello delle precipitazioni e raccogliere dati atmosferici per facilitare le previsioni meteorologiche quotidiane, ma le successive missioni hanno svelato qualcosa di assai più significativo. Quando Nimbus 7 fu lanciato nel 1978, la sua tecnologia a sensori permise agli scienziati di monitorare le concentrazioni di ghiaccio marino da un punto all’altro del globo, distinguendo tra ghiaccio di nuova formazione e ghiaccio più vecchio. Con l’accumularsi delle osservazioni, iniziò a configurarsi una nuova realtà: ogni inverno, infatti, in corrispondenza dello strato di ozono sopra l’Antartide, compariva un buco.
Già allora l’ambiente destava qualche preoccupazione: le prime scoperte della correlazione tra emissioni di CO2 e cambiamento climatico risalivano agli anni trenta. Nel 1957 Revelle dimostrò che la CO2 prodotta dall’uomo non veniva prontamente assorbita dagli oceani; Keeling effettuò delle misurazioni e nel 1960 registrò un aumento del livello di CO2 nell’atmosfera. Negli anni settanta, grazie ai modelli matematici sullo scorrimento dei ghiacciai, si evinse un’instabilità nella calotta glaciale antartica, e gli oceanografi rilevarono enormi depositi di idrati di metano nei fondali marini. Cresceva intanto il numero di scienziati che decidevano di specializzarsi nello studio del cambiamento climatico. Non fu una sorpresa quando, nel 1981, a queste scoperte seguì l’annuncio che era stato l’anno più caldo dall’inizio dei rilevamenti.
Nel 2003 la NASA ha lanciato un Ice, Cloud and Land Elevation Satellite (ICESAT) per misurare le calotte polari; il satellite è uscito dall’orbita nel 2010, dopo una missione durata sette anni. ICESAT-2 è stato mandato in orbita nel 2018 per proseguire le ricerche, in un “clima” pubblico radicalmente mutato. I ricercatori hanno ormai appurato che la fusione della calotta di ghiaccio dell’Antartide occidentale è irreversibile e, ribadiscono, provocherà un innalzamento del livello dei mari nei secoli futuri. Quello del cambiamento climatico non è più un tema ristretto ai convegni specialistici e ai programmi di ricerca: se ne occupano tutti i mezzi d’informazione. Nel luglio 2017, quando un iceberg del peso di oltre un trilione di tonnellate si è staccato dalla piattaforma Larsen C, la notizia è balzata all’onore delle cronache di mezzo mondo. Alcuni canali hanno sottolineato come la piattaforma glaciale dell’Antartide avesse raggiunto il livello più basso di sempre. Altri hanno decantato l’impressionante mole dell’iceberg, uno dei dieci più grandi mai visti.
Come si calcolano le dimensioni di un iceberg? Boyle, che tanto penò per creare modesti pezzi di ghiaccio nel suo laboratorio, prende nota con una certa ammirazione del “più stupendo pezzo di ghiaccio singolo [...] che il nostro celeberrimo marinaio inglese signor W. Baffin (il cui nome capita di incontrare in mappe e globi moderni) dice d’aver lui medesimo incontrato sulla costa della Groenlandia”. O meglio, come scrive Boyle, “∫tupendiou∫e∫t”, parola ancora più espressiva, con la sua s lunga, tipica del Seicento, e la punta che si arriccia a mo’ di f incompleta sull’asse x del carattere. Baffin stimò le dimensioni di questo stupendo oggetto in “cento e quaranta braccia, ovvero milleseicento e ottanta piedi dalla cima alla base”. Baffin e Boyle sapevano entrambi che per calcolare le dimensioni di queste isole di ghiaccio occorreva tener conto del ghiaccio nascosto sotto la linea dell’acqua.
Questo problema della “proporzione che intercorre fra le parti in superficie e quelle sommerse di ghiaccio galleggiante” muoveva dalla comprensione del comportamento del ghiaccio nell’acqua. Alcuni uomini, scrive Boyle, sostengono “che fuori dell’acqua non v’è che la settima parte di ghiaccio [...] Questa proporzione ne cela assai di ghiaccio, ma se avvenga così in tutti lo ignoro”. Dopo alcuni calcoli, Boyle giunge alla conclusione che la parte dell’iceberg sott’acqua dovrebbe essere circa otto o nove volte maggiore di quella che emerge in superficie.
Oggi le stime dei glaciologi sono persino superiori e si attestano sul novantuno per cento circa – anche se la quantità esatta dipenderà dal tipo di ghiaccio. Queste percentuali suggeriscono che l’iceberg può essere facilmente suddiviso in parti superiori e inferiori, prescindendo dal livello dell’acqua – non tarda a rovesciarsi su un lato, ribaltandosi via via che si scioglie. Sotto questo profilo, il fenomeno riecheggia l’evoluzione del simbolo di percentuale. Gli zeri, che all’epoca di Boyle venivano scritti sopra e sotto una linea di frazione orizzontale, oggi si mantengono in equilibrio precario di qua e di là da una sbarretta obliqua.
Non nutro alcun desiderio di andare in Antartide, ma sono curiosa. Emma Stibbon, artista esploratrice e membro della Royal Academy, è da poco tornata da un soggiorno di ricerca in Antartide a bordo del pattugliatore rompighiaccio HMS Protector, e ci incontriamo in un caffè di Turl Street per confrontare i nostri appunti. Lungo il tragitto verso la stazione di ricerca Rothera nella penisola antartica, Emma ha osservato dalla nave le formazioni di ghiaccio – e il personale nautico incaricato di studiarle. “Ognuno aveva un suo compito specifico,” mi spiega Emma. “Oltre ai glaciologi, c’erano esperti di meteorologia e idrografia e navigazione.” Al posto delle tecnologie di telerilevamento utilizzate dall’equipaggio per l’acquisizione dei dati, i suoi rilevamenti Emma li ha eseguiti con gessetti, acqua e pigmenti. Ritiene che questa risposta tattile, umana, sia di fondamentale importanza per capire il mondo.
Emma mi racconta che la linea costiera dell’Antartide è talmente inaccessibile che nessuno la esplora più da quasi due secoli. Le navi viaggiano seguendo le carte compilate dai marinai delle baleniere, che misuravano la profondità delle acque calando degli scandagli a sagola e si orientavano per mezzo del sestante. “Ovviamente è un metodo,” continua, “che lascia spazio a errori. Quindi i nuovi dati raccolti dall’ HMS Protector daranno un contributo considerevole alla moderna cartografia. L'imbarcazione è dotata di un sonar che emette fasci di energia acustica che si propagano nel fondale. La nave percorre l’area da mappare (un po’ come falciare un prato), e i dati acquisiti dal sonar vengono trasmessi sotto forma di linee al ponte di comando a bordo. Qui i tecnici ripuliscono i dati acustici eliminando i rumori di fondo – e li convertono digitalmente in posizioni e profondità.” Queste immagini ad alta risoluzione vengono poi inviate all’ammiragliato dell’Ufficio idrografico del Regno Unito, che ha sede a Taunton, dove verranno usati per la messa a punto di nuove carte nautiche.
I fruitori delle carte saranno gli abitanti temporanei del circolo polare antartico, la maggior parte dei quali arriva nelle stazioni di ricerca per analizzare l’ambiente. Vi diranno che andare in Antartide è come viaggiare indietro nel tempo, oltre che per chilometri e chilometri: durante le ere glaciali, quando le calotte ricoprivano un’area che a sud si estendeva fino a Londra e Oxford, l’Europa sperimentò condizioni simili. Emma si chiese come poter documentare questo paesaggio antico. “Lavorando su un album a temperature così fredde ho dovuto schizzare tutto in modo molto rapido. Sono abituata a dipingere con materiali umidi come l’inchiostro di china o gli acquerelli, e a volte capitava che i colori mi si congelassero sul pennello. Disegnare a bordo di una nave significa rapportarsi con un paesaggio che scivola via costantemente, e questo richiede una notevole reattività.”
I disegni di Emma raffiguranti il ghiaccio sono immagini proteiformi, e lo spettatore è portato a chiedersi non solo come siano state realizzate, ma addirittura se simili fantasmagorie esistano nella realtà. Sono ghiacciai o fantasmi? Una volta rientrata nel suo studio avrebbe deciso quale tecnica usare: “A volte lavoro col gesso, la grafite e la punta d’argento, che dà un tocco argenteo.” Le sue opere sull’Antartide documentano tutti e tre gli stati dell’acqua – solido, liquido, gassoso – e il labile confine che li separa, ricordandoci che è l’unica sostanza a esistere naturalmente in tutte e tre le forme sulla Terra.
Con un passato da conservatrice museale di opere d’arte su carta, Emma conosce bene la longevità dei materiali. Le tecniche da lei usate rispecchiano un’intima consapevolezza della permanenza archivistica. “Quando rifletto sulla quantità di tempo che impiego per le mie opere, mi consola pensare che continueranno a essere viste ancora per un po’.” Poi però aggiunge: “Dobbiamo ragionare in termini di cicli temporali più vasti, che oltrepassino la nostra facoltà di comprensione. Cosa può durare in eterno?”
La nostra conversazione è interrotta da una grandinata. Emma toglie la condensa dalla finestra strofinandoci sopra, e guardiamo la trasformazione della strada. Biciclette che si bloccano e turisti che si precipitano dentro la libreria per trovare riparo; studenti che si fiondano in portineria, seppellendo il viso sotto libri e sciarpe. I chicchi di grandine, quando colpiscono, fanno un male cane, ma sono magnifici nel loro dinamismo. C’è un che di comico nel modo in cui cadono e subito dopo rimbalzano verso l’alto, con una traiettoria discendente meno certa di quanto sembri.
L’ambiguità della grandine rappresenta fin dall’antichità un enigma per l’uomo. Un tempo si credeva che cadesse solo di giorno. L’autore del classico ottocentesco Lehrbuch der Meteorologie (Manuale di meteorologia) ammetteva che – persino in quell’epoca illuminata – riguardo alle possibili cause i suoi contemporanei brancolavano nel buio. “Come si spiega che nella bella stagione, e nei giorni più caldi, cadono cospicue masse di ghiaccio?” scriveva Ludwig Kämtz. “Perché alcuni paesi sono devastati dalla grandine ogni anno, mentre le località limitrofe sono pressoché risparmiate?” Un altro mistero era che la grandine interessava aree limitatissime: “A pochi miriametri di distanza dal luogo ove è caduta la grandine, non si è sentito nemmeno uno sbuffo di vento.”9
Kämtz aveva il pallino dei record: riferisce che il 29 aprile 1697 nel Flintshire caddero dei chicchi di grandine del peso di circa centotrenta grammi; e la settimana successiva, un certo signor Taylor dello Staffordshire trovò dei chicchi la cui circonferenza misurava tre centimetri; una tempesta di grandine imperversò sulle rive del Nilo il 13 agosto 1832; e a Utrecht, nel 1736, il signor Musschenbroeck assistette a una fortissima grandinata, con chicchi grossi come uova di piccione e addirittura di gallina. Ma questo non è niente: il 5 ottobre 1831 Costantinopoli fu bersagliata da chicchi di grandine delle dimensioni di un pugno.
La grandine cade a brevi raffiche. È come se il cielo non riuscisse a mantenere la stessa sconquassante detonazione glaciale per più di qualche minuto. Le gragnuole di grandine assomigliano a quelle difficili forme poetiche condensate, i limerick o i triolet, che spesso si concludono con un commento pungente. La forma breve richiede arguzia, e l’arguzia a volte tracima nella malizia. Se ora stesse nevicando, ci sarebbe un soffice manto, e i fiocchi avvolgerebbero le nicchie riparate dei vecchi edifici. È difficile non abbandonarsi a un afflato lirico davanti alla neve: cade con tanta delicatezza che sembra rallentare il tempo; la grandine lo accelera, come luci stroboscopiche con una pantomima. La neve impone un silenzio rispettoso, la grandine invece suscita una reazione rumorosa, perché i chicchi attivano gli antifurto delle macchine.
Eppure, all’inizio, sia i fiocchi di neve che i chicchi di grandine sono gocce d’acqua nelle nuvole, dove si congelano in cristalli di ghiaccio. Il fiocco di neve affronta un viaggio semplice; un cristallo di ghiaccio scende giù da una nube, e altri cristalli aderiscono alle sue estremità. I chicchi di grandine hanno origine da vasti cumulonembi, ad altitudini superiori a quelle in cui volano gli aeroplani. La grandine deve fare molta più strada in discesa, e può essere risospinta indietro sulla nuvola dalle correnti ascensionali. Nell’attraversare vari fronti alterni di aria calda e fredda sopra il livello del suolo, di volta in volta si scioglie e si ricongela, accumulando sempre più strati di ghiaccio. Il ghiaccio sepolto in profondità nella calotta glaciale può conservarsi per secoli, ma quello che cade attraverso l’atmosfera è soggetto a cambiamenti ogni secondo che passa.
Il torrente cessa con la stessa repentinità con cui era iniziato, ma i chicchi rimangono. Alcuni si sono depositati sulle statue che si ergono sull’arco di fronte: la Vergine Maria in piedi sul globo, vestita con un mantello rosso sopra quello blu più tradizionale, e Santa Mildred, che cavalca uno stormo di oche come un’acrobata aerea. Quando io e Emma usciamo, le minuscole palle di ghiaccio opaco scricchiolano sotto i nostri piedi.