4.

PATTINATORI

TRACCE

Aeroporto nazionale di Washington-Ronald Reagan, Stati Uniti Campo da curling, Kinross, Scozia

E la linea serpentina, per il suo ondeggiare, contorcersi, allo stesso tempo in modi diversi, conduce l’occhio in modo piacevole lungo il flusso continuo della sua varietà, se mi è concessa l’espressione. E per il suo torcersi in tanti diversi modi, si può dire che racchiuda (pur essendo solo una singola linea) diversi volumi; e perciò tutta la sua varietà non può essere espressa sulla carta da una sola linea continuata, senza l’assistenza dell’immaginazione, o l’aiuto di una figura [...] quella sorta di linea ondeggiante proporzionata, che qui di seguito sarà chiamata [...] la linea della grazia [...].
William Hogarth, L’analisi della Bellezza, 17531

I

Una figura si avvicina nella distesa di ghiaccio. Profilata contro l’unica fonte di luce nel raggio di chilometri, mezzo nascosta da una vorticosa cortina di polvere di diamante, non riusciamo a distinguerne i lineamenti. L’uomo arranca lentamente nella neve, con incedere teatrale. Scruta nel buio davanti a sé, quasi lo sapesse che siamo qui. Mentre si avvicina, vediamo che è vestito di bianco. Ha un palco di pallide corna che gli fa da corona; il suo cappotto stinto è bordato di pelli di ermellino; dalle maniche, dall’orlo del suo berretto, pendono nappe argentee. Dapprima è solo. Poi altre figure emergono dalle tenebre. L’uomo percuote la lastra di ghiaccio con un bastone, e a ogni colpo si sprigionano onde di luce verde. Quando l’aurora si dissolve sopra il ghiacciaio e compare nel cielo, punta il bastone verso la volta oscurata e crea le costellazioni dando loro sembianze di creature: corvo, coyote e orso. La folla è senza fiato.

I poteri magici dello sciamano non sono però illimitati. Comete infuocate iniziano a cadere dalle stelle, e crepe rimbalzano attraverso il ghiacciaio su cui muove i passi. Le sezioni si distaccano tra loro, svelando un oceano di vita fosforescente. Lo sciamano e i suoi seguaci sono costretti a correre e a saltare da un lastrone galleggiante all’altro per salvarsi.

Grethe bisbiglia la sua approvazione. A Upernavik tutti attendono con impazienza l’inizio dei giochi olimpici, e sono stata invitata a casa sua per guardare sulla sua tv ultrapiatta la cerimonia d’apertura in diretta da Vancouver. Sdraiata sul divano tra le sue figlie, mi gusto un Polar Ice – un ghiacciolo economico, insapore, con la punta ricoperta di cioccolato.

A dividere le quinte dall’arena c’è una passerella seminascosta da bandiere iridescenti di ghiaccio che brillano come confezioni natalizie di cioccolatini. Quando escono, gli atleti stanno già salutando e sorridendo. Sembrano stupiti. Meravigliati. Alcuni filmano – a loro volta filmati – l’arena con una videocamera davanti all’occhio. I flash dell’oceanica platea di spettatori sugli spalti accentuano la sensazione di scintillio generale. Gli atleti e il loro pubblico sono l’unica cosa vera in quest’arena sul margine del Pacifico. Lo sciamano è un attore. Il ghiaccio è un effetto luminoso. Il gigantesco orso polare che sbuca dalla pista di pattinaggio, sollevandosi in aria tempestato di stelle artificiali, è tutt’altro che reale.

Ogni squadra di atleti è preceduta da un portastendardo che regge il nome della nazione di appartenenza su una scheggia di ghiaccio artificiale a forma di gagliardetto, come ad annunciare una parata di giostratori medievali. Dietro di loro marciano le squadre della ventunesima edizione dei giochi olimpici invernali: Georgia, Ghana, Grecia... La bandiera rossa e bianca della Groenlandia è assente – la nazione gareggia ancora con i colori della Danimarca. Il corteo degli atleti sfila attorno all’arena e sale sulle gradinate, in un’ordinata formazione ad arco, seguendo il flebile sentiero di orme proiettato dall’alto. Come atomi in movimento costante, una troupe di ballerini in giacche bianche trapuntate e cappelli di lana danza a bordo pista, incitando gli atleti e ammaestrando il pubblico nell’uso dei tamburi, delle torce e delle altre attrezzature sceniche.

Il numero successivo è una stupenda fantasmagoria sui paesaggi del Canada. L’arena è uno schermo sul quale si può proiettare qualsiasi cosa. Il ghiaccio marino diventa un campo di grano che si trasforma in foresta che si tramuta in montagne, ma tra un numero e l’altro è la pista a imporsi all’attenzione. Sopra di essa, i ballerini si esibiscono in capriole su teleferiche. Dalla sua superficie si ergono enormi totem, che sembrano intagliati non nel legno ma nel ghiaccio, e mentre i capitribù dei Lil’Wat, dei Musqueam, degli Squamish e degli Tsleil-Waututh intonano parole di benvenuto, i danzatori che rappresentano i popoli delle Prime nazioni, compresi gli Inuit, turbinano sul ghiaccio. Su tutta l’arena calano le luci, finché non rimane un unico fascio luminoso puntato sugli interpreti al centro, e mentre il pubblico è distratto dai loro turbinanti abiti cerimoniali, i totem scompaiono. Quando si riaccendono le luci, una cantante in abito bianco è in cima a un cilindro a due livelli che svetta sulla pista, e sul ghiaccio vengono proiettate minuscole fiamme di candela. La pop star attacca una canzone strappalacrime. Nel ritornello finale le fiamme dorate si trasformano in colombe che volano fino al soffitto, lasciando l’arena al buio. Ma, sotto forma di fiamma olimpica, il fuoco tornerà a divampare.

Esco a notte fonda e guardo giù verso il porto nel tentativo di individuare la posizione del mio casotto. Forse gli zuccheri del Polar Ice mi stanno dando alla testa. Dove sono gli snowboard quando ne ho bisogno? Sarebbe il veicolo perfetto per questo pendio.

La luna è nascosta dalle nuvole, e gran parte dell’isola è immersa nell’oscurità, ma riesco a vedere alcune case in cui una candela brucia sul davanzale dietro una tenda di pizzo, o in cui i cornicioni sono profilati dalle luminarie. Qualche occasionale lampione con annessa lampadina rossa tinge di rosa la neve che cade. Il bucato è ancora appeso fuori dalla casa dei vicini di Grethe, suddiviso per colori: su un filo maglioni a collo alto da cacciatore e mutande nere, su un altro tovagliette in pizzo e pigiamini a strisce per neonati. Nel vialetto d’accesso è stata parcheggiata una carrozzina piena di neve, forse inutilizzata da giorni, forse abbandonata, e, rovesciata lì di fianco, una slitta di plastica di un bambino di qualche anno più grande.

Sento il rumore di un respiro pesante, poi una catena che sferraglia. Un cane, disturbato nel sonno, mi cammina dietro zoppicando per qualche passo, senza costituire una minaccia, e senza nemmeno mostrare grande interesse, finché gli anelli della catena si tendono e, con andatura claudicante, se ne torna al suo sporco cerchio di neve.

Una nuova raffica di neve sta soffiando di sbieco. I fiocchi si appiccicano ai mucchietti accumulatisi sul ciglio della strada, annidandosi negli anfratti dei rivestimenti murali degli edifici, ammantando i manici degli attrezzi appoggiati contro i balconi. Sono così abituata alla transitorietà della neve che il suo stesso arrivo è soffuso di nostalgia anticipatoria – la consapevolezza che si scioglierà. Ma qui il freddo preserva quella che è caduta, e ogni traccia di vita umana vi è registrata sopra. La sottile linea di sangue che screzia la neve il mattino dopo il ritorno del cacciatore; un gruppo di minuscole impronte vicino ai cancelli della scuola; tracce di pneumatici che si interrompono al termine del molo per poi riprendere nella direzione opposta: tutti questi segni possono essere decifrati. In un’isoletta si sa tutto di tutti, e la neve è il mezzo attraverso il quale si diffondono i pettegolezzi.

La neve sulle strade è stata lucidata dalla pressione di un inverno di pneumatici con le catene. (Sebbene le strade siano poche, la loro presenza differenzia l’isola dal territorio circostante. Gli unici collegamenti tra un centro abitato e l’altro lungo la costa sono tragitti meno palpabili, indicati dalle scie di condensazione degli aerei, da quelle dei traghetti o dai solchi delle slitte trainate dai cani.) Procedo vacillando. Anche con le scarpe da trekking, la strada è troppo ghiacciata per camminarci sopra, la neve addensatasi ai lati è invece troppo profonda da attraversare. Quando ci si trova in un habitat sconosciuto conviene seguire le orme degli altri. Dopo essere caduta diverse volte sul ghiaccio, incappo in un alto banco di neve tra le due case e sprofondo fino alla cintola.

In genere trascorro in solitudine le mie serate a Upernavik. Quando non riesco più a mettere insieme le parole sulla pagina, accendo la tv – un modello lontano anni luce dallo schermo ultrapiatto di Grethe – per godermi la mia brava dose di giochi olimpici. L’apparecchio credo risalga alla prima generazione di televisori isolani, sbarcati negli anni ottanta in concomitanza con l’installazione dell’antenna radio. All’epoca doveva avere un valore inestimabile; e ha un valore inestimabile per me adesso. Quando schiaccio il pulsante d’accensione si sente un clic sordo, e sullo schermo compare per qualche secondo il segnale dell’elettricità statica. Gradualmente, le immagini si allineano, senza però diventare mai del tutto nitide. Questa sera sono così sfocate – “nevose”, addirittura – che la trasmissione sembra irreale; situazione aggravata dal fatto che il biathlon è uno sport ripetitivo, anche in tempo reale: una piccola figura è impegnata in uno slalom a oltranza attorno a una curva lungo il percorso, poi slaccia un fucile e prende la mira. Il cronista danese sembra entusiasta. Lo sport è la mia unica distrazione dal lavoro, quindi lo guardo con religiosa dedizione – nonostante l’indistinto paesaggio, che somiglia moltissimo ai campi di ghiaccio che mi circondano, rappresenti un’evasione un po’ sui generis. Il ghiaccio mi ha ostacolato parecchio: ha limitato le mie escursioni a causa delle sue distese; ha compromesso la mia dignità provocando le mie cadute. Guardare sciatori e pattinatori che si muovono con velocità e grazia produce una sorta di piacere indiretto.

Il mio programma preferito sono le previsioni meteo. Non ho nessuna difficoltà a interpretare i simbolini dei fiocchi di neve o delle nuvole che stazionano sopra la costa groenlandese. L’Europa, il Nord America, il resto del mondo sono assenti dalla mappa, tagliati fuori dai bordi dello schermo – lontano dagli occhi, lontano dal cuore.

II

Un viaggiatore che attraversi senza troppa fretta il Terminal B dell’Aeroporto nazionale Reagan di Washington, D.C., noterà, appeso sopra i banchi del check-in delle compagnie aeree Delta e Air Canada, un murale con una pista di pattinaggio. Un’impressionante serie di pattinatori torreggia sulle folle sottostanti che cambiano in continuazione. Le loro figure volteggiano sul ghiaccio, osservate da spettatori a bordo pista, circondate dalle bandiere di numerose nazioni. Il murale offre al viaggiatore una veduta che trascende gli spazi asettici del terminal, catapultandolo in un mondo parallelo dove è possibile abbandonarsi a movenze più spensierate e impetuose.

L’artista, Bill Jacklin, membro della Royal Academy, è un attento indagatore dei movimenti delle persone, delle vorticose correnti di energia che generiamo. La sua stessa vita è l’antitesi della staticità: trasferitosi da Londra a New York nel 1985, i suoi primi anni nella metropoli statunitense furono segnati da una tristemente celebre ondata di criminalità. Jacklin scoprì che la marginalità stessa della sua professione – trasporre immagini su carta – poteva trovare eco nell’azione delle folle: in mezzo a voyeur e passanti, aveva l’agio di osservare senza essere osservato. Fece schizzi di newyorkesi ai cortei, in spiaggia, al parco. Disegnò gli operai nelle tavole calde vicino al suo studio sulla Quattordicesima Ovest. Disegnò da Frank’s, la steakhouse nel Meatpacking District, e da Florent, dove l’icona della pop art Roy Lichtenstein pranzava coi suoi assistenti. Di notte schizzava i passanti nella Great Hall della Grand Central Station e i senzatetto che dormivano sulle panchine; all’alba disegnava le squadre di lavoratori forzati incatenati tra loro nelle stazioni di polizia. “Ho sempre pensato a New York come a un’arena,” dice. “Illuminata da un faro: il mio.” Metteva in scena le sue rappresentazioni su tela, e il culmine di questa fase ebbe per palcoscenico la pista di pattinaggio di Central Park.

Bill Jacklin mi racconta che in inverno visitava spesso la pista, portandosi dietro il suo taccuino e poi realizzando i dipinti nel suo studio. Mentre stava seduto a guardarli, i pattinatori sembravano creare un vortice di forme, muovendosi come cristalli di ghiaccio in una tempesta, per cui l’artista aveva modo non solo di esaminare le persone che gli sfrecciavano accanto, ma anche “lo scorrere delle forme e i giochi di luce”. A Londra negli anni settanta si fece una reputazione come pittore astratto, minimalista, giustapponendo quadrati e punti con estro da giocoliere. Ora però aveva scelto di eleggere a soggetto dei propri dipinti gli esseri umani. Le persone gli fornivano uno schema asimmetrico suscettibile di infinite variazioni: le silhouette dei pattinatori, la luce sulla superficie della pista di pattinaggio, il rapporto tra i corpi.

Io e Bill ci incontriamo i primi di giugno alla Royal Academy, a Piccadilly. È il Varnishing Day: il “giorno della vernice”, durante il quale l’accademia dà il benvenuto agli artisti le cui opere sono state selezionate per la Summer Exhibition. Tradizionalmente questo giorno aveva lo scopo di ospitare gli artisti e permettere loro di dare gli ultimi eventuali ritocchi all’opera – una pennellata di rosso qui, un viso da ridipingere lì – costituendo l’ultima possibilità per modificare la composizione prima che venisse stesa una mano di vernice. Si vocifera che una volta Turner presentò una tela bianca, e che la dipinse tutta in coincidenza del Varnishing Day. In alcune sale la presenza di un sollevatore a forbice tradisce un’installazione dell’ultim’ora, ma oggigiorno le opere non si limitano ai soli dipinti, e ben poche potrebbero essere modificate all’ultimo minuto – quindi è più che altro un’occasione per fare conoscenza e bere. (Qualsiasi atto di verniciatura vera e propria verrebbe con ogni probabilità scoraggiato con discrezione.) A mezzogiorno, quando arrivo, le sale sono già piene di artisti e lo champagne scorre a fiumi.

Alle pareti sono appesi anche alcuni tra gli ultimi dipinti di Bill, uno dei quali – come è ovvio – ritrae il genere di scene a cui deve la fama. Basta digitare su un motore di ricerca le parole “Jacklin” e “skaters” (pattinatori) e da tutto il web appariranno immagini in miniatura: alcune pubblicate da prestigiose case d’aste, altre caricate sui profili Instagram degli ammiratori. Mi posiziono davanti a City Skaters (Pattinatori di città) e passo mentalmente in rassegna le inesauribili variazioni di figure sul ghiaccio. Mentre nel murale dell’aeroporto la pista di pattinaggio riempie l’intero spazio, lasciando lo spettatore libero di immaginarsela in qualsiasi luogo del mondo, questo dipinto ritrae in maniera inequivocabile Central Park: la prospettiva è spostata indietro, in modo da racchiudere un panorama dello skyline di Manhattan, coi grattacieli sfiorati da nubi a cumulo. Una lunga ombra proiettata da una torre del World Trade Center si estende nella sezione più vicina della pista, un’ombra attraverso la quale si muovono, imperterriti, i pattinatori. Dalle pennellate a strisce che solcano il cielo s’intuisce che è una giornata ventosa. I pattinatori sono simili a uccelli – fragili, persino. Il torso di uno è una spruzzata di arancione chiaro, la gamba una tenue pennellata che lascia la tela prima di descrivere il piede. In un altro pomeriggio la pista sarebbe completamente trasformata: diverse le persone, diversa la luce, diverse le tracce sul ghiaccio.

Per la sua ultima versione, Bill ha rimpicciolito la pista di pattinaggio alle dimensioni di un passaporto: sfruttando i limiti dell’acquaforte – le tonalità dell’inchiostro nero, il formato ridotto – per creare un’atmosfera carica da un punto di vista emotivo. L’elegante pattinatore che traccia delle linee sul ghiaccio potrebbe essere una metafora dello stesso artista, che a una formidabile abilità coniuga la leggerezza di tocco. Le lame incidono il ghiaccio in modo deliberato, come fa la mano dell’artista che passa il bulino sopra la lastra dell’acquaforte, scavando un canale che tratterrà l’inchiostro. Si distribuisce l’inchiostro su tutta la lastra, poi con una garza si strofinano alcune parti, per cui il ghiaccio viene suggerito dal colore della carta nell’area non incisa della lastra. Lastre e pattinatori: sottili fogli di metallo, uno appoggiato su un foglio di carta bianca, l’altro che fende il ghiaccio. A pensarci bene, la riproduzione di un’immagine da parte di un tipografo, la sua ricerca di uniformità, non si discosta granché dalle figure tracciate più e più volte sul ghiaccio da un pattinatore. La stampa è finita quando, con un unico, brutale gesto, lo stampatore incide una linea sulla lastra per segnalare la fine di una tiratura.

Bill è arrivato in aereo dagli Stati Uniti per dare una mano nell’allestimento della Summer Exhibition, e sembra un po’ sottosopra per via della confusione che regna nella sala. Il suo accento medio atlantico mi ricorda che anche lui viene da questa città. Bill è cresciuto a Londra all’epoca del Blitz; i primi aerei che ricorda di aver visto volare in cielo erano quelli della Luftwaffe. Fuggiamo nella calma relativa dell’Academicians’ Room, e davanti a un caffè gli chiedo di parlarmi del lavoro commissionatogli dall’aeroporto di Washington. Si rilassa contro lo schienale dell’elegante poltrona in velluto blu, e inizia a lasciarsi andare ai ricordi. “Be’, César Pelli – lo conosci César Pelli, il famoso architetto, no? – mi ha contattato quando ha ricevuto l’incarico di rimodernare l’aeroporto.” Mi spiega che il progetto di Pelli prevedeva un’enorme vetrata che dava sulla pista e sullo skyline di Washington, che avrebbe trasformato gli arrivi e le partenze in un grandioso spettacolo. “Quando l’aeroporto fu costruito negli anni trenta, agli artisti era stato chiesto di fornire un’opera per la sala principale, e quando Pelli fu chiamato a occuparsi degli spazi negli anni novanta, commissionò nuove opere d’arte che riecheggiassero il progetto originario.” Bill fu uno dei trenta artisti invitati, ma se molte opere contenevano riferimenti al volo, nessuno tranne lui dipinse il ghiaccio.

Di rado il ghiaccio è un elemento positivo in ambito aeronautico. Se si accumula sulla fusoliera, provoca un aumento della resistenza aerodinamica e una diminuzione della portanza, con conseguenze disastrose. Eppure esiste un collegamento tra i viaggi sul ghiaccio e quelli in cielo: per poter partire gli esseri umani devono costruire delle ali o delle lame. L’opera di Bill mi fa pensare al volo di Icaro: fu necessaria la mano di un artigiano, Dedalo, per realizzare le ali, e l’audacia di un giovane per usarle. Non sorprende che il pattinaggio abbia attirato l’attenzione di Leonardo da Vinci, che nel 1488 si interessò al movimento sul ghiaccio, prima di contemplare la possibilità del volo umano.

Larga oltre sette metri, Rink (La pista di pattinaggio) è l’opera più grande che sia mai stata commissionata a Bill. Gli furono dati nove pannelli separati, che una volta terminato il dipinto sarebbero stati assemblati sul posto, andando a comporre la struttura interna dell’aeroporto. Essendo alti un metro e ottanta centimetri, e ancora più larghi, Bill dovette prendere in affitto uno studio più grande all’incrocio tra la Ventiseiesima Ovest e la Decima a Chelsea per farceli stare. A prima vista, il movimento dei pattinatori sul murale potrebbe apparire caotico, ma la composizione è ingegnosamente studiata. Ogni personaggio viene suggerito solo tramite la posizione e la postura; i visi sono nascosti. Lo sguardo dello spettatore spazia di qua e di là, via via che le figure dei pattinatori entrano nella messa a fuoco o fuori fuoco. Alcune specifiche caratteristiche sembrano ripetersi sulla tela, creando una narrazione: ecco una cauta figura con un cappotto a tre quarti emergere dall’ombra e strascicare i piedi sul ghiaccio. Una coppia non sa decidersi se ballare il tango o un valzer. Una donna in abito rosso viene trascinata in avanti dai pattini troppo veloci – e allora inarca la schiena all’indietro nel tentativo di rallentare, appena fuori centro, il che concorre ad acuire il senso di sbilanciamento – ed eccola di nuovo, a sinistra: semisdraiata sul ghiaccio, coi piedi a mezz’aria, d’intralcio per i pattinatori attorno. In Rink si ha la sensazione di trovarsi nell’imminenza di un momento epifanico, come quando le ruote di un aereo si sollevano dalla pista o toccano di nuovo terra.

Le figure nel dipinto di Bill non sono intrappolate in un luogo o in un momento precisi. Carolyn Brown2, una delle principali ballerine della compagnia d’avanguardia di Merce Cunningham (il cui laboratorio aveva sede nei pressi del primo studio di Bill a New York) ha così descritto l’approccio alla coreografia di Cunningham: “Le danze vengono trattate più come puzzle che come opere d’arte; i tasselli sono spazio e tempo, forma e ritmo.” Spazio e tempo, forma e ritmo sono alla base anche della poetica di Bill. Nonostante Rink ritragga un’impetuosa, gioiosa baraonda – non l’ambiziosa velocità del moto di avanzamento che incuriosiva Leonardo, né la rigida estetica del pattinaggio di figura professionale – lo fa attraverso una composizione sorvegliatissima, nella quale si riversa tutta la sua conoscenza delle movenze del corpo umano.

Un nuovo aeroporto si rendeva necessario per la regione della capitale, ma dove costruirlo? In genere i siti degli aeroporti vengono scelti per il loro ambiente neutrale: in questo caso, gli agrimensori esplorarono le distese fangose del fiume Potomac, alcuni chilometri a sud di Washington, D.C. I piloti di diverse compagnie aeree fecero delle esercitazioni di volo nell’area, e il Servizio meteorologico degli Stati Uniti raccolse i risultati di un anno di analisi volte ad accertare le condizioni atmosferiche. A Gravelly Point gli avvicinamenti proposti da otto direzioni alle piste erano sgombri per tratti sufficientemente lunghi da offrire un’angolazione di volo ideale. L’unico problema era che il sito suggerito si trovava per lo più sott’acqua. Il 21 novembre 1938 si avviarono i lavori di edificazione, con la prima badilata di ghiaia depositata in forma solenne dal presidente Roosevelt; l’anno seguente furono importati circa quindici milioni di metri cubi di ghiaia per rialzare il terreno. L’aeroporto fu un’innovazione ultramoderna. I resoconti dell’epoca ne incensano la gestione esemplare degli aerei, del traffico aereo e del controllo del traffico a terra, l’impianto d’illuminazione e non da ultimo il design degli edifici e dei locali per il pubblico ristoro e i servizi igienici.

A cambiare, negli anni novanta, non fu solo la struttura del terminal. L’aeroporto, inizialmente chiamato Gravelly Point Airport, fu ribattezzato Washington National Airport, per poi incorporare, nel 1998, la dicitura “Ronald Reagan’s”, sebbene (come allora qualcuno fece notare) “Washington” fosse già il nome di un presidente. Malgrado queste modifiche superficiali, i piloti continuano a scendere in volo da tutto il Nord America usando le visuali fluviali del Potomac, che mantiene inalterato il suo corso fin da quando i mari si ritirarono venti milioni di anni fa. A volte l’aria, raffreddandosi, mostra le scie di condensazione degli aerei; mi domando come le dipingerebbe Bill – di sicuro lo affascinerebbero, attratto com’è dai motivi evanescenti.

Ma Bill non ha ancora chiuso coi pattinatori. Prima di congedarci, mi dice di voler realizzare una scultura per la corte centrale della Royal Academy. Si immagina pattinatori di ogni forma e dimensione, intagliati in acciaio Corten, che vorticano nello spazio, proiettano ombre sulle pietre lastricate e si riflettono sulle finestre delle maestose facciate in stile italiano delle Learned Societies. Più tardi, uscendo dall’Accademia, attraverso il cortile che Bill s’immagina popolato da pattinatori vettoriali. Ora che ci penso, ha giusto giusto le dimensioni di una vera pista di pattinaggio. I pattinatori immaginati da Bill potrebbero forse trovarsi a volteggiare di fianco a quelli reali? I ricercatori nelle imponenti biblioteche a doppia altezza della Royal Astronomical Society, della Geological Society e della Royal Society of Chemistry che circondano la corte quadrangolare potrebbero forse mettere da parte le loro tesi all’ora di pranzo e scendere dagli abbaini per allacciarsi un paio di pattini?

III

L’estate del 2017 è la più calda mai registrata in Inghilterra. Il 21 giugno la temperatura a Heathrow raggiunge i 34,5°C. Per rinfrescarmi un po’, do la caccia a una delle mie storie per l’infanzia preferite: White Boots (Stivali bianchi), il romanzo di Noel Streatfeild sulle bambine pattinatrici Harriet e Lalla. È da trent’anni che non leggo il libro, e devo farmene prestare una copia da una mia vicina. La stoffa rossa della copertina è sbiadita, gli angoli morbidi e ammaccati. Il titolo è stampato a lettere dorate sul dorso, ma la doratura si è consumata dovunque tranne che in corrispondenza delle grazie. Le pagine, macchiate e con le orecchie, presentano qua e là evidenti tracce di usura, nei punti in cui sono state voltate con troppa irruenza. “Per favore, trattalo bene,” dice Caroline. “Ce l’ho da quando avevo otto anni.” Il suo nome è scritto chiaro sul foglio di guardia, insieme a un indirizzo delle Barbados. Lo ha anche lei letto alla luce del sole.

Harriet è convalescente da una brutta malattia, e ha l’aspetto di un ragno gambalunga. Il medico di famiglia le prescrive un po’ di attività fisica. Quando visita per la prima volta la pista di pattinaggio, dalla descrizione che ne fa la Streatfeild il lettore intuisce che quest’incontro, anche se Harriet ancora non lo sa, è destinato a cambiare per sempre la sua vita:

Con gli occhi spalancati fissò quella che le pareva un’enorme stanza col ghiaccio al posto del pavimento. Le persone al centro, molte delle quali non sembravano affatto più grandi di lei, stavano facendo con le gambe cose che le parevano tremendamente difficili. All’esterno della pista, però, c’era un rassicurante numero di persone che del pattinaggio sembravano intendersi tanto quanto lei, perché si tenevano strette alla balaustra posta ai lati, quasi fosse l’unica loro ancora di salvezza, mentre con le gambe facevano le cose più strane in un modo che evidentemente sorprendeva i loro stessi padroni. Malgrado si tenessero stretti alla transenna, parecchi di questi pattinatori cadevano a terra e sembravano incontrare un’enorme difficoltà a rialzarsi.3

Coincidenza vuole che in pista ci sia anche la bambina prodigio Lalla Moore, che la usa per il suo allenamento quotidiano. Lalla non si tiene aggrappata alla balaustra, pur avendo tutte le ragioni per temere il ghiaccio: i suoi genitori sono morti accidentalmente mentre pattinavano su un lago. Viene educata da una zia un po’ snob, Claudia, che vuole farle seguire le orme del padre ex campione di pattinaggio. Gli stivali che il padre indossò durante la sua ultima, tragica escursione sono appesi in una teca di vetro sopra il letto di Lalla. Ma gli stivali bianchi del titolo non sono questi; sono quelli che indosserà Harriet.

Le due ragazze ben presto fanno amicizia, e Lalla si diverte a insegnare a Harriet l’arte del pattinaggio.

Lalla, pattinando all’indietro, l’aveva trascinata fino al centro della pista.

“Bene, ora ti farò vedere i primi passi. Divarica i piedi.”

Con qualche difficoltà Harriet mise i piedi nella posizione che voleva Lalla.

“Ora sollevali. Prima il piede destro. Abbassalo sul ghiaccio. Ora quello sinistro. Ora abbassalo.”

In apertura di romanzo Lalla ha appena superato a pieni voti l’esame “Pre-Argento”, ma con l’avvicinarsi dell’“Argento”, si lascia distrarre dal pensiero del costume da indossare nel successivo spettacolo di gala e dalle aspettative per la reazione della stampa. La saggia Nana – che a bordo pista cuce degli indumenti di lana per la ragazzina sotto la sua custodia, e che non sopporta il ghiaccio, “quella robaccia umida” – ha paura che Lalla “non sia una bambina il cui rendimento migliora con gli applausi”.

Le complicate figure dell’esame “Argento” richiedono una precisione impensabile per uno spirito libero come Lalla. I controtre sono un problema, e le boccole la goccia che fa traboccare il vaso. Presuppongono uno stile di pattinaggio diverso: “A volte padroneggiava sia il controllo che il ritmo, ma siccome entrambi esigevano un’immensa concentrazione [...] in qualche modo, per quanto si sforzasse di essere vigile, la sua mente non stava dietro a quello che facevano i suoi piedi, e così sul ghiaccio restavano delle brutte tracce.”

Rileggendolo, trovo che il romanzo sia una lezione sulla disciplina: da un lato l’ambizione e la fantasia di Lalla, dall’altro l’abnegazione di Harriet. Per Harriet, infatti, focalizzarsi sulle figure del pattinaggio significa sfuggire al problema della povertà. Riflettendo, Nana dice: “Harriet non era il tipo di pattinatrice a cui la gente tende a far caso, niente di quello che faceva dava nell’occhio, se ne stava sempre rincantucciata in un angolo, oppure, quand’erano nella pista grande al centro, provava e riprovava in disparte, sempre intenta a studiare le sue tracce.” Eppure Max, l’allenatore di Lalla, è colpito dalla sua dedizione; e il suo stile dimesso viene immortalato dal fotografo di un giornale locale. L’illustrazione che più mi rimane impressa è un disegno al tratto delle due ragazze che – immobili – stanno al centro della pista, con in mezzo il giornale aperto. Sulla prima pagina c’è la fotografia di Harriet. La sua pubblicazione segna una svolta nella vita di entrambe le ragazze. Lalla, attraverso l’incontro con la famiglia di Harriet, scopre i piaceri della vita al di fuori della pista di pattinaggio, e il talento di Harriet viene premiato quando per Natale riceve in regalo un paio degli agognati stivali bianchi.

Nel loro rapporto, Harriet e Lalla incarnano il principale conflitto del pattinaggio di figura del XX secolo: quello tra la tensione delle figure obbligatorie (da cui lo sport prende il nome) e la creatività dello stile libero. Il romanzo della Streatfeild fu pubblicato nel 1951, e mi piace pensare che l’introversa dedizione con cui Harriet esegue le figure, il suo continuo controllare le tracce lasciate sul ghiaccio, in contrasto con l’estroversa passione di Lalla per le esibizioni dal vivo, sia stata ispirata da una serie di dibattiti realmente avvenuti nel mondo sportivo.

Nel 1948 il numero di figure che i pattinatori dovevano eseguire in gara si era ridotto da dodici a sei. Era la prima avvisaglia che le figure non contavano più come un tempo, sebbene incidessero ancora in maniera preponderante sul punteggio complessivo. Negli anni sessanta, con l’aumento della copertura televisiva degli eventi sportivi, il pattinaggio libero crebbe d’importanza: la natura ripetitiva e intricata delle figure mal si adattava al piccolo schermo. Come del resto le analisi prolisse dei giudici. Nel 1980 il presidente dell’International Skating Union, Jacques Favart, dando quasi voce alla petulante Lalla, definì le figure “una perdita di tempo”. E se nel 1989 incidevano solo del venti per cento sul punteggio finale, nel 1990 furono per sempre eliminate dalle competizioni internazionali.

Quando avevo la stessa età di Harriet e Lalla, mi misi a saltare dei salchow tripli sul tappeto del salotto mentre Jayne Torvill e Christopher Dean pattinavano il loro Boléro alle Olimpiadi di Sarajevo il giorno di San Valentino del 1984. In Inghilterra ci fu forse qualcuno che rimase insensibile al loro fascino? Milioni di telespettatori guardarono la coppia interpretare il destino tragico di due innamorati che si gettavano dentro un vulcano. A fine esibizione i due pattinarono fino a bordo pista, recuperando i bouquet di fiori gettati dai fan, ancora avvolti nel cellophane, quando gli altoparlanti annunciarono il verdetto: un unanime 6 tondo della giuria per la rappresentazione artistica, il punteggio più alto nella storia del pattinaggio di figura. Descrivendo la “trama” della sequenza di passi, Dean ebbe a dire: “C’era un vulcano in eruzione e noi dovevamo scalare la vetta prima di tuffarci nell’eternità.” Le sue parole avrebbero potuto ugualmente riferirsi all’estenuante preparazione atletica, e alla fama raggiunta in seguito.

La tournée di Face the Music del duo Torvill-Dean ricevette recensioni da cinque stelle, con i giornali che proclamavano l’avvento di “una nuova era glaciale”. Lo spettacolo arrivò al Whitley Bay Ice Rink nel 1995, l’anno del mio primo paio di occhiali. Riuscivo a vedere ogni cosa dal mio posto in fondo alla gradinata: i tizzoni dei monaci nei cupi Carmina Burana; le note musicali cucite sui gilet a paillettes in Let’s Face the Music, il numero conclusivo. Rimasi impressionata dall’esibizione solitaria di Dean sulla canzone dei Beatles Paperback Writer. Circostanza insolita per una canzone pop, il tema non è l’amore ma un uomo che cerca di vendere il suo libro a un editore. Non un romanzo, ma l’autobiografia, costantemente aggiornata, di un uomo che sta scrivendo un libro. Le rivelazioni del cantante riguardo alla sua estenuante impresa autoreferenziale stridono in modo assurdo con l’allegro entusiasmo della melodia. Per una volta, Dean pattinava da solo – o meglio, come compagna non aveva la Torvill, bensì un’ingombrante scrivania con tanto di macchina da scrivere con cui armeggiava roteando sul ghiaccio. Il suo meticoloso stile di pattinaggio creava un elemento dissonante rispetto al caos dello sforzo creativo, impegnato com’era a battere a macchina le pagine, per poi accartocciarle e lanciarle via. (Qualche anno dopo, vedendo il letto sgualcito – My Bed – di Tracey Emin installato in modo incongruo sul pavimento di una galleria d’arte, mi è tornata in mente questa scrivania.)

Molte delle performance della Torvill e di Dean rendono omaggio ad altri generi di spettacolo: sequenze ispirate dal tip tap e dalla danza classica; il circo in Barnum; il musical in Mack and Mabel; e persino la corrida (Paso Doble). Sono sorprendentemente poche quelle che fanno riferimento al ghiaccio su cui pattinano. La loro abilità consiste nell’usare la pista di ghiaccio come se fosse qualcos’altro. Ehi, guardate un po’, sembra che dicano, mentre bighellonano con le loro salopette di jeans nel numero comico Low Commotion, possiamo gironzolare sul ghiaccio come fossimo in un’aia. Un’eccezione alla regola è costituita da una delle produzioni di spicco della loro carriera professionale, il balletto sul ghiaccio Fire & Ice (1986), una sorta di Romeo e Giulietta degli elementi.

Il principe del Fuoco ha una visione nella quale la principessa del Ghiaccio piroetta come una ballerina incantata su un carillon, e abbandona il suo mondo per andarla a cercare. Nel Regno del Ghiaccio, scopre di aver freddo – d’altronde è nudo, tranne un perizoma scarlatto e un paio di polsiere e ginocchiere – e rimane perplesso per il modo in cui i suoi piedi privi di pattini si comportano sulla strana superficie scivolosa. La goffaggine del celebre campione, messa a confronto con l’agilità della troupe degli spiriti del ghiaccio nelle loro luccicanti tutine di spandex, ha un che di spassoso. Ma un’esperta pattinatrice gli offre il suo aiuto: la principessa, che vediamo entrare in scena volteggiando contegnosamente, gli fornisce un paio di pattini scarlatti. Prende le sue mani tra le proprie, portandolo a esplorare il suo mondo, finché lui non si abitua alle lame. Quando il venerando padre della ragazza li vede pattinare insieme in armonia, s’infuria; imprigiona il principe in un enorme blocco di ghiaccio. Ma l’amore appassionato della principessa scioglie la gelida gabbia... e dopo un’apocalittica battaglia tra i due rispettivi eserciti, la coppia riprende a pattinare all’unisono. Un lieto fine, ammesso che il ghiaccio e il fuoco possano coesistere.

Alcune opere intrattengono un rapporto più sottile con il ghiaccio sul quale vengono danzate. Oscar Tango, per esempio, viene pattinata in silenzio. Guardando una registrazione sgranata del campionato in cui fu eseguita per la prima volta, avverto il disagio del pubblico, che si tramuta in un mormorio di sorpresa man mano che i due artisti continuano imperterriti – senza musica. L’unico rumore appena udibile, oltre alla reazione degli spettatori, è quello di solito mascherato dalla colonna sonora: lo stridio delle lame che raschiano il ghiaccio mentre i ballerini volteggiano e il tonfo dei calpestii. La fredda superficie su cui l’ardente danza viene condotta tradisce la sua intima natura, come anche il potenziale percussivo che in genere i pattinatori cercano di evitare.

Scegliendo come accompagnamento il Boléro, la coppia ruppe di nuovo con le convenzioni. La composizione di Ravel dura diciotto minuti, mentre le esibizioni di pattinaggio non possono durare più di quattro minuti. Un arrangiatore fu incaricato di accorciare il pezzo, ma non riuscì a comprimerne la durata a meno di quattro minuti e ventotto secondi senza tagliare l’impetuoso crescendo. Dean, tuttavia, sapeva che i giudici avrebbero azionato il cronometro solo quando le lame dei pattinatori avessero toccato la pista. Quindi preparò una coreografia in cui durante le battute iniziali del numero lui e la Torvill sarebbero rimasti in ginocchio, con le lame in equilibrio sopra il ghiaccio, muovendo solo braccia e torace.

Come per tutti i grandi artisti, anche di Torvill e di Dean è stato detto che fanno sembrare tutto così facile. Le spaccate, i sollevamenti sopra la testa che diventano capriole, le tracce a forma di cuore perfetto disegnate sulla pista dalla Torvill in Fire & Ice. Ma basta scomporre questi movimenti nelle loro parti elementari, e sembreranno molto più scoraggianti. Do un’occhiata alle illustrazioni contenute in un manuale di pattinaggio di figura pubblicato nel 1921, tre anni prima dell’inaugurazione delle olimpiadi invernali. L’autore, Bror Meyer4, era un campione svedese. Forse le prime avvisaglie di cambiamento erano nell’aria e Meyer desiderava preservare lo sport nella forma in cui l’aveva conosciuto: tenta di mostrare ai lettori, come se fossero con lui sul ghiaccio, esattamente dove devono appoggiare i piedi. Una sfida niente male per un’epoca in cui i video e l’accesso online con la ricchezza di dettagli che offrono non esistevano ancora. Meyer decise, “dopo attenta riflessione, di illustrare l’opera per mezzo di fotografie scattate col cinematografo”. Le immagini catturano ogni singola fase dei movimenti del pattinatore. Descritte sul frontespizio come “illustrazioni tratte da fotogrammi di dipinti cinematici”, ricordano le fotografie sperimentali di persone e animali in movimento realizzate da Eadweard Muybridge negli anni settanta del XIX secolo.

Inizio le mie lezioni con Bror Meyer. Figura 1. Il pattinatore solitario si staglia contro un paesaggio alpino di repertorio con picchi nevosi e pendii punteggiati da foreste di pini. In ogni illustrazione, un minuscolo pattinatore avanza nella pagina, con variazioni infinitesime, muovendosi lungo una serie di linee che indicano le scie che le lame dei pattini hanno lasciato sul ghiaccio. Meyer spiega che le figure si chiamano così perché si fondano sulla figura dell’otto: due cerchi uno sopra l’altro, a volte tre. Nella figura più semplice, il cerchio otto, si descrive un cerchio pattinando su un filo della lama con un piede, poi un secondo cerchio sulla parte opposta del filo con l’altro piede. Continua Meyer: “Il cambio di piede al centro si ottiene con una spinta dal primo piede che pattina e con una puntata del nuovo piede che pattina nel punto di intersezione dei due cerchi.” Queste elementari figure a otto possono essere variate all’infinito modificando la spinta e la puntata, e suddividendo ogni cerchio in curve differenti, come il tre di valzer o il controtre nel punto di mezzo. Meyer passa a parlare delle boccole e delle loro varianti paragrafo e serpentina, nonché dei cambi di filo che tanta sofferenza procuravano a Lalla. Ma il testo è ampolloso, e risulterebbe incomprensibile senza le immagini del cinematografo.

Rob prorompe in una sonora risata quando gli racconto che non sono riuscita a imparare il pattinaggio di figura consultando un libro vecchio di cent’anni. Dopo essermi arresa di fronte a Meyer, ho inviato un’e-mail a Rob per chiedergli spiegazioni sulle figure. È in vacanza, ma – percependo quasi la gravità della situazione – propone di incontrarci la sera seguente, dopo aver preso il pullman dall’aeroporto. Viene fuori che è un po’ riluttante a tornare nella sua fredda narrowboat dopo una parentesi di sole invernale. Da ottobre in avanti, mi spiega, quando ci si allontana da una barca è una buona idea lasciare la stufa accesa a fiamma bassissima tutto il giorno, in maniera tale da poter accendere facilmente il fuoco al ritorno. È un controsenso, dice, lasciar acceso un fuoco in una barca. Ma è stato via una settimana e le braci si saranno spente.

Da piccolo, accompagnando la sorella nella pista dove aveva iniziato a pattinare, Rob scoprì di avere anche lui una predisposizione per quello sport. I genitori risparmiavano per pagargli gli allenamenti, passavano ore per accompagnarlo alla pista e riportarlo a casa ogni giorno feriale prima e dopo la scuola. “Sei un ragazzino, i tuoi amici sono in discoteca,” rammenta. “E tu ti trovi in una pista di pattinaggio dove si gela dal freddo, su una superficie di ghiaccio immacolato, e indossi dei vestiti che non sai nemmeno perché li stai indossando. E pattini all’indietro, giri in tondo, cambi. Cambi il filo, giri in tondo dall’altra parte, all’indietro. E i cerchi devono essere perfettamente allineati, ogni volta che lo fai, tre volte attorno per ciascuno.”

È talmente assorbito nel ricordo che senza nemmeno pensarci si alza dalla sedia e mentre parla abbozza le evoluzioni sulle sue scarpe da ginnastica. La barista conosce Rob, e gli sorride mentre torna a servire i clienti.

“C’è l’adagio secondo cui guardare le figure è come guardare della vernice che si secca, e allora, dicevamo, farle equivale a essere la vernice. È un’agonia. Per un buon tre quarti d’ora te ne stai sul ghiaccio a girare e rigirare in tondo.”

Quando l’ISU abolì le figure, tutti i pattinatori che Rob conosceva erano al settimo cielo. “Ma allo stesso tempo pensammo: ‘Quante ore della nostra vita abbiamo passato a eseguire figure?’”

La storia di Rob inizia dove White Boots s’interrompe: l’ascesa stellare nel mondo del pattinaggio di figura britannico, e il raggiungimento dei vertici assoluti per la sua fascia d’età. Ha smesso di pattinare quando ancora aveva ampi margini di miglioramento, dopo aver disputato i campionati giovanili a diciott’anni. Prova rimorso per tutte quelle ore di allenamento, rimpiange tutte le discoteche che si è perso? Niente affatto, mi confida. Le figure non migliorarono solo la sua tecnica di pattinaggio di base; instillarono in lui la disciplina mentale necessaria per affrontare gli altri aspetti dello sport. Fa una smorfia mentre descrive la determinazione necessaria per effettuare un salto se sei già caduto sul ghiaccio quattro volte, e sai che cadrai anche una quinta. Abituando il corpo alla delusione, le figure sono state un’ottima lezione di vita.

Come fa un pattinatore a sapere se sta eseguendo correttamente le figure? Rob prendeva un segnatoio – un grosso compasso – e lo ruotava per incidere una linea su cui esercitarsi – o per verificare la forma dei cerchi appena tracciati pattinando. In gara i segnatoi sono vietati, e i pattinatori non possono fare affidamento su alcuna traccia dipinta sul ghiaccio. Devono basarsi unicamente sull’istinto. Per ogni concorrente vengono contrassegnate le sezioni pulite della pista. I giudici stanno a guardare a bordo pista. Quando il pattinatore ha finito, i giudici controllano l’allineamento della figura da diverse angolazioni, esaminano le tracce delle curve e misurano i diametri dei cerchi per verificarne le dimensioni. I due cerchi sono perfettamente rotondi, senza oscillazioni, parti piatte, sporgenze o rientranze? Tutti i cerchi della figura hanno le stesse dimensioni? Le curve della figura sono in linea con l’asse centrale, e anche tutti i cerchi sono allineati? Le curve hanno forme simmetriche e sono state eseguite con esattezza sul filo senza raschiare? Le boccole sono a forma di boccola, e non circolari o a punta? Dopodiché entra in pista il pattinatore successivo.

Dopo aver tentato di leggere Meyer sto ancora riflettendo sulle tipologie di notazione per il pattinaggio di figura. Chiedo a Rob che sistema usasse.

“Non è qualcosa di scritto,” dice Rob, sorpreso dalla mia domanda. “Piuttosto, un elenco di mosse dentro la testa...”

Penso a tutte le sequenze di cui le generazioni future non potranno fare tesoro. Mi chiedo se le tracce vengano mai registrate prima che la macchina del ghiaccio Zamboni spazzi e ripulisca la pista. “Il tuo allenatore ti ha mai filmato, così poi potevi guardare il video e migliorarti, o ha mai fotografato i tuoi tracciati?”

“No,” dice Rob. “È una cosa che fai in solitudine. Ti allontani e stai per conto tuo. È anche un modo per trovare la concentrazione e la calma. Non mi è mai piaciuto che la gente parlasse – i genitori che vanno a trovare il figlio per parlargli, o quelli che ti comunicavano un’informazione del tipo: ‘Tua mamma tarderà un po’ stasera.’ Se un amico mi chiedeva: ‘Ehi, come va?’, mi distraeva.”

“Ascoltavi il ghiaccio, quindi?”

“Mi piaceva pattinare producendo il suono giusto. Quando spingevo sui pattini si sentiva una specie di scricchiolio: Ssssch. Cercavo di fare meno rumore possibile... All’inizio si tende a essere pesanti, e quando ti muovi nella giusta maniera, anche il ghiaccio fa il suono giusto. Nessuno mi ha mai detto: ‘Devi ottenere quel certo tipo di suono’ – ma capivi, per esempio, se qualcuno aveva fatto bene un salto. Non sentivi un patapum sul ghiaccio. Dal suono capivi che aveva azzeccato il salto. Il suono dei pattini sul ghiaccio è davvero adorabile. È incredibile come si possano fare questi salti altissimi e ricadere delicatamente sul ghiaccio.”

Ha ragione. È spaventoso. “Qual è il tipo di ghiaccio migliore?”

“Alcune piste diventano molto fredde. La temperatura ambiente della pista è diversa da quella del ghiaccio. A volte congelavo, e sentivo di non essere abbastanza veloce – quando il ghiaccio è troppo freddo tende a essere più friabile. L’ideale è quando ha sopra quasi la condensa, quando è pulito, e pattinando senti che è liscio. Riguardo alla qualità del ghiaccio, mi piace pensare di non essere stato una primadonna. Ma ci tenevo molto. Perché se era fatto in una certa maniera, potevi andare veloce, senza incontrare grande resistenza. È sottilissimo: uno spessore di sette dieci centimetri di ghiaccio sopra il cemento – quindi è meglio che sia bello liscio. Quello fresco è bellissimo. Durante le sessioni aperte al pubblico, con la gente che gira in tondo, sembra un vinile pieno di solchi – cerchi di attraversarlo e il tuo piede resta intrappolato in mezzo. Rallenti, e devi controllare bene dove metti i piedi, perché sei sopra le scie lasciate dalle altre persone. E se scivoli – dio mio, sembra carta vetrata.

“Quando esegui le figure, il ghiaccio dev’essere assolutamente pulito, liscio e privo di segni. La Zamboni gira attorno alla pista e lo taglia, ma lascia anche dell’acqua dietro di sé. Dopo una sessione particolarmente pesante, dovranno tagliare più ghiaccio del dovuto e gettare una maggior quantità d’acqua, che non si congelerà – per cui finirai per pattinare sul bagnato. Orribile. Non capisci dove stai andando. A volte vedi ancora i segni sul ghiaccio sottostante. O magari scopri che non si è congelato in maniera uniforme e che si sono formati dei piccoli avvallamenti. Se incappi in uno di questi, se sul ghiaccio c’è qualche asperità quando stai facendo le figure o i salti, allora sbandi.”

Il suo menzionare le irregolarità nel ghiaccio mi porta a chiedermi se per caso non abbia mai pattinato all’aperto, su quello naturale.

“No,” dice. “Ho sognato di farlo. Da piccolo sognavo di pattinare tra i campi fino a Oxford, il mondo intero era coperto di ghiaccio.”

“Pensa un po’,” dico, “per arrivare alla pista avresti potuto pattinare costeggiando il fiume da Bicester.” Rob ride di nuovo all’idea, e nella gelida notte si allontana per andare a scaldare la sua barca.

Parlando con Rob di piste da pattinaggio mi vengono in mente le piscine, versioni quotidiane di H20 in cattività che nel loro piccolo, artificialmente, contribuiscono a quel settantuno per cento del mondo che è l’acqua. Le piscine a cielo aperto svaniscono nello stesso istante in cui compaiono le piste di pattinaggio esterne. In autunno, resistenti teloni invernali vengono stesi sopra l’acqua delle piscine nei parchi e negli hotel di tutto il mondo, e l’acqua prosciugata. Nel frattempo, le piste commerciali fanno stagionalmente la loro comparsa nei piazzali dei principali musei e parchi pubblici. Immagino piste di pattinaggio che si congelano e si fondono, si congelano e si fondono senza sosta, viste dallo spazio.

Una domenica di mezza estate, Neddy Merrill, il protagonista di un racconto di John Cheever5, decide durante un party di percorrere a nuoto i dodici chilometri che lo separano da casa passando per le piscine dei vicini. “Gli sembrava di vedere, con l’occhio di un cartografo, quella sfilza di piscine, quel corso d’acqua quasi sotterraneo che si snodava attraverso la contea.” Nuota, e tra una piscina e l’altra scavalca siepi a piedi e corre nei vialetti dei giardini e attraversa persino un’autostrada, diventando sempre più esausto durante il tragitto. Nuota, ed entra in uno stato di semi incoscienza. “L’acqua rifrangeva il suono delle voci e delle risate, e sembrava tenerle sospese a mezz’aria.” Una piscina prosciugata – “questa interruzione nel flusso del suo corso d’acqua” – lo lascia amaramente deluso. Il suo viaggio crea una sensazione di irrealtà, di atemporalità. Sta per scoppiare un temporale. Quando finalmente arriva a casa, scopre di essere invecchiato di qualche decennio, e fatica a reggersi in piedi. La sua casa è buia, e vuota – la sua famiglia scomparsa.

Un pattinatore potrebbe viaggiare nello spazio e nel tempo come il nuotatore di Cheever? Considero le difficoltà – tanto per cominciare, ci sono meno piste di pattinaggio che piscine. Dopotutto, quante persone hanno una pista di pattinaggio privata? E oltre a essere da un punto di vista geografico implausibile, cambierebbe anche il tono del racconto. No – l’immersione del nuotatore nell’acqua ha implicazioni diverse. Neddy Merrill è quasi nudo, indossa solo un paio di calzoncini da bagno. L’abbigliamento, anzi la sua mancanza, lo fa sembrare più vulnerabile e tinge la sua tracotanza di un elemento di comicità. Un pattinatore che si accinga a compiere un lungo tragitto dovrebbe essere ben infagottato e risoluto, al pari degli atleti olandesi che gareggiano tra i canali e i fiumi ghiacciati della Frisia nell’annuale Elfstedentocht (“Tour delle undici città”), facendo oscillare le braccia mentre i pattini sfrecciano ad alta velocità. Un pattinatore non verrebbe mai sorpassato dal tempo.

IV

La superficie della pista di pattinaggio svolge un ruolo fondamentale nel curling – uno sport unico nel suo genere, nel quale i giocatori influenzano la velocità e la direzione del disco non entrandoci in contatto, ma levigando il ghiaccio su cui si muove. C’è uno specifico avamposto dedicato a questo sport in Inghilterra – a Tunbridge Wells – ma decido di prendere il treno per il Fife. Voglio visitare il Kinross Curling Club, che si autoproclama il più antico al mondo (nel 2018 ha celebrato il suo trecentocinquantesimo anniversario). Molte delle regole del curling furono definite qui, nel 1838. Ma non sono le regole del gioco di cui spero di venire a capo, quanto piuttosto il modo in cui viene preparato il ghiaccio.

A fine ottobre la stagione è già ben avviata, e nel tabellone delle prenotazioni segnate sulla lavagna bianca a bordo pista non sembra esserci nemmeno uno spazio vuoto. Il mio treno esce dalla stazione di Londra prima dell’alba. L’arancione scintillante della città agghindata a festa per Halloween cede presto il passo ai cieli scuri delle Home Counties. Il sole sorge su campi tardivi di lino ricoperti di fiori blu mentre viaggio verso nord. A mezzogiorno sto attraversando il nuovo Forth Road Bridge che conduce al Fife.

Le oche zamperosee vengono qua a svernare, sorvolando in grandi stormi il Loch Leven verso sud e spostandosi da un luogo all’altro in formazioni a V per sfruttare la scia delle compari in testa al gruppo.

Il circolo di curling è nascosto dietro un imponente albergo con campo da golf sulla strada maestra di Kinross. Mentre cammino attorno all’edificio senza finestre in cerca di un ingresso, sento il soffice pulsare dell’impianto di refrigerazione che sovrasta il sibilo del vento. Dentro c’è un tempio argenteo consacrato al freddo – sopra di me, sul soffitto, dai pannelli termoriflettenti di alluminio pendono le enormi tubature stropicciate del deumidificatore. La pista occupa gran parte del pavimento. Sono arrivata un’ora prima dell’inizio del campionato femminile, la Ladies Super League, giusto in tempo per seguire le fasi finali dei preparativi. In fondo alla sala vedo una figura vestita di blu che cammina avanti e indietro metodicamente, spruzzando acqua sul ghiaccio.

Steven Kerr dirige la pista di Kinross da oltre venticinque anni, creando il campo di gioco e prendendosene cura nel corso della stagione. Le gocce d’acqua che sta spruzzando creano l’effetto pebble (“ciottolo”) che permette alla pesante pietra di granito (la stone) di scivolare facilmente sul ghiaccio. L’abilità dell’iceman consiste nel distribuire l’acqua in modo uniforme, in maniera tale che le gocce cadano su ogni centimetro quadrato della pista. A questo scopo, regola con precisione l’andatura e persino l’oscillazione del braccio. Una volta che il pebble si è congelato, Steven deve completare le ultime operazioni sulla pista prima che la superficie sia pronta per giocarci sopra. Raschia il pebble con una lama a ghigliottina, detta nipper, il cui suono mentre tosa il ghiaccio ricorda quello della grandine su un tetto di lamiera. Dopo aver tolto le cimature, ritorna sulla pista e spazzola delicatamente il ghiaccio con una pelle di pecora per asportare i residui; infine sistema dieci pietre da curling dentro un telaio di legno e dispone l’intera rastrelliera sulla pista. Lo scopo di questa manovra, chiamata anche first end, è rompere il ghiaccio a beneficio dei giocatori – una filosofia che somiglia al gesto con cui si scarta il primo pancake cotto in padella.

Steven libera le pietre dal telaio perché si raffreddino sul ghiaccio e mi mostra l’area levigata sulla base che entrerà in contatto con la pista. Domani, mi racconta Steven, livellerà il pebble danneggiato e ripeterà la procedura daccapo. Il movimento delle pietre, delle scope e delle scarpe – per ironia della sorte la stessa attività che richiede un ghiaccio perfetto – ben presto ne distrugge la patina. Quello dell’iceman è un lavoro continuo; deve esaminare scrupolosamente le condizioni del ghiaccio. Mentre stiamo parlando, controlla l’indicatore della temperatura per accertarsi che la sua superficie sia a -4,5°C. Un grado in più, o un grado in meno, e la pietra smetterà di roteare (curl, in inglese).

Tocco un attimo il ghiaccio. Al tatto sembra avere la solidità di una finestra di vetro smerigliato in un mattino invernale. Si stenta a credere che possa essere così fragile. Qualsiasi parte del corpo entri in contatto con esso alzerà la temperatura. L’iceman impara a osservare l’attività sulla pista come attraverso il prisma di un termografo a infrarossi: un giocatore che protende una mano per bilanciarsi mentre scivola in avanti con la pietra diventa una sagoma luccicante di giallo e rosso su un freddo sfondo blu. Occorre prendere in considerazione persino il numero di giocatori che usano il ghiaccio. Quasi non mi capacito che la mia presenza qui costituisca una minaccia. “Vieni, andiamo a berci una tazza di tè,” dice Steven per invogliarmi a uscire dalla pista.

Sono curiosa di sapere com’è che uno diventa un iceman. La scuola pubblica che ho frequentato negli Scottish Borders incoraggiava lo sci e il golf, ma non il curling. E nessuno mi ha mai suggerito di intraprendere la carriera di iceman (ma se è per quello nemmeno quella di scrittrice). Steven mi racconta che, terminati gli studi, iniziò a lavorare come apprendista ottico. Poi un amico lo invitò nella pista di Stirling, e scoprì che il ghiaccio era molto più attraente degli occhi. Gioca? Be’, un tempo sì, dice, ma come svago non è proprio il massimo per uno che qui ci bazzica sempre per lavoro...

Le ladies del campionato si sono radunate al bar, che è appollaiato sopra l’ambiente principale come l’organo di una chiesa. Lo spazio è rivestito di materiale isolante per impedire che la polvere o il calore corporeo raggiungano il ghiaccio. Ma non trasmette una sensazione di claustrofobia, perché per tutta la lunghezza del bar corre una vetrata che si affaccia sulla pista coi suoi bersagli rossi, bianchi e blu, le cosiddette “case”. Le signore sorseggiano il tè e si aggiornano sulle ultime notizie. C’è poco tempo da perdere. Alcune si stanno già chiudendo il gilet con la zip, altre tirano fuori le calzature. Mi mostrano la suola liscia in teflon che consente loro di scivolare sul ghiaccio, e la singola suola in gomma antiscivolo (detta gripper) che viene messa sopra una scarpa, in modo da frenare. Al suono della campanella scendono sul campo. “Dopo di te, Maggie.” “Grazie, Sheila.”

Una donna rimane al bar. Jean ha smesso di giocare di recente, e si offre di farmi il resoconto di quello che succede sotto di noi. Con l’accento reso ancora più marcato dal raffreddore, spiega che la partita è suddivisa in otto mani (ends), durante le quali i giocatori lanciano le loro pietre verso la casa. “L’idea è far arrivare un certo numero di stone nel centro esatto della casa. Un po’ come a bocce,” prosegue Jean. “Però è un gioco molto strategico.”

Qualcuno, ricordo di aver letto da qualche parte, ha detto che giocare a curling è come fare una partita di scacchi sul ghiaccio.

Jean mi indica con precisione le quattro giocatrici di entrambe le squadre. “La prima persona che lancia si chiama lead, poi c’è la second, poi la third... e poi la skip. La skip va dalla parte verso cui vengono lanciate le pietre e detta le tattiche del gioco.”

Già non mi ci raccapezzo più. “Quindi la skip sta a quell’estremità?”

“Be’, alcune stone vengono lanciate da quella parte, e vanno in giù,” dice Jean con volto impenetrabile, sorseggiando un merlot, “e altre stone sono da questa parte e vanno in su.”

Adesso ho capito: il ghiaccio è come un campo sportivo qualsiasi, con una porta da una parte e una dall’altra. Il lead tira la pietra facendola slittare sul ghiaccio; man mano che avanza, il second e il third spazzano davanti alla pietra con le loro scope. La pietra mi fa pensare a un monarca bambino: gli occhi di tutti convergono su di lei, e il suo movimento all'apparenza indipendente viene controllato con intelligenza. Il grado in cui il second e il third tolgono il ghiaccio dalla superficie modificherà la traiettoria della stone. La guardo spostarsi con grazia tra la lead, che scivola lenta, e le compagne di squadra intente a spazzare in maniera frenetica, e poi urtare contro le altre pietre con uno schiocco percussivo.

“Questa curler, qua, vuole cercare di leggere il ghiaccio...”

“Di qua! Di qua!” grida la skip. Per poco la lead non fa la spaccata mentre scivola in avanti con la pietra.

“... Oh, è molto pesante,” dice Jean con disappunto. “Attraverserà tutta la casa, credo. Non ha colpito niente – quel che si chiama un ‘liscio’. Devi essere in grado di prevedere l’oscillazione della pietra sul ghiaccio, dopodiché devi spazzare in modo da dare alla stone abbastanza ghiaccio da farla curvare all’indentro.

“Adesso stanno provando a colpire quella rossa al centro, e quando torna indietro incoccerà quell’altra rossa, e dopo lo split le due pietre usciranno dal gioco. Questo se la giocatrice fa la giocata giusta. Altrimenti, spingerà la rossa contro la gialla, ma è un colpo insidioso. Ha cannato l’ultimo tiro, quindi non può permettersi di sbagliare stavolta. Oh! È troppo larga. Vedi che non sta seguendo la linea centrale? E va troppo forte. Capace che canna anche questo. E difatti. Oh, Lizzie... Sarà tutt’altro che felice.”

La luce ha un riflesso diverso sul ghiaccio che è stato abraso dalla stone o sfregato dai piedi delle giocatrici. Sulla superficie della pista stanno iniziando a comparire dei segni grigi. “È qualcosa di cui bisogna tenere conto nel prosieguo della partita?” chiedo.

“Be’, più il ghiaccio è affilato, più è veloce. Basta l’usurarsi del pebble a causa dello sfregamento dei piedi e della scopa. Gran parte del gioco avviene nella parte centrale, che quindi diventa più affilata – se vuoi che la pietra sia più lenta, puoi stare sui lati. Ottimo colpo, Maggie!”

“Queste giocatrici vengono da tutto il Fife?”

“Sì, la ragazza a destra sta a Linlithgow. Poco più in là c’è sua sorella, che vive a Milnathort. Una è di Braehead, vicino a Glasgow, una di St Andrews. Le partite di questo campionato vengono disputate in un sacco di posti.”

Tra una partita e l’altra cammino fino alla riva del Loch Leven. È una giornata tersa, e sulla banchina alcuni visitatori stanno salendo su una barca diretta verso una delle sette isole del loch. Il tour prevede una sosta al castello dove fu imprigionata – e dal quale poi fuggì – Maria Stuarda, regina di Scozia. Mi incuriosisce molto di più il St Serf’s Inch, un’isola situata nell’estremità più lontana del loch. A quanto pare, i monaci del monastero locale inventarono il curling nel XVI secolo, anche se suppongo sia una storia da prendere con le molle. Ma in una giornata fredda come questa è facile immaginarsi il lago ghiacciato con gli agostiniani che si divertono a giocarci sopra nelle brevi ore di luce invernale.

A nord si trova il villaggio di Kinnesswood, dove il padre della meteorologia, Alexander Buchan, nacque nel 1829. Buchan insegnava in una scuola, ma a causa di un problema alla gola che gli impediva di alzare la voce dovette ben presto cambiare lavoro. Anziché dissertare per ore davanti ai suoi allievi, iniziò a mappare il movimento dei venti sulla superficie del pianeta. Nell’autunno e nel primo inverno del 1863 osservò il modo in cui i fronti meteorologici si spostavano in Europa, e ne disegnò tabelle dettagliate. Nel suo Handy Book of Meteorology (Manuale di meteorologia), pubblicato qualche anno dopo, tracciò l’itinerario di una tempesta atlantica dall’America all’Europa settentrionale, usandolo a riprova della sua scoperta: i punti di uguale pressione atmosferica possono essere collegati su un foglio di carta, formando linee simili ai contorni sinuosi delle mappe. Buchan fu il primo a servirsi di queste isobare per prevedere le condizioni atmosferiche, come ancora oggi fanno i meteorologi. Un’altra delle sue teorie, quella delle “Buchan Spells”, è stata screditata. Egli ipotizzò che il cambiamento graduale delle temperature riscontrato nel corso di un anno fosse soggetto a nove interruzioni prevedibili, a suo avviso dovute al variare della pressione in certi periodi dell’anno. La prima ondata di freddo (cold spell), secondo Buchan, dovrebbe avere inizio la settimana precedente il giorno di San Valentino; la prima ondata di caldo (warm spell) durante la seconda settimana di luglio. Controllo la sua tabella: la prossima, che cade tra il 6 e il 13 novembre, sarà un’ondata di freddo. Segno le date sul calendario, e il 7 novembre scosto le tende e, manco a farlo apposta, vedo la prima gelata.

La presenza o meno del ghiaccio dei campi da curling varia in base alla stagione, proprio come per il ghiaccio naturale. Al di fuori del calendario del curling, che va da settembre ad aprile, molti giocatori si danno al golf. Nel frattempo l’iceman pulisce la pista vuota. Spegne il sistema di refrigerazione. Rimuove il ghiaccio sciolto dalla fossa cementata. Provvede all’approvvigionamento del gas e alla pulizia degli impianti, e ripara qualsiasi scrostatura della vernice.

Poi viene ricostruito il campo di ghiaccio. L’iceman pompa glicole dall’impianto di refrigerazione attraverso delle condutture nascoste sotto la pavimentazione di cemento, portando la temperatura della superficie a -4,5°C. Queste condutture sono il complice segreto dell’iceman, e manterranno inalterata la temperatura del manto di ghiaccio fino alla fine della stagione. Poi si aggiunge l’acqua. Anche se ufficialmente si parla di “irrigazione”, l’iceman non si limita a infilare un tubo nella fossa aspettando che esca il liquido. È un compito che richiede grande pazienza e precisione; l’acqua va aggiunta per gradi, e bisogna controllare il livello tutte le volte che uno strato si congela.

“Quando irrighiamo,” mi informa Steven, “dobbiamo regolarci in base alla quantità d’acqua che esce dalla conduttura. Ho sempre voluto aumentare il getto, ma è più difficile di quanto sembri. Abbiamo una portata idrica compresa tra uno e un metro e settantacinque centimetri cubi l’ora,” prosegue, sollevando quasi un quesito matematico da scuola elementare. “Supponiamo di irrigare per un’ora con una portata di un metro cubo l’ora: verseremmo mille litri d’acqua. Una volta congelatisi, questi mille litri d’acqua danno due millimetri di ghiaccio.”

Non si tratta solo di risolvere questioni numeriche. Per gestire una pista di curling, oltre che per praticare lo sport, bisogna avere giudizio. Al primo strato d’acqua, una leggera spruzzata che forma i due millimetri iniziali, seguiranno una decina di irrigazioni nell’arco di cinque giorni. Quando il manto di ghiaccio è pressoché completo, viene pitturato con tre mani di vernice ad acqua. Vengono disposti i segni: fili neri di lana che fungono da linee guida tesi da una parte all’altra del campo; i cerchi rossi e blu delle case vengono misurati con precisione millimetrica e poi verniciati a mano. Poi tutta la pista viene ancora leggermente irrorata e infine livellata con le ultime otto irrigazioni. L’intera procedura richiede circa tre settimane, e quando la pista è ultimata l’iceman avrà percorso un totale di ottanta chilometri.

Steven mi manda il link di un sito web per professionisti di curling ice, gestita da un’organizzazione nota come The Circle (Il Cerchio), acronimo per The Curling-Ice Research Centre for Leisure and Excellence. Steven fa parte del comitato, insieme al collega icemaker John Minnaar, e ha contribuito alla definizione di curling ice adottata dalla World Curling Federation. Il sito web contiene le informazioni più aggiornate sul ghiaccio, ma ci sono degli avvertimenti per quegli esperti che sopravvalutano le propria abilità con questa sostanza scivolosa. Scrive Minnaar: “Non tutto ciò che riguarda il curling o il ghiaccio del curling può essere spiegato, e la storia ha lasciato dietro di sé un gravoso carico di fraintendimenti per cui la scienza non ha ancora una risposta.” Minnaar vede il sito come uno spazio per pubblicare ragguagli “che sollevano quesiti per i quali non esiste una vera risposta”. In uno di questi ragguagli scritti per The Circle, intitolato Good Ice (Ghiaccio buono), Minnaar cattura l’irresistibile magia dell’arte dell’icemaker:

Quel curler, che con tanta grazia scivola verso la scopa e lancia la stone imprimendole quella piccola spinta rotatoria in senso antiorario che fa sì che la stone si trovi già a un passo dalla linea, è un prezioso cliente e un curler competente, e là c’è una linea sicuramente confusa, ma per il resto il ghiaccio va bene. E quel curler, che all’ultimo momento imprime sul manico della sua stone una rotazione in senso orario per scagliarla di lato di almeno sessanta centimetri, sa benissimo che il ghiaccio non va bene, perché la stone non ha curvato nemmeno di un centimetro. E i curler della squadra ospite, abituati a giocare su un’acqua ghiacciata in cui è necessario imprimere una certa forza alla stone per raggiungere l’hog, non possono sbagliarsi TUTTI, se è vero che tutte le loro stone hanno oltrepassato la backline perché il ghiaccio è troppo affilato. [...] Il ghiaccio buono è livellato e compatto. È liscio come la seta sotto lo slider, ma non è scivoloso. Ha una consistenza delicata sotto la stone, e non trasmette nessuna ruvidezza al manico, eppure è così sensibile che il più piccolo errore commesso durante un lancio influenzerà la traiettoria della stone. Gli scopatori sapranno che la stone scivolerà anziché avanzare a fatica, e spazzando possono farla arrivare esattamente dove vogliono e imprimerle una traiettoria perfettamente rettilinea come desiderato. Lo skip saprà di potersi fidare del ghiaccio in qualsiasi punto e di potersi sbizzarrire in tutte le giocate più audaci, gli accosti, le bocciate di fino, le collisioni con spinta verso gli angoli di un’altra stone e i tripli colpi vincenti.

Il gioco del curling è la versione moderna delle partite all’aperto giocate fin dal XVI secolo, dall’epoca in cui i monaci di St Serf’s fecero roteare per la prima volta una pietra sul loch. A Kinross il curling divenne uno sport per agricoltori, mercanti e muratori – soprattutto per i primi, che nelle giornate più calme d’inverno si ritagliavano un po’ di tempo per giocare, lasciando la fattoria nelle mani dei braccianti mentre si dirigevano verso il loch. Guardando alcune foto d’archivio degli anni cinquanta, la mia attenzione è calamitata da una donna che indossa una comoda gonna scozzese – potrebbe essere la zia di una delle atlete di stamane. Usa una scopa per spazzare il ghiaccio e un grosso macinapepe di legno come casa.

Oggi i giocatori non sono immuni al fascino romantico del ghiaccio naturale. A Steven chiedo come sia giocare sul loch. Ammette che il ghiaccio va bene, ma il vento potrebbe essere variabile, e questo influisce sul gioco – rendendo il tiro difficile quando si è controvento, facile col vento a favore. Mi spiega che i cerchi della casa non vengono verniciati sul ghiaccio con colori primari, come al club – sono solo tracciati col badile, per cui li si vede a malapena. Ride. L’obiettivo di questo tipo di curling non è colpire la casa – ci si scalda un pochettino e si beve un goccio di whisky, tutto qui. In fin dei conti, non si può prendere troppo sul serio il punteggio quando la partita può essere interrotta in qualsiasi momento dall’arbitro, vuoi per via del disgelo, o di un’imminente nevicata, vuoi perché inizia a farsi buio.

Il Grand Match o Bonspiel – il torneo annuale di curling organizzato dal Royal Caledonian Club tra il nord e il sud della Scozia, al quale partecipano oltre duemila curler – si disputa ancora oggi all’aperto, se c’è ghiaccio a sufficienza. Il Loch Leven è uno dei luoghi in cui per tradizione si gareggia. Sono necessarie almeno due settimane di tempo freddo perché il loch si congeli, e, se il ghiaccio tiene, per motivi di sicurezza una commissione lo fora per verificare che lo spessore sia pari ad almeno diciotto centimetri. Succede di rado. Oggi come oggi il Grand Match viene di solito disputato al coperto, ma tutte le persone con cui parlo concordano nel dire che non è affatto la stessa cosa.

Nel corso degli anni sono stati introdotti diversi cambiamenti nel curling, non da ultime le innovazioni nella tecnologia di preparazione e manutenzione del ghiaccio che permettono ai giocatori di perfezionare la propria tecnica al coperto, ma i dati che balzano di più agli occhi dei curler di Kinross sono che è diminuito il numero di iscritti al circolo, che il bar è più silenzioso e il tabellone delle partite più vuoto. A differenza del golf, nato in Scozia e poi diventato di moda e diffusosi a livello internazionale, il curling rimane uno sport di nicchia. A colpirmi, però, è la calorosa atmosfera cameratesca di quest’attività fredda. Ci sono strette di mano prima dell’inizio e conversazioni al bar tra le squadre avversarie dopo la fine della partita. Nello stesso regolamento del Royal Caledonian Curling Club è contenuta una nota di analogo tenore: “Lo spirito del curling esige grande sportività, disposizione alla gentilezza e condotta onorevole.”6 Un vero giocatore, dice, perderebbe piuttosto che vincere in modo sleale. L’indomani rimando la mia gita a Edimburgo, e, per puro sfizio, torno nel bar al primo piano per guardare un’altra partita. Questa volta le squadre hanno meno esperienza, e vedendo i loro passi incerti sul ghiaccio, i loro tiri imprecisi, mi rendo conto di quanta bravura si celasse dietro all’apparente facilità delle giocate del giorno prima.

Al bar ordino un toast, che mi viene servito con dell’insalata croccante per contorno. Jim Steel, uno degli addetti alla pista di ghiaccio, mi si avvicina piano piano per accertarsi che non mi manchi nulla e si ferma a scambiare due chiacchiere con me.

“Cos’è che fa di Steven un iceman così bravo?” domando.

“L’esperienza,” dice, aggiungendo, dopo una pausa di riflessione, “e la curiosità. Perché ci sono tantissime cose che possono cambiare il ghiaccio: la temperatura dell’aria esterna, l’umidità, il numero di persone sulla pista. E ogni qualvolta si presenta un problema, Steven si mette sempre a indagare finché non lo risolve. Esamina tutte le variabili finché non scopre qual è la causa. E non sa cosa sia l’orgoglio – no, lui alza la cornetta e chiede consiglio a qualche collega. Conosce icemen in tutto il mondo.”

Mi sovviene l’immagine di un oculista. Sta controllando un occhio, che si dice sia l’organo più complesso del corpo umano. Il suo sguardo, spingendosi oltre la solida membrana della sclera bianca, penetra le strutture che si nascondono dietro di essa, i bastoncelli e i coni deputati alla visione della luce e dei colori. Al paziente offre innumerevoli opzioni alternative, componendo e scomponendo varie combinazioni di lenti, finché la soluzione per una visione perfetta si manifesta nella sua evidenza.

Prima di lasciare la Scozia, visito una pista di curling costruita molto tempo prima che si iniziasse a giocare al chiuso, e senza il beneficio delle tecnologie di refrigerazione. Da Edimburgo prendo il treno per Glasgow e scendo in una stazione deserta a metà strada tra le due città. Le siepi di biancospino, prive di foglie, mostrano rami coperti di lichene grigio; solo la ginestra spinosa è ancora in fiore. Aspetto un autobus a bordo strada.

“Vuoi andare al ’Syth?” chiede il conducente. Dev’essere una meta gettonata.

Secondo Wikipedia – e secondo la homepage – il Kilsyth Curling Club contende al Kinross il titolo di più antico del mondo. Venne fondato nel 1716. Lo stagno che fu creato per i suoi giocatori presso la proprietà fondiaria di Colzium Estate è probabilmente (la storia del curling è costellata di incertezze) la pista di ghiaccio più antica del mondo. Quella di questa zona è una storia di costruzione e di trasformazione – dalle rovine distanti pochi chilometri del Vallo Antonino che corrono da una costa all’altra, e che delimitavano la frontiera settentrionale dell’impero romano, agli attuali complessi immobiliari, i cui accattivanti nomi non riescono a dissimulare il loro insidioso insinuarsi tra le cinture verdi del Lanarkshire. Le case ancora disabitate di Bonny Side Brae, le loro finestre scure e vuote che si stagliano contro l’immacolato intonaco di ghiaietto, paiono ruzzolare giù per il ripido pendio come massi che si staccano da un ghiacciaio.

Colzium Estate, un’ex residenza privata, è oggi un parco pubblico, a cui si accede da un viale fiancheggiato da tassi e faggi. Un cartello sul margine del bosco vieta di seppellire animali domestici. Un altro, con tanto di graffiti, indica le sanzioni previste in caso di uso improprio del parco giochi per bambini, che sembra essere l’attrazione di punta questo pomeriggio; l’uso che ne stanno facendo è del tutto appropriato. Oltre il parchetto c’è un’area picnic, al di là della quale, come indica un altro cartello, troverò lo stagno.

Lo stagno dev’essere sempre stato poco profondo, ma oggi sul suo alveo cresce l’erba. Quindi una parte consistente dello stagno, tecnicamente, non è uno stagno. I lembi erosi sono stati di recente riparati con rocce tenute ferme con fil di ferro. Al centro è ormeggiata un’isola di anatre, ma siccome le erbacce sono cresciute fino a lambire l’isola e il livello dell’acqua è sceso, ormai l’isola è attaccata alla “terraferma”. Alcuni gabbiani volteggiano sopra le pozzanghere, e litigano per aggiudicarsi gli avanzi. Una figura in una tuta da ginnastica rosa sta camminando a passo rapido attorno al perimetro. Oltre si stende un filare di alberi, e oltre questo, una linea di giovani arboscelli non ancora affiorati dal loro imballaggio di plastica – poi ecco spalancarsi l’ampio panorama: le case di uno dei nuovi complessi immobiliari edificati a ridosso della vecchia proprietà fondiaria. Gli arboscelli potrebbero essere stati piantati affinché un giorno le case non siano più visibili, o forse perché i residenti vogliono cautelarsi dagli sguardi indiscreti dei turisti come me. Più tardi, documentandomi, leggo che la costruzione del complesso immobiliare è stata oggetto di controversie: si trova in una zona a rischio inondazione. Inoltre, vengo a scoprire, Cavalry Park (“Il parco della cavalleria”) ospita il cimitero dei combattenti che persero la vita nella battaglia di Kilsyth del 1645, quando le truppe realiste sconfissero l’ultimo esercito dei covenanters scozzesi.

I primi curler non rimasero coinvolti nel conflitto. Ma vista la sorte toccata al campo di battaglia lì accanto, mi chiedo, quanto a lungo durerà lo stagno, che malgrado la sua rilevanza storica è in disuso? Il Kilsyth Curling Club si è trasferito nella pista su ghiaccio coperta di Crossmyloof, a Glasgow, negli anni settanta del XX secolo, e oggi i curler giocano nell’apposito padiglione del palazzetto dello sport di Stirling più avanti lungo la strada. Torno indietro a piedi fino alla fermata dell’autobus costeggiando un corso d’acqua che aziona la ruota di un mulino e si snoda attorno al pendio della collina. Dal sentiero riesco a vedere dall’alto i lindi complessi residenziali a forma di vaschette per il ghiaccio, e il circolo bocciofilo, dove un giardiniere rastrella dal prato tosato con cura del campo di bocce le foglie cadute.

V

“Forse è oro: oppure luccica soltanto. Non saprei dire,” scrisse l’inventore Geoffrey Pyke. “Ci sto lavorando sopra da troppo tempo, e sono accecato.”

Pyke proponeva di usare un gigantesco iceberg come portaerei in mezzo all’Atlantico. Durante la seconda guerra mondiale, le forze alleate avevano bisogno di una piattaforma in cui gli aerei, dovendo essere riforniti di carburante per percorrere lunghe distanze, potessero fare scalo. Perché non utilizzare un materiale che si trovava già nell’oceano e presentava il vantaggio di mimetizzarsi naturalmente? Perché non creare un bergship?

Il “Mastodontico Vascello Inaffondabile”7 ebbe l’avallo degli alti ufficiali e ricevette il nome in codice “Progetto Habakkuk”, in omaggio al profeta ebraico Abacuc, che aveva trascritto le parole di Dio: “Guardate, maravigliatevi e siate stupefatti! Poiché io sto per fare ai vostri giorni un’opera, che voi non credereste, se ve la raccontassero.”

Quand’è che i superiori di Pyke smisero di credere nel suo bergship? Non, sembrerebbe, dopo che dai primi studi risultò che gli iceberg sarebbero stati inadatti a scortare dei velivoli (essendoci troppo poco ghiaccio sopra l’acqua). Né quando si appurò che nemmeno i lastroni di ghiaccio galleggiante avrebbero funzionato (essendo troppo sottili). E neppure quando si suggerì che era necessario dotarsi di un iceberg artificiale (il che comportava una discreta mole di lavoro). Una serie di esperimenti compiuti su un lago delle Montagne Rocciose del Canada culminò con la realizzazione di un prototipo lungo diciotto metri e del peso di mille tonnellate. Questo monolito, si scoprì, era troppo fragile, ma i lavori per il Progetto Habakkuk andarono comunque avanti.

Il bergship non era la prima sortita di Pyke col ghiaccio. Durante la messa a punto dell’Operazione Plough, un piano alleato per colpire un bersaglio idroelettrico nella Norvegia o nell’Italia invase dai tedeschi, aveva concepito l’idea di nascondere le truppe dentro i ghiacciai. In quel periodo si era informato sul conto di Max Perutz, un biochimico ed esperto di cristallografia che in epoca pre bellica aveva studiato la trasformazione della neve in ghiaccio nei ghiacciai della Svizzera. Ora Pyke incaricò Perutz di verificare se fosse possibile creare una nuova, duratura forma di ghiaccio.

Perutz sapeva che in America erano in corso delle ricerche volte a rendere le plastiche più resistenti rinforzandole con la cellulosa, e riteneva che si potesse applicare lo stesso metodo al problema postogli da Pyke. Nella sua affascinante autobiografia, Perutz racconta come il laboratorio messo a sua disposizione rispondesse sia alle caratteristiche da lui specificate sia ai più stringenti requisiti di sicurezza: “Il Comando operazioni combinate requisì un grosso magazzino di carni cinque piani sottoterra nello Smithfield Market, che si trova in vista della cattedrale di San Paolo, e ordinò delle tute riscaldate con resistenze elettriche, come quelle di cui erano muniti gli aviatori, per mantenerci caldi anche a temperature inferiori a 0°C.”8 Nascosto dietro uno schermo di carcasse animali, con alcuni membri di un commando nel ruolo di tecnici, eresse un’ampia galleria del vento in cui, da programma, sarebbero state mescolate acqua e polpa di legno. Il piano era talmente segreto che persino Perutz ignorava a cosa servisse quel materiale. Segò il pykrete (chiamato così, ovviamente, in onore di Pyke) suddividendolo in blocchi: “Quando sparammo un colpo di fucile contro un blocco di ghiaccio puro [...] il blocco andò in frantumi; nel pykrete la pallottola scavò un piccolo cratere e fu assorbita nella massa senza provocare alcun danno.” Scoprì che il ghiaccio composto per il quattro per cento di polpa di legno era resistente come il cemento e fondeva in maniera relativamente lenta.

Delle tante storielle curiose che si sono accumulate intorno all’enigmatica figura di Pyke e alle sue invenzioni, quella a cui più di ogni altra vorrei credere fu svelata da lord Mountbatten in un discorso che tenne dopo un ricevimento al termine della guerra. Si era recato al Chequers, la casa di campagna del primo ministro, per consegnare un blocco di pykrete, ma un assistente avvisò Mountbatten che Churchill stava facendo un bagno. Intuendo che si trattava del luogo ideale per dimostrare le proprietà del pykrete, Mountbatten fece irruzione nella stanza. Churchill, a quanto pare, fu deliziato dal pykrete, che si comportò egregiamente, galleggiando senza sciogliersi, persino nella vasca calda. Più semplice da verificare è la missione transatlantica di Mountbatten in occasione della Conferenza di Québec, a cui, nel 1943, presenziarono Churchill, Roosevelt e altri capi politici. Mountbatten decise di offrire ai delegati un saggio della resistenza del pykrete, come già fatto da Perutz – sparandogli. Il proiettile rimbalzò contro il blocco di ghiaccio e sfiorò un ammiraglio prima di scomparire conficcandosi in un muro.

Malgrado l’evidente resistenza del pykrete, il bergship non fu mai completato. I costi del Progetto Habakkuk continuavano a lievitare, e prima ancora che gli esperimenti di Perutz fossero stati portati a termine, l’autonomia di volo degli aeroplani era stata aumentata in misura tale da permettere di coprire la distanza del medio Atlantico. Al progetto non furono risparmiate critiche: per esempio, la quantità di polpa di legna richiesta avrebbe ridotto le scorte disponibili per la produzione cartaria, con conseguente scarsità di libri in tempo di guerra. Ma Pyke non si scoraggiò. Continuò a escogitare soluzioni geniali e brillanti, e iniziò a interessarsi alle possibilità offerte dall’acqua super raffreddata – vale a dire, acqua la cui temperatura viene abbassata sotto lo zero senza che congeli. Pyke sosteneva che potesse essere usata come arma di guerra: pompandola dalla nave avrebbe potuto formare all’istante dei baluardi di ghiaccio, oppure la si sarebbe potuta spruzzare direttamente sui soldati nemici. Perutz trattava con disprezzo queste strampalate fantasticherie. Dopo la guerra, il comportamento di Pyke diventò sempre più stravagante, finché nel 1948 non si tolse la vita, lasciando il suo nome a un materiale che doveva ancora trovare la sua applicazione.

Nel frattempo per il pykrete sono state prospettate nuove modalità di impiego che puntano ben oltre l’Atlantico: l’isolamento delle navicelle spaziali, e, addirittura, la creazione di architetture sostenibili per le colonie su Marte. Alcune proposte, come il Mars Ice Dome, un modello abitativo marziano a forma di cupola, si ispirano agli igloo, ma prevedono l’utilizzo di strutture gonfiabili riempite di pykrete al posto dei blocchi di ghiaccio. Le strutture verrebbero riempite con le abbondanti riserve d’acqua presenti sotto la superficie di Marte, il cui clima freddo fornisce un ambiente ottimale per il ghiaccio. La fibra che serve a rinforzare il materiale la si potrebbe estrarre sul pianeta stesso o ottenere riutilizzando quella dei paracaduti dei lander. La NASA arriva persino ad affermare che l’idrogeno contenuto nell’acqua schermerebbe quelli che il suo sito web definisce “raggi cosmici galattici”. Nello spazio, il pykrete porterebbe anche dei vantaggi estetici; come ha spiegato alla NASA Kevin Kempton, che dirige l’équipe di ricerca della Langley Mars Ice Home: “Tutti i materiali che abbiamo selezionato sono traslucidi, in modo che dall’esterno possa entrare un po’ di luce, e per far sì che gli astronauti si sentano più dentro una casa che chiusi in una caverna.”9

Sulla Terra, invece, il pykrete è stato usato nella realizzazione del progetto di un ponte abbozzato in origine da Leonardo da Vinci nel 1502. L’artista aveva concepito un’arcata in pietra, abbastanza alta da consentire il passaggio dei bastimenti, che avrebbe dovuto unire le due sponde del Bosforo, stabilendo un collegamento tra Europa e Asia. Sarebbe stato il ponte più lungo del mondo, all’epoca, ma i progetti furono rifiutati dal sultano Bayezid II e andarono persi fino al 1952. Nel dicembre 2015, in Finlandia i ricercatori della Technische Universiteit Eindhoven hanno tentato di ricrearlo. Il ponte è crollato la notte prima della sua apertura al pubblico.

Mancando qualche ora alla partenza del treno dalla stazione di Waverley a Edimburgo, mi dirigo verso la New Town in cerca di un bar. Dentro il Globe, un’intera parete è tappezzata con la stampa di un’antica carta del mondo. Da dove sono seduta, riesco a vedere l’oceano Atlantico settentrionale e le terre limitrofe: Terranova e Groenlandia, più l’“i. di Disko”. La Groenlandia appare come la versione distorta della nazione che conosco dalle mappe moderne, i margini incerti segnati con una linea tratteggiata.

La Chart of Magnetic Curves of Equal Variation10 (Carta delle curve magnetiche di uguale declinazione) fu pubblicata per la prima volta sotto forma di tavola illustrata in un popolare atlante scozzese del mondo. L’edimburghese Charles Black e lo zio Adam fondarono la loro casa editrice nel 1807. Oltre ai romanzi di Walter Scott, nel corso del XIX secolo diedero alle stampe diversi atlanti, modificando, integrando e aggiornando le incisioni contenute in ogni edizione sulla scorta dei rilevamenti ottenuti dalle più recenti spedizioni. La carta, basandosi sul viaggio compiuto nella regione da sir James Clark Ross nel 1831, fissa il Polo Nord Magnetico in corrispondenza di Boothia Felix (l’odierna penisola di Boothia). A causa delle trasformazioni che avvengono nel nucleo interno della Terra, la posizione del polo magnetico cambia col passare del tempo. Nel 2005 è stato stimato che il Polo Nord Magnetico si trovasse a ovest dell’isola di Ellesmere in Canada.

Le curve magnetiche si irradiano da Boothia Felix in tutto il mondo. Svoltano attorno alla mappa, come se questa fosse una pista da pattinaggio e loro le scie dei pattinatori. Descrivendo un elegante arco, scendono giù da Washington all’Antartide, per poi salire a ellisse fino al Natal – in Sudafrica – e innalzarsi ancora, girovagando fino al golfo Persico. Alcune parti del mondo (le Americhe, la Groenlandia) sono ricoperte da queste linee, altre (l’Africa, la Russia) ne sono del tutto prive. La Gran Bretagna è tutta confusa, un’isola troppo piccola perché se ne possa delineare il contorno con una certa accuratezza. Le sue isole periferiche si sono atrofizzate.

La mappa raffigura vari paesi, città, fiumi e un assortimento di altri dettagli topografici. Che aspetto bizzarro che ha, col suo obsoleto polo magnetico, le sue linee costiere e i toponimi da tempo soppiantati da altri nomi. Mi domando tra quanto tempo le mappe di oggi faranno una strana impressione ai lettori e ai bevitori del futuro.